La libertà, grande narrazione dell`identità europea

La libertà, grande narrazione dell’identità europea
La libertà,
grande narrazione
dell’identità europea
Ágnes Heller
(NPG 12-02-24)
In questo testo farò ricorso al concetto di grand récit («grande narrazione») nello spirito di
Pierre Nora e della sua Scuola di Storia e Memoria. Con ciò alludo ai racconti, alle storie, alle
fantasie, ai modelli dell’immaginario che funzionano come una sorta di archetipo in una data
cultura.
Parlerò della cultura nella più ampia interpretazione di questa nozione complessa e sfaccettata,
come ha fatto Clifford Geertz quando ha definito la cultura
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«un modello storicamente trasmesso di significati incarnati nei simboli, un sistema di concezioni
ereditate, che si esprimono in forme simboliche, attraverso cui gli uomini comunicano,
perpetuano e ampliano la conoscenza e l’atteggiamento verso la vita».
I riferimenti a una tradizione condivisa non vengono solo compresi sul piano cognitivo, ma
vengono anche percepiti a livello emozionale, senza note a piè di pagina, senza necessità di
spiegazione o interpretazione. Né è essenziale che i singoli individui, uomini e donne, abbiano
familiarità con la grande narrazione in quanto tale, visto che vivono in un mondo permeato del
loro spirito, né che i riferimenti ad esse siano necessariamente positivi. Che i due poemi epici di
Omero siano diventati le grandi narrazioni della cultura classica greca è fuori discussione.
Platone, tuttavia, li cita quasi sempre in senso negativo, perché era profondamente
insoddisfatto della cultura sviluppatasi intorno ad essi.
Le culture d’Europa
Non si può stabilire in anticipo quali fra le narrazioni diventeranno le grandi narrazioni di una
cultura e quali no, né ciò dipende necessariamente dalla qualità della narrazione o
dall’immaginazione. Che cosa sarebbe accaduto – su questo riflettono alcuni studiosi – se
invece della cristianità cattolica fosse toccato allo gnosticismo diventare la grande narrazione
del tardo impero romano? La nostra cultura, con una grande narrazione di quel tipo, sarebbe
stata impensabile perché avrebbe riflettuto una cultura ben diversa. Lo gnosticismo rappresenta
un filone di ricerca interessante, un oggetto di curiosità scientifica, ma è rimasto confinato in un
ambito esoterico e, in quanto tale, marginale. I riferimenti agli eoni, alle trentadue emanazioni o
al peccato di Sofia non legittimano le tendenze, le narrazioni o i movimenti attuali, né li rendono
più validi, diversamente dai riferimenti al serpente di Eva o alla morte di Socrate.
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Ogni cultura – nel significato più ampio del termine – ha le sue grandi narrazioni, che sono
principalmente miti, storie fondanti, visioni religiose. Quando parlo di «cultura europea» mi
riferisco alle grandi narrazioni che singoli popoli e paesi presenti all’interno del subcontinente
europeo hanno in comune. Certamente tutti i popoli europei hanno narrazioni proprie, diverse le
une dalle altre, ed è possibile che anche popoli non europei condividano questa o quella storia.
Nelle riflessioni che seguono, l’analisi è comunque circoscritta alle grandi narrazioni europee
condivise.
Le grandi narrazioni europee sono da una parte la Bibbia, dall’altra la filosofia e la storiografia
greco-romana. Si tratta di testi perché è l’unico approccio possibile a eventi, azioni e lingua
parlata. Anche se oggi ne sappiamo di più grazie agli scavi archeologici e ai ritrovamenti,
queste conoscenze aggiuntive non influiscono minimamente sul nostro rapporto con le grandi
narrazioni. I testi, e non i reperti archeologici, vengono ancora oggi continuamente
reinterpretati, presentati ed elaborati nella letteratura, nella pittura, nella filosofia, nella politica e
anche nella vita quotidiana.
Affronterò il tema delle grandi narrazioni europee adottando come chiave di lettura il tema della
libertà e quello del libero arbitrio
. L’idea di libertà di noi europei e le istituzioni della libertà e del libero arbitrio come noi le
immaginiamo hanno attinto costantemente alle fonti presentate e rappresentate dalla Bibbia da
un lato, e dalla filosofia e storiografia greco-romana dall’altro.
La Bibbia come esperienza narrativa
La libertà fa la sua prima comparsa nella Bibbia come libera scelta o libero arbitrio. Adamo ed
Eva
colgono
un frutto dall’albero della conoscenza e lo assaggiano. È a partire da questo momento, in
questa prima situazione, che gli uomini hanno la possibilità di scegliere fra il bene e il male. Non
vi è nulla che all’inizio determini una scelta piuttosto che un’altra. Per l’uno è facile scegliere il
bene, per l’altro è difficile, ma per nessun individuo è impossibile.
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La facoltà di scegliere fa parte, in generale, della condizione umana, implica un’assunzione di
responsabilità per gli altri e per se stessi. Caino fu il primo essere umano a uscire dal grembo
materno. Dio si rivolse a lui dicendo:
«Perché sei adirato? E perché tieni la testa bassa? Se agisci nel modo giusto, non dovrai forse
tenerla alta? Se non agisci nel modo giusto, il peccato è in agguato alle tue porte e le sue
brame sono rivolte verso di te, ma tu puoi dominarlo» (Genesi 4,7).
Caino non fu in grado di dominare i propri desideri, ma in un capitolo successivo della Genesi,
in una situazione non dissimile, Esaù ci riuscì. Invece di uccidere il fratello, lo abbracciò.
Dai padri della Chiesa fino a Kant, Hegel e Kierkegaard, i grandi filosofi sono sempre tornati su
questo archetipo, Kant per ben due volte.
Nella letteratura europea, tanto il testo teatrale che il romanzo si alimentano di questa grande
narrazione. Il serpente, il tentatore, figura interamente assente nella tragedia greca, gioca
anche qui un ruolo centrale. Macbeth commette il crimine istigato dalle streghe e dalla sua
Lady, Rastignac istigato da Vautrin, Raskolnikov dall’immagine di Napoleone. Anche la fuga del
primo uomo e della prima donna dalla responsabilità è una costante che si ripete fino ai nostri
giorni. Filosofi e teologi discutono da duemila anni sull’essenza del libero arbitrio o se lo si
possa concepire tout court ma, qualsiasi conclusione se ne tragga, il dibattito è sempre aperto,
e il testo resta una grande narrazione.
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Il secondo racconto biblico fondamentale sulla libertà è quello della liberazione dalla schiavitù
d’Egitto
. «Lascia andare il
mio popolo», diceva, riprendendo la citazione biblica, il ritornello della canzone degli schiavi neri
d’America, dando voce al loro fermo proposito di liberazione. Nietzsche aveva ragione quando
sosteneva, nella sua
Genealogia della morale
, che senza questa storia di liberazione non ci sarebbero stati né la democrazia moderna né il
socialismo. Invece di vantare una progenie divina, un popolo si dichiarava discendente dagli
schiavi, rovesciando in tal modo la gerarchia dei valori.
L’idea di uguaglianza come uguaglianza di fronte a Dio, inoltre, è stata formulata già nel primo
episodio della creazione: Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine. Il riferimento centrale e
anche il più significativo alla liberazione si ha nella scena della rivelazione sul Monte Sinai. Dio,
colui che ha dato la Legge, si fa riconoscere dal popolo di Israele non come il creatore della
terra, ma come il liberatore, come il Dio che ha tratto il popolo di Israele fuori dalla terra dove
viveva in schiavitù.
Dio rende il popolo immediatamente consapevole della sua libertà, dato che la Legge può
essere concessa solo a chi è libero, perché solo chi è libero ha la facoltà di obbedire alla Legge
o di infrangerla. Dopo essersi annunciato come liberatore, Dio ordina che il popolo non abbia
altro Dio all’infuori di Lui, che il popolo non debba servire alcuna cosa e soprattutto alcun essere
umano o la sua effigie in quanto Dio. Il re dei re è al di sopra di tutti i re, così dichiarano le
vittime della tirannia in Shakespeare. Ogni faraone o imperatore, proprio come Hitler o Stalin,
costituisce un idolo, e venerarli è idolatria.
Anche questo racconto è diventato una grande narrazione europea. Il popolo non vuole la
libertà, alla libertà preferisce il cibo che l’Egitto gli garantisce. Pensiamo, fra i possibili esempi,
all’incontro fra Cristo e il Grande Inquisitore nel romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov,
che può anche essere letto come una sorta di replica della disputa fra Mosè e Aronne dopo
l’episodio del Vitello d’oro.
La terza grande narrazione europea sulla libertà si tramanda nella storia di Gesù di Nazareth, la
quarta nel
credo
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di Cristo Redentore. Queste due storie sono collegate, ma non identiche.
Il diritto alla libertà di culto, di coscienza e di fede appare in primo luogo nella persona e
nell’insegnamento di Gesù di Nazareth. La libertà di religione e di fede costituisce il primo di tutti
i diritti e tale è rimasto anche in epoca moderna. Gesù di Nazareth non ha inventato una
religione nuova; ma, come ci dicono i Vangeli, ha interpretato la religione dei padri in chiave
personale e innovativa, circondandosi allo stesso tempo di discepoli che impararono a
condividere il suo approccio.
Gesù di Nazareth, uno spirito libero, rifiutò di abbandonare le sue idee radicali e libertarie
sull’osservanza religiosa a beneficio di interpretazioni ortodosse. Suscitò così la rabbia dei
Sadducei del Tempio e si guadagnò l’appassionato sostegno di molti. Si può anche interpretare
il suo martirio come il primo grande sacrificio per la libertà di fede, di religione e di parola. Gli
eretici cristiani hanno interpretato i Vangeli anche in questa chiave. E non solo loro. Una grande
narrazione è tale perché trascende le singole comunità. Sartre, per esempio, ha raccontato la
storia della nascita di Gesù anche in questo senso, in uno dei suoi primi lavori teatrali, Bariola,
allestito in un campo di prigionia tedesco.
Cristo è considerato il Redentore dell’umanità. Questo credo implica, tra l’altro, una narrazione
sulla libertà e dunque la radicalizzazione della storia della Genesi sulla libera scelta e sul libero
arbitrio. Il racconto originario suggerisce che l’individuo può sempre scegliere il bene, che non è
mai votato al peccato. La promessa di salvezza è davvero una promessa, non solo perché
richiama la persona alle sue responsabilità, ma anche perché le promette una vera rinascita,
indicandole che, anche quando ha scelto il male, questa scelta non segnerà per sempre il suo
carattere o il suo destino. Ci si può liberare dal peccato, dal proprio passato, da tutte le
decisioni sbagliate, e diventare un individuo completamente nuovo – si può rinascere una
seconda volta.
La mitologia greco-romana
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Veniamo ora alle storie greche e romane destinate a diventare, proprio come le storie della
Bibbia, grandi narrazioni europee. Non è necessario conoscerle tutte, si può anche non
conoscerne alcuna e conservarle tuttavia vive come grandi narrazioni, perché sono già state
assorbite dall’immaginario europeo.
Tuttavia, la mitologia greca e quella romana non appartengono alle grandi narrazioni europee.
Ovviamente è possibile rivisitarle, recuperarle di tanto in tanto, come si è verificato nella pittura
che va dal tardo Rinascimento al Barocco. Ma questa cultura si fondava su una conoscenza
complessa che è rimasta esoterica. Ci sono eccezioni, come l’immagine di Afrodite-Venere e di
Eros-Amore, ma è stata la loro funzione, più che le storie vere e proprie, a diventare
paradigmatica. Per quanto riguarda le narrazioni sulla libertà, l’unico eroe è
il ribelle Prometeo
, a simboleggiare non tanto la rilevanza della mitologia, quanto la ribellione contro la tirannia di
un dio.
Il nocciolo della questione è che il monoteismo esclude ogni genere di mitologia. La Bibbia non
è una mitologia, e le prime mitologie cristiane, come lo gnosticismo, erano esoteriche e dunque
sono scomparse. Restano un oggetto d’interesse solo per gli studiosi.
In Europa, almeno negli ultimi mille e cinquecento anni, non c’è teomachia, cioè lotta fra gli dèi,
gli dèi non generano altri dèi, non fanno l’amore, non subiscono metamorfosi. Gli antichi dèi non
dimorano sull’Olimpo ma nei musei. In quanto dèi sono morti, ma come opere d’arte sono vivi e
vegeti.
È vero che nel XIX secolo fu tentato un cambiamento radicale. La tesi sulla fine del Dio
ebraico-cristiano, avanzata da Heine, ma sostenuta da Nietzsche, ebbe ampia risonanza. Ci
volle tempo per realizzare che tale concezione si fondava su una falsa analogia. Gli dèi greci e
quelli romani erano scomparsi con le loro rispettive culture: dunque – questa era la conclusione
– la modernità in quanto espressione di una cultura o di una civiltà completamente nuova,
sortisce, o potrà sortire, lo stesso effetto, cioè la morte del Dio ebraico-cristiano.
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Ciò che non si è capito, ma che oggi viene sottolineato da eminenti storici della cultura come
Assman, è che tanto la religione ebraica quanto quella cristiana non sono specifiche di una
cultura, ma si sono adattate a culture completamente diverse, e così faranno anche in futuro.
Tuttavia, durante tutto il periodo in cui si era diffusa la convinzione di una fine imminente del Dio
ebraico-cristiano – per lo meno in Europa – c’è chi ha tentato di sostituire all’antico Dio altri dèi,
mutuati in gran parte dal mondo delle mitologie antiche. Nietzsche, per esempio, ha provato a
far rivivere la figura del profeta Zaratustra/Zoroastro, anche se in forma allegorica, e di Dioniso,
il dio del vino. Inutile dire che ogni tentativo di trasporre le antiche mitologie nel pensiero
europeo moderno era destinato a fallire. Durante il nazismo, si sono sviluppate alcune fantasie
razziste di origine pagana tese a far rivivere il culto ispirato alle divinità germaniche,
specialmente di Odino; quest’idea si è alla fine concretizzata solo in Wagner e nel suo Ciclo
degli anelli
dove, secondo il compositore, le stesse figure mitiche erano allegorie di qualcosa di universale.
Tuttavia, nonostante la mitologia dei greci e dei romani non abbia lasciato all’Europa grandi
narrazioni, la loro filosofia e storiografia ne hanno tramandato un gran numero, fra cui spiccano
tre grandi narrazioni sulla libertà.
Dalla narrazione alla politica
Il testo fondante della prima è l’orazione di Pericle secondo Tucidide, se non proprio nel
contenuto, certamente nello spirito, là dove ritorna la definizione della
Politica
di Aristotele: «La città è l’insieme dei suoi cittadini». Proprio come la grande narrazione sulla
liberazione è stata tramandata dalla Bibbia, così la narrazione sulla costituzione delle libertà è
stata tramandata dai greci e dai romani. Israele ha ricevuto la Legge da Dio, i cittadini liberi di
Atene hanno essi stessi emanato le leggi che erano pronti a osservare. Ed essi hanno
introdotto anche la legge fondamentale, la legge di tutte le leggi, la costituzione.
La parola latina «costituzione» già lascia intendere che si tratta di un artificio creato dall’uomo.
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Aristotele ha definito l’atto di emanare la costituzione come un tipo di téchne. Gli ideatori della
costituzione vivono sotto la sua protezione, la preservano e godono dei suoi diritti. Sono
cittadini liberi. Sono loro la città, tutti gli altri sono stranieri.
Torniamo al concetto biblico. Qui la Legge non è un prodotto creato dall’uomo, non è costituita
ma elargita come dono da Dio, nonostante il suo destinatario sia l’individuo libero. Tuttavia
ciascuno è in egual modo soggetto alla legge, non solo gli uomini, ma anche le donne, i servi,
gli schiavi, ed essa prevede anche alcuni obblighi verso gli stranieri. Ciascuno è tenuto a
rispettare i comandamenti, e tale dovere è uguale per tutti.
A questo punto già ci imbattiamo in uno dei tratti salienti della cultura europea: le grandi
narrazioni sono in tensione tra loro, al punto che una narrazione, o l’interpretazione di una
narrazione, può essere contrapposta a un’altra. Senza tensione tra grandi narrazioni, si sarebbe
con molta probabilità cristallizzata una singola interpretazione. Talvolta, anche se fra le
narrazioni non vi è fusione, si crea una sorta di oikoumene, di terreno comune, per cui esse
possono comunque dialogare e adattare a sé alcuni tratti presi da questa e da quella. Esempi
tipici di tale reciproco adattamento sono le cosiddette teorie del contratto sociale, e perfino lo
slogan della Rivoluzione francese: libertà, fraternità, uguaglianza.
Il destino di Gesù e quello di Socrate
Che l’adattamento reciproco delle grandi narrazioni alle teorie politiche e agli slogan non
funzioni necessariamente bene nella vita politica, è stato ampiamente dimostrato da Tocqueville
nel suo famoso testo sulla democrazia americana. Tocqueville mette in evidenza il problema, e
si concentra in particolare sulla difficoltà che riguarda la coesistenza tra uguaglianza e libertà.
Hobbes, il primo autore di una teoria rappresentativa del contratto sociale, si spinge molto
lontano nel tentativo di pensare le due grandi narrazioni insieme, e non solo nella seconda
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parte del Leviatano che potrebbe anche essere descritta come una teologia politica. L’idea del
Contratto o del Patto stesso tenta di coniugare la tradizione biblica con l’idea greco-romana di
una buona costituzione. Nonostante il contratto venga istituito tra gli esseri umani, ed essi si
privino della loro libertà rimettendola al sovrano, siano cioè fonti delle proprie leggi, tuttavia le
leggi di natura sono divine e servono come fonte incontestabile dell’atto umano di legiferare e
come limite ad esso.
Prima che la teoria del contratto sociale raggiungesse la massima espressione repubblicana
con Rousseau, sono state tentate diverse modalità di mediazione fra le due grandi narrazioni; e
altre narrazioni sono state recuperate con una funzione complementare, come la storia di
Adamo ed Eva ripresa da Locke.
Rousseau ha proposto un altro tipo di mediazione. Nonostante la sua repubblica fosse
concepita interamente sul modello classico, o piuttosto su un’interpretazione forte dell’antica
democrazia greca antiliberale, egli aveva ancora bisogno di Dio, dell’Essere Supremo come
autorità al di sopra e dietro una costituzione ideata esclusivamente dai cittadini. Dio non è
origine della Legge, ma nell’interesse del rispetto della Legge, la fede in Dio, come fede
comune condivisa, risulta assolutamente necessaria. Inutile dirlo, la tensione fra le due grandi
narrazioni sulla libertà assume sempre forme e significati diversi. Oggi, per esempio, essa si
ripresenta nelle accese polemiche che animano il confronto fra Communitarians e Liberals
americani.
La seconda narrazione immortale ereditata dalla polis greca è la storia di Socrate nella forma
che conosciamo attraverso i dialoghi di Platone. È la storia della libertà di coscienza. Essa è
stata più volte ripetuta, vi hanno fatto riferimento filosofi, scrittori, politici, ed è stata compresa
da coloro che avevano a cuore la libertà di parola e di coscienza. Steinbeck, per esempio,
durante la Seconda guerra mondiale ha scritto un testo teatrale sulla storia di un uomo che non
voleva tradire la sua coscienza e che per questo è stato condannato a morte dai nazisti. In piedi
di fronte ai giudici, l’uomo si limitò a recitare le parole di Socrate dall’apologia di Platone.
I filosofi e narratori europei hanno spesso assimilato il destino di Gesù a quello di Socrate, fino
ad associare, in epoca rinascimentale, i due personaggi, per esempio in esclamazioni del tipo:
«Santo Socrate, prega per noi!». Se consideriamo le narrazioni sul tema della libertà, il
confronto è più che giustificato. Sia Gesù che Socrate sono morti perché rifiutavano di tradire la
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propria fede e le proprie convinzioni.
Da Machiavelli alla Rivoluzione francese
La terza grande narrazione europea che elabora l’eredità greco-romana è una narrazione
complessa. Essa fa rivivere, applica e ripete un gran numero di storie sulle istituzioni politiche e
di altro genere,
sulla loro creazione e sopravvivenza e sulle loro vicissitudini
. I testi dei filosofi, degli scrittori, ma soprattutto i testi degli storici sono le fonti essenziali di
questa grande narrazione.
Cito solo una delle sue fonti, le Vite Parallele di Plutarco. L’immaginazione politica e sociale dei
protagonisti della storia europea è stata profondamente influenzata e informata da quei racconti
fino al pieno sviluppo della modernità.
Ci sono per esempio le storie della fondazione di civiltà e le storie dei «padri fondatori»
mitologici, da Licurgo a Romolo e Remo. Machiavelli, il primo autore politico moderno, nei Disco
rsi
, si
dilunga sulle varie storie dei padri fondatori, compreso naturalmente Mosè.
Inutile dire che anche gli Stati Uniti hanno i loro padri fondatori, questa volta non mitologici. Si
dice che il gesto della fondazione sia sempre un gesto libero e, in quanto tale, una creazione
dal nulla. Un’entità politica completamente nuova viene quindi creata e instaurata non solo
fissandone i capisaldi, ma anche introducendo le istituzioni essenziali alla sua longevità e alla
sua stabilità, istituzioni permanenti che prevedano il cambiamento restando però inalterate e
che possano proteggere il corpo politico contro la tirannia. Proteggere le grandi istituzioni
permanenti contro i nemici interni e esterni richiede atti eroici.
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Le grandi narrazioni greche e romane forniscono agli europei rilevanti modelli di
comportamento: quelli dei «difensori della libertà» come Bruto, come i Gracchi, come Catone.
Machiavelli continua su questa impostazione, giungendo più o meno a queste conclusioni: le
epoche passano e gli individui si abituano alle loro libertà, cessano di preoccuparsene,
diventano avvezzi al lusso, la morale degenera, il tiranno è in agguato. Forse la storia finirà con
l’instaurazione della dittatura, forse no. Un’alternativa c’è, ed è la rivoluzione. La rivoluzione non
è altro che il ritorno al principio, al gesto della fondazione, il punto in cui la storia può
ricominciare. Questa grande narrazione si mantiene viva nella teoria politica fino ai nostri giorni,
da Rousseau fino ad Hannah Arendt. La concezione della Arendt sul nuovo inizio modernizza la
tradizionale narrazione sulla libertà; nel suo libro
Sulla Rivoluzione
, la filosofa esprime fra l’altro la speranza che anche l’America possa tornare al glorioso passato
della sua fondazione, alla costituzione delle libertà.
Nerone, Hitler e Stalin
Eppure non è solo la storia della costituzione-perdita-riconquista della libertà a essere
costantemente elaborata e ripetuta. Molte istituzioni concrete ricorrenti nella filosofia antica e
nei libri di storia servono da modelli per nuove istituzioni e per le istituzioni moderne. Il nuovo
non è oggi legittimato sul piano razionale come qualcosa che è stato già sperimentato con
successo come accadeva in epoca pre-moderna, tuttavia il riferimento al vecchio rende tuttora il
nuovo più accettabile a livello emotivo. La storia della Repubblica romana, inclusa l’idea di
repubblica e di repubblicanesimo, ne è un buon esempio. Il nome latino, res publica, la cosa
comune, suona familiare anche oggi. Qui troviamo i tribuni del popolo, cioè l’emergere
dell’istituto della rappresentanza, un istituto che resta ancora oggi uno dei maggiori pilastri della
democrazia moderna.
Altro esempio è Napoleone, che divenne prima console e poi imperatore, secondo il testo della
grande narrazione, nonostante egli considerasse anche la seconda carica come il seguito della
grande narrazione sulla libertà. Gli americani hanno, come i romani, il loro Senato; il senatus
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populusque romanus
assume la forma di Senato e di Congresso. La funzione e il contenuto di queste istituzioni
cambiano, non si tratta di istituzioni copiate pari pari.
Ma in tutto questo c’è una lezione che ritorna costantemente anche nei tempi delle monarchie
ereditarie, prima nelle città libere, nelle istituzioni della nobiltà, più tardi anche nelle istituzioni di
alcune confessioni protestanti che occuperanno una posizione centrale nella modernità. Questa
la lezione, o il credo, fondamentale: non si rimane all’apice del potere per una vita intera, poiché
si è scelti o eletti per un periodo di tempo limitato; il potere è perciò temporaneo. Ne risulta che
l’idea della libertà di scelta, che ci è familiare dalla Bibbia, in quanto prima grande narrazione
sulla libertà, non è rilevante solo nelle questioni morali. Si può scegliere liberamente anche in
politica, e ciò che è valido per una scelta morale è valido anche in politica. Si può rimpiangere la
propria scelta e la volta successiva scegliere diversamente e meglio.
La grande storia del repubblicanesimo è grande storia del pluralismo, ma anche storia della
fragilità della libertà politica. La caduta della Repubblica romana ci mette di fronte a uno
spettacolo tremendo: omicidi ed esecuzioni di massa, proscrizioni, razzie, guerra civile,
dissolutezza, fondamentalismo, tutto insieme. E alla fine arriva l’Impero, il dispotismo.
Per circa duemila anni il nome di Nerone è stato associato alla perdita della libertà, è stato la
metafora del potere illimitato di un singolo individuo che se ne serve per uccidere, mosso da
brama e capriccio. La storia di Nerone è indirettamente la storia della libertà. Funziona come
ammonimento: la libertà può essere un fardello, ma la perdita della libertà è una catastrofe di
proporzioni incalcolabili. È stato solo nel XX secolo che Nerone ha perduto il primato di
metafora del dispotismo europeo, grazie all’operato di Hitler e di Stalin.
Tutte le grandi narrazioni sulla libertà parlano anche della fragilità della libertà. La libertà è
gravosa, si accompagna a gravi responsabilità, è difficile, come sostiene Lévinas. La libertà non
promette immediata soddisfazione dei desideri, felicità e nemmeno sicurezza personale.
Caino era libero di scegliere tra il bene e il male, e scelse il male. Il popolo di Israele abbandonò
il Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù e al suo posto adorò il Vitello d’oro. Gesù di Nazareth
fu crocifisso, Socrate bevve la cicuta. Dopo aver prosperato per breve tempo, le libere
repubbliche decadono e trionfa il dispotismo. Ma mostrare la sconfitta non deve significare
pessimismo. Se solleviamo la questione se ne valeva o se ne vale la pena, tutte le grandi
narrazioni sulla libertà forniscono una risposta inequivocabile: comunque ne valeva
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assolutamente la pena. Vale la pena avere solo le cose che si possono perdere. La vita è
preziosa perché la mia vita e quella dei miei cari andrà necessariamente perduta. La libertà è
cara perché la mia libertà e quella dei miei cari si può perdere. Ma non necessariamente.
Elaborare le grandi narrazioni della libertà significa elaborare la libertà stessa.
Il dolce fardello delle grandi narrazioni
Ho fatto brevemente la storia delle grandi narrazioni europee che hanno per tema la libertà.
Sono storie che vengono interpretate, utilizzate, applicate e anche ricreate da intellettuali,
politici e narratori che vivono in questa tradizione – storie che sono il «testo» in cui ci
riconosciamo, a prescindere che viviamo nel subcontinente chiamato Europa o che abbiamo
portato con noi nel nuovo mondo il dolce fardello delle grandi narrazioni – possiamo essere
cattolici, protestanti, ebrei, ricchi o poveri: sono comunque questi i cardini fondamentali della
cultura europea.
Eppure, lasciate che mi ripeta: ogni specifica cultura di una nazione o di un’etnia, ogni popolo,
ogni religione, perfino ogni gruppo umano, ogni professione, ogni setta, ogni famiglia, ha le
proprie piccole grandi narrazioni che si comprendono senza bisogno di spiegazione. Per gli altri,
invece, la spiegazione è necessaria. Ed è ovvio che le grandi civiltà antiche dell’India, della
Cina, del Giappone hanno le loro grandi narrazioni universali, così come le hanno tutte le
culture e tutti i popoli. «L’umanità in quanto tale» non ne ha nessuna, anche se una narrazione
può essere tradotta in altre lingue, e le diverse interpretazioni di una narrazione possono
dialogare tra loro. È improbabile, e forse non è nemmeno auspicabile, che si crei un oikoumene
delle grandi narrazioni – eppure un oikoumene delle narrazioni sulla libertà sarebbe auspicabile
e, mi auguro, non del tutto irrealizzabile.
Da quando esiste la cultura europea – che non esisteva ai tempi degli antichi greci e romani,
ma esiste solo dai tempi in cui si sono intrecciate le due fonti delle grandi narrazioni – noi non
elaboriamo miti, ma solo grandi narrazioni. La cultura europea è vistosamente priva di miti.
Ecco perché la mitologia greco-romana non appartiene alle nostre grandi narrazioni. Non so
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decidere – nessuno è in grado di farlo – se vivere senza miti ma con grandi narrazioni sia una
qualità o un difetto. Uno giudica emotivamente, confessa amore oppure odio, o entrambi. Ecco
perché sento di dover concludere questo mio contributo con una confessione: amo le grandi
narrazioni più dei miti.
(Per gentile concessione di Lettera internazionale, ed. italiana, n. 83/2005)
www.letterainternazionale.it
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