Gazzetta del Mezzogiorno, 20 febbraio 2011, pagg. 20-‐21

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Gazzetta del Mezzogiorno, 20 febbraio 2011, pagg. 20-­‐21 Abbiamo appreso dai giornali che le Province di Lecce, Taranto e Brindisi stanno avviando le procedure per staccarsi dalla Puglia e dare vita al «Grande Salento». Non è l’unica iniziativa di questo tipo. La Provincia di Salerno, ad esempio, vuole isolarsi dalla Regione Campania per creare una diversa Regione denominata «Principato di Salerno». E, a propria volta, la Provincia di Belluno vuole tagliare i ponti con il Veneto per confluire nella Regione Trentino-­‐Alto Adige. Pare, dunque, che le riaggregazioni territoriali siano di gran moda in questo Paese. Nulla di strano: è una possibilità riconosciuta dalla Costituzione (articolo 132); e non dobbiamo dimenticare che un partito di governo propugna, per statuto, l’indipendenza della Padania. Che cosa nasconde questo desiderio di costruire realtà territoriali diverse da quelle che fin qui hanno contraddistinto il nostro Paese (a livello regionale e nazionale)? Certamente esistono esigenze autonomistiche alimentate anche dalla ribellione verso un “potere centrale” visto come distante e ingiusto: le Province di Belluno e di Salerno lamentano, ad esempio, che le rispettive capitali regionali (Venezia e Napoli) restituiscano come trasferimenti una quota molto inferiore del gettito fiscale riscosso nei loro territori. Il ben noto slogan “Roma ladrona” sintetizza analogamente il sentimento dei leghisti verso la Capitale (anche se è singolare vedere che nello stesso Veneto c’è chi si vuole staccare da Roma e chi si vuole staccare da Venezia). Colpisce, però, che la tendenza non vada verso l’aggregazione bensì verso la disarticolazione dei territori (Belluno starebbe volentieri da sola e la volontà di unirsi al Trentino è figlia unicamente del desiderio di godere della particolare autonomia riconosciuta alle confinanti Province di Trento e Bolzano). A dispetto dell’allargamento dell’Europa e della globalizzazione dell’economia, si registra una voglia di autonomia (se non di indipendenza) per territori limitati e reciprocamente delimitati. L’aspirazione è marcare una differenza dagli altri e porre in esponente le proprie specificità. Il principio guida sembra essere quello dell’autosufficienza (che, almeno per qualcuno, si traduce nella tesi: con le mie risorse provvedo ai miei bisogni). È un principio legittimo, ammesso che sia concretamente possibile. Si tratta di capire a quali conseguenze può portare. Ad esempio, dobbiamo aspettarci che il fenomeno oggi definito “filiera corta” diventi il paradigma economico della realtà appena descritta? Ma, in territori sempre più circoscritti, sarebbe un fenomeno diverso da quello che secoli fa era definita “economia curtense”? Già, perché se qualcuno sogna di chiamarsi “Principato”, e qualcun altro s’inchina al “dio Po”, diventa legittimo sospettare che le iniziative da cui siamo partiti guardino più al passato che al futuro. Forse conviene chiedersi se la voglia di delimitarsi, il desiderio di escludere, il mito dell’autosufficienza favoriscano realmente il progresso di una collettività. E se alla lunga restino compatibili con i valori che fino ad ora ci hanno guidato. A cominciare dal principio di uguaglianza. 
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