L`animale è l`avvenire dell`umano. Guida allo zoo

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L’animale è l’avvenire dell’umano. Guida allo
zoo-futurismo
- Alessandra Pigliaru, 29.10.2016
Dominique Lestel. Un’intervista con il filosofo ed etologo francese oggi in Italia per parlare della
sovversione della specie. «Bisogna praticare l’approssimazione con gli altri esseri viventi, e ciò deve
avvenire su tutti i piani»
Dominique Lestel, filosofo ed etologo, insegna Filosofia contemporanea alla l’École normale
supérieure di Parigi. Oltre a essere membro di prestigiose equipe di ricerca in campo
eco-antropologico ed etnologico come per esempio per il Muséum national dhistoire naturelle.
Numerosi sono i volumi che in questi anni ha pubblicato intorno alla relazione tra umani e animali,
in particolare Les Origines animales de la culture (2001), Les Animaux sont-ils intelligents? (2006)
ma anche Apologie du carnivore (2011). «Approfitterò della mia presenza in Italia per fare il mio
primo annuncio pubblico sullo Zoo-futurismo», racconta Lestel ospite alle Giornate Internazionali di
studio sulla relazione uomo-animale, che si inaugurano oggi a Bologna.
Nella cultura occidentale, secondo lei si fatica ad accettare che la frontiera tra umano e
animale sia mobile, indefinita. In che modo può risponde l’etologia filosofica che in questo
ultimo decennio ha visto lei e Roberto Marchesini tra i massimi esponenti europei?
Il problema sta nell’esigenza di imparare a pensare senza definizioni a priori. È difficile perché ci
abituano a pensare tramite definizioni che rimandano a «essenze eterne». In fin di conti, siamo
rimasti platonici. Così, umano e animale sono categorie regolatrici dai contorni alquanto sfocati,
anche se ciò a cui rimandano rimane molto importante per determinare in che modo dobbiamo agire.
I difensori dell’animale, in generale, vogliono assimilare l’animale all’umano considerando che un
animale è una persona «come un umano» e deve quindi essere trattato di conseguenza. È una
posizione positiva poiché ci obbliga a comportarci meglio con gli animali; ma è anche rischiosa
poiché opera una forma di colonialismo ontologico che va a cancellare specificità molto importanti
dell’animale non umano. La mia posizione è più prossima a quella di certi Amerindi. Per gli
occidentali, essere umano significa essere una scimmia di grandi dimensioni. Ma è anche uno statuto
che richiede sempre molto lavoro e un processo attivo di assimilazione degli individui che si effettua
attraverso la condivisione di sostanze corporee, alimentari e attraverso scambi multipli, in
particolari scambi affettivi. Non si tratta di una eredità passiva di una essenza sostanziale. A un
tratto, il «gruppo» di coloro che consideriamo «umani» si mostra del tutto aperto e alcuni animali
possono entrare a farne parte, e persino alcuni artefatti o addirittura alcune macchine. Ne risulta
che ciò che viene di solito considerato biologico umano o meno che sia diventa un fondamentale
problema politico e morale.
«L’animal est l’avenir de l’homme» è il titolo di un suo volume del 2010 ma suona quasi
come un monito
Umano non è colui che non è più animale, ma colui che è in grado di essere più animale di ogni altro
animale e che deve lavorare culturalmente su queste «approssimazioni», su questi avvicinamenti e
convergenze. Fino a poco tempo fa, «animalizzarsi» era un processo del tutto negativo. Ora non lo è
più. Essere umano nel futuro significa dunque cercare nuovi modi di creare spazi in comune con
l’animale, spazi istituzionali, psicologici, sociali, culturali, metabolici e anche spirituali. Molto artisti
si sono già impegnati in questa direzione, come Marion Laval-Jeantet, che si fa iniettare sangue di
cavallo, o Ai Hasegawa, che sogna di donne in grado di partorire dei piccoli di delfino. Ma prima di
arrivare a questi estremi, penso che tutti gli etologi si facciano incantare dagli animali che studiano.
In questo senso, l’animale studiato diventa un «animale d’occupazione», usando questa locuzione in
un doppio senso: un animale che occupa qualcuno prendendogli del tempo e dell’attenzione e un
animale che occupa qualcuno come fa un «esercito d’occupazione». Gran parte delle tecnologie
contemporanee emergenti biotecnologie, nanotecnologie, tecnologie cognitive possono del resto
essere coinvolte in questo processo di «animalizzazione dell’umano». Ciò che è nuovo, oggi, è che ci
si sottomette a quello che io chiamerei «la tentazione della macchina»: trasformarsi in una macchina
puramente cognitiva e lasciare il mondo animale della sofferenza e del piacere, dell’empatia e
dell’odio, della speranza e della paura. È una tentazione malsana.
Metodologicamente lei ha praticato una «philosophie de terrain». In cosa consiste?
Il filosofo deve fare esperienza di mondo, per riuscire a pensarlo. Quando ho iniziato a interessarmi
agli animali sul piano filosofico, sono diventato etologo andando a osservare gli orangotanghi del
Borneo e gli scimpanzé in Africa. Quando ho deciso di capire la vita marina, ho imparato a fare
immersione in autonomia con lo scafandro. Quando mi sono interessato alla dimensione «spirituale»
delle relazioni uomo/animale e uomo/vegetale, ho cominciato a frequentare dei veggenti e degli
sciamani, e così via. Ognuna di queste esperienze è alquanto perturbane per un filosofo che ha
ricevuto un’educazione classica, ma si tratta delle condizioni che sono il primo requisito per pensare
veramente. Il filosofo che non corre dei rischi esistenziali non può fare altro che ripetere cose già
dette da altri.
Si è occupato del concetto di postumano, soprattutto in relazione alla perdita della
biodiversità. Ci spiega a quali esiti è giunto?
La perdita della biodiversità è molto preoccupante. Per esempio, si è visto che la popolazione dei
vertebrati è diminuita del 58% in 42 anni. Molte Ong fanno un importantissimo lavoro al proposito:
basta citare il lavoro di Claire Nouvian e dell’associazione Bloom da lei diretta. Quanto ai teorici del
postumano, loro preconizzano un mondo in cui il vivente non umano non esista più o esista solo in
modo superficiale. Siamo a un punto morto. L’umano si compie nel suo avvicinamento agli altri
esseri viventi, e ciò deve avvenire a tutti i livelli. Ogni specie che scompare impoverisce il significato
di «essere umano». Lo scrittore Romain Gary ebbe questa fortissima intuizione nel suo romanzo del
1956, Le radici del cielo. In maniera molto convincente, esprime un’idea secondo cui la mia libertà di
umano è condizionata da quella degli elefanti africani. Paul Shepard sostiene che ogni specie
scomparsa riduca le mie capacità immaginative e lo sviluppo della mia consapevolezza. La
distruzione degli ecosistemi è un dramma esistenziale e ontologico, non è soltanto una catastrofe
biologica.
Che cosa è lo zoo-futurismo di cui si occuperà nel suo intervento al convegno bolognese?
Lo Zoo-futurismo è una posizione al contempo filosofica e artistica in corso di elaborazione. A partire
dal momento che l’umano si costituisce nella tessitura dell’animalità, occorre impiegare le tecniche
contemporanee per accrescere le convergenze umano/non umano, tanto metabolicamente che
biologicamente. Parlo di «non umano» e non di «animalità», perché i vegetali e i funghi, per esempio,
sono ugualmente coinvolti. Lo Zoo-futurismo è dunque una posizione che si appoggia su una critica
non umanista del post-umanesimo.
Si tratta in particolare di riattivare la nostra animalità proprio esplorando le capacità che noi
abbiamo ricevuto dalla nostra storia filogenetica e che abbiamo perso o non abbiamo avuto
l’occasione di sperimentare fino in fondo in quanto homo sapiens. A tal proposito, possiamo parlare
di «biostalgia»: la nostalgia delle forme di vita che siamo stati e che non potremo più essere. Ernst
Bloch parlava di «promesse non mantenute». Per lui, si trattava di promesse politiche e sociali, ma
noi possiamo generalizzare questo bel concetto e allargarlo all’evoluzione. Lo Zoo-futurismo è la
prossima tappa da raggiungere dopo gli Animal Studies. Questi ultimi studiano il modo in cui umani
e animali possono vivere gli uni con gli altri. Lo Zoo-futurismo si interessa invece ai modi in cui
umani e non umani possono vivere gli uni negli altri. È necessario riformulare il vecchio concetto di
ospitalità per dargli un’estensione che non ha mai avuto. In un certo senso, si aggancia all’ultima
frontiera dell’anarchismo: dopo la sovversione dell’ordine teologico e dell’ordine sociale, è il
momento di impegnarsi nella sovversione della specie. D’altra parte, il fenomeno della specie sta
indubbiamente diventando una delle maggiori sfide politiche di oggi, come si può vedere nei dibattiti
e nei discorsi intorno alla liberazione animale, la scelta vegetariana, la diminuzione della biodiversità,
la protezione degli ecosistemi.
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A Bologna tra piante, insetti e talenti di vita
Oggi e domani a Bologna (presso «I Portici» in via dell’Indipendenza 69), si apre la quarta edizione
delle «Giornate Internazionali sulla relazione Uomo-Animale» quest’anno dedicate alle «Menti non
umane». L’iniziativa, organizzata da Siua, scuola di formazione di consulenti della relazione
umano-altre specie diretta da Roberto Marchesini, si apre con «Menti Animali» a cura di Alberto
Giovanni Biuso, Dominique Lestel, Véronique Servais, Andrea Romeo, Thomas Lepeltier e Francesca
Michelini. La seconda giornata prevede invece il modulo «Menti Vegetali», con Giuseppe Barbera,
Gianumberto Accinelli, Andrée Bella, Paolo Bernardo Trost e Francesca Sparla.
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