006
VISIONI
08. GIOVANI STRADE DEL CINEMA INDIPENDENTE AMERICANO
12. INTERVIEW PROJECT A SPASSO PER GLI STATI UNITI
14. CHIUSI IN CASA VALIDE RAGIONI PER NON USCIRE
16. FALSO MOVIMENTO
LIFE
18. IRIS VAN HERPER METAMORFOSI FUTURISTICHE
22. FASHION FACTORY
24. SPIRITO A PEZZI
26. MOMART UN’OFFICINA DELLE ARTI
ARTE
28. EVENTO DGTALES FOTOGRAFIA IN MOSTRA
34. DAEDALUS RISING IL LABIRINTO DI ZAELIA BISHOP
36. CASA DI BAMBOLA
LIBRI
38. LA ROSA E LA CENERE DI GIUSEPPE PALUMBO
46. AEREI DI CARTA
49. LA REALTÀ IN TRASPARENZA L’ULTIMO APPUNTAMENTO DI WALLACE
MUSICA
50. NOW IT’S BLUES ARRIVA IL DEBUT ALBUM DI DAVID LYNCH
54. BROKEN JAZZ GIANLUCA PETRELLA
58. DISFUNZIONI MUSICALI
60. PIANOZONE
HI-TECH
62. LA (RI)EVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA VIDEOLUDICA
Editoriale
In un mercato della cultura volto ad implodere verso
l’impossibilità di sostenersi, l’autoproduzione talvolta
segna il limes tra l’attacco e la resa. E naturalmente
quest’ultima opzione non è nemmeno da considerare.
Sigillato in dinamiche che spesso hanno poco da
spartire con l’interesse degli artisti e del pubblico,
il mondo professionale dell’intrattenimento vive una
situazione di trasformazione che coincide con una
totale crisi del modello anni ’90. Acquisto e consumo
dei materiali culturali trovano nuove strade e nuovi
equilibri, ricostruendo un rapporto assai più diretto
fra pubblico e creativi. In questo senso il digitale ed il
web rappresentano la via più ovvia alla circolazione di
questi beni spesso immateriali, ma a ciò si aggiunge
anche una riappropriazione di spazi non soltanto
virtuali.
Ad una progressiva parcellizzazione e moltiplicazione
delle piccole realtà corrisponde anche un fiorire di
collettivi artistici quasi carbonari, nuovi spazi espositivi
e differenti metodi di distribuzione, con possibilità di
mercato che uniscono performance live e marketing
dei nuovi media. Ma non si tratta di un fenomeno che
006
funziona solo a livello di associazionismo, bensì di
un’esperienza che coinvolge a 360° anche il circuito
del cinema d’avanguardia, della musica colta e
dell’arte contemporanea. Accade così che un cineasta
come David Lynch affianchi una selezionatissima
produzione cinematografica ad un proliferare di
progetti pensati appositamente per la diffusione
su internet; oppure che un jazzista come Gianluca
Petrella apra una sua etichetta discografica per curare
ogni singolo passo del processo artistico ed unire la
classica distribuzione nei negozi alla vendita online ed
ai concerti.
Non fa eccezione il mondo editoriale, ormai tremante
sotto la spada di Damocle del passaggio al digitale
e non ancora adeguato alle istanze di informazione
che provengono direttamente dai lettori. Un universo
che tuttora non trova il giusto bilanciamento fra
informazione su web e approfondimento su carta,
nuovi supporti e multimedialità dei contenuti, costi
di realizzazione e prezzo di vendita. Naturalmente il
giornalismo sarà il primo ad esser spazzato via nella
forma in cui lo conosciamo, e questo anche a causa
di un mercato che fino ad ora è rimasto chiuso e
intransigente, pigro e satollo. Il ritorno ad un’editoria
di selezione (e non più generalista) segnerà una cesura
definitiva con la staticità del passato, mentre le realtà
che oggi stanno muovendo i primi passi avranno in
futuro le competenze ed i mezzi per fare piazza pulita
da queste cariatidi mediatiche. C’è solo da augurarsi
che questo necessario cambiamento avvenga in
tempi veloci, risparmiandoci il penoso confronto con
un’informazione noiosa e decrepita.
Michele Casella
Photography
DUY QUOC VO
REDAZIONE
Michele Casella Direttore Responsabile
Vincenzo Recchia Creative Director
Irene Casulli Fashion Editor
Giuseppe Morea Multimedia Developer
Annarita Cellamare Redattrice
Vincenzo Pietrogiovanni Caporedattore cinema
Daniele Raspanti Caporedattore hi-tech
COLLABORATORI
Simona Ardito, Claudia Attimonelli, Luigia Bottalico,
Sergio Bruno, Elisa Caivano, Antonello Daprile,
Roberta Fiorito, Alessandra Fossanova, Valeria
Giampietro, Enrico Godini, Ambrosia J.S. Imbornone,
Paolo Interdonato, Pasquale La Forgia, Ninni Laterza,
Giovanna Lenoci, Francesca Limongelli, Paola Merico,
Simona Merra, Stefano Milella, Alessandra Recchia,
Beppe Recchia, Laura Rizzo, Davide Rufini, Veronica
Satalino, Mimma Schirosi, Carlotta Susca.
FOTO DI COPERTINA
Artwork della foto di Maurizio Cigognetti
(un ringraziamento a DgTales)
FOTOGRAFI
Daniele Raspanti
Un particolare ringraziamento a Gianni Cataldi per la
sua foto di Gianluca Petrella
Styling
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Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il
Tribunale di Bari
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Stampato presso
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La riscoperta della strada
di Luigi Abiusi*
* Direttore del
periodico di cultura
cinematografica Uzak.it;
critico cinematografico
e letterario per le riviste
Filmcritica, Cinecritica,
Critica Letteraria.
Visioni
8
Il cinema indipendente americano,
dopo la parziale stagnazione d’epoca
reaganiana, negli ultimi dieci anni si è
rimesso sulla strada, impolverandosi,
infangandosi, immergendosi nell’intrico
di risonanze provenienti dalle plaghe
del cielo, vaste e grumose, o dai
cigli, sterpi delle carreggiate, o dalla
ferraglia delle ferrovie, vagoni-merci,
vagabondare, ipnotico ruminare dei
binari. E ciò – l’aprirsi ai grandi spazi,
il predisporsi al viaggio – incarnato in
una susseguenza di figure spettrali (cioè
pronte a re-incarnarsi ogni volta: gli
“spettri” di Derida), giovani-personaggi
assopiti, annichiliti eppure pronti a
rimettersi in moto e in gioco nel giro
delle periferie, delle zone desertiche
fuori dalle città (spesso elevate a
metafisica, come in Gerry), o verso la
riscoperta delle frontiere, o piuttosto
l’invenzione di nuove (l’Alaska), lì dove il
nomadismo implica scoperta di territorio
e del corollario comunitario correlato
(sia pure, ad un tratto, diradato), come
nell’epopea fordiana protesa verso
Occidente. Ma nel bellissimo, quanto
anomalo Meek’s Cutoff (2010), Kelly
Reichardt retrodatando di molto lo
smarrirsi sulle strade americane,
destruttura il classico western, la
vena aggregativa che rende rigogliosa
anche la brughiera, e inquadra proprio
il deserto come nucleo e agnizione di
questo andare degli esploratori, mentre
esso prende le sembianze di ignoto, di
metafisica appunto, nascosta e forse
svuotata di senso oltre l’orizzonte. Qui la
strada è arida e il cielo slavato, entrambi
promessa di una fertilità che forse non
arriverà mai; e gli uomini guardinghi,
slegati, inquieti di fronte all’idea del
cammino, da cui si attende qualcuno
(chè la comunità è dispersa) o la
semplice ragione dell’altro per cui valga
ancora serbarne la vita (quella di un
indiano che deve indicare la strada verso
l’acqua), il suo avvento e la sua parola.
La gioia di Henry Fool
Già Simon, straniato protagonista di
Henry Fool (1997) – cioè della parentesi
gioiosa all’interno del recente cinema
indipendente americano, che è
appunto questo capolavoro firmato
da Hal Hartley (e distribuito per un
breve periodo anche in Italia con il
titolo La follia di Henry) – in una delle
prime inquadrature aveva poggiato
l’orecchio sull’asfalto per sentire la
venuta di Henry, il quale arrivava alle
sue spalle, camminando al centro
della strada, con lo sguardo e l’incesso
proprio del profeta. La profezia era
la Poesia, che sconvolgeva (e restava
scintillante fino alla fine, motivo
di fuga) col suo portato di eros, di
musica, di sangue, la vita di un’America
reazionaria e corrotta. Quella stessa
che nel ‘69 aveva abbattuto a colpi
di fucile gli istinti nomadi e libertari
di Wyatt Capitan America e Billy in
Easy Rider, salvo essere ravvivati in
seguito, grazie almeno alla scintilla
accesa dall’amicizia di Max e Francis,
nel vagabondaggio di quello splendido
Scarecrow (1973) di Jerry Schatzberg,
che pure ammantava di malinconia
e inquietudine la tradizione del
vagabondaggio, mettendone in
discussione la potenzialità di una
qualche positiva catarsi. Peraltro,
secondo la Reichardt essa non
sarebbe neppure questione “storica”,
scomparsa, dispersa col progredire
della storia americana, bensì problema
metafisico, “mitico”, riguardante non
solo l’epos dell’ovest, ma in genere ogni
narrazione odeporica.
Nella pagina precedente
fotogramma di Easy Rider
Gus Van Sant: la marcia ipnotica di
Gerry
A pagina 11 fotogramma
di Paranoid park
Che è il piano su cui si dipana un altro
capolavoro del cinema recente, quel
Gerry (2002) che apre la tetralogia
sulla giovinezza di Gus Van Sant, a cui
seguiranno quindi Elephant (2003), Last
Days (2005), Paranoid Park (2007); tutti
film ispirati al procedimento ieratico e
profondamente espressivo del regista
ungherese Bela Tarr, autore di vere
opere d’arte misconosciute qui da
noi (se non fosse per Fuori Orario e
qualche retrospettiva). In effetti gli
enormi spazi, dilatati dai lunghissimi
piani-sequenza di derivazione tarriana,
sono la sostanza di una sconnessione
del particolare contingente legato
ai due protagonisti, della loro storia
personale, da cui si sgrana una marcia
estenuata e ipnotica, nel deserto
glabro e ieratico, che è la marcia non
A pagina 10 fotogramma
di Wendy and Lucy
Visioni
10
solo di un’umanità disorientata nello
sterminio di terra e cielo, ma l’azione
diretta, la semovenza degli stessi
elementi, corpi, scenari, della loro
atmosfera, e quindi dell’immagine
cinematografica in sè. Una dimensione
mitica che non scompare del tutto
neppure dall’impianto (psic)analitico
di Paranoid Park, che è il tentativo di
riportare il deambulare del giovane
all’interno di spazi urbani, mettendo
in evidenza ancora quell’alienazione
caratterizzante sia Elephant che Last
Days. Esperienza emotiva agita dallo
scenario (ferroviario), rumori di fondo,
di ferraglie, che torna nel solitario e
silente, e allo stesso tempo, tenero film
di esordio di Kelly Reichardt, Wendy
and Lucy (2008), ennesimo tentativo di
emancipazione affidato allo spostamento
verso la nuova frontiera dell’Alaska,
meta, un anno prima anche di Into the
Wild di Sean Penn.
D’altronde tutto il cinema di Gus Van
Sant già dagli esordi della Mala Noche
(1985), di Drugstore Cowboy (1989), di My
Own Private Idaho (Belli e Dannati, 1991),
è incentrato sulla motilità ed emotività
di ragazzi inquieti e avventurosi, puri
e selvaggi, scintillanti e autodistruttivi
– passando da una scrittura vibrata,
“romantica”, soggettivisticamente
allucinata, a quella impersonale e
fortemente espressiva del pianosequenza, non meno allucinatoria, ma
per via di oggetti senzienti –, personaggi
simili a quelli coevi e disperatamente
“osceni” di Greg Araki, per cui varrebbe
la pena di aprire un’altra, vasta
parentesi.
Dalla strada alla rete: The Social
Network
Ora, l’opzione concreta del viaggio (per
lo più giovanile) anche come metafora
di una nazione in via di maturazione e di
acquisizione, scoperta, di sé (di quello
che era il proprio west) pare essere
definitivamente annullata (annientate
le impossibilità di liberazione) da The
Social Network di David Fincher, che
dilegua il referente fattivo, l’appiglio (per
quanto gracile) della strada, dei binari
e dei treni-merce presi in corsa, per
mostrare in tutta la sua alienazione, le
vie fittive, velocissime, dello sterminato
reticolo telematico.
È in questo contesto di percorsi
virtuali che l’”uomo nuovo finanziario”
(rampollo di una borghesia visagista,
che maneggia cifre e facce) esercita la
propria selezione, esalta l’esclusività (il
circolo privato, elitario, a cui si accede
solo su chiamata di rango, ecc.), laddove
l’”uomo nuovo” di John Ford, cercava,
mediante il cammino verso occidente,
l’inclusione estesa, la collettività (se
pure problematica), così come in seguito
faranno, con implicito sentimento della
sconfitta, i numerosi protagonisti dei
road movie più struggenti, oramai privati
della cognizione congregante e piuttosto
aggrappati a sparuti e fragili compagni
di viaggio.
Il plusvalore delle facce
Il neofascismo, neocapitalismo
spaccia e spiaccica le facce per strada
telematica (il facemash.com che
Zuckerberg organizza all’inizio del
film): è questa realtà, questa corsa
fittiziamente finanziaria (il possesso
di cose come realizzazione del sè),
che Fincher corrode, non il fenomeno
dei social network, su cui sembra
sospendere il giudizio. È il ragazzo
spietatamente, cioè automaticamente
selettivo e sedentario (seduto sulla
sua sedia mentre fa correre i dati sulla
rete), l’obiettivo del racconto, soggetto
tanto cinico quanto vile (se si pensa
alla figura di Sean Parker), che si pone
rispetto all’altro nella prospettiva dello
sfruttamento, del plusvalore (sessuale
oltre che economico); si identifica
nell’abnorme flusso di numeri (server,
contatti e soprattutto Denaro) che
veicola, sublimazione tecnologica
di quella “roba”, quella (esclusiva)
ricchezza, a causa della quale, in fin dei
conti, già i due avventurieri di Easy Rider
venivano uccisi insieme alle potenzialità,
all’estasi del viaggio nella varietà degli
scorci.
Da quel lontano 1966, anno del suo primo
cortometraggio Six Figures Getting Six, David Lynch è
riuscito a diversificare la sua produzione artistica come
pochi. Oltre al cinema, in cui ricopre o ha ricoperto
un po’ tutti i ruoli, dal regista allo sceneggiatore, dal
montatore, all’attore, dallo scenografo al produttore
cinematografico, Lynch si dà anche alla pittura, alle
installazioni e, non da ultimo, alla musica. Nel mezzo
scorre anche un certo affluente fatto di meditazione
trascendentale. Ma questa è un’altra storia, forse.
Negli ultimi anni, poi, il suo enorme interesse per
internet lo ha portato a costruire il suo sito personale
come una vera e propria piattaforma multimediale
da cui accedere ad un materiale esclusivo, come
Dumbland, una serie di animazioni molto cruenti, e
Rabbits, una sitcom di uomini coniglio che ritornerà,
a distanza di anni, in Inland Empire.
di Vincenzo Pietrogiovanni
Visioni
12
La cinematografia lynchiana viene solitamente
accostata al surrealismo, al subconscio, al sogno.
E proprio come nei sogni, nei film di Lynch la trama –
irreparabilmente oscura e non lineare – cede il passo
alle situazioni filmiche, alle suggestioni visive e sonore.
Se si scorre l’elenco delle pellicole firmate da Lynch,
questa caratteristica è decisamente una costante,
eccetto un solo caso: Una Storia Vera, o, come recita
il titolo originale, The Straight Story (che potremmo
tradurre esattamente sia La storia di Straight che, per
l’appunto, La storia dritta).
Questo film del 1999 racconta di una vicenda
realmente accaduta: il viaggio di sei settimane del
signor Straight che attraversa l’America rurale in
trattore pur di raggiungere suo fratello gravemente
malato.
Nulla di più lontano dalla poetica e dal linguaggio
lynchiano, dissero in molti.
Eppure, a distanza di 10 anni (in cui produce due
capolavori indecifrabili, Mulholland Drive e il già citato
Inland Empire) dà vita ad un progetto che con Un Storia
Vera è parecchio assonante: Interview Project.
Questo nuovo progetto online è un viaggio sulle strade
statunitensi di 30.000 chilometri in 70 giorni, in cui
“le persone sono trovate ed intervistate”, come dice
lo stesso Lynch nel video di presentazione. È un
documentario in 121 episodi, tanti quante le persone
intervistate. Ogni episodio è un video che si aggira
intorno ai 3/5 minuti di durata, introdotto brevemente
da Lynch che presenta il protagonista dell’intervista.
Sul sito c’è la mappa del viaggio ed ogni tappa
corrisponde al video della persona incontrata ed
intervistata in quel luogo. Si crea così una rete di
volti, di storie, di vite made in USA. Le domande cui
rispondono Alva, Richard, Clara o Lucille sono semplici
ma incredibilmente vere: come descriverei me stesso?
Qual era il mio sogno da bambino? Qual è la cosa più
importante per me? Ho dei rimpianti? Quali sono i
miei piani per il futuro? Com’è la mia città? Quando
hai avuto a che fare con la morte per la prima volta?
Di cosa sono più orgoglioso? Come voglio essere
ricordato?
Domande rivolte a uomini solo apparentemente senza
voce e senza storia perché sono volti che non trovano
mai spazio nel cinema o in tv. Nel vedere questa
imponente opera, molte idee mi si affollano nella
mente - oltre a quella più banale ed evidente su quel
che resta del sogno americano e ruotano intorno a quello che dice sempre Lynch
in chiusura di presentazione: “It’s human and you
can’t stay away from it”. Si può davvero fare a meno
dell’umano? E capisco sempre di più cosa significa il
termine lynchiano e realizzo come spesso sia usato a
sproposito.
Prodotto da Absurda, società di proprietà dello stesso
cineasta, il progetto è terminato negli USA l’anno
scorso. Da qualche mese è ripartito in Germania.
interviewproject.davidlynch.com
www.interviewproject.de
di Pasquale La Forgia
Visioni
14
“Quando avevo otto anni, ho fatto vedere il mio pene a
una ragazzina down e ancora oggi devo convivere con
questa cosa. Certo, paragonarla alla schiavitù in America
può sembrare assurdo, ma in effetti sono storie simili.
Perché quella merda è il nostro passato”. Letta così,
a freddo e fuori contesto, non è altro che una frase
di dubbio gusto, messa lì tanto per non farvi girar
pagina. Se invece conosceste la persona che l’ha
pronunciata, cambiereste idea al volo.
Louis C.K. è il migliore comico americano della
sua generazione, ha 44 anni, una storia familiare
complicata, un divorzio alle spalle, due bambine e
un cane scemo. Quando si è reso conto che i suoi
problemi erano l’ideale per riempire venti minuti di
palinsesto a settimana, ha deciso di riversare tutto in
una serie tv che scrive, dirige, produce, interpreta e
monta. La serie – inedita in Italia – si chiama Louie, va
in onda su Fx e non è altro che una versione in pillole
della sua vita di ogni giorno: la routine di un comico
newyorchese che si divide fra i suoi doveri di papà e la
sua cerchia di amici più o meno famosi.
Gli ingredienti sono quelli che ci si aspetta
(l’incapacità di trovare una donna, l’ingrato ruolo
del genitore separato, la città che inghiotte), tenuti
però insieme da una capacità unica di puntare
all’essenziale senza per questo rinunciare alla poesia.
Lo so. Poesia è una parola che gli analfabeti usano
per evocare cose a cui non sanno dare un nome.
Ma giuro che stavolta le cose stanno proprio così.
Sì, perché in Louie si trova quella pazzia lunare
che trovate in Jim Jarmusch, quella stessa eterna
miseria cantata da Tom Waits. Solo che qui si ride.
Infatti qualsiasi cosa gli succeda durante il giorno,
state sicuri che la sera stessa, non appena salirà sul
palco, Louie la sputerà nel microfono e la trasformerà
in comicità di altissimo livello.
Louie si distingue dalle tante sit-com americane anche
per la sua genesi. “Ho detto a Fx versatemi 250.000
dollari e fra un mese vi consegnerò un dvd. E hanno
accettato. Per loro era un investimento minimo, per
me era l’occasione per tentare una strada diversa”.
A quanto pare, se ci si mantiene entro i 250.000 di
investimento, non è necessario avere l’ok del capo
supremo (Rupert Murdoch), così Louie ha avuto carta
bianca e nel giugno 2010 Fx ha trasmesso la prima
puntata. La seconda stagione si è chiusa da poco e ha
raccolto due candidature agli Emmy (miglior attore
e migliore sceneggiatura nella sezione comedy), che
per un prodotto a basso costo come il suo sono un
traguardo non da poco.
Io il mio spazio l’ho finito. Adesso non vi resta che
procurarvi le prime due stagioni di Louie e scoprire
che relazione c’è fra la schiavitù in America e il
mostrare il proprio pene a una bambina down.
www.louisck.net
www.youtube.com/louisck
Visioni
16
di Vincenzo Pietrogiovanni
www.8pm.it
Iris
Van
Herper
Fashion
design
e metamorfosi
futuristiche
Photography
DUY QUOC VO
Styling
SONNY GROO
Model
ELINE at CODE
MANAGEMENT
Hair/Makeup
LISELOTTE VAN
SAARLOOS
using
LAURA MERCIER
di Annarita Cellamare
Life
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Il
progresso
tecnologico
connesso
alla stampa
digitale ha aperto le strade a nuove possibilità di
creazioni che giocano con la stratificazione, superfici
multisfaccettate e strutture. I designer di moda si
spingono oltre, sperimentano, cercando di oltrepassare
i confini del tessuto, introducendo aspetti come
innovazione e progresso tecnologico, scomposizione
e costruzione di nuove superfici, il tutto per abbattere
sagome predefinite e ricostruire il concept di
indumento. Iris Van Herpen, classe 1984, giovane avantgarde designer olandese si è affermata rapidamente in
tal senso. Diplomata all’ArtEZ, l’Accademia delle Arti
di Arnhem, dopo lo stage presso Alexander Mc Queen
e Claudy Jongstra, fonda nel 2007 la sua maison, dove
lavora con un ristretto gruppo di collaboratori. Vanta
mostre ed esibizioni dei suoi lavori in tutto il mondo,
oltre che collaborazioni con artisti del calibro di Björk;
per quest’ultima ha creato un abito straordinario che
la cantante indossa sulla cover del suo ultimo album
Biophilia e sulla cover del secondo singolo estratto
Crystalline, mentre Lady Gaga ha indossato una sua
creazione tratta dalla collezione Capriole durante
un’apparizione al Nevermind Nightclub di Sidney.
In perfetto equilibrio tra artigianato ed innovazione
nella tecnica e nei materiali, Iris mixa sapientemente
antiche modalità di lavorazione artigianale con la
futuristica tecnologia digitale. Mescola tessuti ed
oggetti inusuali, creando forme d’arte scultorea da
indossare, componendo strutture che esplorano
completamente lo spazio dentro e intorno al corpo,
utilizzando plastica modellata, pieghe, vortici, spirali
ed onde di tessuto e pelli, sfidando la gravità e la
conformità delle silhouette. Le sue opere esprimono
il carattere e le emozioni di una donna unica, ed
estendono la forma del corpo femminile in dettaglio.
Difficilmente la Van Herper si basa su un
progetto definito. Parte dal materiale, dalle sue
caratteristiche, modellandolo liberamente,
lasciando che sia esso stesso a prendere una sua
forma intrinseca. Concepisce abiti che rinnovano
e reinventano le forme, in costante metamorfosi. I
suoi pezzi sono sempre unici, concettuali, futuristici,
avvincenti e tridimensionali. Lei stessa afferma:
“Quello che creo non è intenzionale. È la traduzione
di quello che penso, di quello che accade dentro di
me, intorno a me, e globalmente. Per me la moda è
un’espressione d’arte molto vicina alla mia persona
ed al mio corpo. È espressione della mia identità
combinata al desiderio, stati d’animo e impostazione
culturale. Si tratta di un mix di realtà combinata
con la fantasia e di storia con il futuro. Quindi la
moda intesa come espressione artistica, e non solo
come strumento funzionale, privo di contenuti o
commerciale. Con il mio lavoro intendo dimostrare
che la moda può certamente avere un valore aggiunto
per il mondo, un valore senza tempo. Scegliere di
indossare determinati indumenti può creare una
forma imperativa di self-expression”.
Mummification, Synesthesia, Crystallization, Escapism,
Capriole: sono i nomi delle sue ultime collezioni
presentate in questi anni durante le Fashion Week
in giro per il globo, capi spettacolari che hanno
ammaliato il pubblico oltre che convinto gli addetti
ai lavori, che hanno consacrato la giovane designer a
degna erede dello stilista scomparso Mc Queen.
Life
20
Avant-garde made in NY
2011.The Eat
threeASFOUR
100 Days Berlin boutique by Henrik
Vibskov
Fondata nel 1998 con una formazione
allargata, la threeASFOUR ha pianta
stabile a New York e conserva ancor oggi
lo spirito e l’entusiasmo con cui è stata
fondata.
Fortemente ispirati dalla City, luogo di
incontro fra culture, religioni, lingue
e stili, i loro lavori sono mash-up di
tessuti e tecniche stilistiche, veri meltin’
pot di generi, capi individuali nonché
estensioni delle idee degli stessi
designer.
Noti per i loro disegni dinamici e per le
loro presentazioni non convenzionali,
hanno ricevuto molti riconoscimenti nel
mondo della moda e nel 2002 hanno
vinto il premio Ecco Domani Fashion
Foundation.
Hanno all’attivo svariate collezioni che
hanno riscosso successo in tutto il globo,
oltre che esposizioni in musei del calibro
del Metropolitan Museum of Art di NY,
dove il Costume Institute ha acquisito
un quantitativo non indifferente di loro
creazioni per la collezione permanente.
Ultima collaborazione è con l’artista
Bjork, che indossa una cintura-arpa
tratta dalla collezione Autunno/Inverno
L’enfat terrible danese, precursore del
design di moda scandinavo e famoso per
la capacità di creare un microsistema
eccentrico e contorto sempre in
relazione ad ogni collezione, ha
inaugurato il 30 settembre 2011 il suo
nuovo temporary shop a Rochstrasse
nella città di Berlino, continuando il
progetto del retail concept 100 Days.
Questa iniziativa fu ospitata come prima
tappa allo SPRSPACE di Amsterdam
nel dicembre 2010 per poi viaggiare
attraverso il mondo con permanenze
di 100 giorni in ogni città. Tappa finale
è stata Berlino dove è avvenuta la
presentazione della collezione Autunno/
Inverso 11/12 intitolata The Eat.
“Ispirati dai viaggi e dal non essere legati
ad alcun elemento a lungo termine,
siamo liberi di sperimentare con lo
spazio e con le installazioni, al fine di
presentare una collezione ‘globale’, che
includa pezzi mai visti prima”. È questa
la premessa che lo stesso Vibskov ha
fatto in merito al progetto, spiegando
che il carattere temporaneo è diventato
necessità per sperimentare con spazi e
luoghi.
FASHION
FACTORY
01. THEM ATELIER
02. AUGUSTIN TEBOUL
03. CO.TE
La moda come forma artistica, che declina i suoi
intrecci per interpretare i sogni, le sensazioni, le
emozioni e le culture di nuovi talenti nel panorama
della moda contemporary.
Trama e ordito si incrociano per raccontare nuove
sperimentazioni, concept diversi che affiancano la
sartoria alla passione per la ricerca nello stile e nei
materiali.
Così, in un momento in cui il fashion system è in
subbuglio tra alti e bassi, tra realtà in bilico colpite
dalla crisi, affiorano nuovi progetti e nascono factory
che diventano vere e proprie fucina di idee.
di Irene Casulli
Life
22
01.
È il caso di THEM ATELIER, uno tra i brand emergenti
più interessanti del momento.
Fondato nel 2009 dai due giovani artisti Brian
Kim e Olga Nazarova, il marchio americano
si propone con una linea denim concettuale e
sofisticata, anticonformista e ribelle quanto basta. La
nuova collezione, al confine tra arte e moda, presenta
cinque modelli di jeans realizzati con tessuti haute de
gamme, trattati con tecniche particolari; si passa dai
lavaggi eseguiti con ingredienti naturali ai dettagli
couture. Un progetto che vede coinvolti anche artisti
contemporary, che hanno contribuito a rendere questo
brand stimolante e innovativo.
02.
Ispirato al surrealismo, il piccolo marchio francotedesco AUGUSTIN TEBOUL nasce nel 2009
dall’unione tra l’artigianato del francese Odely
Teboul e le forme avant-garde del tedesco Annelie
Augustin. Il brand si fa subito notare grazie al suo
primo progetto Cadavre Exquis che ottiene uno
straordinario successo ottenendo tre premi in Francia
e Germania. Le collezioni, al confine tra prêt-à-porter
e Haute Couture, presentano un design sofisticato,
volto alla riscoperta della femminilità. La lavorazione
impeccabile e la raffinatezza dei materiali si unisce
alle maestranze della sartoria, per concepire dei look
esclusivi e d’avanguardia davvero strabilianti.
03.
CO.TE, un brand dall’impronta geometric-couture,
è quello dei due giovani italiani Tomaso Anfossi e
Francesco Ferrari, che presentano una collezione
dalle silhouette rigorose ma seducenti, dal gusto
retrò ma sempre molto contemporaneo. Gli abiti
dalle perfette forme geometriche si impreziosiscono
di un’accurata scelta di tessuti, fondamentale per
mantenere i volumi desiderati. L’accostamento di
tessuti e pesi diversi crea un gioco di piacevoli e
seducenti sovrapposizioni.
Una palette cromatica soft, che mixa colori classici
ed ultra eleganti come il nero, il grigio, il tortora, il
tabacco ad un sensuale colore nude. Una collezione
molto cool, tutta incentrata sul corpo femminile, che
regala alla donna eleganza e sensualità.
Spirito
www.sparidinchiostro.wordpress.com
“È una storia di frustrazione e potenziale irrealizzato, di artisti
che non hanno mai avuto la possibilità di realizzare la loro grande
opera, di racconti che non sono mai stati realizzati o, peggio, che
sono stati censurati e bonificati da editori con poco cervello.
È la storia di un medium recluso in un ghetto e ignorato dai molti
che avrebbero potuto farlo cantare”.
di Paolo Interdonato
Life
24
L’uomo che parla ha il volto cupo e niente affatto
divertito. Muove le sue poche parole sgretolando
la compostezza donata al suo viso da un mestiere
che si avvolge di silenzio: è il guardiano del faro
di Hicksville, la città che sta al centro dell’omonimo
fumetto di Dylan Horrocks.
Quelle poche parole riassumono la lunga storia
del fumetto con una precisione che riesce a essere
dolorosa, mentre racconta il rapporto succube che,
negli anni, si è instaurato tra gli autori e un’industria
oppressiva e spesso incompetente.
Diciamocelo: nonostante le ambizioni intellettuali che
vorremmo attribuirgli, gli editori di fumetti, da sempre,
sono, nella quasi totalità dei casi, degli industriali
vocati al profitto e alla redditività. Gente pratica che,
potendo, evita il suicidio commerciale. Dall’altra parte
ci sono gli autori che sono degli individui fragili con una
spiccata predisposizione alla sofferenza e al martirio.
A volte, instabilmente alla ricerca del mutevole
punto di equilibrio tra felicità e sicurezza, vorrebbero
smarcarsi dai vincoli imposti loro dall’industria,
ma le sperimentazioni, nei rari casi in cui non sono
deprecabili esercizi di stile, rischiano di generare
prodotti che, anche quando sono esempi di genio
irrinunciabile, diventano un tantino elitari. E l’élite, in
genere, è una comunità di acquirenti numericamente
più esigua del vasto pubblico sognato dagli editori.
Per difendere la loro libertà creativa gli autori di
fumetto le hanno provate tutte. Le proteste, gli
scioperi, la satira e la rivalsa: storie finite quasi
sempre male. A un certo punto, i più svegli,
consapevoli e arditi hanno incanalato le proprie
ambizioni in movimenti creativi e autoproduzioni.
Raccogliendosi attorno a un manifesto e a un’idea di
libertà narrativa, gruppi di fumettisti hanno ideato
progetti editoriali dall’altissimo livello professionale,
così come documentato dalle riviste Garo (Giappone),
Metal Hurlant (Francia) o Raw (USA), dal lavoro di
autori-editori come Dave Sim (Cerebus), Paul Pope
(THB) o Jeff Smith (Bone), e da progetti editoriali come
“i cani” in Italia o L’Association in Francia.
Ma non prendiamoci in giro: il Do It Yourself, nel
fumetto, non è sempre equivalso a prodotti altamente
professionali, come nel caso degli esempi che ho
appena enumerato. Ci sono state e, fortunatamente,
ci sono ancora le fanzine fotocopiate e zeppe
di narrazioni claudicanti e sintassi sghemba.
Spazi importanti nei quali gli autori possono
confrontarsi con il ritmo di pubblicazione, il canale
di presentazione (stampa o web) e il pubblico,
guadagnandone in esperienza preziosa che garantisce
di presentarsi con un’attrezzatura migliore alla porta
degli editori.
Nel frattempo, però, gli editori hanno perso la loro
anima, per popolare librerie che, a detta di un tipo
molto ben informato come André Schiffrin, sono
fatte per un’editoria senza editori. Il loro progetto
di presenza sul mercato si è fatto via via sempre più
esiguo. Oggi spesso non è neanche più un obiettivo di
marginalità operativa lorda e si riassume in un claim
di poche parole che pare essere uscito dalla mente
inaridita di un copywriter in mobilità.
Sono sempre di più gli editori che presentano brutti
fumetti (gridando – di solito – in copertina “graphic
novel”, le parole magiche della vendibilità) con
grafiche raccapriccianti e narrazioni approssimative.
Nessun confronto con gli autori, niente editing, pochi
o niente soldi, cura redazionale inconsistente, refusi
a gogò, pagine stampate male su brutti materiali e
inconsapevolezza assoluta del fumetto.
Tanto varrebbe l’autoproduzione. Ma, anche se
l’editore non paga, l’investimento per l’autore è
minimizzato e che bello è vedere il proprio libro
stampato pronto a infilarsi in libreria, accanto a quelli
di tanti sprovveduti colleghi, a farsi largo verso l’oblio.
MOMArt
Un’officina
delle arti per
contrastare le
mafie
di Francesca Limongelli
Life
26
Nel 1988 il Teatro Kismet OperA di Bari, poi definito
Stabile d’Innovazione, aprì i battenti alla città con una
serie di iniziative che avevano come filo conduttore
il fenomeno mafioso e l’impegno della società civile
per contrastarlo. Erano gli anni del maxi processo,
delle indagini dei giudici Falcone e Borsellino, ma
anche anni nei quali il territorio pugliese faticava a
riconoscere il fenomeno e soprattutto a parlarne. La
città si mobilitò e il Kismet cominciò il suo percorso.
È per questa ragione che quando la Regione Puglia
e il Tribunale di Bari hanno scelto di assegnare al
teatro stabile e all’associazione Libera la gestione
di un bene sequestrato alla criminalità organizzata,
un ex discoteca (Moma) situata ad Adelfia, a pochi
chilometri da Bari, la scelta è risultata a tutti calzante
e in linea con la vocazione di partenza. Contrastare la
mafia partendo da operazioni culturali e dal dialogo
con il territorio sono stati punti di partenza di un
progetto ampio che ha coinvolto, e sta coinvolgendo,
numerosissimi soggetti e che è diventato capofila del
più grande lavoro della Regione Puglia con i laboratori
urbani.
Il MOMArt di Adelfia, come è stato poi denominato
lo spazio, ha preso vita e forma nel segno della
musica, del teatro, delle arti visive, dell’impegno a
favore dell’infanzia, ma è anche diventato il punto
di riferimento per gli altri due laboratori urbani
che il Kismet si accinge ad inaugurare. Oltre al
MOMArt infatti, da questa stagione, ci saranno gli
spazi di Gioia del Colle e Turi, comuni a circa 30
chilometri dal capoluogo, protagonisti del progetto
“Bandeapart”, nati sempre sotto l’egida della Regione
Puglia nell’ambito del programma Bollenti Spiriti.
Obiettivo di “Bandeapart” è quello di realizzare
un’officina, sperimentale e innovativa, delle arti
e delle culture, spazio in cui ospitare momenti di
progettualità artistica, luogo che permetta l’incontro
e la sperimentazione con gli strumenti del teatro,
del cinema, del video e della musica. A Gioia del
Colle, in una struttura di inizio Ottocento, gli ampi
locali saranno quindi dotati di sala registrazione, sala
multimediale e si sale per la realizzazione di laboratori
teatrali e di lettura, curati dal Kismet insieme con le
altre associazioni locali. Discorso analogo, seppur in
una struttura un po’ più piccola, sarà portato avanti a
Turi, dove il Comune ha destinato a laboratorio urbano
l’ex convento di San Giovanni Battista, che tornerà così
a nuova vita nel segno della cultura e dello spettacolo.
E in questa direzione si muove ormai da tre anni il
MOMArt di Adelfia, pronto a inaugurare la stagione
2011/2012 con un vero e proprio calendario di attività.
Oltre infatti ai laboratori teatrali, di scrittura e per
i bambini, non mancherà qui una programmazione
a tutti gli effetti dedicata soprattutto al teatro, alla
musica e all’arte. Si comincia con la mostra Rifiutart
sui temi del riciclo – realizzata in collaborazione
con Legambiente e associazione MOMArt Adelfia
– per continuare con una serie di spettacoli rivolti
soprattutto ai bambini e con gli appuntamenti musicali,
segnati anche quest’anno dall’attenzione verso la
scena indipendente pugliese e nazionale (info www.
teatrokismet.org).
Infine, a sancire ulteriormente e formalmente
l’essenza del MOMArt, dal mese di novembre l’ex
discoteca diventerà Presidio Libera, a confermare
ulteriormente la volontà della città di riappropriarsi di
uno spazio in passato più volte violato.
Evento
DgTales
Fotografia in mostra
Sarà una location d’eccezione quale il castello Carlo
V di Monopoli (Ba) ad ospitare l’annuale evento
fotografico dedicato a professionisti, fotoamatori e
a chiunque voglia avvicinarsi alla fotografia digitale
professionale. Leitmotiv delle due giornate: il ritratto
Ospite fisso e gradito dell’evento DGTales, Antonio
Manta, stampatore Fine Art. Dando vita al progetto
BAM (Bottega Antonio Manta), vuole riaffermare
l’importanza essenziale del lavorare in gruppo,
puntando sulla sinergia piuttosto che sulla
competizione.
Durante l’evento sarà allestita una mostra fotografica.
Per tutte le informazioni
>>> www.dgtales.it
Racconti Digitali
Intervista a Giuseppe Friuli
Arte
28
Coniugare strategia aziendale e attenzione per la
cultura si rivela obiettivo spesso difficile da perseguire,
ma che può portare a grandi risultati e particolari
soddisfazioni. È questo il caso di DgTales, l’azienda
dedicata alla fotografia (con sede a Martina Franca,
Ta) fondata dieci anni fa sulla base di una lunga
esperienza maturata nel settore. Proprio questo team
di professionisti si cela dietro l’evento dell’11 e 12
novembre, un’occasione di incontro e confronto sui
temi delle tecniche fotografiche assieme ad alcuni dei
protagonisti nazionali di questo universo artistico. A
parlarcene è Giuseppe Friuli, leader della Dgtales e
profondo conoscitore del panorama italiano. “Il nostro
obiettivo primario” – spiega – “è quello di essere
punto di riferimento per il mercato della fotografia
professionale, selezionando esclusivamente prodotti
di qualità e mettendo a completa disposizione le
nostre competenze. Con lo stesso spirito abbiamo
fatto nascere questa manifestazione, un’opportunità
per analizzare differenti tematiche e punti di vista al
Venerdi 11 e Sabato 12
workshop di Monica Silva “L’io dentro Me” “Un scatto diventa un’opera d’arte dal momento che
prende forma d’espressione visiva. Per arrivare a
questo livello, il fotografo deve prima passare per
un’introspezione con se stesso per indagare l’animo
umano. Monica Silva, fotografa ritrattista, svolgerà un
workshop intenso ed emozionante con il supporto di
attrezzatura Hasselblad”.
Evento Dgtales
In una sala posa allestita per l’occasione sarà
possibile utilizzare attrezzature Hasselblad, Profoto, Eizo, Canson, Epson e Digigraphie . Quest’anno i
fotografi Joseph Cardo e Mimmo Basile saranno
ospiti DgTales e metteranno a disposizione la loro
esperienza. Parteciperà inoltre all’evento Daniele
Barraco, il fotografo Hasselblad che ha anche
meritato la menzione d’onore all’IPA2010. La sua
specializzazione per il ritratto e la fotografia di celebrità
è anche centro della sua idea di lavoro, con la quale
crea immagini moderne strutturate per il mercato
editoriale e pubblicitario.
Sabato 12 novembre
WET di Tomás Arthuzzi
servizio di coloro che amano la fotografia”.
L’evento DgTales arriva alla sua V edizione e sceglie
una location d’eccezione, il Castello Carlo V di
Monopoli, una splendida struttura che si presta
alle esigenze di spazio e di versatilità adatte alla
manifestazione. Le due giornate si svilupperanno
attraverso workshop, seminari, incontri e mostre, un
intreccio fra momenti di apprendimento ed esperienza
sul campo. “Si partirà da Monica Silva” – spiega Friuli
scendendo nel particolare – “con un suo workshop dal
titolo L’Io Dentro Di Me, un lavoro di introspezione per
indagare l’animo umano. La ricerca dell’intima essenza
di un soggetto da ritrarre è mutata nel corso degli
anni; se prima si tendeva a sottolineare solo l’aspetto
estetico o la particolarità del volto, ora si tende a farne
emergere l’aspetto più intimo. La bravura del fotografo
sta nel rappresentare uno stato d’animo, un’emozione
che risulti naturale. La vera sfida consiste nel
mostrare i lati più reconditi attraverso il ritratto. Il
giorno successivo sarà il turno di Maurizio Cicognetti,
workshop di Maurizio Cigognetti “Fotografi e Pubblicità”
Questo incontro sul mestiere di fotografo in pubblicità
nasce dall’esperienza personale di Cicognetti,
maturata in circa vent’anni di professione e prima
ancora da dieci anni di art direction in agenzie
internazionali. Il workshop è dedicato a tutti i fotografi
curiosi di approfondire quale sia “la porta di accesso” a
questo mercato e quali siano i codici di comportamento
in un workshop riguardante Fotografi e Pubblicità. Si
tratterà certamente di un’occasione per approfondire
quale sia il percorso più adatto ad entrare nel mondo
del mercato pubblicitario”.
Un altro aspetto essenziale della due giorni sarà
legato all’interazione fra tecnica, tecnologia e
talento del fotografo. Un set fotografico sarà infatti
allestito all’interno del castello per permettere agli
interessati di cimentarsi con i materiali più innovativi.
“Gli strumenti cambiano e ci rendono il lavoro più
interessante e ricco di possibilità. Devo però dire che
il passaggio dall’analogico al digitale ha cambiato
il mondo della fotografia, ma ciò che non ha subìto
cambiamenti con il passare degli anni è la modalità
di maturazione del talento. C’è sempre la possibilità
di progredire, e questo miglioramento passa anche
dall’utilizzo degli strumenti più adatti a quel che
vogliamo creare o rappresentare”.
I protagonisti
dell’evento
DgTales
Per tutte le informazioni
>>> www.dgtales.it
In questa pagina foto di
Daniele Barraco
Nella pagina successiva
foto di Mimmo Basile
DANIELE BARRACO
Il ritratto è l’origine e l’essenza della fotografia, in
bianco e nero rende la realtà con colori differenti che
non siamo abituati a vedere nel quotidiano.
Prediligo il ritratto perché amo le persone, amo la
capacità di trasmettere emozioni che appartiene ad
ogni essere umano. Le persone sono per me sempre
protagoniste indiscusse.
La mia idea di portrait prende spunto dalla ritrattistica
classica ma supportata dalla tecnica e dall’alta
tecnologia con l’intento di seguire le orme di fotografi
come Nadar e Sender. Non esiste tecnica senza cuore
ma senza un’adeguata preparazione il solo istinto
non basta per arrivare lontano, l’equilibrio vince nella
fotografia così come nella vita.
www.danielebarraco.com
MONICA SILVA
MIMMO BASILE
Sin da bambino sono stato attratto da un mondo
affascinante grazie al quale è possibile fissare
nel tempo i ricordi della nostra vita. Questa è una
meraviglia che racchiude passione tecnica e creatività
in un’unica professione. Essere fotografo significa
avere pratica, conoscere bene il mezzo con cui si
realizzano le istantanee e possedere una buona
tecnica per affrontare situazioni difficili da riprodurre
correttamente in fotografia. Nel mondo digitale in cui
viviamo è necessario avere una buona competenza
perché tutto non si ferma alla sola ripresa ma
continua in un vastissimo mondo che si chiama postproduzione. È raro oggi veder apparire un’immagine
in una bacinella illuminata di rosso.
www.mimmobasilefotografo.com
Il mio rapporto con il ritratto parte da molto
lontano. Sin da piccola mi soffermavo sui volti delle
persone, le osservavo mentre non si accorgevano
di me e a volte una luce colpiva il loro viso creando
un’immagine indimenticabile. Da qui nasce la
passione per la gente e la fotografia. La tecnica è
solo un mezzo. Se poi il mezzo in questione si chiama
Hasselblad tanto meglio. Oggi nei miei ritratti cerco
la naturalezza e qualcosa di speciale. Per ottenerli
entro in sintonia con le persone in un modo tutto
mio. Quello che succede resta dentro lo studio ma in
qualche modo viene impresso nell’obiettivo, rivelando
l’essenza di chi ho ritratto. Per me questa è la piccola
magia della fotografia.
www.monicasilva.it
JOSEPH CARDO
Ho cominciato ad avvicinarmi alla
fotografia giovanissimo, affascinato
dalla moda, dagli istanti riflessi in
immagini che sembravano inarrivabili
agli occhi di un ragazzino. In seguito
ho iniziato a fare le mie prime foto
per istinto, senza nessuna guida,
osservando ciò che mi circondava,
unico ausilio la luce naturale,
stampando manualmente. Insomma
sperimentando.
Mi ritengo fortunato per essermi
formato professionalmente a cavallo
tra lera analogica e quella digitale,
lavorando tutt’oggi alla ricerca di una
immagine che sfrutta tutte le tecnologie
attuali ma conservando le movenze e
le tecniche analogiche. Trovo esaltante
poter sfruttare la modernità fondendola
con le mie conoscenze passate.
Oggi i software tendono a restituirci
fotografie troppo precise e plastiche,
secondo me il fascino che rende
importante un`opera sta anche nella
sua natura imprecisa.
www.josephcardo.com
Nella pagina precedente
foto di Joseph Cardo
A sinistra foto di
Antonio Manta
MAURIZIO CIGOGNETTI
ANTONIO MANTA
Chiedo sempre agli autori di portare tutto il loro
materiale, anche quello che hanno valutato non
idoneo, perché molte volte insieme riusciamo a
vedere le potenzialità di un lavoro. È necessario
confrontarsi con l’autore e fare una serie di
provinature per impostare tutto al meglio.
Conoscere i segreti della stampa, sia essa digitale
o analogica, è un aspetto essenziale per produrre
delle buone fotografie ancora prima di scattarle. È
importante avere i giusti strumenti e le conoscenze
adeguate per riuscire a pre-visualizzare anche la fase
di stampa al momento dello scatto; solo così si può
impostare correttamente il lavoro, dato che in stampa
un lavoro fotografico può cambiare totalmente. Si
deve sempre avere chiara la direzione verso la quale
procedere.
www.antoniomanta.com
In fotografia pubblicitaria, saper vedere e saper
raccontare con le immagini è un’arte.
La tecnica è lo strumento, che conoscendolo, ne
esalta gli aspetti comunicativi.
La luce, la composizione, il mezzo tecnico.
Conoscerli e dimenticarli per ridurli ad un gesto
acquisito, interiore, che lascia spazio libero alla
nascita dell’immagine.
Ma questo non basta, serve conoscere anche
l’universo nel quale orbiteremo, i meccanismi e i ruoli
di ciascun operatore.
Occorre saper interpretare e restituire immagini che
parlino un linguaggio conforme ai nostri tempi.
Occorre aggiornare la nostra conoscenza tecnica e
dirimere il superfluo dell’essenziale.
E occorre essere consapevoli di un mercato che vuole
trarre sempre il massimo vantaggio dalle innovazioni
tecnologiche anche a discapito delle professioni.
Non solo gli operai sono a rischio identitario, anche i
fotografi. Come vedete le sfide sono molte e molto più
complesse ed articolate di un tempo. Saper fare clic
non basta oggi come non bastava ieri, anche se per
ragioni molto diverse.
www.cigognetti.com
Daedalus
Rising
Smarrirsi nel labirinto sognante di Zaelia Bishop
Zaelia Bishop è un cantore solitario di un sentimento
titanico, i suoi lavori sono affascinanti assemblage onirici,
materici, sospesi in equilibrio sulle regioni selvatiche della
memoria e del sogno.
di R.R.
Arte
34
01.
Scatola
cm. 35x55x15
2007
02.
Io muoio di Inchiostro
cm. 23x27x11
2007
03.
Macchina del Cuore Penitente I
cm. 20x34x10
2009
È nel segno del labirinto la nuova mostra personale
di Zaelia Bishop Daedalus Rising presentata presso gli
spazi della Fabrica Fluxus Art Gallery di Bari. Sepolto
da sedimenti di rimembranze e stratificazioni di
desideri e patimenti di stagioni mai del tutto disabitate,
il labirinto risorge sulla spinta di un irrefrenabile
movimento tellurico, come luogo di fantasmagoria,
architettura impossibile in cui riconnettere ipotesi
di storie, frammenti di narrazioni disparate, filiazioni
letterarie, echi di possibilità, mesmerismo di citazioni
e voracità di collezioni. È lo scenario ideale in cui
ambientare l’affaccendarsi di un’adolescenza eterna,
popolata dalla filigrana di figure care, appassionate,
screpolate dal tempo che non perdona, sgretolate
dagli urti di una immane catastrofe del quotidiano che
si fa concrezione, escrescenza, infiorescenza umbratile
protesa verso lo spettatore, come per un abbraccio
di riconoscenza. Dal labirinto parte la sfida titanica
dell’artista, lo strenuo tentativo di trovare l’uscita del
dedalo, nonostante la consapevolezza del possibile
fallimento.
Daedalus Rising raccoglie due cicli di lavori realizzati
da Zaelia Bishop nell’ultimo anno accompagnati
da un’installazione. I Portraits After Great Pain
nascono sotto il segno del Naufragio, metafora
di frantumazione. Sono ritratti di uomini, donne e
bambini smarriti nel tempo che tornano, nella labile
traccia fotografica centenaria sopravvissuta fino
ai giorni nostri, a bussare alla porta del presente
portando in dono i segni di una trasformazione.
Ciascuno dei protagonisti dei ritratti porta infatti su
di sé la memoria di un urto antico. Gli elementi che
ne trasfigurano corpi e volti sono la traccia ultima
del ricordo della loro collisione, una ricerca tra le
04.
Due Favole, Una Trappola
cm. 14x20x6
2008
pagine scomposte di biografie immaginarie. Ciascuna
biografia addensa un ricordo inesorabilmente sfigurato
dal tempo e attualmente non intellegibile.
I Diari dal Dedalo rappresentano una tappa all’interno
di un lungo percorso parzialmente autobiografico che
si dipana in modo labirintico e senza destinazione,
attraverso la memoria stessa dell’autore. Le piccole
wunderkammern apparecchiate in vecchie scatole
di legno sono un tentativo di ricomporre frammenti
e simboli disseminati lungo la linea d’ombra che
separa la fanciullezza dall’età adulta. All’ingresso
della galleria, inoltre, lo spettatore è accolto da
un’installazione. Dal soffitto dello spazio espositivo
Zaelia Bishop sceglie di fa calare una serie di elementi
sospesi per mezzo di fili sottili intrecciati, simili a
capelli. Altri reperti ingemmano pavimento e pareti.
Elementi naturali, vegetali o animali, armati di
disidratata pericolosità, concrezioni fossilizzate di un
tempo immemore, nodi di parole per carteggi afasici,
argini in cui è stato lasciato scorrere il fiume della
memoria fino a non trattenere più l’eco di un’acqua,
memoria che si sclerotizza in un lacerto fotografico,
in una congettura biografica, nello sbiadire di una
passione, ansito di un futuro passato.
BOX INFO
Fabrica Fluxus Art Gallery
via Marcello Celentano 39, 70121 Bari
www.fabricafluxus.com
In mostra dal 22 ottobre al 22 novembre 2011
Orari: lunedì 17.30/20.30; dal martedì al sabato dalle
11.30 alle 13.30 e dalle 17.30 alle 20.30.
domenica chiuso.
Non esistono bambole viventi:
non era dunque diventata Una
bambola vivente, ma l’avevano
ridotta a un balocco concepito
per non far vergognare i vecchi
impotenti: no, non si trattava
di un balocco: per quei vecchi
era forse la vita stessa
(Kawabata, La casa delle belle
addormentate).
L’hai ordinata. La desideri e sai che sta arrivando.
Arriverà a casa tua, oggi. Non resisti più, sta crescendo
la voglia di averla, è un fremito che ti percorre e
percuote alla sola idea di accogliere questa strana
forma di vita nella tua casa. Suonano. È lei. Apri,
vedi una scatola enorme, alta più di te, un uomo la
spinge verso la soglia. Ti consegna una busta con
dei documenti. Firmi. L’uomo attende. Ma tu vuoi
rimanere solo. Da solo con lei. Lo congedi in fretta.
Ormai sei eccitatissimo. Gonfio di desiderio. Apri il
legno della porta e… oh, indietreggi di fronte a lei. Una
donna, una bambola, una creatura. È lì, che ti guarda,
come nervosamente intimidita, sospesa e trattenuta
nell’atto di muovere un passo fuori dal loculo che la
contiene. Ha una brutta borsetta a tracolla dove sono
conservati i suoi effetti personali. Cristo! È arrivata, è
lei. In equilibrio tra le gambe per terra c’è una busta di
plastica verde con qualche vestito e delle cartelle. Sei
sconvolto dal desiderio di possederla. Ormai sai che è
tua. Che vivrà con te. Che non ti lascerà mai. Le prendi
la mano, le dita sono lunghe e morbide, si piegano
liberamente alla tua presa, hai già voglia di prendere
in bocca quelle dita e di morderle. L’apparente rigidità
del silicone inizia a produrre quella strana crescente
arresa. Benvenuta a casa mia, Feodora V., da Toledo,
Ohio. È il 20 ottobre 20xx.
Le bambole di lusso in silicone hanno fatto la loro
comparsa sulla scena americana negli anni Novanta,
pubblicizzate come le bambole più realistiche al
mondo, spesso vengono chiamate Love dolls piuttosto
che Sex dolls per differenziarle dalle comuni bambole
gonfiabili. I collezionisti le adoperano in modi molto
diversi: come manichini da vestire-svestire-rivestire,
come soggetti fotografici o come compagne di vita.
Azusa Itagaki (Tokyo-Stoccolma), fotografa, filmmaker
e performance artist, ha rivelato l’universo delle Love
dolls intrecciando con esso una relazione sempre più
insistente che investe non solamente l’esorbitante
fenomeno fotografico ma ne esplora i vischiosi
confini che separano le due realtà, quella dell’owner
e quella della bambola. Il processo feticistico è qui
reversibile: al cospetto delle sue fotografie non
si assiste unicamente alla reificazione del corpo
femminile, di per sé nato già oggetto-bambola, bensì
alla frankensteiniana transumanizzazione della cosa
assemblata a cui dare il soffio vitale. Lo sguardo si
sposta dalla bambola al fremito che serpeggia nel
corpo del proprietario – spesso protagonista degli
scatti accanto alla sua amata, mentre la trucca, la
sistema, le serra la cintura di sicurezza in auto.
Le fotografie di Itagaki, infatti, restituiscono al mondo
l’intimità ludica, pornoerotica e al contempo tragica
e mortifera della contaminazione fra l’umano e
l’inorganico. La bellezza cadaverica di queste creature
esplode e prende forma nel sussulto della carne di
chi le adora e le dona, così, tracce, frammenti, odori,
umori vivi.
Azusa Itagaki Casa di Bambola
a cura di Claudia Attimonelli
Vernissage: 25 Nnovembre Fabrica Fluxus
Via Celentano, Bari.
38
La Rosa e
La Cenere
G. P.
I disegni che compongono la storia sono stati realizzati in
due occasioni, il Comicon di Napoli (le prime 4 pagine) e il
Locus Festival di Locorotondo (le restanti), in cui fumetto e
jazz, in performance live differenti per modalità e contenuti,
hanno sposato le loro migliori energie.
Le tavole che state per leggere sono parte di una storia
più ampia, dal titolo La Rosa e La Cenere apparsa a puntate
sul sito www.nicolaconte.it; in particolare, fanno parte
dell’ultimo episodio ancora inedito sulle pagine del sito.
Il narrato evanescente è dovuto al fatto che, all’interno
dell’architettura narrativa di La Rosa e La Cenere, queste
pagine costituiscono una sequenza allucinatoria, il processo
alchemico culmine di tutta la vicenda.
di Giuseppe Palumbo
Libri
Aerei
di carta
ERNEST CLINE
PLAYER ONE
SIMON REYNOLDS
RETROMANIA
Isbn Edizioni
640 PAGINE | 19,90 EURO
Isbn Edizioni
480 pagine | 26.90 euro
Proprio come la frase che compare sui vecchi
videogiochi quando inizi una “partita”, Player One ci
catapulta in un mondo in cui si rivivono le atmosfere
e le emozioni che hanno caratterizzato gli anni ‘80.
Dall’Atari 2006 a Casa Keaton, dall’X-Wing a Ultraman,
da Dungeons & Dragon a Golden Axe.
In un futuro non troppo lontano, il mondo è ormai alla
rovina. Droga e povertà la fanno da padrone. L’unica
isola felice è OASIS, un mondo virtuale e utopico in
cui ognuno può vestire i panni del proprio avatar e
condurre una vita normale. La morte del ricchissimo
creatore di questo universo artificiale dà il via ad una
caccia al tesoro digitale che avrà come premio un
vero impero finanziario. Al contest partecipa anche
Wade Watts, un diciottenne orfano che vive con la zia
tossicodipendente in un parcheggio di case mobili
nella periferia di Oklahoma City. E proprio il suo nome,
l’11 febbraio 2045, compare sul segnapunti. Infatti
Wade ha scoperto il primo indizio: la “chiave di rame”...
Reynolds è autore di almeno due testi capitali sulla
musica pop: Energy Flash e Post-Punk, veri mattoni di
circa 700 pagine che ben esprimono la vera natura del
loro autore: non un giornalista da rivista patinata ma
un vero topo di biblioteca, un nerd appassionato, un
ricercatore illuminato. Soprattutto, come tutti i grandi
narratori, un osservatore ubiquo, uno che sa guardare
il mondo da lontano pur essendone personalmente
invischiato, riuscendo a precorrere i normali tempi di
assorbimento e definizione di un fenomeno. Questo
rende i suoi lavori qualcosa di più di un saggio, un
articolo, un commento: quando li leggi ti senti sempre
risucchiato dentro una storia, un’avventura, un viaggio.
Quello di Ernest Cline non è solo un romanzo per
trentenni nostalgici. Leggere di un ipotetico futuro dove
si rivisita “il decennio pop” è un po’ come mandare i
Goonies ad esplorare Matrix; ci si ritrova immersi in
una successione di avventure da cui si viene rapiti,
quasi ipnotizzati, proprio come quando da piccoli
leggevamo sulla scritta “Insert Coin”.
di Giuseppe Morea
Con Retromania Reynolds, ancora una volta anticipando
tutti, individua e analizza un fenomeno inedito ben
espresso dalla formula “postmernismo+internet”: per
la prima volta, la curiosità per il passato prossimo, il
revivalismo, grazie alla immediata e quasi inesauribile
disponibilità hic et nunc dei prodotti culturali del
passato permessa dalla digitalizzazione e dalla
globalizzazione, si è radicalizzata in forza di attrazione
gravitazionale totalizzante e imprigionante, se non
proprio in ossessione: “Sembra che nulla appassisca e
muoia più, e questo intralcia l’emergere delle novità”.
L’innovazione oggi è solo tecnologica, non più culturale:
la creatività ha assunto la forma del “super-ibridismo”,
la voglia di evasione dalla quotidianità non si esprime
più con la ricerca dell’inaudito rivoluzionario, ma con
l’abbandono in un accomodante e ovattato passato, “un
banchetto atemporale di suoni di ogni epoca”.
di Gennaro Azzollini
LUIGI ABIUSI
PER GLI OCCHI MAGNETICI
CARLO MAZZA
LUPI DI FRONTE AL MARE
Caratterimobili
96 pagine | 10 euro
edizioni e/o
19,50 euro
Lo sguardo tridimensionale di Luigi Abiusi nel suo
Per Gli Occhi Magnetici indaga la forma dell’immagine
cinematografica da una prospettiva fuoricampo,
dilata la profondità della visione con un linguaggio
lirico e analitico a un tempo, compendia la brevità
di contenuto dei saggi con la vastità degli argomenti
affrontati. I salti mortali dalla poesia al cinema sono
ciò che rende questo libro non soltanto un utile
supporto critico, ma soprattutto un indispensabile
strumento di percezione immaginifica del reale.
Il linguaggio stesso si contorce nel tentativo di
avvolgere il fantasma che vuole afferrare, per svelare
infine il senso della scelta dei quattro autori presi in
esame: la poesia lunare di Erice si riflette capovolta
nella paralogia pop di Tarantino; la cinematografia
sentimentale di Dino Campana anticipa il corso del
tempo sospeso nelle immagini di Pasolini. Abiusi
conferma che lo sguardo fuoricampo del critico serve
a consentire di vedere tutto in una sola volta ma, per
il sopraggiungere di un ricordo d’infanzia, il dettaglio
diventa fondatore e, mentre il resto si dissolve, non
restano che gli occhi. Buona Visione.
«Una collana dedicata alle storie che il nostro Paese
non ha più il coraggio di raccontare»: così Massimo
Carlotto definisce Sabot/Age, la collana di e/o che
raccoglie gialli, noir e altra letteratura di genere con
lo scopo di parlare dell’attualità italiana. Il secondo
testo, Lupi Di Fronte Al Mare, è dell’esordiente barese
Carlo Mazza, bancario. E di banche, e di traffici loschi,
di favori e assunzioni, di collusioni con la malavita
e transazioni poco pulite parla questo libro. Un
‘romanzo’, dunque non una cronaca né un reportage,
ma una lettura paradigmatica della vita parallela,
delle logiche che regolano gli scambi economici a
Bari e in Italia. ‘Sabot/Age’ come sabotaggio di ciò
che si considera realtà ma non lo è, sabotaggio della
concezione edulcorata del mondo, e anche Epoca
di sabotaggi, perché la vita quotidiana è minata
dalle logiche nascoste che influiscono sui singoli
inconsapevoli.
Leggere Lupi Di Fronte Al Mare consente di sbirciare
nelle ‘stanze dei bottoni’, di capire a quali sabotaggi la
nostra vita quotidiana sia sottoposta, di interrogarsi
su quanto gli squarci di realtà che ci si aprono con
le notizie di cronaca (intercettazioni, scandali) siano
molto più che transitori, ma rappresentativi della
realtà.
di Gemma Adesso
di Carlotta Susca
ALEXANDER MAKSIK
NON TI MERITI NULLA
NICOLAI LILIN
IL RESPIRO DEL BUIO
edizioni e/o
318 pagine | 18 euro
Einaudi
240 pagine | 19,50 euro
Grandi pretese nell’esordio di Alexander Maksik che
abusa di nobile materia - Sartre, Camus, Thoreau
- per una storia di debolezza e delusione, in una
scontata Ville Lumiere di tram e cafè. Racconto affidato
a tre voci e ad una scrittura più incalzante della
stessa trama, con cui il 38enne dell’Iowa imposta
un romanzo di formazione senza però dargli vita.
La scuola internazionale a Parigi è un non luogo
per ottimi allievi di cattivi maestri. Will, insegnante
adorato dagli studenti come una rock star, propina
domande esistenziali che lo fanno apparire un eroe.
Ma alla prova del coraggio incespica, gira i tacchi, resta
indifferente al perbenismo di chi lo accusa, dissolve le
illusioni dei suoi fan. Solo un errore vincerà la staticità
della sua vita, perché a volte bisogna fare qualcosa di
irrimediabile per andare avanti. Gilad, studente senza
radici, si strugge d’amore per il maestro, di cui brama
l’ammirazione offrendogli continue prove di acume.
Tra i massimi sistemi si insinua la terrena passione
della naive Marie, corpo burroso che riempie solo uno
spazio, allieva modesta e volenterosa. Sarà l’unica
ad agire, tradendo con coraggio i propri desideri.
Inserti riusciti per le comparse: l’alunna dissacrante
che liquida il Mito di Sisifo e il tema del suicidio come
una stronzata, il teppistello mancato investito da
un’epifania; il credente sfidato dal dilemma dell’essere
o non essere; la madre disillusa che testimonia al
figlio - rapito dal culto di un uomo - come seguire la
vita di un altro sia un tipo di coraggio molto limitato;
l’intuitiva Lily, che con un’immagine poetica evoca la
straordinaria virtù della lettura. Quella di estraniarci
dal mondo per provare a trovargli un senso.
Arriva in libreria la terza opera di Nicolai Lilin,
scrittore italiano dai natali siberiani. Dopo
L’educazione Siberiana (aprile 2009) e Caduta
Libera (2011), tutti editi da Einaudi, l’autore torna
a raccontarsi attraverso le parole del protagonista
(anche lui Nicolai), un soldato dei corpi speciali
(specnaz) di ritorno dalla guerra Cecena che vive il
dramma, tipico di tutti i reduci, di essere emarginati
dalla società civile. L’unico modo per non perdere
la testa e per ritrovare l’anima persa in guerra è
intraprendere un cammino: il respiro del buio, l’uomo
della foresta, l’esercito dei pochi, la guerra dentro e la
cenere delle nostre anime. Vi fanno da sfondo i ricordi
sanguinosi della Cecenia, le battute di caccia nella
Taiga siberiana e la vita a San Pietroburgo. Istantanee
di un Paese corrotto e violento in cui è estremamente
difficile vivere ma troppo facile morire. Quella Russia
degli oligarchi che Anna Politkovskaja ha raccontato
pagando il prezzo più alto. Non mancano i riferimenti
alla “stirpe guerriera” degli Urka siberiani da cui
Lilin discende e di cui conserva il passato scritto sulla
propria pelle. Attraverso la sua scrittura asciutta ed
essenziale l’autore miscela i tre elementi inscritti nel
suo DNA: freddo, sangue e silenzio. Quello stesso
silenzio che accompagna il cacciatore nella taiga e il
cecchino in guerra sino a quando il colpo del fucile li
ridesta dagli unici momenti di eternità che ogni uomo
può permettersi prima di capire che non vi altra vita
all’infuori di quella che viviamo.
di Antonello V. Daprile
di Paola Merico
LA REALTÀ IN TRASPARENZA
L’ultimo appuntamento
con David Foster Wallace
di Kevin Arnold
Un diamante grezzo. È in questa forma che Michael
Pietsch – editor della casa editrice Little, Brown ed
intimo collaboratore di Wallace – ha trovato l’ultima
stesura di Il Re Pallido alcuni mesi dopo il suicidio
dello scrittore. Un manoscritto parziale, mai spedito,
ed affiancato da centinaia di pagine dattiloscritte
che rappresentano la cristallizzazione di un work in
progress lungo ed intricato. Quel che arriva oggi nelle
librerie italiane è dunque il risultato di un intreccio
fra due lavori, quello di D.F.W. realizzato nel garage
della sua casa di Claremont e quello affrontato da
Pietsch nella riorganizzazione di un materiale dai
tratti geniali ed allo stesso tempo complicati. I pochi
appunti, le striminzite indicazioni sulla direzione della
storia e la mancanza di un prospetto sull’ordine dei
capitoli non hanno però bloccato questo encomiabile
lavoro che ci offre la possibilità di conoscere l’ultimo
mondo narrativo immaginato da Wallace.
Come già in Infinite Jest, il plot del volume è solo una
delle componenti fondanti del romanzo, elemento
affabulatorio che fa da fil rouge ad un testo ipnotico
e ammaliante come un frattale. Quasi si trattasse
della funhouse di John Barth, Il Re Pallido possiede
una struttura nella quale è opportuno perdersi senza
timori, abbandonandosi all’intrico di digressioni e
descrizioni che ci accompagnano attraverso queste
700 pagine. Continuando la sua ricerca riguardante
l’entertainment e le sue utopiche sembianze, Wallace
esplora il mondo lavorativo legato alle tasse ed a
coloro che vi lavorano. Un’elaborazione testuale che
parte dal tedio e dalla monotonia per raccontare
un’America dai contorni immaginari eppure realistici.
Un ritorno al passato (il 1985 di Reagan) per un libro
visionario in cui ironia, amicizia e surrealismo si
intrecciano con folgorante efficacia.
Il tema dell’autenticità è anche al centro di Come
Diventare Se Stessi, il volume scritto da David
Lipsky in cui è racchiusa una lunga intervista (circa
450 pagine) che il giornalista del Rolling Stone ha
realizzato con Wallace durante il tour promozionale
di Infinite Jest. Una fedele trasposizione testuale in
cui vengono analizzati i dubbi, le paure, le speranze
e le passioni di uno scrittore sensibile e introverso,
innamorato del suo lavoro (e di una stabilità
allora ritrovata) tanto da obbligarsi a non essere
trasportato dal successo commerciale. Un libro che
approfondisce il metodo di lavoro di Wallace così
come le sue esperienze, le dipendenze (in primis
la fascinazione per la televisione) e la vita di tutti
i giorni. Un ultimo appuntamento con lo scrittore
più sorprendente e geniale che l’America abbia
conosciuto negli ultimi anni.
Come Diventare Se Stessi
Minimum Fax
442 pagine | 18,50 euro
Il Re Pallido
Einaudi
714 pagine | 21,00 euro
Now
It’s
Blues I
Arriva il primo album solista
di David Lynch
di Michele Casella
Musica
50
ntimamente affascinato dal suono e dalle
sue infinite possibilità, David Lynch ha curato
con estrema attenzione ogni singolo brano
ed elemento sonoro comparso nelle sue
opere per il grande ed il piccolo schermo.
Fin dai cortometraggi degli esordi risulta infatti
evidente la profonda connessione fra ambiente,
personaggi e musica, elementi che hanno dato vita
a colonne sonore ormai entrate nella storia del
cinema. Con Crazy Clown Time il regista statunitense
raggiunge però un nuovo traguardo e pubblica il suo
primo disco da solista, dando libero sfogo ad una
poetica maturata nel corso degli anni grazie alle
collaborazioni con personaggi del calibro di Angelo
Badalamenti, Marek Zebrowski, Sparklehorse e
Danger Mouse.
L’album si apre sulle note della notturna Pinky’s
Dream, una corsa sulle strade di Mulholland Drive con
Karen O a fare da guidatrice e a districarsi attraverso
i riferimenti new wave e post-punk. È proprio la
vocalist degli Yeah Yeah Yeahs ad interpretare le
inquietudini e la sensualità dell’album di Lynch,
perfetta musa dal temperamento appassionato
e dalla carica romanticamente sanguigna. Con
Good Day Today si passa ad un ambito decisamente
apposto, insistendo sulla ritmica e sulla ballabilità
del pezzo grazie all’interazione con Dean Hurley.
L’ingegnere del suono (già al lavoro con Lynch
durante le ultime prove filmiche) trasforma le liriche
del brano attraverso alterazioni digitali e synth, ma
fornisce un importante contributo anche in So Glad
nella messa a punto delle chitarre e delle incalzanti
percussioni.
L’oscurità prende possesso della successiva
Noah’s Arc, un trip-hop ossessivo e irrequieto che
sembrerebbe ideato per una delle scene domestiche
di Eraserhead, mentre la gelosia assillante è al centro
della splendida Football Game, un blues corrotto e
acidissimo che vibra grazie alle chitarre elettriche
di Lynch. Amore e abbandono restano al centro di
I Know, sbilenca come la camminata di un ubriaco
e allucinata come uno dei video digitali di Inland
Empire, subito sostituiti dalla lunga declamazione
alterata digitalmente che ci conduce attraverso le
speculazioni meditative di Strange And Unproductive
Thinking.
I riferimenti a Kafka di The Night Bell With Lightning
ci riportano al blues straniante di Twin Peaks ed
alle meraviglie a cui ci aveva abituato Badalamenti,
mentre con la ballata These Are My Friends Lynch
si mostra in tutta la sua naturalezza compositiva,
proponendo un quadretto decisamente americano
di amicizia e quotidianità. Una parentesi prima della
parte finale del disco, in cui gli ultimi accecanti flash
notturni ci fanno nuovamente affrontare le ombre
diafane di un artista visionario, perfettamente
sintetizzate nel turbamento oppiaceo della title track.
Ipnotico e destabilizzante, Crazy Clown Time è un
disco seducente ed obliquo, capace di sorprendere e
soprattutto di convincere.
In A Town
Like Twin Peaks
No One
Is Innocent
La colonna sonora
che ha segnato un’epoca
Sono davvero pochissime le colonne sonore della
storia del cinema capaci di entrare nell’immaginario
collettivo con la forza suggestiva di Twin Peaks,
il serial capolavoro nato dalla mente di David
Lynch e Mark Frost. Composta nel 1989 da Angelo
Badalamenti grazie alla complicità del cineasta
americano, questa soundtrack non solo ha saputo
perfettamente condensare l’intero mood del mondo
in cui gravita Laura Palmer, ma è divenuto emblema
di un’estetica, sintesi di un periodo d’oro della
televisione occidentale. Nella musica di Badalamenti
converge il mistero, la sensualità, il terrore e
la tensione, l’erotismo e l’incubo, la dolcezza e
l’amicizia di una piccola/grande società. Ascoltare
Audrey’s Dance e ammirare la voluttà di Sherilyn
Fenn significa semplicemente assistere ad una
delle migliori introspezioni psicologiche della storia
cinema, perché in quella danza ed in quella musica
c’è tutto il personaggio immaginato da Lynch. Il
tema sonoro di Twin Peaks, con la sua dolcezza e
con la sua portata onirica, ha poi marchiato a fuoco
un’intera generazione, colonna sonora di un evento
mediatico che ha unito cultura pop e perfezione
della regia, voyeurismo e genio visionario. La voce
di Julee Cruise è diventa emblema di un dream
pop che non ha epigoni, così elegante e rarefatta
quando attraversa le notti nebbiose ed oscure di una
comune cittadina americana al confine canadese.
Musica
52
Ma la cifra stilista di Badalamenti è tutta nelle
meraviglie jazz di Freshly Squeezed, retta dall’incedere
lento delle spazzole sulla batteria, dal piacevole
vibrafono e dallo schioccare di dita che richiama
alla mente gli abitanti della loggia nera. Una musica
straordinariamente calata nel mistero, sia quando
scandita dal contrabbasso di The Bookhouse Boys, sia
quando addolcita dalle tastiere di Into The Night, che
non a caso si apre con il sussurro delle parole “now
it’s dark”. Eppure in questa musica è presente una
grande vena di romanticismo, tema parallelo alle
tracce scelte da Lynch per caratterizzare alcune delle
migliori scene dei suoi lungometraggi come Song To
The Siren dei This Mortal Coil o This Magic Moment di
Lou Reed.
La colonna sonora di Twin Peaks così come il lavoro
realizzato con Badalamenti e la Cruise è poi alla
base di Industrial Simphony No. 1: The Dream Of The
Brokenhearted, lo spettacolo teatrale che Lynch
ha presentato sul palco della Brooklyn Academy
of Music di New York nel 1989 come parte del New
Music America Festival. La performance rappresenta
un punto di incontro fra il mondo onirico di Laura
Palmer e lo spaventoso incanto di Wild At Heart, dato
che la scena di apertura vede proprio Nicolas Cage
e Laura Dern in una struggente scena di addio fatta
di primissimi piani e meravigliosi giochi d’ombra.
I 50 minuti dello spettacolo rappresentano dunque
il sogno della protagonista dal cuore spezzato,
un musical dall’immaginario allucinato e postindustriale, dove la voce della Cruise si incrocia con la
sinistra figura Michael J. Anderson (il nano della serie
TV) ed una serie di suggestive apparizioni. Tornano
le luci stroboscopiche che ritroveremo in tanti film di
Lynch fino ad Inland Empire, ma soprattutto torna la
musica inserita nei primi due album di Julee Cruise,
con quel misto di dolcezza e pulsione erotica alla
quale si lega il candido pop in stile ember sixties.
A completare la trilogia sonora legata a Twin Peaks
ed ai suoi abitanti vi è poi la colonna sonora di Fire
Walk With Me, il prequel del serial televisivo che
Lynch presentò a Cannes nel 1992 e che venne
generalmente non compreso da una critica disattenta
e decisamente poco informata. Ben più drammatica
ed oscura di quanto ascoltato in precedenza, la
soundtrack rappresenta l’excursus sonoro degli
ultimi giorni di vita di Laura Palmer, un incubo ad
occhi aperti in cui vita sociale, tensioni domestiche
ed elementi soprannaturali convergono in una
discesa agli inferi di straordinaria intensità. Il jazz
torna in primissimo piano grazie ad un Badalamenti
elegante e perfettamente sciolto, anche quando
la forma narrativa di A Real Indication trascina il
nervosismo metropolitano nei sogni di una cittadina
rurale. L’inquietudine musicale raggiunge il culmine
nell’eccezionale Sycamore Trees, dove il pianoforte di
Badalamenti, le liriche di Lynch e soprattutto la voce
di Jimmy Scott ci trasportano nel pieno dell’oscurità
del film, una mescolanza di solitudine e vibrante
ossessione. La voce della Cruise torna in Questions
In World Of Blue, angelica ballata dai tratti spirituali
in cui lo spaesamento di un’adolescente crea
angoscianti mostri della mente. Dal blues-rock di The
Pink Room alla follia nera di The Black Dog Runs At
Night, la colonna sonora mantiene sempre uno stretto
legame con la tradizione statunitense, con le chitare
elettriche e col jazz di inizio secolo. Una raccolta di
assoluta intensità, in cui confluiscono le emozioni e
le passioni di un mondo di fiction che ha senza dubbio
condizionato intere generazioni di spettatori ed
ascoltatori.
Due o tre cose su
David Lynch
È nato a Missoula, nel
Montana
Eagle Scout
Ha ottenuto 3 nomination
all’Oscar per The Elephant
Man, Blue Velvet e
Mulholland Drive
Ha vinto la Palma d’Oro
al Festival del Cinema di
Cannes per Wild At Heart
Leone D’oro alla carriera
al Festival del Cinema di
Venezia
Eccellente pittore, una delle
sue mostre intitolata The
Air Is on Fire è stata ospitata
a Parigi negli spazi della
Fondation Cartier
Nel 2005 ha creato la
David Lynch Foundation
For Consciousness-Based
Education and Peace.
Ha da poco contribuito
all’apertura del Club Silencio,
un nightclub parigino che
ha preso il nome dal thriller
psicologico Mulholland Drive.
Lynch ha progettato gli
interni del club e molte parti
dell’arredamento
Ha collaborato a Dark
Night of the Soul, l’album
di Sparklehorse e Danger
Mouse per il quale ha anche
realizzato un intero book
fotografico
Pratica quotidianamente la
meditazione trascendentale
e la promuove in tutto
il mondo con seminari
specifici. Ha anche scritto
il libro In Acque Profonde in
cui analizza il rapporto fra
meditazione e creatività.
di Michele Casella
Musica
54
In un mercato discografico costantemente saturato,
le esperienze offerte dalle nuove frontiere
dell’autoproduzione si pongono come baluardo di
una libertà espressiva e di una chiarezza di intenti
artistici. Avviene così che la via più semplice e
proficua sia quella di mettere la propria esperienza
all’interno di un gioco più grande in cui anche i
musicisti si riappropriano di una totale autonomia.
Gianluca Petrella, trombonista capace di valicare
le frontiere del jazz grazie ad una naturale
predisposizione verso la contaminazione e l’inaudito,
apre la Spacebone Records nel 2009 e pubblica due
suoi progetti confrontandosi direttamente con la
filiera del disco. Ne nasce un concept di eccellente
coerenza artistica.
Come nasce il progetto di creare una tua etichetta
indipendente?
L’idea parte dal divorzio con la Blue Note, con cui ho
interrotto il rapporto lavorativo dopo un contratto
completato e due dischi all’attivo. Quando mi sono
trovato senza un’etichetta a supportarmi, l’idea
migliore che mi è venuta in mente è stata quella di
aprire una mia label, così da avere il controllo sul
mio prodotto musicale in maniera molto più diretta.
Molto spesso, infatti, non c’è un rapporto chiaro
col produttore nella gestione delle informazioni
riguardanti il disco. Aprire la Spacebone ha
significato avere libertà assoluta e decidere tutto
personalmente, dalla musica all’artwork. Ovviamente
questo occupa del tempo che si va ad aggiungere a
quello del musicista, ma è un lavoro per molti versi
anche divertente.
GIANLUCA PETRELLA COSMIC BAND
Coming Tomorrow Part One
GIANLUCA PETRELLA TUBOLIBRE
Slaves
Omaggio rispettoso ma allo stesso tempo
personalissimo ad una delle figure leggendarie del
jazz mondiale, Coming Tomorrow rappresenta un
risultato assolutamente positivo sia nell’equilibrio
formale sia nella dinamicità compositiva e di
interpretazione. La partenza con il classico Space
Is The Place rappresenta il primo elemento di
commistione fra approccio tipicamente jazz e
irruenza alternative, a cui fa eco la straordinaria
esecuzione del caleidoscopio lisergico di Saturn,
nella quale si alternano visioni cristalline e fantastica
fluidità jazz. Il trombonista italiano crea un proprio
affresco musicale in cui far confluire le inquietanti
cadenze marziali di A Little Beat Waltz con le
intromissioni digitali di Orbital Perc., le trascinanti
accelerazioni di Three Undisciplined Satellites e la
leziosa eleganza di The Second Star To The Right. Una
prova eccellente.
Il viaggio onirico di Slaves parte con una lunga ed
inquieta introduzione, apertura propedeutica alla
materia ossessiva e psicotropa che è alla base di
questo strabiliante esperimento sonoro. Nelle sette
tracce qui raccolte è l’anima del blues ad essere
scomposta e destrutturata, mischiandosi con la
tromba di Mauro Ottolini, le chitarre heavy di Gabrio
Baldacci e le percussioni rutilanti di Cristiano
Calcagnile. Il trombone di Gianluca Petrella indica
la rotta e va a comporre una materia sonora in cui
la collisione fra i singoli elementi infonde entropia
e sorpresa. Si deve però attendere la title track per
arrivare al fulcro dell’opera, pronti a farsi sollecitare
da intromissioni elettroniche, passaggi riflessivi,
suoni cristallini, assalti sonori, elementi orientali e
molto altro ancora. Un album in cui le suggestioni
dominano sull’ascolto razionale e nel quale è
opportuno perdersi in stato di completo abbandono.
Con la Spacebone pubblicherai anche opere di altri
artisti?
Ho pensato di partire dalla mia musica, ma in questo
periodo mi sto guardando intorno. Ovviamente
la selezione è molto rigida, soprattutto in questo
momento in cui i dischi vengon fuori come funghi ed è
molto facile pubblicare un album che vada a saturare
un mercato già sofferente. Non è facile vendere e gli
scaffali sono sempre più pieni di registrazione spesso
discutibili.
Hai pubblicato due album ricercati, coinvolgenti
e differenti fra loro: come li hai concepiti e cosa
realizzerai in futuro su Spacebone?
Sono partito con un bel Coming Tomorrow, un titolo
che aveva anche un filo di polemica nei confronti della
Blue Note; ho aspettato, ho aspettato tanto che questo
disco vedesse la pubblicazione e l’ho voluto rendere
un tributo a Sun Ra, un artista che propongo anche dal
vivo con la mia Cosmic Band.
Ho fatto uscire un altro disco dopo due anni,
questo perché non registro in continuazione. Un
album lo porto con me per sempre e quindi devo
scegliere il momento in cui la musica è chiara e
i meccanismi della band sono fluidi. Slaves l’ho
impostato decisamente su un blues molto personale,
attualizzato, tinto di varie sfaccettature con colori
prodotti anche da apparecchiature elettroniche. Un
personalissimo e attualissimo tributo al blues, mentre
la prossima pubblicazione sarà la seconda parte di
Coming Tomorrow e uscirà a gennaio, in modo da non
incrociarsi con i dischi che escono nel periodo natalizio
e che riempiono gli scaffali con un sacco di fuffa.
Sei soddisfatto del lavoro svolto e dei risultati
ottenuti?
Parliamoci chiaro, oggi si va verso la vendita dei dischi
e dei singoli brani online, e ovviamente si perde il
gusto di avere il cd fisico.
Oggi i musicisti son “costretti” a suonare per poter
guadagnare, anche se per il jazz e la musica colta
l’album fisico continua ad essere venduto. Per esempio
io riesco a divulgare i miei prodotti discografici anche
attraverso i concerti, dove c’è sempre un flusso di
acquirenti interessati.
disfunzioni
musicali
di Giuseppe Panunzio
58
LOS CAMPESINOS!
Hello Sadness
Arts & Crafts/Self
TRENTEMØLLER
Reworked / Remixed
In My Room
Arrangiamenti ottimamente amalgamati
ed una capacità di accelerazione di
altissimo livello sono gli elementi
caratterizzanti di Hello Sadness, il
quarto disco dei Los Campesinos!.
Fondamentalmente basata su
un’accattivante sovrapposizione di
chitarre, la band di Cardiff si muove su
territori sempre più vicini a quelli degli
Arcade Fire ma puntando in maniera
decisa sull’accezione melodica dei
dieci brani raccolti. Partendo da una
proposta pop-rock, i sette membri della
band sviluppano un percorso sonoro
che passa dal folk all’indie, portando
alla ribalta il brit-beat più concitato
degli anni ‘90/’00 e dandogli nuovo
smalto. Non mancano gli attacchi
decisamente elettrici, gli intrecci vocali,
i muri di suono e la dolce malinconia
di un cantato romantico e determinato,
scandito da tappeti ritmici sempre
coinvolgenti. Un disco corale ed
espansivo, capace di entrare facilmente
in testa, eppure maturo nella capacità di
scrittura e nella coerente produzione.
In un gioco di rimandi e citazioni, colpi
di genio e deja-vu, eleganza e fragore,
Trentemøller ci guida attraverso 22
tracce raccolte fra remix e versioni
alternative. Un doppio album in cui
gli oscuri romanticismi del postpunk si aprono ad un’elettronica
spesso delicata, talvolta giocosa e
dall’impronta decisamente indie, nei
migliori casi dotata di un tappeto
ritmico coinvolgente e dai tratti
ballabili. Notevoli i nomi che si
alternano all’interno dei credits,
da Unkle a Weatherall, dai Franz
Ferdinand agli Efterklang, per una
compilazione ben equilibrata e perfino
omogenea. Trentemøller si mostra
ancora una volta perfetto interprete
del contemporaneo, interprete di
quei suoni e quelle suggestioni che
attraversano la scena europea.
Pianozone
Torna a novembre a Bari “Time Zones
– Sulla via delle musiche possibili”, la
rassegna che da ventisei anni si segnala
come uno degli appuntamenti più innovativi
del panorama italiano. Un palcoscenico di
debutto per il nostro Paese di molti grandi
maestri della musica del 900, ma anche
un costante laboratorio per produzioni
originali.
Facciamo il punto sull’odierna situazione
musicale assieme a Gianluigi Trevisi,
direttore artistico del festival che
quest’anno è incentrato su uno strumento
musicale senza tempo: il pianoforte.
di Annarita
Annarita Cellamare
Cellamare
Musica
60
Esiste un fil rouge che ha legato fra loro tutte le 26
edizioni?
Sono gli artisti stessi a fare da collante fra ogni
edizione, con la loro attitudine da uomini curiosi.
Abbiamo sempre cercato artisti che lavorano con
la musica immaginandola come un fenomeno
in perenne evoluzione. Spesso la musica è un
gioco di bricolage, di assemblaggio di materiale
preesistente, tecnica importante laddove il risultato
proponga strade nuove. Purtroppo oggi i musicisti
tendono spesso a riproporre materiale scontato,
piatto. Siamo nella “cover age”. Da Kurt Cobain in
poi è tutta roba già vista. Forse lui è stato l’ultimo a
sperimentare, era un personaggio che aveva molto
da dire. L’elettronica è un campo che si è prestato
molto più alla manipolazione di suoni e frequenze.
Il campionamento è dichiarato, ma la frequenza e
l’effetto sono sempre diversi sull’ascoltatore.
Quest’anno il protagonista assoluto è il piano,
strumento musicale che rievoca compositori senza
tempo, ma che per sua “conformazione” strumentale
risulta un mezzo ancora valido per sperimentare…
Fra tutti gli strumenti, il piano è l’unico che ancora
(e meglio d’altri) riesce a cogliere ed interpretare
il senso di disagio e malinconia che connotano il
nostro tempo. Inoltre c’è una generazione di pianisti
che proviene da esperienze molto forti del rock
indipendente, gente che ha studiato al conservatorio
ma poi è stata affascinata dall’hardcore, dal rock o dal
A sinistra Vladislav Delay
In basso
Agnes Obel
punk. Sono questi artisti che riescono a rimarginare
lo strappo tra musica colta e popolare, tramite
un processo di riappacificazione portato avanti da
personaggi come Bollani, Einaudi o Allevi. Una sorta
di “pianismo classico contemporaneo”, un ossimoro
che esplica al meglio ciò che stanno realizzando.
Fra gli artisti in programma ci sono Yann Tiersen,
Nils Frahm, Dustin O’Halloran e Agnes Obel, un
corollario di giovani e grandi compositori di fama
mondiale. C’è un compositore in particolare che siete
soddisfatti di ospitare?
Personalmente mi piace molto Nils Frahm, ma
abbiamo cercato di declinare questo uso del piano in
ogni direzione: ci sono artisti legati all’immagine e ai
suoni evocativi, ma c’è anche il progetto straordinario
di Bugge Wesseltoft (punto di riferimento dell’electrojazz norvegese) ed Henrik Schwarz (nome di punta
dell’house berlinese). La loro è una contaminazione
suggestiva ed estremamente moderna, e mostra
come i due estremi possano convivere senza risultare
stridenti.
C’è ancora qualche artista che speri di portare nei
prossimi anni a Time Zones?
Direi Max Richter, talentuoso compositore tedesco.
Molti lo hanno apprezzato per le canzoni della
colonna sonora di Shutter Island, il film di Scorsese, e
siamo già in contatto con lui per farlo suonare a Time
Zones.
PROGRAMMA
NOVEMBRE
04 PIANO CIRCUS
12 AZITA + VLADISLAV DELAY
13 VALERIO VIGLIAR + BETAM SOUL
15 YANN TIERSEN band
17 DIEGO MORGA + AGNES OBOEL
18 SYNUSONDE
+ BUGGE WESSELTOFT & HENRIK SCHWARZ
19 NILS FRAHM + DUSTIN O’HALLORAN
www.timezones.it
Etichette indipendenti insegnano
alle major come divertirsi
di Daniele Raspanti
Hi-Tech
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Machinarium
(Windows, Mac)
Uscito quasi in sordina, mentre sul web spopolavano
i “Flash games”, Machinarium è l’esempio di come
uno sviluppatore indipendente può creare un’idea
vincente e innovativa senza troppe pretese. Sviluppato
come un “Flash game” più complesso, Machinarium
è un’affascinante avventura grafica, arricchita da una
trama piacevole da seguire, da numerosi puzzle e da
uno stile grafico molto particolare.
Tutti i componenti del gioco, dai personaggi principali
ai fondali, e persino i menu, sono fantastici disegni a
mano riportati su computer. Bastano pochi secondi
di gioco e si rimane incollati allo schermo per ore,
seguendo le avventure del robot protagonista con
continua curiosità. Volendo cercare un punto debole
in questa produzione, si può dire che il prodotto
di Amanita Design, una volta finito, è difficile dal
poter essere rigiocato una volta portato a termine.
Gli enigmi possono essere risolti sempre e solo
nello stesso modo, e non ci sono storie o percorsi
alternativi.
Promozione a scuola. Compleanno. Natale. O solo
voglia di farsi un regalo. I motivi per acquistare un
gioco possono essere tanti … talvolta anche la noia!
Entriamo, guardiamo gli scaffali con gli ultimi titoli.
Lanciamo anche una rapida occhiata alle offerte. Ma
poi la nostra mano cade su uno dei titoli di punta, sulla
grande produzione, quella che vediamo nelle pubblicità
in TV o sui giornali, o semplicemente ne sentiamo il
nome durante una chiacchera con amici. Torniamo a
casa, eccitati e curiosi, scartiamo il cofanetto, inseriamo
il CD/DVD/Bluray. Istanti memorabili. I personaggi ci
sembrano veri, e l’atmosfera ci trasporta nel gioco
immediatamente. Primo pensiero: SOLDI SPESI BENE.
Sei ore dopo (se siamo fortunati): gioco finito.
L’emozione era già svanita dopo la prima mezz’ora. E
ora che abbiamo visto la sequenza finale, non abbiamo
voglia di rigiocare. Quel cofanetto rimarrà a prendere
polvere…
Dopo generazioni di continua evoluzione tecnica, il
“videogame” si è avvicinato sempre più ad un film,
diventando un prodotto da “guardare”.
Grazie ai social network (Facebook su tutti), ai nuovi
smartphone e ai casual-games online, la tendenza
sta cambiando, per somma gioia dei giocatori.
Giochi gratuiti o previo pagamento di piccole somme
spopolano sulla rete. Non possono competere con
i grandi colossi, è vero, ma dalla loro parte hanno
una caratteristica di tutto riguardo: fanno divertire
il giocatore! Piccoli sviluppatori indipendenti danno
lezioni di divertimento ai colossi dell’industria
videoludica.
Solo una bella favola? Provare per credere, e magari
divertirsi un po’! Titoli come Machinarium (forse uno
dei principali esponenti del filone “indie”), Bastion,
The Dream Machine o The Witness sono l’essenza del
gioco stesso, fatto per divertire e stupire. Sono state e
saranno le possibilità di numerosi artisti per proporre
il loro stile rimanendo liberi da regole del mercato.
Evoluzione? Rivoluzione? Non mancano. Supebrothers
Sword & Sworcery EP è un mix perfetto di generi e
sperimentazioni, che unisce ad una grafica “pixel”
in stile anni 80 una colonna sonora di tutto rispetto
(ovviamente, indipendente).
Non ci sono quindi solo grandi case e produzioni
milionarie nell’industria videoludica. Le etichette
indipendenti esistono, sviluppano e fanno sentire la
loro voce con prepotenza. E, a giudicare dall’ultimo
IndieCade (International Festival of Independent
Games), le idee per altri futuri capolavori non
mancano. State ancora guardando la scatola
dell’ultimo best seller acquistato e che avete finito in
4 ore? Immaginate cosa potevate aver per lo stesso
costo: molti titoli diversi, molte ore in più di gioco e
tanto divertimento.
Superbrothers Sword & Sworcery EP
(iPad, iPhone, iPod Touch)
Hi-Tech
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Le cose più belle sono le più semplici. Una filosofia
ben nota al team composto da Superbrothers, Capy
e Jim Guthrie. Una collaborazione che ha prodotto
il superbo Superbrothers Sword & Sworcery EP,
gioco profondo, semplice, innovativo e dalla forte
personalità.
Se gli utenti dei touchscreen Apple erano alla ricerca
di qualcosa di veramente unico da usare nel tempo
libero o da mostrare agli amici, questo è IL TITOLO
per eccellenza, da avere e custodire gelosamente.
Definito come “... an unlikely mix of Zelda and art
house cinema. The game is equal parts Robert E.
Howard, Shigeru Miyamoto, Tim Schafer, with some
David Lynch thrown in for good measure — but there
is more to SS&S than these inspirations”, SS&S
riprende uno stile pixel-art ormai abbandonato
in favore del fotorealismo a tutti i costi. Stile che
i ragazzi di Superbrothers hanno definito “I/O
Cinema”.
Il tutto accompagnato da una colonna sonora
“confezionata” per l’occasione da Jim Guthrie,
compositore e musicista già conosciuto nell’ambito
gaming. Un accoppiata tra SS&S e Guthrie che
definisce il gioco come il suo “videogames EP”
(disponibile su iTunes l’album completo, o su vinile
dal titolo Jim Guthrie’s Sword & Sworcery LP: The
Ballad of the Space Babies).
Descrivere SS&S è difficile. Ma è certo che vale ogni
centesimo del suo costo su AppStore. Non a caso, è
vincitore del premio Achievement in Art all’IGF Mobile
2010 (per quanto, all’epoca, fosse ancora in fase di
sviluppo).
Bastion
(Window, Xbox LIVE Arcade)
The Dream Machine
(Windows, Mac, Linux)
Guardandolo per la prima volta, si stenta a
credere che sia una produzione di una piccola
casa indipendente (la Supergiant Games, di ben 7
componenti). Eppure, i fondali disegnati a mano (ad
alta risoluzione), la trama e una colonna sonora che
si sposa perfettamente con tutto il gioco, sono di
altissimo livello!
Bastion narra le vicende di Kid e dei pochi superstiti di
un mondo andato distrutto. Il Bastion (da qui il nome
del gioco) è l’unico luogo capace di riportare in vita
tutto ciò che si è perduto. Una trama che dalle prime
battute sembra essere scontata, ma che man mano
attrae e trasporta fino al bellissimo finale.
Un titolo che sviluppa ogni singolo componente,
dalla gestione del personaggio fino alle missioni
alternative, con una maestria difficile da immaginare
per un team così giovane e piccolo. Le note della
splendida colonna sonora vi culleranno durante
tutto il viaggio di Kid. Si rimarrà spesso incantanti
nell’ammirare lo splendido lavoro fatto dai grafici su
sfondi e personaggi, ma ricordatevi che il gioco deve
continuare! Per fortuna, i momenti di azione saranno
interrotti da brevi cutscene, che ci permetteranno di
gustare trama e disegni senza preoccuparci di ciò che
dobbiamo fare sullo schermo.
E se lo avete finito… provate a ricominciarlo!
Finalista all’Indipendent Games Festival 2011, Finalista
al Develop 2011, Finalista INDIECADE Festival 2011,
vincitore del concorso IntoThePixel 2011 (vicino a
nomi di software house più blasonate), Best Art Award
all’Indiepub’s third indipendent developers competition.
Se però i premi non vi interessano, provate e guardate
voi stessi.
The Dream Machine è un classico gioco di avventura
vecchio stile e… no, qui non ci sono nemici a cui
sparare o tombe antiche da profanare. Ma a parte la
semplicità (per niente a sfavore del giudizio finale), la
bellezza di The Dream Machine risiede nell’immenso
lavoro svolto dagli sviluppatori. Ogni location, ogni
personaggio e oggetto che incontrerete durante la
vostra avventura non è stato generato al computer,
ma dalle abili mani degli artisti che con argilla,
pittura, modellini e cartone hanno creato tutto il
mondo di The Dream Machine.
Giocabile online sul sito ufficiale o scaricabile previo
pagamento (meritato) per chi vuole provarlo anche
senza connettersi, lo sforzo (è proprio il caso di dirlo)
dei ragazzi della Cockroach Inc. è un chiaro esempio
della presenza di artisti e sviluppatori indipendenti
che alimentano il mercato video ludico ormai a corto
di idee.
ITALSERVICES S.p.A.
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