SOMMARIO
Da un convego, a lui dedicato, tenutosi all’Università di
Firenze il 13 e il 14 maggio 1994, cogliamo l’occasione per
ricordare in questo numero l’opera e l’insegnamento di vita
di uno dei più importanti rappresentanti della filosofia
italiana del ‘900, Cesare Luporini, scomparso il 25 aprile
del 1993. Ad aprire il ricordo vorremmo chiamare un
preciso momento della biografia intellettuale di Luporini;
un momento a cui egli stesso era tornato poco prima della
sua scomparsa, con l’intenzione di ripubblicare in versione
originale gli scritti contenuti in Situazione e libertà nell’esistenza umana, opera di concezione esistenzialistica, apparsa nel 1942, che raccoglieva un decennio di studi e confronti
di Luporini su Heidegger. A prepararne l’uscita avevano
provveduto, nel 1941, tre significativi interventi di Luporini
sulla rivista «Argomenti», prima che questa fosse soppressa dal regime fascista: Esistenza I, II e III. A testimonianza
dell’impegno filosofico di Luporini in quegli anni presentiamo qui di seguito l’ “Avvertenza” del 1941 a Situazione
e libertà nell’esistenza umana, di cui nel 1993 è stata
pubblicata, com’era peraltro desiderio di Luporini, una
nuova edizione presso gli Editori Riuniti di Roma.
assoluta, libera iniziativa. L’assolutezza dell’iniziativa è il
realizzarsi della “persona”.
Per questa ragione, per questa pregiudiziale irriducibile
dell’iniziativa personale, se la sostanza e la spinta del
presente lavoro - e non poteva esser altrimenti, per l’ambiente storico in cui sorge, per le domande a cui particolarmente risponde - è nel pensiero italiano contemporaneo,
tuttavia il suo accento batte sulla componente «esistenziale». Non si tratta di un innaturale (antistorico) trapiantamento fra noi di un pensiero nato sotto altri climi, a risolvere altre
esigenze e a rispondere ad altre domande, ma dell’urgere, nel
modo e nel dramma stesso dei nostri problemi, di un’esigenza
speculativa che crediamo comune a tutta la coscienza occidentale e il cui imporsi non è che l’espressione e il frutto, come
sempre, di un particolare travaglio morale.
In questo senso l’esistenzialismo si oppone ad ogni sorta di
provvidenzialismo, storicismo ed automatismo spirituale e
materiale, e si presenta come rivendicazione dell’incarnato
individuo e nell’individuo della persona come incondizionata
iniziativa. Nell’unificazione teoretica che esso costituisce e
che, come tutte le unificazioni teoretiche, come tutte le filosofie, è provvisoria e storicamente condizionata, esso esprime
una precisa “volontà speculativa”: porsi sul limite della finitezza e quivi mantenersi e di qui far parlare la realtà e i valori.
Ma porsi e mantenersi sul limite della finitezza significa nello
stesso tempo trascenderlo e con ciò ritrovare “in concreto”
l’essenza stessa dell’esistente che non solo e non tanto è limite
quanto trascendenza del limite, non solo e non tanto è “essere”,
quanto cointeressamento all’essere, e quindi, innanzi tutto,
essere il proprio essere come dischiusa possibilità. La così
determinantesi possibilità è, vedremo, nell’esistente umano, la
libertà, identica quindi alla sua trascendenza; la dischiusura di
essa il suo imporsi come assoluto valore. L’autovalere dell’assoluto valore non ha dunque la sua realtà in un sopramondo
«eterno», sia esso di «forme» o di categorie, comunque intese,
o di determinati, o determinabili contenuti assiologici, ma si
radica nell’autointeressamento esistenziale dell’esistente come
pensante. Il dischiudersi della possibilità umana come imporsi assoluto del valore presenta l’uomo come “compito”.
Tale la sua essenza: il compito dell’uomo è, vedremo, la
persona stessa. Ma questo compito ha non solo una «dignità», ma una realtà e una funzione - e quindi anche una
responsabilità - “cosmica”. Ritroviamo qui, ma libero dagli
impacci e dalle antinomie del deteriore razionalismo, l’immortale primato della ragione pratica. In questo senso
l’esistenzialismo che presentiamo è, consapevolmente, un
momento dell’odierno «ritorno a Kant», a quel Kant che
tenacemente si mantenne sul limite della finitezza.
Se il mantenersi ostinatamente sul limite della finitezza è il
vero e unico modo di trascenderlo, se questa trascendenza,
come trascendenza umana, è libertà, ogni filosofia che sia
fedele a quel limite e quindi all’uomo e quindi al proprio
compito, e non tradimento e svisamento di esso, è realizzazione di libertà. Come tale essa impegna l’uomo e in questo
impegnarlo - al di là della sua contingente formulazione - sta
l’assolutezza della sua verità. Non dunque nel suo sempre
provvisorio contenuto teoretico, ma nella illuminata fede
con cui questo contenuto vien accolto nell’animo e vi si fa
operante valore.
Questa filosofia nasce alla confluenza dei tre più vivi
movimenti del pensiero contemporaneo: l’idealismo italiano, la «filosofia della vita» e la filosofia esistenziale. In
questo libro non si presume propriamente di dir nulla di
nuovo: chi dica la parola “nuova”, ossia il rivelatore di nuovi
valori, è apparizione tanto rara quanto fondamentale nella
storia umana. Ma il suo apparire e il suo esser-apparso è
sempre condizionato dalla possibilità storica di accogliere
la sua parola e quindi, in un’opera comune, da un indefesso
travagliarsi, maturarsi e rinnovarsi della coscienza di tutti.
In questo travaglio le parole già dette continuamente si
rinnovano e si rinnovano per non perire, per non perdere
cioè la loro pregnanza vitale e assiologica. Ma questo loro
perenne rinnovarsi non è svolgimento automatico della
coscienza o, come da taluni si dice, dello «spirito» - fatale
e provvidenziale storia - bensì compito di tutti e di ognuno,
opera singola in quanto opera comune, ma opera comune
come perenne chiarificazione da parte del singolo della
sempre e soltanto “propria” esperienza. In questo senso
dunque iniziativa singolare e non cedibile responsabilità.
Nella detta opera il filosofare s’impone come l’imporsi
stesso del valore della libertà. L’esigenza sua è l’esigenza
della perenne chiarificazione della situazione storica in cui
ci troviamo, ed è, come tale, esigenza della ragione in
quanto esigenza insieme della libertà e di libertà. La situazione storica non è meno speculativa (metafisica) che etica,
non è meno politica ed economica che estetica: nella sua
fattuosità sempre da superarsi, nella “naturalità” in cui, di
punto in punto, la storia si rapprende e s’irrigidisce, sono
implicati e coinvolti tutti i momenti umani, e da essa vanno
di volta in volta sempre nuovamente liberati. Questa liberazione, il cui atto parte dall’intimo e nell’intimo rifluisce, è
appunto quel compito comune come compito singolare. La
situazione ci diventa, di momento in momento, “destino”,
ma nell’imporsi in essa del valore la situazione stessa si
scioglie e si fonde nel nostro atto: e il destino diventa
2
SOMMARIO
5 PROFILO
45 Detti e scritti da Foucault
5 In ricordo di Cesare Luporini
46 Razionalità e religione in Kant
15 SCHEDA
47 L’essenza del cristianesimo in Feuerbach
15 L’Istitutodi Filosofia di Palermo
48 Lettere di Epicuro
48 Biografie nietzscheane
17 AUTORI E IDEE
49 NOTIZIARIO
17 Le ‘letture’ di Ricoeur
17 Le prove dell’esistenza di Dio
18 Budda e il buddismo
51 CONVEGNI E SEMINARI
19 Il pensiero politico di Oakeshott
51 Augusto Guzzo nel centenario della nascita
20 Dilettanti e viandanti nel romanticismo
53 Rivoluzioni concettuali
21 Terra-Patria invece di non-luoghi
54 Il confronto tra le culture
22 Herzen e la sua filosofia
56 Scritture del pensiero
22 In onore di Hermann Schmitz
56 Individuo e tradizione in Popper
23 Rivoluzioni in geometria
57 Su nazione e nazionalismo
23 L’etica nell’età della tecnica
58 Le frontiere dell’antropologia
25 La teoria della scelta razionale in Nozick
60 ‘Philosophia naturalis’
26 Bergson, o la filosofia come scienza rigorosa
61 La riforma di Lutero
26 Linguaggio ed evoluzione naturale
64 Viaggio come esperienza religiosa
27 Frank: lo stile della filosofia e la questione del mito
65 Avventure della verità: da Hegel a Goodman
66 Parmenide e dopo Parmenide
68 Melantone e il suo tempo
29 TENDENZE E DIBATTITI
29 Su Foucault
69 CALENDARIO
30 La filosofia del linguaggio di Davidson
32 Geofilosofia
33 Su Nietzsche
71 DIDATTICA
36 Hobbes, e oltre
71 La filosofia insegnata
37 Su Marx e il marxismo
71 Filosofia per ragazzi
38 Sul pregiudizio morale e il diritto alla vita
73 Per diventare cittadini
39 PROSPETTIVE DI RICERCA
75 STUDIO
39 Spet: ermeneutica ed estetica
75 Filosofia anglo-sassone
41 Etica e diritto in Fichte
75 Felicità e piacere nei greci
42 Heidegger di fronte a Hegel
77 RASSEGNA DELLE RIVISTE
42 Heidegger nella biografia di Safranski
43 Leibniz e la teodicea
81 NOVITÀ IN LIBRERIA
44 Epistemologia ed empirismo logico
45 Per una storia filosofica dell’infinito
3
PROFILO
Cesare Luporini (foto di G. Giovannetti)
4
PROFILO
Nei giorni 13 e bandono dell’orizzonte del comunismo né
14 maggio il disimpegno politico) ed il ritorno agli
1994, nell’Au- studi leopardiani. Si tratta, verrebbe da
la Magna del- scrivere, di scansioni politico-esistenziali
l’Università di della stessa ricerca teorica di Luporini. Un
Firenze e in Pa- altro allievo di Luporini, Aldo Zanardo,
lazzo Medici- ha preso le mosse da un’espressione gramRiccardi, si è sciana in cui la domanda su cosa sia l’uomo
tenuto un con- si trasforma in quella su cosa l’uomo possa
vegno su “Il diventare; un tema in cui si saldano idealdi Luca Fonnesu
pensiero di Ce- mente le riflessioni di filosofia esistenziale
sare Luporini”, a circa un anno dalla sua del giovane Luporini con il successivo inscomparsa. Dei due ambiti in cui Cesare serimento del problema dell’uomo - e della
Luporini fu attivo protagonista - la filoso- sua emancipazione - nella prospettiva della
fia e la politica - il convegno, organizzato trasformazione della società.
dal Dipartimento di Filosofia, si è soffer- Nel suo intervento Stefano Poggi ha preso
mato prevalentemente sul primo, anche se in esame lo scritto della fine del 1941,
numerosi - e con ragione - sono stati i Situazione e libertà nell’esistenza umana.
riferimenti a quell’attività politica che Lu- Si tratta di un testo, nelle parole di Poggi,
porini non abbandonò mai, nelle diverse che costituisce «il documento più denso e
forme e sui diversi piani che ciò ha com- ricco del dibattito intorno alla filosofia
portato per la sua generazione.
Al binomio filosofia-politica ha
fatto riferimento Norberto
Bobbio, in una testimonianza
che è stata letta in apertura,
nonostante la sua assenza (assente, per motivi di salute, anche l’altro illustre coetaneo di
Luporini, Eugenio Garin). A
Bobbio e Luporini, che successivamente scelsero strade filosofiche e politiche diverse, è
stata comune in origine, sotto
la dittatura, l’adesione all’esistenzialismo come filosofia
intervengono
della libertà e, parallelamente,
Stefano
Poggi
e Sergio Landucci
l’adesione al gruppo liberalsocialista insieme con Guido Calogero e Aldo Capitini. E’ il
Luporini filosofo, dunque, che
è stato al centro dell’interesse
di questo convegno, nei diversi
aspetti della sua riflessione: la
filosofia esistenziale, gli studi
a cura di Riccardo Ruschi
di storia della filosofia, l’interpretazione di Marx e, certo non
meno importanti, gli studi su Leopardi, ai dell’esistenza nel nostro paese». Libertà,
quali Luporini era tornato negli ultimi anni, temporalità, finitezza sono i concetti cendopo l’importante saggio del 1947, con trali del libro di Luporini, consapevolmenrinnovata intensità.
te presentato come elemento di un “ritorno
La relazione di Sergio Landucci, che ha a Kant”, e Kant è ben presente nell’interaperto i veri e propri lavori, ha mantenuto vento di Poggi. Ma non solo. Poggi ha
unite filosofia e politica, mostrandone le sottolineato più volte l’originalità della
reciproche relazioni in un percorso intel- posizione luporiniana anche in relazione a
lettuale segnato da questa “duplice fedel- quello Heidegger che dieci anni prima
tà”. L’itinerario che ne è emerso non ha dell’uscita di Situazione e libertà Luporini
offerto però un’immagine conciliatoria, aveva ascoltato direttamente a Friburgo,
un percorso non tormentato; al contrario. poco prima dello sciagurato discorso retDalla relazione tra filosofia e politica in torale del 1933. Ancora più netto, il confiLuporini si mostra una continua tensione ne tracciato da Poggi, lo è stato rispetto a
che è stimolo intellettuale, e che segna la Bergson, che pure su altro esistenzialismo
periodizzazione proposta da Landucci, mo- - quello di Sartre - eserciterà un’influenza
tivandone le datazioni. Le “svolte” della decisiva; e vale la pena di ricordare, a
biografia di Luporini sono al tempo stesso questo proposito, il giudizio negativo sulla
svolte dell’uomo - anche politicus - e del filosofia di Sartre, espresso e ribadito più
filosofo: il 1943-45, il 1966, con l’immer- volte da Luporini, da ultimo nel testo edito
sione “dentro Marx”, il 1977, con il pro- di recente nel fascicolo dedicato a Luporigressivo abbandono di questa prospettiva ni in «Critica marxista» della fine del 1993.
(che non comportò, com’è noto, né l’ab- Intervenendo su “Le radici del marxismo
Il pensiero
di
Cesare Luporini
In ricordo
di
Cesare Luporini
5
di Cesare Luporini”, Nicola Badaloni ha
cercato di ricostruire l’unità della ricerca
filosofica di Luporini attraverso i diversi
momenti della sua riflessione, dall’interpretazione dello Hegel di Libertà e destino, attraverso la lettura di Leopardi, fino
all’esegesi dei testi di Marx e quindi alla
polemica sullo storicismo - di cui Luporini
fu protagonista - che caratterizzò il dibattito teorico del marxismo italiano negli
anni Sessanta. Antonio Prete, che ha affrontato il rapporto, o il confronto, di Luporini con Leopardi, ha preferito non soffermarsi troppo sul classico saggio del
1947 - uno studio che contribuì ad inaugurare una nuova stagione di studi leopardiani - per prendere invece in esame il ritorno
a Leopardi del Luporini degli ultimi anni,
un ritorno in cui il filosofo italiano, ha
detto Prete, ci ha offerto una mappa delle
questioni centrali del pensiero di Leopardi: una topica del sentire, il
concetto di “virtù”, il peculiare
nichilismo leopardiano, l’esperienza della rappresentazione
dell’infinito.
La seconda patria di Luporini,
almeno dal punto di vista intellettuale, fu certamente la Germania; egli fu lettore di tedesco
alla Scuola Normale di Pisa,
ma, ancor più, tedesco fu il suo
humus intellettuale: in Germania egli fece l’importante esperienza degli anni ’30, con
Heidegger e Hartmann, e tedeschi sono i filosofi i cui testi
egli sottopose ad analisi e nelle
lezioni e negli scritti, fin da
quel volume sui Filosofi vecchi
e nuovi (1947), in cui mentre
proponeva un Leopardi “progressivo”, leggeva e commentava Kant, Fichte, Scheler, e
presentava un testo suggestivo
come il già ricordato Libertà e
destino di Hegel. Uno specialista come Claudio Cesa si è assunto il non
facile compito di “ricomporre” il confronto di Luporini con la filosofia classica
tedesca, alternando le esegesi luporiniane
alle ascendenze italiane e tedesche presenti nel bagaglio concettuale di Luporini.
Al materialismo di Luporini, che fu il
materialismo di Marx, ma anche quello di
Leopardi, ha dedicato una puntuale analisi
Sandro Nannini, che ha rilevato innanzitutto la polivalenza semantica della nozione di materialismo e in generale nei diversi
contesti storici e in particolare nell’uso
fattone da Luporini. Tralasciando qualche
indulgenza eccessiva per il materialismo
“dialettico”, al significato di “realismo” il riconoscimento di una realtà fisica indipendente - si affianca in Luporini il significato di un “naturalismo” che però - da
Situazione e libertà fino agli scritti su
Marx - non è mai riduzionistico: l’uomo è
sì natura, ma è anche libertà (ed anche a
questo riguardo sia lecito menzionare Kant).
PROFILO
L’ultima relazione del convegno è stata
tenuta da Furio Cerutti, che ha preso in
esame il pensiero politico di Luporini,
visto da Cerutti come una «sovradeterminazione della politica da parte della filosofia». Parallelamente ad una concezione
standard, classicamente marxista, dei rapporti politici, Cerutti ritiene di poter rintracciare in Luporini alcuni “scarti” rispet-
to ad essa: il rifiuto della necessità della
“transizione” e lo spazio della soggettività, il riconoscimento del problema dell’autodistruzione del genere umano, il rilievo
dato al mutamento culturale.
Tra i numerosi interventi, ne menzioniamo soltanto uno per il garbo con cui è stato
proposto dal poeta Mario Luzi. Luzi ha
ricordato un incontro con Luporini in cui i
due, alla richiesta di menzionare un passo
che essi considerassero rappresentativo della loro biografia intellettuale, avessero
l’uno, Luzi, pensato ad un passo delle
lettere paoline, e l’altro, Luporini, ad un
passo del Kant morale. Si sono così accomiatati, ciascuno compiaciuto della propria scelta e della propria specifica identità.
Bibliografia delle opere in volume di Cesare Luporini
Situazione e libertà nell’esistenza umana,
Le Monnier, Firenze 1942 (2a ediz. Sansoni, Firenze 1945; poi col titolo Situazione e
libertà nell’esistenza umana e altri scritti,
Editori Riuniti, Roma 1993).
Filosofi vecchi e nuovi: Scheler-HegelKant-Fichte-Leopardi, Sansoni, Firenze
1947 (2a ediz. Editori Riuniti, Roma 1981
senza il saggio Leopardi progressivo ,ripubblicato separatamente presso lo stesso
editore nel 1980, del quale si veda ora la
Nuova ed. accresciuta 1993).
La mente di Leonardo, Sansoni, Firenze 1953.
Voltaire e le “Lettres philosophiques”,
Sansoni, Firenze 1955 (2a ediz. Einaudi,
Torino 1977).
Tra gli interventi al convegno di Firenze su Cesare
Luporini, riportiamo qui di seguito la relazione di
Stefano Poggi e parte di quella di Sergio Landucci.
Spazio e materia in Kant. Con una introduzione al problema del criticismo, Sansoni,
Firenze 1961.
Dialettica e materialismo, Editori Riuniti,
Roma 1974.
Marx et sa critique de la politique (con E,
Balibar e A. Tosel), Maspero, Paris 1979.
tamente spontanea di quella che potremmo dire con
termine fichtiano una «autoattività» - «gratuità», avrebbe
detto Luporini - che muove dal nostro interno e che da
esso, come da un nucleo non scindibile, si irraggia.
L’esame del “qualunque esistere”, con cui si avviano le
indagini di Situazione e libertà nell’esistenza umana,
muove dal dato di fatto di una coscienza individuale che
ci si presenta con i caratteri di una «centralità implicita,
originaria e indistinta», nella cui «preminenza» consiste
appunto il carattere dell’individuo3. Carattere che è peraltro afflitto da una costituzionale paradossalità, dato
che l’individuo - di cui connotato fondamentale mostra
l’essere atto, l’agire - è in realtà possibile nel suo nascere,
nel suo cominciare ad essere tale solo a condizione di
essere già un “fatto” in quanto appartenente ad una specie
e da tale appartenenza stessa reso possibile : «il nostro esser
di fatto (nati) s’identifica col nostro appartenere ad una
specie. Questa déutera ousía è alla nostra origine e la
portiamo in noi, irrimediabilmente. Siamo sintesi “a priori”
di noi stessi e di specie, di spontaneità e di esser di fatto»4.
L’esperienza dell’individualità - gravata da un’impronta
di “naturalità” sulla quale bisognerà tornare - deve essere
vista nella sua intima connessione con quella della soggettività - «chiave del nostro mondo»5. Se l’individuazione, la «preminenza del centro» e la priorità della soggettività sono inseparabili dal punto di vista del problema
ontologico che esse pongono, è anche chiaro che il tratto
costitutivo dinamico e produttivo (la «attuosità» del
darsi, dell’esserci dell’individualità) non può ricevere
una specifica accentuazione dal prendere rilievo delle
operazioni della soggettività6. Nessuna confusione tra «attuosità» e soggettività, che altro non sarebbe che «un
impacciante residuo di vecchio gnoseologismo»7; ma, in
ogni caso, ciò che va sottolineato è che la vita dell’individuo
uomo è un esistere come «autorelazione» o «interna relazione»8 che solo con la cosciente assunzione del punto di vista
della centralità (e dunque della soggettività coscienziale)
può essere esaminato e compreso nella sua capacità di
avvertire e nel contempo trascendere - come persona - i
limiti in cui è ristretto in quanto «individuo naturale»9,
destinato a soccombere alla «detrazione temporale».
È stato in uno dei suoi ultimissimi scritti1 che Cesare Luporini
ha parlato - e, in forma pubblica,
non era fino ad allora mai avvenuto - del suo incontro con la
filosofia dell’esistenza, anzi con
la filosofia dell’esserci, del Dasein nella sua prima e fondamendi Stefano Poggi
tale forma, e cioè con la filosofia
di Heidegger, dello Heidegger di
Sein und Zeit e del Kant und das Problem der Metaphysik. E sono pagine che tutti noi - o, almeno, credo che così
sia stato per tutti coloro che appartengono alla mia
generazione - abbiamo letto con estremo interesse: l’autore di quello che molti di noi hanno sempre pensato
essere il documento più denso e ricco del dibattito intorno
alla filosofia dell’esistenza nel nostro paese ci ha voluto
fornire di alcune coordinate essenziali per dare collocazione e forma a quelle impressioni, a quelle suggestioni,
a quelle supposizioni che erano nate in chi aveva affrontato le analisi di Situazione e libertà nell’esistenza umana
e aveva immediatamente percepito quanto fosse difficile
collocare quel libro in una costellazione filosofica solo
italiana, ancorché fosse ovvio che in esso si cercava di
dare risposta a molti dei più gravi nodi problematici in cui
il neoidealismo italiano aveva finito con l’avvilupparsi,
dando prova di una impotenza che, anche di recente, si è
troppo spesso voluto presentare come specifica e originale «via nazionale alla filosofia».
Di tali nodi - a un tempo stimolo e oggetto delle analisi di
Situazione e libertà nell’esistenza umana - quello forse
più immediatamente importante ed urgente nello svolgimento di queste ultime è il problema che - così Luporini
a mezzo secolo di distanza - «un po’ semplicisticamente
chiamavamo la irriducibilità dell’individuo» 2. Problema
dunque di ovvia e fortissima valenza anti-neoidealistica,
e che è appunto posto dall’esperienza immediata, assoluLa filosofia
dell’esistenza
e della finitezza
6
PROFILO
M
uovendo dal dato di fatto del nostro esserci nel
mondo, del nostro «nascere al mondo» come
individui appartenenti ad una specie e contemporaneamente in grado di «farsi persona», occorre dunque ricercare e indagare i modi in cui tale condizione di
finitezza non è di ostacolo al manifestarsi e all’operare
della libertà. Questa era la strada da percorrere, e per farlo
il giovane Luporini prendeva a confrontarsi con l’analisi
dei modi in cui viene a compiersi l’esperienza della
finitezza, allorché - dopo l’impatto con il «qualunque
esistere» che l’individuo subisce nel suo «nascere al
mondo» - è proprio l’«attuosità» dell’individuo a porsi
come condizione del primo dilatarsi, nella coscienza,
dell’iniziale, fondamentale istantaneità - lo hic et nunc del proprio sentirsi esistere.
Di tali modi, quello della temporalità è ovviamente il
primo e fondamentale, dato che ad essa - ad una temporalità di cui Luporini teneva a sottolineare l’intreccio
profondo con la spazialità, ma non certo la riduzione a
quest’ultima - vanno ricondotte tutte le altre manifestazioni della finitezza. «Privazione assoluta» nella quale la
percezione dell’istante è accompagnata dal delinearsi di
un «orizzonte spaziale», la temporalità non può essere
«trascorrimento puro». Come «privazione assoluta»,
come negazione, essa ci fa avvertiti che sì l’«originario
essere-di-fatto mi chiude nell’istante», ma insieme «ci fa
lottare con esso» : l’istante è «centro reale di un dato
orizzonte spaziale», ma al suo centro sta «il mio attuale
istante», l’io10.
Inutile soffermarsi in questa sede sulla indubbia - e
impegnativa - metaforicità dell’«orizzonte spaziale», la
cui esperienza ha un ruolo fondamentale in quella che altrettanto metaforicamente - potrebbe essere detta la
«dilatazione» dello hic et nunc del nostro esistere. Luporini riteneva opportuno diffondersi in proposito in una
appendice dedicata al problema del nesso spazio-tempo
in Gentile e Kant11, ma ciò che corre l’obbligo di sottolineare è soprattutto l’energia con cui egli respingeva gli
esiti - opposti, ma simmetrici - cui la presa d’atto della
temporalità come fattore costitutivo dell’essere e dell’operare umano aveva mostrato di condurre. Da una
parte dunque la razionalizzazione - tipica di un certo
hegelismo di scuola, e quindi forse anche di Croce - della
temporalità sulla base della vera e propria «ontologizzazione di un determinato schema logico», quello nei cui
termini si presenta la «spiegazione dialettica»12; dall’altra, la convinzione che al carattere astratto di siffatta
spiegazione si desse la possibilità di sfuggire grazie alla
stessa «positività della vita», «positività» identificata
con la «concreta temporalità» e in grado quindi di «riassorbire in sé tutto l’essere»13. Convinzione - bisogna
aggiungere - che era stata tipica del positivismo evoluzionistico ottocentesco e quindi anche dello stesso Bergson.
Ma su ciò torneremo fra un momento.
La via che Luporini riteneva dovesse essere percorsa - ed
è questa prova chiarissima di come egli avesse colto in
profondità, aderendovi appieno, il rifiuto del carattere
speculativo di tali prospettive maturato nella filosofia
tedesca dei primi decenni del nuovo secolo - era invece
una via che si presentava più concreta, più fenomenologicamente vicina «alle cose stesse». Era - doveva essere
- la via del lavoro da compiere per giungere alla «comprensione del limite» prendendo atto della finitezza. La
vita ha da essere colta come «affermazione di sé nel
tempo», come una «successione infinita di momenti
finiti»14. Forse, su Luporini agiva anche la suggestione di
alcuni dei temi più tipici della «filosofia della vita», ma
sembra proprio di potere affermare che tale suggestione
era da lui accolta nella sua pars destruens, e non certo nella
parte non indifferente che in essa aveva avuto e continuava
ad avere la esaltazione di una sorta di irrazionalistico farsi
trasportare dal flusso, dallo «slancio» della vita.
A
ppunto, la filosofia di Bergson o, se si vuole, il
bergsonismo come «figura dello spirito», forma
di pensiero indispensabile per comprendere - al
di là della adesione o del rifiuto della «visione del
mondo» che indubbiamente essa esprime - tanta parte
della filosofia europea del nostro secolo. Le poche, ma
densissime pagine della Appendice dedicata al problema
del nesso spazio-tempo in Gentile e in Kant sono, in
proposito, illuminanti.
Sia chiaro: non intendiamo sostenere in alcun modo che
Luporini, il giovane Luporini mostri una qualche propensione per la filosofia di Bergson o per una qualche forma
di «bergsonismo», come invece accade - e in quale ampia
misura! - con Sartre. Ma è vero anche che era stato
Bergson ad affrontare il problema della libertà muovendo
da quella dimensione che la scienza ottocentesca - sia
della natura che dello spirito - aveva voluto tornare a
sondare da ogni lato: la dimensione temporale. Ed è
anche vero che la proposta bergsoniana aveva segnato e
avviato una discussione, postasi poi con chiarezza e
drammaticità al centro non solo della filosofia, ma di tutto
il movimento delle idee nel nuovo secolo. È quindi
proprio tenendo conto di quanto i temi che sono al centro
della riflessione dell’autore di Situazione e libertà sono
temi del tempo - e, certo, sono tornati ad essere anche
temi del “nostro tempo”, con tutte le sue rinascite bergsoniane e le sue incessanti «parate filosofiche» - e sono
quindi temi di un’epoca segnata nel profondo dalla
filosofia di Bergson, antecedente diretta della filosofia
dell’esistenza made in France, che è possibile comprendere la specificità e la vigoria della linea di analisi che
veniva tracciata e percorsa in quel libro di più di cinquanta anni or sono.
Abbiamo già richiamato il legame che Luporini teneva a
istituire tra la percezione dell’ istante e il definirsi di un
«orizzonte spaziale»: nel farlo, egli aveva palesemente
presenti alcune delle tesi della gentiliana Teoria generale
dello spirito come atto puro, ma è anche - ci pare altamente sintomatico il fatto che egli, tornando sulla
questione nella prima delle appendici a Situazione e
libertà, avesse cura di manifestare le sue perplessità circa
quella che, in sostanza, emergeva come la tendenza di
Gentile verso una spazializzazione del tempo. Non v’è
qui modo di diffondersi con la dovuta ampiezza sulle
argomentazioni di Luporini, serrate nel loro sottolineare
che Gentile «non si accorge [...] che puro spazio e puro
tempo si riducono alla negatività in quanto astratto l’uno
dall’altro» e che quindi trascura di tenere conto di quella
che è la realtà del loro «concreto incontro», la cui concre7
PROFILO
tezza è data dal fatto che «concreto non è né lo hic né il
nunc, ma solo lo hic et nunc» e che quindi è «facile [...]
vincerli uno per volta, avendoli separati, ma impossibile
trionfarne in quella sintesi a priori che essi costituiscono»15. Ma, in ogni caso, quel che deve essere sottolineato
con molta chiarezza è che la posizione critica da lui
assunta nei confronti della riduzione del tempo a spazialità operata da Gentile non conduceva peraltro Luporini
ad abbracciare quella teoria che nella critica ad ogni
spazializzazione del tempo aveva il suo nodo argomentativo centrale: appunto la concezione bergsoniana del
tempo come durata.
Con una attenzione tutta concentrata sul tempo come
concreto, come «concreta temporalità» ovvero «istante
come presenza di compresenze», Luporini, piuttosto, era
incline a sottolineare tutti gli aspetti problematici della
posizione bergsoniana, che a suo avviso - proprio nel
momento in cui si configurava come interpretazione
della concreta realtà del tempo - non riusciva in realtà a
rendere conto di quest’ultima come «assoluta implicazione che si oppone, risolvendola in sé, alla spazialità
come reciproca esclusione degli elementi dell’esperienza»16. Il tempo concreto deve essere qualcosa di più della
semplice durata, che non si renderebbe nota altro che
nella nostra interiorità: non ha senso parlare della esistenza di un «tempo interiore», posto in una posizione di
assoluto primato nei confronti di un «tempo esteriore» o,
comunque, con quest’ultimo assolutamente non paragonabile. Non è possibile pensare ad un rapporto di reciproca «trascendenza» tra questi due generi di tempo, «se continuava Luporini - tempo non è che l’interiorità dell’esteriore, ossia non è concreto se non come rapporto di
interiore-esteriore: la immisurabilità del tempo interiore,
e quindi la sua incommensurabilità col tempo esteriore,
non è che il suo continuo e immediato “commisurarsi”
(lotta) con esso, che fonda anche la possibilità della
misura del tempo esteriore, possibilità che, naturalmente,
come ogni misura, si riferisce alla spazialità, in quanto
elemento della positiva temporalità»17.
Discendeva da ciò il riconoscimento della fondatezza
delle riserve espresse da Gentile circa l’interpretazione
del «tempo concreto» come durata ( durata, aveva detto
Gentile, è «stato fantasticamente definito il tempo depurato dalla spazialità»). A Luporini, quindi, pareva molto
più ragionevole pensare al «tempo concreto» come alla
eternità, come al «principio del tempo», a patto però - e
allora tornava a manifestarsi il dissenso nei confronti di
Gentile - che siffatta «eternità» fosse intesa come «sovratemporalità del tempo»: il tempo non è «qualcosa nel
tempo», ed in tale sua «sovratemporalità» esso «si rivela
identico alla vita come autoaffermazione e nascita».
La concreta esperienza della realtà del tempo non può
quindi darsi altro che nei termini di una compresenza - e,
ancora, Luporini riconosceva il suo debito nei confronti
di Gentile18 - dei vari momenti del tempo che si trovano
a convergere verso il presente, un presente sul quale si
appuntava tutta la sua attenzione perché - è chiaro - è
proprio la concrezione, nella istantaneità del presente, dei
vari modi di esperire il tempo che costituisce la eccezionalità del presente medesimo, che è infatti momento in
cui la coscienza che l’individuo ha della propria limita-
tezza si unisce, nell’istante, a quella del non essere più
vincolato dal passato in quanto proteso al futuro, sì che in tal
modo si manifesta all’opera la dimensione della libertà.
È, questo, un punto di molta importanza, assolutamente
centrale per comprendere le posizioni di Luporini e per
scandagliarne l’itinerario di pensiero. La concezione che
veniva così sviluppando era infatti quella di un presente
che - diversamente da Gentile - non era concepito come
«collocato tra passato e futuro», ma come un presente
che, nella consapevolezza della propria istantaneità, si
impone come un atto, non come un esistere, un darsi, ma
un vero e proprio attivo collocarsi tra il passato e il futuro:
e, «in questo collocarsi», esso «si libera dell’immediata
e indistinta pressione loro [del passato e del futuro],
facendosi storia (storiografia) e deliberazione»19. È di
fronte quindi al dispiegarsi della attività della riflessione
autocosciente che ci veniamo a trovare; ci veniamo cioè
a trovare dinanzi a quella riflessione per la quale l’esperienza di ciò che è trascorso di niente altro è fonte se non
di un approfondirsi del proprio conoscersi, mentre essa si
trova dinanzi ad un futuro che ancora non si è compiuto.
Se si volesse cedere all’erudizione, si potrebbe addirittura ravvisare, nella posizione di Luporini, finanche l’eco
dei modi in cui Bergson - il giovane Bergson del 1889 e
del 1896, il Bergson al quale era andata l’attenzione di
alcune delle figure di spicco del neokantismo del tempo,
e poi di Scheler - aveva prospettato sì la centralità della
nozione di durata, ma nel contempo si era preoccupato di
mettere in luce come l’azione (corporea) è una azione che
si configura come libera nel momento in cui mostra di
essere interpretabile nei termini di una «percezione pura»
che, ponendosi per così dire «fuori del tempo», ci si
presenta del tutto ricca di passato (ma da esso non
precostituita nel suo operare) e gravida nello stesso
momento - anzi, istante - di tutte le possibili opzioni di un
futuro cui si appresta a porre mano.
Ovviamente, non è questo il punto, ancorché fosse senza
dubbio presente a Luporini che era proprio la filosofia
bergsoniana a ispirare molte delle prese di posizione del
dibattito dei primi decenni del secolo intorno alla individualità e alla libertà. Nelle pagine di Luporini non era
dato cogliere nessun segno di simpatia - e tantomeno di
convergenza - con le tesi di un qualche spiritualismo
apparentato a forme più o meno spurie di «filosofia della
vita». Luporini20 poteva così affermare certo che il tempo
«si rivela identico alla vita come autoaffermazione e
nascita», ma nondimeno una affermazione del genere
non nasceva nel contesto di una concezione propensa ad
esaltazioni del «fluire della vita», o addirittura pronta a
cedere allo spiritualismo, neanche poi troppo dissimulato, di una «evoluzione creatrice». Dall’analisi dell’esperienza del tempo nella sua concretezza di forma fondamentale dell’esistere - forma che d’altronde non va
considerata pura e semplice datità, «qualunque esistere»,
ma come dinamicità, come operare, come «attuosità» -,
Luporini era condotto ad una posizione che solo apparentemente può apparire volontaristica, intrisa di un certo
qual «eroismo» della «gratuità» dell’agire. Per Luporini,
la possibilità di «impadronirsi del tempo, e quindi sottrarsi alla fattuosità e al meccanismo» nasceva in modo
diretto dalla presa d’atto della finitezza costituzionale
8
PROFILO
dell’individuo. Era cioè una possibilità che poteva realizzarsi mettendo mano allo «strumento» del «pensiero
come organo della libertà». E tale possibilità «non si
compie se non come effettiva attuazione della libertà,
ossia come pienezza assiologica che sovratemporalizza
l’istante, contrapponendo l’assolutezza della persona alla
detrazione temporale cui fatalmente (nel suo essenziale
rapporto col “tutto”, in cui il tutto, realizzandosi, nega la
singolarità individuale) il “naturale” individuo soccombe; onde, nella lotta col tempo, intrinseca all’individuazione, l’attuarsi della persona apparirà come effettiva
vittoria sulla morte»21.
co - incompatibile con quella che invece si presenta come
la effettiva dinamicità, autoattività, spontaneità - «gratuità» - della libertà dell’uomo come libertà che, a quest’ultimo, assicura la possibilità di trascendere la propria
costituzionale finitezza.
La concezione della temporalità cui Luporini si veniva a
sentire più vicino era - per sua stessa ammissione - la
concezione di Kant, quella concezione cioè per la quale
- essendo tutto ciò che è dato al senso esterno dato anche
al senso interno ed essendo la forma di quest’ultimo
costituita dal tempo - il tempo si configura come «il modo
del nostro essere dati empiricamente a noi stessi»25.
«Forma permanente dell’intuizione interna» - puntualizzava Luporini richiamandosi alla “Prima analogia” della
Critica della ragion pura -, il tempo implica poi «intrinsecamente nella sua realtà la realtà dello spazio, ed è anzi,
possiam dire, identico a quest’ultima, in quanto quest’ultima è condizione della possibilità della percezione del
permanente che lo “esprime” e “rappresenta”»26.
Ovviamente, la strada maestra che veniva percorsa dalle
analisi di Situazione e libertà non era certo quella lungo
la quale Luporini poteva essere condotto a dedicare una
attenzione specifica al Kant filosofo della fisica, e di una
filosofia della fisica nella cui costituzione avevano avuto
ugual parte e Newton e Leibniz. In prima e fondamentale
istanza, il confronto con la filosofia kantiana avveniva
direttamente sul terreno della riflessione sulla questione
della libertà e del suo rapporto con la natura umana.
Tra la «natura dell’uomo e la sua libertà» intercorre in
Kant - ci ricordava Luporini - un «segreto rapporto», un
vincolo che egli riteneva coincidente con quello che egli
ravvisava all’interno dell’«essere di fatto» del pensiero
e della libertà come «essere di fatto» che racchiude in sé
la «positività della propria negazione e quindi anche
l’assolutezza della propria affermazione, non più come
fatto ma atto»27. Tale «segreto rapporto», in Kant - e
Luporini citava e traduceva una pagina dalla Religion
innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft28 - è quindi
quello che si incardina nella «natura dell’uomo», da
intendersi solo come «il fondamento soggettivo dell’uso
della sua libertà in generale (sotto leggi morali oggettive), che precede qualsiasi azione che appare ai sensi,
ovunque poi questo principio possa trovarsi». E tale
«fondamento soggettivo» - ancora Kant - «dev’esser poi
a sua volta un atto della libertà», dato che altrimenti
l’uomo non potrebbe essere ritenuto responsabile delle
scelte da lui medesimo compiute.
Se Kant dichiarava «imperscrutabile» tale fondamento
proprio in quanto atto di libertà, Luporini teneva per
parte sua a manifestare la convinzione che esso potesse
invece essere trovato nel rapporto tra «atto e valore», in
sostanza in quella «pienezza assiologica che sovratemporalizza l’istante» di cui aveva affermato l’operare,
all’aprirsi dello spazio deliberativo. Nondimeno, Luporini aveva anche cura che in tal modo la «imperscrutabilità» permaneva, ancorché spostatasi ad investire «l’intensità stessa dell’operare del valore». Anche se con non
poche cautele, Luporini mostrava così di inclinare per la
soluzione - soluzione apparsa più concreta e meno metafisicamente impegnata - che una parte della interpretazione neokantiana di alcuni dei nodi fondamentali della
I
l passo che abbiamo appena letto è denso di molte
implicazioni e apre molte prospettive, sulle quali - e
ciò vale in primo luogo per quanto concerne per un
verso il modo in cui ha da essere intesa l’opera di
mediazione svolta dal pensiero, per un altro i termini del
darsi della «pienezza assiologica» in grado di assicurare
la «sovratemporalizzazione» dell’istante22 - non vi è in
questa sede di soffermarsi, ancorché si tratti di questioni di
importanza essenziale per la esatta comprensione dei termini in cui la riflessione del giovane Luporini si inquadrava in
quella della «filosofia dell’esistenza» dell’epoca.
Possiamo tuttavia ritenere di avere stabilito un punto
fermo, che vale a sgombrare il campo da ogni eventuale
equivoco. Il concetto di «presente» cui Luporini perviene
- egli ne parla infatti come della «concretezza e positività
dell’istante (hic-nunc)»23 - vale infatti a mettere definitivamente in chiaro qual’è l’autentico carattere della tensione che ispira l’impegno posto da Luporini nel sondaggio dei modi di fare esperienza della individualità nel suo
presentarsi come atto - «attuosità». Sulla linea di tale
tensione, Luporini infatti muove innanzitutto dal riconoscimento della vita come privazione - e privazione, o
meglio, senso di privazione, è anche la conoscenza, come
ci viene ripetutamente ricordato -, della vita come deficienza24, della vita come gravata da un segreto, da un
mistero fondamentale: quello dell’individualità, che ci
investe con il suo carattere paradossale. Ma è vero anche
che il riconoscimento della fondamentalità, della ineliminabilità di tale esperienza dell’individualità come tratto costitutivo di un individuo «naturale» si accompagna
al nettissimo rifiuto di ogni forma di biologismo, rifiuto
- e Luporini, nello scritto che abbiamo ricordato all’inizio
del nostro intervento, terrà a ricordare la piena partecipazione da lui provata nel leggere il celebre § 10 (“Delimitazione dell’analitica esistenziale rispetto a antropologia,
psicologia e biologia”) di Sein und Zeit -, rifiuto che non
solo è segno della distanza da tutte le filosofie in varia
misura eredi del positivismo evoluzionistico (e quindi
anche dallo stesso Bergson), ma che è anche un rifiuto
che viene ripetutamente ed esplicitamente pronunziato ed è un altro segno della distanza nei confronti di Bergson
(e, in prospettiva, verrebbe da dire, di Sartre) - non in
nome di un umanesimo di maniera, retorico, ma sulla
base della convinzione che al fondo d’ una concezione
della individualità formulata ed articolata nei termini del
biologismo sta in realtà un modo di concepire la temporalità sostanzialmente astratto. In realtà, la temporalità
del biologismo è - quantomeno sul piano fenomenologi9
PROFILO
filosofia pratica kantiana era venuta proponendo.
Ma, in realtà, a ben guardare, il contatto con il neokantismo - con la filosofia neokantiana dei valori, ma anche (e
forse soprattutto) con la critica esercitata nei confronti di
quest’ultima da Scheler - non mostrava affatto di sostituire in Luporini il confronto diretto, continuo con il dettato
kantiano, e proprio come dettato di una filosofia comunque ancorata alla finitezza, anche se di tale suo ancoraggio non sempre forse completamente consapevole. Nella
stessa pagina29 in cui era venuto ricordando come per
Kant avesse da essere intesa la «natura dell’uomo»,
Luporini sottolineava infatti che «se liberi si fosse “necessariamente” la libertà perderebbe ogni valore, cioè
ogni opposizione all’essere-di-fatto, alla naturalità, e si
confonderebbe con essa. In verità - egli ribadiva -, non ci
sarebbe alcuna distinzione tra la spontaneità dell’uomo e
la spontaneità del vivente»30.
Affermazioni come queste non possono non confermarci
nella convinzione che il giovane Luporini - conoscitore
esperto e sicuro di Kant - non potesse non trovarsi in
sintonia con quanto espresso in molti luoghi celebri delle
opere kantiane nei quali il conflitto tra libertà e necessità
veniva affrontato, esaminato, scomposto. E, certo, fra i
tanti luoghi celebri cui può andare la memoria e che
Luporini non poteva non avere ben presenti, vi sono le
pagine della Dilucidazione critica della analitica della
ragion pura pratica31. In quelle pagine, Kant si era
confrontato direttamente con il problema del contrasto
tra la «causalità come necessità naturale» e la «causalità
come libertà». Dopo avere a lungo dibattuto il problema
dei modi in cui definire i caratteri distintivi della azione
libera32, Kant era poi approdato ad inquadrare l’intera
questione nella prospettiva del diverso ruolo che la temporalità si trova a svolgere nell’agire necessitato e nell’agire libero. Accade allora che lo stesso soggetto che ha
agito ed agisce come un fenomeno e che ha compiuto e
compie azioni i cui «motivi determinanti» si collocano
«in ciò che appartiene al tempo passato, “e non è più in
suo potere”», è anche quello che può benissimo trovarsi
a considerare «la sua esistenza “in quanto essa non sta
sotto le condizioni di tempo”», sì da considerare «se
stesso soltanto come determinabile secondo le leggi che
si dà mediante la ragione stessa». Una volta collocatosi in
questa forma di esistenza, «niente è per lui anteriore alla
determinazione della sua esistenza, la quale cambia secondo il senso interno, e anche l’intera successione della
sua esistenza come essere sensibile, non è da riguardare
nella coscienza della sua esistenza intelligibile se non
come conseguenza, e non mai come motivo determinante
della sua causalità in quanto noumeno»33.
Se dunque la filosofia kantiana veniva a presentarsi come
modello di riflessione alieno da ogni assolutizzazione
speculativa della natura dell’uomo - da essa supposto
infatti sempre «come ente ragionevole finito» - e si
impegnava quindi a interpretare «la struttura trascendentale del pensiero e in genere tutte le forme della ragione»34, era anche ovvio che della particolare finitezza
della natura umana non poteva essere trovato documento
migliore di quello fornito dai modi del darsi della coscienza della temporalità. Nell’ erigersi a tratto costitutivo fondamentale della attività del senso interno, forma
strutturante la stessa unità autocoscienziale di cui prima
- e potremmo dire istintiva - espressione è la percezione
(appercezione) della propria individualità nel suo primo
«naturale» livello, alla coscienza della temporalità - del
tempo nella sua concretezza - si poteva - si doveva guardare come ad una sorta di primo strumento per la
affermazione di un tipo di libertà dell’ ente uomo tale da
non entrare in contrasto con la costituzionale, intrinseca
finitezza del medesimo, ma nello stesso tempo tale anche
da non limitare l’indagine all’accertamento ed alla catalogazione dei vari ordini di motivazioni che possono
precostituire l’azione.
S
arebbe a questo punto senza dubbio possibile - e di
grande interesse - sviluppare una linea di indagi
ne che, analizzando il concetto di una «causalità
della libertà» che trova il suo luogo classico innanzitutto
nella analisi dei modi in cui viene a configurarsi il punto
di vista teleologico nella Critica del Giudizio35, ci condurrebbe direttamente a quell’insieme di discussioni
dell’ambito neokantiano in cui prende consistenza primaria la problematica del “valore”, e che sono discussioni di cui era vivissima - e controversa - l’eco nella
filosofia tedesca con cui il giovane Luporini non poteva
non essere venuto a incontrarsi.
Non possiamo però spingerci tanto innanzi, anche se è fuori
di dubbio questa una delle linee di ricerca cui attenersi per
situare e comprendere i modi in cui - in quella che possiamo
dirne la pars construens - si sviluppa la discussione di
Luporini nella illustrazione dei modi del «genuino esistere».
Per il momento, possiamo senz’altro arrestarci alla constatazione di quelli che sono i tratti fondamentali che connotano il livello più nettamente descrittivo-fenomenologico
delle analisi - non possiamo effettivamente parlare, in
proposito, di una pars destruens - che Situazione e libertà
dedica al dispiegarsi della libertà come “fatto” che diviene
“atto”. Analisi che abbiamo visto essere incentrate nel
riconoscimento della importanza fondamentale del nesso
tra la coscienza della temporalità e il prendere consistenza
d’una libertà che ha come dimensione specifica quella della
istantaneità, della deliberazione che riesce a sottrarsi al
vincolo del passato. Nesso - abbiamo appena visto - che
aveva trovato in Kant una sua chiara formulazione.
L’importanza di questo nesso - che poi, a ben guardare,
è il senso più concreto, più tangibilmente rilevabile di
quello che, discutendo appunto di Kant36, Luporini aveva
indicato come «il segreto rapporto che corre fra la natura
dell’uomo e la sua libertà» - è dunque fuori discussione,
per il suo configurarsi come condizione necessaria - e
forse anche sufficiente - dell’avvio di una riflessione
sulla specificità della collocazione dell’uomo nel mondo,
di un uomo che è anche appartenente ad una specie
animale, ma ad essa, comunque, non è riducibile. Ed è
proprio in questa luce - la luce di un confronto costante,
serrato e mai incline a compromessi con l’assunzione del
punto di vista biologico nella interpretazione della «essenza dell’uomo» - che a questo nesso bisogna guardare,
e guardarvi come via di accesso - al livello più «basso»,
più concreto, più vicino «alle cose stesse» - al problema
della libertà, onde accertare se e come quest’ultima è
realmente possibile, stante la finitezza dell’uomo.
10
PROFILO
N
elle pagine di quel suo ultimo scritto da cui
abbiamo preso le mosse per svolgere le nostre
considerazioni, Cesare Luporini ricordava37, tra
l’altro, la grande impressione che su di lui aveva esercitato la lettura del Kant und das Problem der Metaphysik
di Heidegger. Una lettura che era stato lo stesso Heidegger
a invitarlo a compiere, una lettura - così Luporini - fatta
«senza particolari intoppi, data la confidenza che avevo
acquisito con la Critica della ragion pura, nelle sue due
redazioni classiche» . Una lettura che, approdata alla
“Quarta sezione” del grande libro heideggeriano38 - quella sulla «ripetizione» della «fondazione della metafisica»
-, lo aveva «letteralmente rapito», e da cui, a più di mezzo
secolo di distanza, dichiarava di essere stato tanto profondamente impressionato da subirne «un effetto che porto
ancora in me». Alcune delle proposizioni del testo heideggeriano - non esitava ad affermare Luporini - «mi
hanno accompagnato per sempre»39. E, prima di tutto, ciò
valeva per il modo in cui Heidegger aveva posto - e
appunto radicalizzato, riducendolo ai suoi minimi e fondamentali termini - la questione della «ragione». «La
finitezza non è semplice accessorio della ragione umana
- aveva scritto Heidegger - ; è invece un rendersi finita
della ragione stessa, è la “cura” per il suo poter essere
finita»40: l’uomo è razionale in proporzione diretta al suo
accettare la propria finitezza e al suo impegnarsi nell’adesione alla medesima. Nel suo esistere - nel solo
modo in cui l’uomo può essere, e cioè nell’esserci, nel
Da-sein - l’uomo è appunto nel Da, in quel momento, in
quell’istante in cui l’essere irrompe nell’ente e lo obbliga
ad aprirsi, fornendolo della «possibilità di rivelarsi a un
se-stesso», ed in un modo che mette in luce che l’uomo è
in quanto è finitezza. La finitezza dell’ esserci dell’uomo chiosava Luporini - è «più originaria dell’uomo stesso»41.
Sono - si potrà certo dire - tesi ben note, alla cui scolastica
ripetizione siamo oramai avvezzi, così come abbiamo
dovuto fare l’abitudine alle molte incrostazioni che su di
esse sono venute stratificandosi, fino a logorarne l’originaria struttura argomentativa, sì che può senz’altro riuscire difficile rendersi oggi conto del «sentimento di
accedere a una liberazione filosofica» che - al pari di
«molti studiosi tedeschi allora allievi di Heidegger» Luporini ci dice di avere provato alla lettura delle due
grandi opere heideggeriane: Sein und Zeit e Kant und das
Problem der Metaphysik, quest’ultima usata come «chiave di lettura» per accedere alla prima [41]. E, certo, la
possibilità di cogliere, di comprendere quel sentimento,
quasi di immedesimarsi in esso è resa ancor più difficile
dal fatto che le strade di molti di coloro che, allora, a
Heidegger si erano volti alla ricerca di siffatta «liberazione filosofica» sono divenute assai spesso strade divergenti, segnate nello stesso momento nel profondo da
quello che per molti - e per tutti i migliori - fu il vero e
proprio tradimento del maestro, all’avvento del nazismo.
Ma il sentimento di tale «liberazione» - che, certo, può
essere ricostruita e fatta rivivere affidandosi anche alla
forza delle emozioni che nascono alla lettura dei sempre
più fitti documenti umani di quell’epoca che stanno in
questi ultimi anni vedendo la luce - ci può forse essere più
chiaro nella sua non consolatoria valenza e nel suo nucleo
costitutivo se - e possiamo allora capire bene perché il
giovane Luporini, già allora lettore appassionato di Leopardi, potesse tanto vivamente provare un sentimento del
genere - ci rendiamo conto di quanto esso nascesse dal
fatto che Heidegger giungeva ad additare all’attenzione
del suo uditorio l’esigenza di prendere atto della finitezza
dell’uomo richiamandosi innanzitutto alla decisione con
cui era stato proprio nel seno della riflessione kantiana
sulla possibilità di operare una nuova fondazione della
metafisica che era emersa la consapevolezza dei confini
- confini appunto, e non limiti - posti all’uomo dal
definirsi della propria costituzionale temporalità, dall’emergere di una dimensione della vita coscienziale che
ci fa cogliere, afferrare con tutta la evidente chiarezza del
dato fenomenologico - e ben più di quanto non possa
avvenire con la ontologizzazione delle strutture formali
della dialettica - quella che è la radicale finitezza dell’uomo,
liberandoci in tal modo da ogni «illusione trascendentale».
Non era forse dopo una serrata analisi della Einbildugskraft trascendentale (nella quale aveva avuto posto centrale la sottolineatura dell’«intimo carattere temporale»
della medesima e l’esame del «tempo come affezione
pura del sé») che Heidegger - nel Kant und das Problem
der Metaphysik42 - era approdato alla «ripetizione della
metafisica»?. E non datava solo di un anno prima, del
1928 - e l’eco quindi nel seminario di Friburgo frequentato dal giovane Luporini non poteva non esserne stata
vivissima - la pubblicazione, curata dallo stesso
Heidegger43, delle lezioni husserliane sulla «coscienza
interiore del tempo»?. Era proprio in quelle lezioni che,
sulla scorta di una analisi della temporalità colta nella sua
concretezza di Erlebnis, veniva tentata da Husserl una più
radicale fondazione della fenomenologia, intesa a sondare
le ricchezze della interiorità. Di fronte ad una prospettiva del
genere, l’atteggiamento di Heidegger era durissimo. Anch’egli si richiamava ad Agostino, ma non all’Agostino
del noli foras ire, ma a quello della affectio, elaborando
così quel concetto di Befindlichkeit44 - appunto l’«essersi»
o il «sentirsi situati» - che a Luporini, ancora nel 1992,
appariva come «una delle maggiori e più feconde scoperte di Heidegger»45. E quindi quella che Heidegger voleva
fosse una radicale reinterpretazione della fenomenologia
non poteva non respingere ogni esaltazione, ogni «mitologia» della interiorità, ogni ancorché remoto pericolo di
ricadere in forme più meno solipsistiche o più o meno
teologizzanti di spiritualismo. Sullo sfondo, sempre annunziato e solo in parte poi messo in atto, emergeva l’ineliminabilità del confronto - Auseinandersetzung46 - con la filosofia di Hegel, ed in primo luogo proprio con lo Hegel della
Fenomenologia dello spirito. Ed è allora anche in questa
luce - pensando a quanto il lavoro di riflessione su Marx e
sul marxismo di Cesare Luporini sia stato il lavoro di chi ben
sapeva quale era stata la reale grandezza di quella «filosofia
classica tedesca» della quale si era voluto che il proletariato
fosse l’erede - che torna a confermarsi tutta l’importanza
dell’intenso contatto del giovane Luporini con un modo di
filosofare che, mettendo talvolta addirittura mano alle armi
della provocazione, era stato comunque in grado di liberare
dalle macchinosità interpretative della scolastica neocriticistica quel nucleo fondamentale e radicale di pensiero che, in
Kant, prende forma nella tesi della «naturale disposizione
alla metafisica» da cui l’uomo è affetto.
11
PROFILO
NOTE
1
C. Luporini, Con Heidegger 1931. 1933.
Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in
discussione, Angeli, Milano 1992, pp. 25-49.
In seguito Luporini 1992.
2
Luporini 1992, p. 34.
3
C. Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Le Monnier, Firenze 1942; n.
ed. (con altri scritti): Situazione e libertà
nell’esistenza umana e altri scritti, Editori
Riuniti, Roma 1993. In seguito Luporini
[1942] 1993. I rinvii alle pagine sono, ovviamente, a quest’ultima edizione.
4
Luporini [1942] 1993, pp. 13-15; 7-9, 43-44.
5
Luporini [1942] 1993, p. 53
6
Luporini [1942] 1993, p. 53, n. 1; 56.
7
Luporini [1942] 1993, p. 56.
8
Luporini [1942] 1993, pp. 93 sgg.
9Luporini [1942] 1993, p. 203.
10
Luporini [1942] 1993, pp. 34, 37-38, 39-40.
11
Luporini [1942] 1993, pp. 199-206.
12
Luporini [1942] 1993, p. 96.
13
Ibidem.
14
Luporini [1942] 1993, pp. 96-101
15
Luporini [1942] 1993, pp. 200-201.
16
Luporini [1942] 1993, p. 201.
17
Ibidem.
18
Luporini [1942] 1993, p. 202.
19
Luporini [1942] 1993, p. 203.
20
Ibidem
21
36
22
37
Ibidem
Ibidem
23
Ibidem
24
Luporini [1942] 1993, pp. 32-33.
25
Luporini [1942] 1993, p. 203.
26
Luporini [1942] 1993, p. 206. Il rinvio è a
Kant, KV, B 226-227
27
Luporini [1942] 1993, p. 75.
28
Ibidem, nota 1.
29
Luporini [1942] 1993, p. 75.
30
Luporini [1942] 1993, p. 74.
31
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft
[1788], hrsg von P. Natorp, in: Kants Gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich
Preußischen Akademie der Wissenschaften,
Band V, Reimer, 1908, pp. 89-106 (Critica
della ragion pratica, trad. di F. Capra, riv. da
E. Garin, Laterza, Bari 1963, pp. 112-134).
32
Kant, op. cit., pp. 95-98 (trad. it. cit., p.
119-122).
33
Kant, op. cit., pp. 97-98 (trad. it. cit., pp.
122-123)
34
Luporini [1942] 1993, p. 68 n. 1.
35
I. Kant, Kritik der Urtheilskraft [1790], hrsg
von Wilhelm Windelband, in: Kants Gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Band V,
Reimer, 1908, p. 195-197, Anmkg (Critica del
Giudizio, trad. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra,
Laterza, Bari 1960, pp. 37-39)
[...] Il 1966 è l’altra data importante, nella biografia intellettuale e politica di Luporini, dopo il
’43-’45.
Allora, dal ’43 in avanti, s’era
trattato di passare al marxismo,
dal precedente esistenzialismo.
E qui si pone una questione a cui
di Sergio Landucci
è inevitabile un cenno. In certe
occasioni, Luporini stesso sembrava attratto da una considerazione retrospettiva, prevalentemente continuistica, del suo percorso di pensiero
(quando se le sentiva proporre da altri); mentre in altre
occasioni, e cioè quando ripensava in proprio al suo
percorso, rivendicava non senza una punta d’orgoglio
del tutto legittimo d’aver saputo anche cambiare, non
stare fermo, e di ciò pagando tutti i costi (un giorno, ebbe
a dire di considerare «umiliante per l’umanità» in generale, supporre che tutti continuino sempre a ripensare le
stesse cose che abbiano pensate una volta). Ora, non c’è
dubbio che, nelle persone serie, gli elementi di continuità
si rintraccino anche nel caso delle rotture eventualmente
le più profonde; ma non perciò può venir sottostimata la
discontinuità, in Luporini, fra l’esistenzialismo ed il
marxismo. E lui stesso non l’ha sottostimata, nella ricostruzione contenuta in Da «Società» alla polemica sullo
storicismo, dicendovi chiaro e tondo quel che d’altronde
corrisponde alla realtà, se si va a sfogliare quella prima
«Società» fino a rintracciare l’intervento intitolato Rigore della cultura, al quale ha sempre tenuto moltissimo.
Luporini [1942] 1993, p. 75 n. 1.
Luporini 1992, p. 40.
38
M. Heidegger, Kant und das Problem der
Metaphysik [1929], Frankfurt/M, Vittorio
Klostermann, 1991, pp. 204-246 (Kant e il
problema della metafisica, trad. di M. E.
Reina, riv. da V. Verra, con una Introduzione
di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, pp.
178-211).
39
Luporini 1992, p. 40.
40
Heidegger, op. cit., p. 217 (trad. it. cit., p.
187).
41
Luporini 1992, p. 40.
42
Heidegger, op. cit.,pp. 188-195 (trad. it. pp.
162-168)
43
E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, hrsg
von M. Heidegger [1928], Tübingen, Niemeyer, 1980 ( trad. it. in E. Husserl, Per la
fenomenologia della coscienza interna del
tempo (1893-1917), a cura di A. Marini,
Angeli, Milano 1992.
44
M. Heidegger, Sein und Zeit [1927], Tübingen, Niemeyer, 1963, __ 29, 30, 40, 68 b
(Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, UTET,
Torino 1969). Si veda anche M. Heidegger,
Der Begriff der Zeit, hrsg von H. Tietjen,
Tübingen, 1989 (Il concetto di tempo, a cura
di F. Volpi, Gallio, Ferrara 1990).
45
Luporini 1992, pp. 37-38.
46
Luporini 1992, p. 37.
Vi si trova un attacco all’esistenzialismo (allora, nella
forma sartriana, certo ben più esposta che non quella
heideggeriana, ma, di fatto, allora anche quella largamente invadente), motivato proprio dal considerarlo,
l’esistenzialismo, come un orientamento adeguato ad un
altro tempo, ormai chiuso, come un’esperienza storica da
cui ci si doveva congedare, perché ora urgeva appropriarsi degli strumenti concettuali, di concezione generale ed analitici, forniti appunto dal marxismo. E, anche
a codesto proposito, egli ha esplicitato con piena lucidità
autointerpretativa quanto è dato ricavare dai documenti
- i suoi scritti - pertinenti. In un Convegno sulla sua opera
che si tenne qui a Firenze nell’86, disse che dell’Heidegger di Essere e tempo non l’avevano convinto proprio le
categorie analitiche, giudicandole selezionate arbitrariamente (perché proprio quelle, e non altre?), e, comunque,
tutte prive di presa sulla società e la storia. «Mi rimaneva
in mano solo la contrapposizione di “autentico” e “inautentico”, da reinterpretare...». E infatti, se si va a vedere,
questa contrapposizione era bensì presente in Situazione
e libertà, nell’articolazione stessa delle due Parti, “Il
qualsiasi esistere” e, rispettivamente, “Il genuino esistere”; ma, questo secondo, interpretato - al contrario che
l’«autentico» in Heidegger - in senso assiologico (secondo la lezione appresa da Scheler), e, nel contenuto,
attorno al valore della «libertà», come raggiungimento
personale e collettivo. E appunto nel vuoto analitico
constatato nell’esistenzialismo, nell’86 Luporini indicava la premessa in negativo, diciamo così, per il suo
passaggio al marxismo.
«Quella
duplice fedeltà»
12
PROFILO
Per quanto lo riguardò, l’appropriazione del marxismo
non fu certo un impegno di lieve entità. Basti notare che
il suo primo intervento teorico, al riguardo, risalirà solo
al 1954 (Marxismo e sociologia: il concetto di formazione economico-sociale). Nel contempo, s’era dato a grandi studi di storia della filosofia, consegnati ai volumi
Filosofi vecchi e nuovi. Scheler, Hegel, Kant, Fichte,
Leopardi (1947), La mente di Leonardo (1953), Voltaire
e le ‘Lettres philosophiques’ (1955) e Spazio e materia
in Kant (1961).
La svolta del ’66 - dopo che, nel decennio precedente
aveva proseguito con molti interventi nel quadro del
marxismo (raccolti, poi, in Dialettica e materialismo) sarà rappresentata dalla decisione di immergersi “dentro
Marx”, per dissociarlo dai vari “marxismi”, come s’esprimerà per caratterizzare il lavoro a cui dedicò tutte le
proprie forze nei tre lustri e più che sarebbero seguiti. La
questione fondamentale era dello statuto medesimo da
attribuire alla teoria del Marx maturo: di scienza, e
quindi autofondantesi, per definizione, ovvero di teoria
comunque fondata ancora su una base “filosofica” (in
sostanza, quella antropologica, derivata da Feuerbach,
dominante nei cosiddetti Manoscritti del 1844)? Per
alcuni marxisti, siffatta fondazione rimaneva operante
anche nel seguito (aveva pensato così pur Luporini,
precedentemente); per altri, era da venir recuperata, in
quanto, in ultima analisi, il marxismo sarebbe una “filosofia dell’uomo” (secondo suonava il titolo d’un noto
libro, allora di Adam Schaff), ché solo ciò le fornirebbe
il “senso” proprio. Per parte sua, Luporini sosteneva ora
che «la rivoluzione teorica prodotta da Marx consiste,
all’opposto, nell’abolizione, attraverso il materialismo
storico, di quella philosophische Grundlage». Ma, naturalmente, se c’è bisogno di dirlo, il discorso di Luporini
rimaneva (e sarebbe rimasto sempre, nel seguito) “filosofico”, perché era comunque un discorso “sulla” scienza, e cioè di secondo livello. Il rifiuto era d’una filosofia
“speculativa”, e cioè con pretese, per l’appunto, fondative. La contrapposizione, quindi, ad una concezione
arcaica della filosofia, per una concezione all’altezza del
nostro secolo.
Il programma del disoccultamento della «rivoluzione
teorica» realizzata da Marx, in quel momento iniziale
animava anche Althusser, come Luporini riconobbe apertamente. Ma ben presto Althusser avrebbe intrapreso
quel gioco al massacro, sul Marx della maturità, che
Luporini contrasterà fortemente. Le loro strade, quindi,
si divaricheranno quasi subito. Intanto, però, proprio da
sùbito, c’era un dissenso su un punto fondamentale:
Althusser aveva buttato a mare tutt’insieme
l’«antropologia filosofica» e il cosiddetto umanismo
(marxista). Luporini, invece, distingueva nettamente fra
le due cose; e, dietro la bandiera dell’ “umanismo socialista”, si rifiutava di vedere solo ideologia: c’erano
problemi ben reali. Non già, s’intende, problemi del tipo
“Che cos’è l’uomo?”, ché «la risposta viene ormai da
particolari scienze empiriche»; bensì il plesso di questioni relative alla vita reale ed al destino storico dell’umanità, per le quali era essenziale integrare al marxismo
anche altri risultati scientifici (a cominciare da quelli
provenienti dalla psicoanalisi); ma, il tutto, nella pro-
spettiva del rapporto fra i condizionamenti e
l’«autodeterminazione» dei singoli, la quale ultima coinvolge, evidentemente, la loro interiorità consapevole.
«Non si tratta di una problematica di lusso», diceva
Luporini, non foss’altro che perché «non ha senso parlare di una coscienza di classe del proletariato e occuparsi
alla sua formazione... all’infuori di siffatta problematica
della interiorità». Donde l’irriducibilità del marxismo
anche ad un qualche “comportamentismo”. Il che ci dice
come il discorso di Luporini fosse “filosofico” perché oltre che, comunque, “sulla” scienza di Marx - inoltre
nient’affatto scientistico. Giudicava ben “timidi” quei
sedicenti marxisti che rifiutavano, come pretesa ideologia borghese, la separazione tra giudizi di fatto e giudizi
di valore; e a Marx rivendicava senz’altro la Wertfreiheit
della scienza. Ma, giustappunto di conseguenza, s’apriva così una prospettiva - per i valori enunciabili con le
note formulazioni di Marx a proposito del comunismo ancorata sì all’analisi del reale, però libera da alcun
preteso, o surrettizio, automatismo del corso storico
stesso (ed era questa una scelta netta, compiuta da
Luporini, fra le non univoche prospettive che, al riguardo, è dato di ritrovare in Marx).
A parte poi Althusser, per Luporini s’imponeva un
confronto critico con lo strutturalismo, proprio perché il
suo obiettivo principale, a partire dal ’66, era quello
ch’era l’avversario per eccellenza anche dello strutturalismo medesimo: lo storicismo. Evidentemente, per lui
valeva la regola aurea che avere avversari in comune non
giustifica di confondersi in una sorta di fronte unico,
neppure nella battaglia delle idee. Bisognava dunque
combattere lo storicismo senza tuttavia cedere alle ideologie strutturalistiche, che, del resto, erano allora nel loro
momento di successo. Tutta l’Introduzione premessa alla
raccolta Dialettica e materialismo, nel ’74, sarà percorsa
da questa esigenza di un’alternativa su due fronti.
Sennonché, il successo dello strutturalismo era un fenomeno congiunturale, come di fatto si sarebbe rivelato
rapidamente. Invece, lo storicismo era una tendenza di
lunga durata, e profondamente penetrata all’interno del
marxismo (e non soltanto di quello italiano). Era pertanto
da snidare fin dal suo primo affacciarsi (al di là delle
etichettature filosofiche di scuola), e proprio all’interno
del marxismo: precisamente nell’anno 1859, nientemeno, con la recensione di Engels al Per la critica dell’economia politica. A mostrare come ne risultasse un «completo stravolgimento», rispetto al modo di procedere di
Marx sia nel Per la critica sia nel Capitale - ed il rovescio
letterale di quanto quegli aveva teorizzato anche esplicitamente - Luporini si dava con puntigliosità e reiteratamente. Ma ne aveva ben donde: l’assunto di Engels s’era
infatti trasformato in una communis opinio, i cui sostenitori si ritrovavano un po’ dappertutto (per esempio,
dall’economista polacco Oskar Lange allo storico italiano Emilio Sereni). Certo, l’indagine di Marx era condotta sulla base di materiali storici, ma - asseriva Luporini
- «non più ‘storici’ di quelli che si presentano, per
esempio, al fisico, o al linguista, ecc. »; ché, in questo
senso, “storico” è sinonimo di “empirico”. E una costruzione sistematica è irriducibile, per definizione, ai suoi
materiali; così come, nella realtà, nessuna forma o strut13
PROFILO
tura è riducibile ai suoi elementi (lo sapeva bene già
Aristotele).
Il livello della sistematicità è, naturalmente, quanto mai
vario, fra le diverse scienze. Si può giungere fino ad una
neutralizzazione della storicità (avviene nelle scienze
maggiormente ‘astratte’, come le si dicono); ma è soltanto illusorio il procedimento inverso - rilevava Luporini e cioè il tentativo di «neutralizzare o obliterare il momento sistematico, allo scopo di isolare l’elemento individuale, singolare, puntuale», come sarebbe il mero evento
o accadimento (pretesa - va detto - che dipoi è ridiventata
semmai ancor più imperversante che non allorché egli
scriveva queste parole).
Quanto alla collocazione del Capitale, rispetto a quest’arco di possibilità, Luporini riconosceva senza esitazioni che, intrecciate alla costruzione sistematica astratta
(«genetico-formale», la chiamava), vi si trovano inserzioni «genetico-storiche», d’altronde ben note, ma necessarie per la costruzione stessa di quel modello; e vi si
trovano così anche elementi per una ricostruzione della
transizione dal modo di produzione feudale. Qui, ovviamente, “storico” non è più sinonimo di “empirico” né di
“evento singolare”, ma ha il senso - modernamente
classico - di sviluppo dinamico, nel caso specifico affidato principalmente (secondo la tesi marxiana) all’incremento delle cosiddette forze produttive. Sennonché, se
avessero ragione Engels o Sereni, il Capitale dovrebbe
procedere con andamento appunto diacronico, ancorché
essenzializzato, e muovere quindi dal feudalesimo. lnvece, l’avvio del Capitale non è affatto il feudalesimo,
bensì (in quella la sezione che più di qualsiasi altra diede
da fare a Marx) la “forma” della “merce”; e, attraverso le
peripezie teoriche che ne risultano, con lo “scambio” ed
il “denaro”, il modello che ne vien fuori è quello soltanto ideale - di un’economia puramente “mercantile”, che, in quanto tale, non è mai esistita, di fatto, come
«epoca» della formazione economica della società (e
difatti Marx non ve la comprendeva allorché le poneva
nella successione di “asiatica”, schiavistica, feudale e
capitalistica). Per contrasto, vien da pensare a quegli
slogans, che oggi ricorrono (Gianni Agnelli, in testa),
onde questo sistema in cui viviamo non si dovrebbe
denominare più neppure “capitalistico”, bensì, giustappunto, “del libero mercato”!
Marx aveva sostenuto che, storicamente, la comparsa del
prodotto come “merce” richiede una divisione del lavoro
sviluppata al punto che sia compiuta quella separazione,
fra valore d’uso e valore di scambio, che nel commercio
di permuta diretta ha solo il suo embrione; ma ancora ben
al di qua di quella mercificazione di tutti (o quasi) i
prodotti che invece sarà propria del modo di produzione
capitalistico. Commentava Marx: «Tale grado di sviluppo», intermedio fra i due estremi indicati, «è però comune a formazioni socio- economiche storicamente diversissime». E Luporini postillava: così «è espressa in
maniera lampante la necessità della componente storicogenetica per la costruzione del modello dell’economia
capitalistica [“capitalistica”, si noti bene, e non semplicemente “mercantile”], e insieme il suo carattere di
“variabile entro certi limiti”». Ma, a sua volta, è anche
lampante perché proprio questo punto, e cioè il riferi-
mento alla storia reale come a variabile, attraesse tanto
Luporini: in alternativa a quell’evoluzionismo, o necessitarismo, nella rappresentazione del cosiddetto sviluppo storico, ch’era stato il tratto caratteristico di tutti i
dogmatismi, entro il marxismo. Il nucleo, insieme teorico e politico, che si trattava di contrastare, era dunque
l’assunzione d’un percorso uniforme dell’umanità, a
tappe obbligate.
Dei grossi saggi di Luporini «dentro Marx», solo i primi
due (Realtà e storicità: economia e dialettica nel marxismo e Marx secondo Marx) fecero in tempo ad essere
inclusi in Dialettica e materialismo. Verso l’80 l’editore
Einaudi annunciava come prossimo un volume di Studi
su Marx, di Luporini, destinato a raccogliere gli altri,
successivi, e che avrebbe dovuto trarre il titolo da uno di
essi: Critica della politica e critica dell’economia politica (gli altri sarebbero stati, presumibilmente, La logica
specifica dell’oggetto specifico e Per l’interpretazione
della categoria “formazione economico-sociale”. Però,
di quel volume, non ne fu di nulla.
[...] L’oggi, ancora una volta diverso, che è il nostro,
anche Luporini ha fatto in tempo a vederlo, assumendo
- nell’89-’90 - le posizioni che sono rimaste (è da supporre) nella memoria di tutti; ed inoltre portando il segno
della sua attenzione vigile sui fenomeni che dipoi si
sarebbero ingigantiti. [...]. Relativamente a Marx, nell’ultimo ritorno su di lui, Luporini segnalerà soprattutto
due questioni, che, negli studi precedenti, a cui s’è
accennato, non comparivano ancora. Per un verso, riconoscerà pure, ora, come, sul punto del passaggio al
socialismo ed al comunismo, anche Marx fosse rimasto
ben più evoluzionista di quanto neanche lontanamente
consenta invece tutta l’esperienza storica del nostro
secolo (ciò, anche perché partecipava di quel determinismo che improntava ancora l’epistemologia corrente ai
suoi tempi). Per un altro verso, la questione nuova e
sempre più dirompente veniva indicata da Luporini - al
di là anche dell’eventualità di catastrofi immediatamente
cruente - nella questione ambientale (e demografica).
Marx, dirà allora, considerava intollerabile il dominio
dell’uomo sull’uomo, però, quanto al dominio dell’uomo sulla natura, partecipava alle prospettive generali del
suo tempo (e, si può aggiungere, di tutta quanta quella
che chiamiamo la modernità) su uno sfruttamento illimitato delle risorse naturali ed un incremento indefinito
della produzione. In questi ultimi interventi, dunque,
Luporini si collocava «con un piede dentro Marx, ed uno
fuori». Ma, ciò, proprio per sostenere quello che chiamava l’«orizzonte del comunismo».
14
SCHEDA
D
iretto da Nunzio Incardona, l’Istituto di Filosofia tato i suoi interessi verso un’analisi della presenza di tale
costituisce, con l’Istituto di Storia della Filosofia e originaria impostazione metafisica nella riflessione etica e
l’Istituto di Teoria e Storia delle idee, una delle tre linguistica moderna, fino alla scuola analitica. Muovendo
sedi deputate all’insegnamento del pensiero filosofico nel- da una concezione del pensiero contemporaneo come una
l’ateneo palermitano. Carattere principale di questo centro feconda crisi della tradizione della metafisica classica,
è il forte impegno teoretico e la fisionomia unitaria delle Nicolaci ha così contribuito a introdurre all’interno dell’Istivarie direzioni di ricerca che agiscono al suo interno.
tuto l’opera di autori come Heidegger, Wittgenstein, Hare,
Allievo di M. F. Sciacca, Incardona, partendo dall’espe- Austin. La sua riflessione investe dunque il rapporto tra
rienza teorica dello spiritualismo di matrice rosminiana, metafisica e dimensione linguistica, mostrando come, anha sviluppato il proprio pensiero in direzione di un’inda- che alla luce dell’apporto della riflessione contemporanea,
gine sul principio e sui fondamenti metafisici del pensie- tale interazione abbia condizionato il formarsi e il determiro occidentale. Una riflessione, dunque, che si muove narsi della struttura della conoscenza morale.
all’interno delle grandi posizioni della metafisica classi- Più legata ad un’analisi di tipo storiografico appare
ca, e che ha contribuito in modo profondo a determinare l’opera del medievista Alessandro Musco, i cui interessi
l’area di riflessione e di ricerca dell’Istituto. Questi motivi gravitano verso la tradizione mistico-metafisica e le
teoretici informano di sé tanto gli insegnamenti, quanto le origini del pensiero medievale; un campo di ricerca,
direttrici stesse della ricerca dei differenti componenti l’Isti- questo, che sembra poter coagulare attorno a sé una
tuto. La sensazione che si ha fin dall’inizio del lavoro teorico rinnovata tradizione di studi arabi ed ebraici. L’arabistica,
all’Istituto è difatti quella di
presente all’Istituto con Giuuna vera e propria struttura
seppe Roccaro, vanta del reI luoghi della filosofia
di scuola, in cui la plurivocisto una solida tradizione a
tà e la molteplicità degli intePalermo, e sembra poter conressi specifici trova il protribuire a consolidare e sviprio baricentro in un motivo
luppare la presenza degli stufilosofico comune.
di medievali tra le direzioni
Utilizzando la tradizione
di ricerca dell’Istituto.
metafisica per affrontare ab
A Incardona fanno diretto
imis il problema dell’arché,
riferimento anche i ricercaIncardona rileva come il
tori dell’Istituto. L’appropensiero filosofico possa
fondimento del pensiero di
essere, nella sua radicalità
Gorgia e Aristotele si deve
di Luca M. Scarantino
originaria, intrinsecamena E. Caramuta; l’interesse
te esaurito e compiuto in sé
per Heidegger e Ricoeur è
fin dalle sue prime battute.
sviluppato invece da A. M.
Tale prospettiva teoretica
Treppiedi, mentre della diacondiziona in tal modo la
lettica hegeliana si occupa
scelta degli autori la cui
G. Tagliavia. La riflessioopera viene privilegiata nel
ne politologica è terreno di
curriculum degli studi; Ariricerca di M. Corselli; quelstotele ed Hegel, considela estetica, con particolare
rati come i due poli attraattenzione al momento letverso cui si articola l’intero pensiero filosofico occiden- terario e al periodo romantico, di S. Lo Bue. L. Di
tale, costituiscono in particolare l’effettivo baricentro dei Bartolo, attraverso la sua attività di ricerca presso la
programmi dei corsi. Significativa è altresì la presenza di Sorbona, contribuisce ad un rafforzamento dei legami
Kant e soprattutto di Platone; assai importante è d’altra parte dell’Istituto con l’ambiente accademico francese.
la presenza dell’intero pensiero greco delle origini, in cui la L’attività scientifica e convegnistica dell’Istituto si actematica dell’arché, sviluppata da Incardona, riconosce la compagna alla pubblicazione della rivista «Giornale di
fondamentalità della riflessione filosofica occidentale. Tale Metafisica», che da una decina di anni organizza gli
caratteristica, se rende talvolta l’Istituto, nella sua struttura annuali “Incontri del Giornale di Metafisica”, dedicati ad
didattica, ripiegato su se stesso e sui suoi autori privilegiati, aspetti di volta in volta diversi della tradizione metafisine costituisce al contempo la peculiare vitalità teoretica, che ca. Dal primo incontro, tenutosi nel 1983 a Genova,
lo rende un significativo punto di riferimento per una vasta l’iniziativa ha via via assunto un’importanza sempre
parte del milieu filosofico a livello non solo nazionale.
maggiore, divenendo occasione di confronto e di dibattiLe linee filosofiche indicate da Incardona ispirano in to per quel versante della tradizione filosofica italiana
misura decisiva le tematiche investigative dei diversi che si riconosce in un pensiero a carattere trascendente,
docenti dell’Istituto, che si affiancano a Incardona e che con una rilevante componente spiritualistica.
ne sono allievi. Giuseppe Nicolaci ha sviluppato la pro- Particolarmente significativa è pure l’attività di collabopria ricerca nel senso di una tematizzazione del contem- razione con il Centro Internazionale “Giovanni Gentile”
poraneo. Rivolgendosi alla dimensione linguistica che, di Castelvetrano, con il quale viene annualmente orgada Aristotele in poi, egli considera essere parte integrante nizzato un Convegno internazionale, dedicato al pensiedella tradizione e del pensiero metafisici, Nicolaci ha orien- ro del fondatore dell’attualismo.
L’Istituto di Filosofia
di Palermo
15
AUTORI E IDEE
William Blake, The Creation of Eve (1808, particolare)
16
AUTORI E IDEE
AUTORI E IDEE
Le ‘letture’ di Ricoeur
Paul Ricoeur, oggi ottantunenne, non
ha mai smesso di far dialogare il discorso filosofico con il suo altro. Ne è una
testimonianza la serie dei volumi, pubblicati a partire dal 1991 con il titolo
‘Lectures’ (Letture), che raccolgono suoi
scritti sparsi. L’ultimo volume, LECTURES
III, AUX FRONTIÈRES DE LA PHILOSOPHIE, (Letture III, Alle frontiere della filosofia, Seuil,
Parigi 1994), è incentrato sul rapporto
di Ricoeur con i testi che stanno a fondamento delle grandi religioni. Da segnalare anche, in questo contesto, una
monografia critica di Olivier Mongin sul
pensiero e l’opera di Ricoeur: PAUL RICOEUR (Seuil, Parigi 1994), che rintraccia
una linea di continuità tra le prime e le
ultime opere del filosofo.
Dopo Lectures I, Autour du politique (Letture I, Intorno al politico, 1991) e Lectures II,
La Contrée desphilosophes (Letture II, La
contrada dei filosofi, 1992), quest’ultima
raccolta, Lectures III, Aux frontières de la
philosophie, mostra come Paul Ricoeur,
erede della filosofia husserliana e dei filosofi
dell’esistenza (G. Marcel, K. Jaspers), abbia
dialogato non solo con la linguistica, la psicoanalisi e la letteratura, ma anche con la fenomenologia della religione e l’esegesi biblica.
L’opera si presenta divisa in tre sezioni: la
prima verte sulla religione come fenomeno
sociale e culturale; la seconda affronta il
problema del male; la terza è dedicata all’esegesi biblica.
Ricoeur parte dalla constatazione che la figura del religioso non è presente in forma
universale, dal momento che vi sono una
pluralità di comunità religiose e di testi fondatori. Ad esempio nel Talmud, osserva
Ricoeur, la lettura ebraica del Vecchio Testamento dimostra che i modi di leggere
questo testo (dove un rabbino risponde ad un
altro, suscitando la discussione) sono al tempo stesso atti interpretativi. Il Cristianesimo
ha poi conferito pluralità all’origine, dal
momento che si hanno quattro Vangeli per
raccontare e interpretare la vita e la passione
di Cristo. Il pluralismo del fenomeno religioso, secondo Ricoeur, è dovuto al carattere
insondabile del mistero, ovvero al fatto che
c’è sempre una riserva di senso che sfugge.
Fatta eccezione per l’Islam, in cui non vi è
alcuna distanza tra Dio, Maometto e il Corano, poiché Dio parla in Arabo per bocca di
Maometto, nelle altre grandi religioni vi è
sempre uno scarto tra l’origine della parola e
la sua espressione umana; ed è proprio questo iato che crea uno spazio originario di
interpretazione.
Ma è la problematica del male che funge da
frontiera tra filosofia e religione; esso costituisce una sfida per entrambi gli ambiti. La
filosofia ha fatto nei secoli vari tentativi per
impossessarsene, elaborando varie teodicee;
laddove però non riesce a dimostrare che il
male è necessario per l’esistenza del bene, il
problema del male diventa una questione di
tipo etico-politico: non si tratta più di indagare da dove viene il male, ma di cercare di
delimitarlo. Nella prospettiva religiosa ebraico-cristiana il problema del male rimane un
mistero: non si tratta di razionalizzarlo, ma di
vivere nella tensione estrema tra lo scandalo
del male, da un lato, e la riconoscenza di tutto
ciò che appare come dono, dall’altro. Grazie
appunto a quel che Ricoeur chiama “economia del dono”, il Cristianesimo mantiene un
legame stretto con l’esigenza etica. Affinché
si possa parlare di responsabilità, il pensiero
etico, secondo Ricoeur, postula l’esistenza
di un soggetto, ma non di un soggetto automono e trasparente a se stesso: un se stesso
“come un altro”. Proprio questa idea di una
soggettività attraversata da una alterità si
ritrova, sostiene Ricoeur, nella trascendenza
del dono della Parola. «Io vedo il Cristianesimo come un “grande Codice” - afferma
Ricoeur; situarmi nel cristianesimo è situarmi in un grande insieme simbolico di cui non
sono l’origine». L’ermeneutica biblica permette così di articolare questo rapporto dei
segni con la soggettività individuale che è
alla base della polisemia del testo.
Contro coloro che attuano una netta separazione tra gli scritti iniziali di Ricoeur e i
lavori del periodo propriamente ermeneutico, nella sua monografia dedicata al filosofo
Olivier Mongin sostiene una fondamentale
continuità tra questi scritti, mostrando come
gli stessi interrogativi percorrano le pur varie
e differenti riflessioni del filosofo. In questo,
Mongin non trascura il carattere “poliglotta”
del pensiero di Ricoeur, che dopo gli anni ’60
interloquisce con filosofi di formazione anglosassone e con autori tedeschi. A.M.
17
Le prove dell’esistenza di Dio
Dimostrare l’esistenza di Dio non rappresenta uno fra i tanti problemi di cui
si occupa la storia della filosofia, ma il
problema fondamentale in cui si esprime la questione del rapporto tra essere e pensiero, nonché quella relativa
alle modalità di quest’ultimo, in quanto procedura razionale. Questo è ciò
che emerge dal terzo e ultimo volume
dell’opera di Wilhelm Weischedel, IL
DIO DEI FILOSOFI (trad. it. a cura di L.
Mauro, Il Melangolo, Genova 1994),
che conclude la ricerca dell’autore dedicata all’esprimibilità filosofica dell’esistenza di Dio, e dal saggio di Emanuela Scribano, L’ESISTENZA DI DIO. STORIA DELLA PROVA ONTOLOGICA DA DESCARTES
(Laterza, Roma-Bari 1994), che
attraverso le vicende della prova ontologica mette a fuoco l’evoluzione dello
strumento razionale nel suo rapporto
con le modalità temporali, cioè con le
condizioni attraverso le quali viene
definita l’esistenza.
A KANT
La ricostruzione documentata e, su molti
punti, decisiva delle vicissitudini della prova ontologica, offerta da Emanuela Scribano, non si limita a un’analisi di tipo
storiografico. Le tematiche che vengono
messe in campo, e le stesse assunzioni che
guidano la ricerca, rivestono infatti un carattere prettamente teoretico, e trascendono criteri e periodo storico qui considerati,
investendo, invece, la questione ontologica e gnoseologica relativa a possibilità e
modalità di espressione dell’essere da parte del pensiero, e di quella - conseguente dello strutturarsi dei due poli nella loro
relazione.
Al di là di una contrapposizione tanto radicata nella tradizione quanto apparente, la
relazione che è storicamente intercorsa tra
prova a priori (l’argomento ontologico di
origine anselmiana) e prova a posteriori
(l’argomentazione causale, rintracciabile
in Tommaso) mette in luce, secondo Scribano, una solidarietà che può spiegare la
fortuna dell’una e dell’altra e, insieme,
l’evolversi del loro rapporto in base al
mutamento delle modalità logiche e temporali di determinazione del concetto di
AUTORI E IDEE
esistenza. Dal punto di vista storiografico,
sostiene Scribano, quella che per Kant è la
dimostrazione ontologica dell’esistenza di
Dio equivale all’argomentazione a priori
esposta da Descartes nelle Meditazioni;
quest’ultima, a sua volta, rinvia però alla
dimostrazione causale (cioè aprioristica)
di Tommaso, almeno quanto l’argomento
a priori di Anselmo.
Di fatto, nell’età moderna, di cui, quasi
convenzionalmente, Descartes rappresenta il campione filosofico, si realizza un
diverso modo di concepire la predicazione
di esistenza e, con esso, una diversa concezione della sua dimostrabilità. In questo
senso, ben prima di quanto non sia accaduto con l’attenzione mostrata dalla riflessione novecentesca, la questione onto-teologica si mostra come la sede più adeguata
delle questioni filosofiche relative all’esprimibilità dell’esistente. Iuxta le esplicite
dichiarazioni di Descartes e di Kant in
proposito, l’argomento ontologico appare,
in rapporto a quello cosmologico, come
l’unico in grado di dimostrare l’esistenza di
Dio, così come quest’ultimo viene concepito dalla tradizione cristiana: un essere
dotato di identità personale, infinito e creatore, e non solo principio cosmologico
dell’universo.
In origine, nell’argomento ontologico di
Anselmo, entrano in gioco soltanto modalità “logiche” di definizione dell’esistenza:
è impossibile, in quanto contraddittorio,
che un ente, di cui non si può pensare il
maggiore (come nel caso di Dio), non esista nella realtà. L’argomentazione ontologica di Descartes si appropria del punto di
forza dell’argomento cosmologico, ovvero
del concetto temporale di necessità: è possibile ciò che si realizza almeno una volta,
impossibile ciò che non si realizza mai,
necessario ciò che si realizza sempre. Kant,
che nella ricostruzione di Scribano rappresenta non solo il punto d’arrivo storiografico, ma la sintesi teoretica dell’evolversi
della prova ontologica - e, con essa, dei
tentativi di “dimostrare” in generale l’esistenza di un ente - ha il merito «di avere
ricostruito la logica dell’innesto dell’argomento ontologico nel corpo dell’argomento cosmologico, e di averla per primo raccontata». La confutazione kantiana della
prova cosmologica nella sua versione leibniziana, osserva Scribano, ha forza proprio
e solo in quanto essa rifiuta, nel contesto
della critica della prova ontologica, la possibilità di un’esistenza logicamente necessaria, cioè la possibilità di dedurre l’esistenza da un concetto. Con ciò viene però
negata la legittimità non solo della teologia
moderna, ma anche della metafisica; dell’una e dell’altra, conclude Scribano, a partire dall’evoluzione, in età moderna, della
prova ontologica, risultano così dimostrate
la contemporaneità e la solidarietà consustanziali e la comune problematicità.
Dalla questione della dimostrabilità dell’esistenza di Dio prende le mosse anche
Wilhelm Weischedel nell’ultimo volume,
il terzo, della sua celebre e ponderosa opera, Il dio dei filosofi, che intende anzitutto
mettere a fuoco la riflessione filosofica nonché quella teologica, nelle sue valenze
filosofiche - dedicata al “problema di Dio”
nel panorama del pensiero novecentesco.
Se non è possibile regredire al di là dei
limiti imposti dagli esiti della riflessione
kantiana, osserva Weischedel, allora dobbiamo da un lato ripensare la possibilità di
dimostrare l’esistenza di un ente in quanto
tale e di quello che era concepito come
l’ente sommo, nonché ens entium, dall’altro sollevare l’esigenza - non intendendo
rinunciare a utilizzare lo strumento razionale, ovvero quello linguistico, per avvicinarsi a Dio - di definire altre modalità di
“dimostrazione”, ovvero di “prove” dell’esistenza del divino, così come la tradizione teologica cristiana lo ha concepito.
Per ciò che concerne il primo aspetto, Aristotele ritorna ancora una volta in primo
piano, per Weischedel, come colui che
definisce la metafisica, ovvero il “sapere
primo”, come scienza dell’essente in quanto tale (on he on), dell’essente in totalità
(katholou) e della “parte più nobile” dell’essente medesimo (timiotaton ghenos).
In tale articolazione, come ha mostrato
Heidegger, la metafisica si configura come
onto-teo-logia, e il problema dell’essere di
Dio diventa quello dell’essere dell’ente,
nonché dell’essere del mondo, in quanto
totalità dell’ente.
Il secondo aspetto del problema analizzato
da Weischedel riguardo alla questione della dimostrazione dell’esistenza di Dio (e,
conseguentemente, quella dell’esistenza del
mondo) rappresenta il motivo più caratteristico all’interno del dibattito teologico novecentesco. Stando alla ricostruzione di
Weischedel, esso non fa che confermare,
nella molteplicità delle voci che tentano di
rintracciare un’autorità razionale per la fede,
i termini del problema così come lo aveva
circoscritto Kant. Ogni concetto su Dio, in
altri termini, presuppone un’esperienza che
va al di là dei parametri in qualunque modo
fissati per l’argomentazione razionale; la
pretesa di dimostrare questo presupposto si
configura, dunque, come una sorta di circolo vizioso, orientato all’impossibile tentativo di uscire dai limiti imposti dalla nostra
condizione di esseri finiti. F.C.
Budda e il buddismo
In un’epoca materialista e consumistica come la nostra, la pubblicazione
di scritti come BUDDA (Tea Corbaccio,
Milano 1993), di Herman Oldenberg,
che ripercorre la vicenda storico di
Budda, e LE VIE DEL BUDDHA (Sansoni,
Firenze 1994), di Chodzin Kohn, che
affronta la filosofia buddista centrata
sulla meditazione, rappresenta una
sfida e un appello al confronto.
18
Nel suo studio, Herman Oldenberg propone un Budda umano, fornendo una chiave di lettura della coscienza buddista sia
sul piano teorico, che su quello pratico. Il
Budda descritto dall’autore è un uomo
comune, non esente da dubbi, paure, conflitti; la differenza è una grande ricchezza
interiore, accompagnata da un’irrefrenabile sete di sapere, che lo conducono ad
abbandonare ogni bene materiale per inoltrarsi nell’arduo cammino della povertà
verso una verità che coinvolge e illumina
tutto il suo essere. Non il male, ma il bene;
non l’egoismo, ma l’altruismo sono le
qualità con cui Budda affronta se stesso,
gli altri e il significato dell’esistenza.
Oldenberg tratta del personaggio Budda in
forma narrativa, cogliendo somiglianze tra il
Dio Budda e Cristo, maestro di una francescana partecipazione al dolore degli altri, ma
anche predicatore del distacco dal mondo.
Chodzin Kohn approfondisce invece la
religione buddista come prassi di vita,
aprendo un confronto con l’Occidente. La
meditazione come fonte di sapere, accompagnata dallo yoga, sono elementi che
nella filosofia orientale rappresentano la
via verso il sublime, la salvezza: una salvezza che si compie nella pratica costante
di esercizi spirituali atti a purificare l’essere. Queste tecniche Kohn le descrive come
insegnamenti base per il raggiungimento
della saggezza e della moralità, che coincidono con una retta visione del mondo e
un retto agire.
Se per gli occidentali l’adesione alla dottrina cristiana si risolve con un atto di fede,
i buddisti sono accolti dalla comunità solo
in virtù di un’assoluta rinuncia a qualsiasi
bene terreno, in totale armonia con la natura. Riti, esercizi sacri, penitenze si configurano in un’unità, in una fusione tra individuo e collettività, che non lascia spazio
ad alcuna differenza. La diversità viene
soppressa al suo sorgere; l’individuo assume significato in nome di una totalità più
grande di lui e la consapevolezza di questa
dimensione umana conduce a non affrontare in prima persona la vita, ma a lasciarsi
guidare dalla forza della natura, del divino. L’ascolto di se stessi e della vita appartiene alla saggezza buddista, e di questo
Kohn si fa testimone, interpretando l’esistenza come un lungo viaggio verso la
liberazione totale.
In questo contesto segnaliamo l’avvio in
Italia di un programma di studi e pratica di
meditazione, lo “Schambhala Training”,
creato nel 1977 dal lama tibetano ven.
Chögyam Trungpa Rinpoche, che ha
ripreso la tradizione Shambhala della società illuminata dell’essere “guerriero” in
una visione laica dello sviluppo dell’uomo, che prescinde quindi dall’appartenenza a qualsiasi religione. Nel 1968 Trungpa
Rinpoche, che ha dedicato la sua vita allo
studio del buddismo tibetano e alla sua
diffusione in Occidente, fonda in Scozia
un primo centro di buddismo tibetano, il
Samye Ling. Successivamente fonda vari
AUTORI E IDEE
altri centri nel Nord-America, tra i quali
un’università, il Naropa Institute, nel 1974
e, appunto, lo Shambhala Training, nel
1977, che attualmente è presente negli
Stati Uniti, in Canada, in Cile, in Australia
e in Europa; in italiano è presentato a
Lugano (Svizzera) e a Milano.
Scopo di Trungpa Rinpoche è stato quello di creare nel mondo una “società illuminata” che, mediante l’unione della
visione spirituale e della praticità, consentisse il “risveglio” degli uomini per
indirizzarli ad una attività sociale benefica, fondata sulla compassione di tutti
gli esseri sensibili, che instaura la visione Shambhala. A questo scopo ha provveduto la creazione di tre indirizzi spirituali, che rappresentando altrettante “porte” di accesso al Mandala di questa società illuminata cioè il “Vajradhatu”, la
“Nalanda” e lo “Schambhala Training”. Il
“Vajradhatu” riguarda la porta buddista
del Mandala Schambhala e avvia allo studio della dottrina buddista e alla pratica
della meditazione. La porta “Nalanda”,
che ha preso questo nome da una famosa
università indiana dell’XI secolo, è costituita da diverse organizzazioni che hanno
lo scopo di diffondere le pratiche di discipline contemplative intese come diversi
sentieri per riscoprire la”bellezza”, la “sensibilità” e l’”eleganza”. Alcune di queste
organizzazioni sono Naropa Institute, Kyudo, Ikebana, Mudra Space Awareness Training, Maitri Space Awareness e il Comitato di Traduzione Nalanda. Infine, lo
“Schambhala Training” presenta un programma di studio e una pratica di meditazione, dotati di un risvolto secolare,
più che religioso, in quanto si propone di
indicare agli uomini il sentiero del “guerriero” nella vita quotidiana, nella quale
la paura non deve essere considerata
solo come un grande impedimento, ma
anche come un modo per conoscere più
profondamente se stessi. In questa prospettiva diventa possibile affrontare con
fiducia quelle paure che ostacolano la
capacità di realizzare totalmente il proprio essere uomo, edificando così la società illuminata.
Dopo la morte nel 1987 di Chögyam Trungpa Rinpoche il suo primogenito, Sawang
Ösel Rangdröl Mukpo, ha continuato l’attività del padre, dirigendo dal 1990 il Mandala Schambhala.
La diffusione della visione dello Shambhala assume una notevole importanza in quanto non si esaurisce in una pratica contemplativa di fruizione puramente individuale,
isolata dal resto del mondo, ma s’impone
per la sua volontà di inseririsi nel mondo
con lo scopo di originare un’azione collettiva positiva che, partendo dalla espansione delle potenzialità soggettive, sfoci nell’instaurazione di una società gioiosa, “gentile” e sana. Nei primi mesi del 1995 è
previsto a Milano il Livello I dello “Schambhala Training” (per informazioni: Pema
Thaye, tel. 031/400112). D.M./M.Mi.
Il pensiero politico
di Oakeshott
Continua la pubblicazione dell’opera omnia del politologo Michael
Oakeshott. Dopo RATIONALISM IN POLITICS (Razionalismo in politica, 1991),
è ora la volta di RELIGION, POLITICS AND
THE MORAL LIFE (Religione, politica e la
vita morale, a cura di T. Fuller, Yale
University Press, New Haven 1993)
e di MORALITY AND POLITICS IN MODERN
EUROPE (Moralità e politica nell’Europa moderna, a cura di S. Robin
Letwin, Yale University Press, New
Haven 1993). Muovendo da una riflessione e da un’osservazione della
storia intesa in senso extra-politico
e comune, Oakeshott propone una
visione anti-razionalista e anti-collettivista della politica. La sua concezione appare tuttavia, in vari
aspetti, problematica e paradossale, se non aporetica: l’obbedienza
alla legge come dovere etico si scontra con la neutralità morale della
legge; l’Occidente viene considerato come depositario del valore dell’individualità e allo stesso tempo
dell’etica ideologica e collettivista;
la “sicurezza”, scopo del socialismo,
viene rifiutata; la moralità è irrimediabilmente divisa tra normatività e
spontaneità.
Religion, Politics and the Moral Life
raccoglie dieci saggi, redatti tra il 1925
e il 1955, in cui Michael Oakeshott fa
risalire la sua visione della religione e
della morale agli insegnamenti di un
sacerdote anglicano, ai tempi della sua
infanzia, il quale sosteneva che la religione è pietas, non un insieme di credenze, e la morale un modo di comportamento. Coerente con questa concezione,
nel saggio Religion and the World (La
religione e il mondo, 1929), Oakeshott
considera la religione autentica come
pre-teoretica e non-dogmatica, cioè come
religiosità. Essa è orientamento dell’anima in una dimensione dell’esperienza
vissuta al suo massimo livello. Una religione intesa come assenso intellettuale a
certe richieste oggettive sul mondo si
rende vulnerabile non solo a confutazioni esterne ma anche ad un criticismo
anti-razionalista. L’autentica religione,
rileva Oakeshott, non può garantire la
“salvezza”, che invece consiste nell’essere liberati “qui e ora” dall’egoismo
quotidiano e dalla tirannia del successo.
A questo proposito, nel saggio The Historical Element in Christianity (L’elemento storico nel Cristianesimo, 1928)
Oakeshott afferma che non esiste “un
cuore” dell’esperienza cristiana o un’essenza del cristianesimo, né alcuna credenza storica definitiva a cui appoggiarsi, esiste solo la fine della mutazione diacronica di ciò che chiamiamo Cristianità.
19
L’affermazione che la religione sia pura
pratica solleva in Oakeshott la questione,
presente sia in Religion, Politics and the
Moral Life che in Morality and Politics in
Modern Europe, se possa esistere una politica staccata dalla teoria politica. La politica in senso pratico, osserva Oakeshott,
non consiste solo nella gestione di interessi pratici e immediati, ma tocca anche la
vita spirituale di tutti coloro che essa riguarda, venendo a identificarsi con i valori
morali più alti di una società, come “Dio”
e “patria”. In The Claims of Politics (Le
pretese della politica, 1939) Oakeshott afferma che i più alti valori della società, la
sua più chiara consapevolezza di sé, sono
dati dai poeti, dagli artisti e dai filosofi,
non dai politici. Il governo, o l’attività
politica in generale, che è ciò che definisce lo Stato - come vien detto in The
Autority of the State (L’autorità dello
Stato, 1929) -, consiste nel salvaguardare la cultura e porre le sue minime condizioni di sviluppo. Società, Stato e Nazione sono intesi da Oakeshott come
realtà pre- e post-politiche, appartenenti
ad un determinato mondo storico e a una
cultura specifica.
Dei saggi compresi in Religion, Politics
and Moral Life fanno parte anche due
inediti: The Customer is Never Wrong
(1955), in cui Oakeshott rifiuta la proposta
di Walter Lippmann di costruire una
nuova filosofia basata sulla legge naturale,
e “Scientific Politics” (1948), recensione
del testo di Hans Morgenthau: Scientific
Man versus Power Politics (Uomo scientifico versus potere politico, 1947).
Morality and Politics in Modern Europe
presenta otto lectures inedite, tenute da
Oakeshott a Harvard nel 1958, che sviluppano le concezioni da questi elaborate a
partire da The Masses in Representative
Democracy (Le masse nella democrazia
rappresentativa, 1957; ora incluso nella
nuova edizione di Rationalism in Politics)
fino alla terza parte di On Human Conduct
(Sulla condotta umana, 1975), e centrate
sull’importanza dell’individualità, la sua
emergenza storica, la sua moralità collettiva, a cui si oppone l’anti-moralità della
reazione collettivistica.
Due sono i punti chiave individuati da
Oakeshott nella storia della modernità. Il
primo è il processo di centralizzazione e
modernizzazione delle monarchie europee, che ebbe come conseguenza di liberare aspiranti “individualisti” dalle fedeltà
feudali a dalle tradizioni locali. Il secondo è frutto del carattere di visibile inadeguatezza dell’individualità agli occhi di
coloro che ancora non l’hanno raggiunta
e la cui insicurezza diviene il mezzo per
ottenerne l’obbedienza in cambio della
loro redenzione in teocrazie (Calvino a
Ginevra) o utopie produttivistiche (Bacon, Owen, Saint-Simon) o equalitarismi socialisti. M.G.
AUTORI E IDEE
Dilettanti e viandanti
nel romanticismo
Il viaggio, inteso come quell’esperienza in cui l’individuo realizza se
stesso, e il dilettantismo, quale carattere proprio di personaggi privi
di regole e alla ricerca della pienezza
estetica, sono tema rispettivamente dello studio di Patrizio Collini,
WANDERUNG . IL VIAGGIO DEI ROMANTICI
(Cafoscarina, Venezia 1993) e dello
scritto di J. Wolfang Goethe e di
Friedrich Schiller, IL DILETTANTE (a cura
di E. De Angelis, Donzelli, Roma
1993), che raccoglie anche saggi di
Otto Ludwig, Rudolf Kassner, Gottfried Keller, Thomas Mann, Karl Philipp Moritz, Jean Paul, Friedrich Schlegel, Adalbert Stifter, Wilhelm Heinrich Wackenroder, Richard Wagner.
Lo studio di Patrizio Collini, prendendo spunto dall’analisi de Le peregrinazioni di Franz Sternbald di Tieck e
dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis,
analizza la funzione e la struttura del
viaggio e del viaggiatore in epoca romantica. Secondo Collini, esistono fondamentalmente due tipologie del viaggio. Il primo, escatologico nella visione
cristiana e progettuale nella visione laica, è caratterizzato nella sua ontologia
dalla meta che fornisce il senso alle tap-
pe; il viaggio assume qui il ruolo dello
strumento funzionale e necessario ad uno
scopo, rappresentato dal traguardo, che
una volta raggiunto, negherà anche la
funzione del viaggio stesso. Il secondo
tipo di viaggio, la Wanderung (peregrinazione), che Collini sceglie nello specifico della sua analisi, cancella, invece,
ogni tipo di meta e assume significato
nel darsi degli eventi, che non esistono
in funzione del traguardo, ma esclusivamente nel loro accadere. La capacità di
procedere al di là dello scopo finale, rende
il viandante il vero donatore di senso che
esiste nei singoli accadimenti e vive il
mondo come assoluta e continua novità.
Collini, che colloca questa tipologia di
viaggio all’interno della letteratura romantica, ad esempio nel Wilhelm Meister di
Goethe, rovescia il tema della Bildung
(formazione), altrettanto caro al romanticismo. In altre parole la Wanderung diventa quella capacità dell’anima di cogliere il
mondo nella sua innocenza e casualità al di
là di qualsiasi anticipazione di senso. D’altra parte, il tipico viaggio romantico è
caratterizzato proprio dalla donazione di
senso attraverso la progettualità e il finalismo. Basta pensare alla Fenomenologia
dello Spirito di Hegel, in cui le tappe assumono significato grazie alla meta che, a sua
volta, diventa tale grazie alle tappe. In
questo tipo di viaggio la formazione dell’individuo è possibile grazie al fine ultimo
Caspar David Friedrich, Viandante su un mare di nebbia (particolare, 1818)
20
della ragione, che si realizza durante il
percorso. Una volta esclusa la meta e il
progetto, conclude Collini, non ha più alcun senso, però, parlare di “senso”; per
questo, una tale interpretazione del viaggio
si addice anche a due pensatori che hanno
superato la concezione teleologica e finalistica della conoscenza, e cioè Nietzsche e
Schopenhauer.
L’assenza di progettualità e di regole
colloca questo modello di viaggiatore
accanto a quello del dilettante, a cui J.
Wolfang Goethe, con la collaborazione
di Friedrich Schiller, dedicano alcune
interessanti considerazioni nello scritto
Il dilettante, in cui, oltre alle concezioni
dei due autori, compaiono vari saggi che
rappresentano altrettanti esempi concreti di dilettantismo. La figura del dilettante, caratteristica dell’età romantica, è
propria dell’amante dell’arte e dell’eroe
romanzesco, che vive nel mondo dell’immaginario, isolato dalla società.
Goethe e Schiller descrivono il dilettantismo come quell’atteggiamento in primo luogo utile all’uomo in genere nella
realizzazione dei suoi impulsi; in secondo luogo come quello stile che, da una
parte fornisce all’arte l’impulso creativo
e, dall’altra, in quanto godimento, costituisce una conseguenza dell’arte stessa.
Nonostante questa vicinanza alla produzione artistica, il dilettantismo, secondo
Goethe e Schiller, si distingue nettamente dall’arte. Quest’ultima, infatti, è
caratterizzata da leggi formali ed espressive ed è finalizzata alla verità del soggetto rappresentato, mentre il dilettantismo si manifesta nella totale assenza di
leggi e al di là della ricerca di una qualsiasi verità. Inoltre, mentre l’artista fa
della propria passione una professione,
il dilettante si limita ad un’attività saltuaria e, quindi, d’occasione. Il prototipo del dilettante, in questo modo, diventa quello di un individuo che, vivendo
isolato e ai margini della società, esaspera la propria esistenza nella ricerca
parossistica della realizzazione artistica. Nella totale assenza di valori sociali
e di progetti da perseguire, il dilettante
vive inseguendo il sogno di un appagamento estetico che esalti la propria soggettività al di sopra di tutto e di tutti.
Rende bene l’idea del dilettante la figura
di Anton Reiser nell’omonimo romanzo
di Karl Philipp Moritz, che narra di un
viaggiatore completamente proiettato nel
sogno di diventare attore. Circondato da
una realtà per lui completamente evanescente, il viaggiatore-dilettante vede sfumare davanti agli occhi la possibilità
concreta di realizzare il suo sogno. Così,
mentre, sullo sfondo, l’autore sottolinea
l’impossibilità per il protagonista, che
non riesce mai a dimenticare se stesso, a
diventare attore, il viaggiatore si adatta a
lavorare come manovale, vivendo la
nuova professione, ancora una volta,
come un ruolo da palcoscenico. A.S.
AUTORI E IDEE
Ralph Goings, Twin Springs Diner (1976, particolare)
Terra-Patria
invece di non-luoghi
Una severa disamina del nostro stato
di “agonia”, a livello planetario, e, nel
contempo, la proposta di una “nuova
religione”, caratterizzano l’ultima
opera del sociologo francese Edgar
Morin, TERRA-PATRIA (trad. it. di S. Lazzari, Raffaello Cortina Editore, Milano
1994 ), scritta in collaborazione con
Anne Brigitte Kern. Intento dell’analisi di Morin è recuperare il pianeta al
ruolo di “patria”, cioè di luogo costruttore di identità per l’uomo che lo
abiti. Alla decontestualizzazione, e
attraverso di essa, alla definizione dei
concetti produttori di identità è dedicato lo studio di Marc Augè NON LUOGHI: INTRODUZIONE AD UNA ANTROPOLOGIA
DELLA SURMODERNITÀ (trad. it. di D. Rolland, Edizioni Eleuthera, Milano 1993).
Il “Vangelo della perdizione” proposto da
Edgar Morin in Terra-Patria prevede
una religione con finalità razionali: salvare il pianeta, nostra unica vera Patria, sia
da quelle che Morin definisce “minacce
damoclee”, cioè le minacce globali (degrado progressivo della biosfera, uso delle
armi atomiche), sia dai disagi prodotti dallo sviluppo della tecno-scienza in tutti i
settori della vita sociale.
La “nuova barbarie” prodotta dal “mito
dello sviluppo” è propria soprattutto dell’Occidente e ha causato un nuovo, diverso sottosviluppo, quello relativo all’individuo, privato del suo tempo, costretto a
vivere un tempo “precipitato e cronometrato”, compiendo un lavoro parcellizzato
e deresponsabilizzato. Un individuo che,
nella maggior parte dei casi, resta in tal
modo escluso dalla vita politica democratica, abituato ad usare una miriade di mezzi di comunicazione senza però che si
pervenga mai ad un livello di comunicazione effettiva. Il risultato complessivo,
sostiene Morin, porta ad una situazione
policrisica, dove incertezze, problemi,
minacce si intrecciano in una rete di interretro-azioni, estremamente difficile da
identificare e da risolvere.
A questa condizione tragica e incerta di
un’umanità ancora incapace di realizzarsi
come tale - una condizione che Morin non
esita a definire “agonia planetaria” - si
oppone, quale «permanente contrappunto,
un inno all’evoluzione, ad una sorta di
epopea cosmica, che un giorno, curiosamente, è sfociata nell’Homo Sapiens».
Partendo dalla comune origine della vita,
Morin sottolinea, infatti, la fondamentale unità ideologica, morfologica, psicologica ed affettiva dell’Homo Sapiens,
un’identità comune che è stata occultata
e tradita, proprio nel cuore dell’era planetaria, dalla sviluppo compartimentato
e specializzato delle scienze e da una
21
evoluzione politica confusa e contraddittoria. Da qui, la necessità di fondare
una “antropolitica” basata sulla responsabilità planetaria, sulla presa di coscienza da parte dei “nuovi cittadini planetari”, del loro comune destino terrestre.
L’antropolitica dovrà tenere conto dell’estrema incertezza della realtà, accettare la dialettica tra ideale e reale, tra
sviluppo ed inviluppo, operando nella
direzione di quello che Morin chiama
“meta-sviluppo”, uno sviluppo meta-tecnico, meta-economico, meta-industriale, che conduca l’uomo a riappropiarsi
del “passato tellurico”, nonché di quello
umano, per vivere secondo imperativi
etici quali comprensione, solidarietà,
compassione.
Morin detta anche una serie di norme
strategiche per attuare quella che egli
definisce una “ominizzazione della Terra”, dalla quale non può essere disgiunta
una profonda riforma del pensiero, attraverso la pratica del cosiddetto “pensiero
complesso”, già ampiamente teorizzata
ed esemplificata nei quattro volumi della Méthode (1977-1992). Il pensiero complesso è un pensiero che abbandona i
rigidi schematismi prodotti da una razionalizzazione astratta, unidimensionale, opera di un’intelligenza parcellizzata, deterministica e meccanicistica, per
instaurare una razionalità autentica, che
conosce i limiti della logica e del deter-
AUTORI E IDEE
minismo, che negozia con l’irrazionale,
con l’oscuro, con il caotico, che fa suo
anche il disordine ed il casuale della
realtà. Il pensiero complesso, sostiene
Morin, è un pensiero multidimensionale
e “ologrammatico”. In questa prospettiva la Terra appare come una totalità
complessa, fisica, biologica, antropologica in cui la vita è un’emergenza della
storia della terra e l’uomo un’emergenza
della storia della vita terrestre.
Alla questione del riconoscimento, da
parte dell’individuo, della propria identità nei luoghi del proprio agire è dedicata l’ultima opera di Marc Augè, Non
luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità. Con questo studio Augè persegue “un’antropologia del
quotidiano” esplorando i “non-luoghi”,
cioè quegli spazi dell’anonimato, frequentati da individui tra loro simili, chiusi
ciascuno nella propria singolarità. L’ipotesi che guida questa ricerca è quella
secondo la quale l’epoca in cui viviamo,
che Augè definisce “surmodernità”, abbia come sua modalità fondamentale l’eccesso spazio-temporale e l’accellerazione della storia.
Il non-luogo si presenta come nozione
opposta a quella di luogo, antropologicamente considerato come costruttore di identità, di relazioni, di storia. Il non-luogo
indica, invece, due realtà complementari:
è spazio destinato a determinate finalità e,
al tempo stesso, indica il rapporto dell’individuo con tale spazio. Rappresentano
non-luoghi, ad esempio, le infrastrutture
per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti), i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei); ma anche i supermercati, gli ospedali, le grandi catene alberghiere.
Mentre il luogo antropologico crea relazioni, il non-luogo genera una “contrattualità solitaria”: condizione essenziale
per divenirne utente appare, infatti, l’entrare in relazione con le dinamiche che
lo governano. Il non-luogo si definisce
proprio attraverso le prescrizioni che
mettono in rapporto l’individuo con un
ente astratto (lo Stato, il Comune, un’associazione) che ha la pretesa di rappresentare una sostanza reale, anche con
valenza etica. Contestualmente, si assiste a una invasione dello spazio da parte
di testi che si presentano come interpellanze, solo apparentemente rivolte a individualità personali, che risultano, però,
intercambiabili nel loro carattere seriale. Si crea, così, una cosmologia di echi
e strutture linguistiche tali da costituire
un sistema di riferimento tanto universale, quanto generico e massificante.
Paradossalmente, in una tale condizione
l’individuo si sentirà “a casa” e ritroverà
una sua “identità”, anche se fittizia, proprio nell’anonimato delle autostrade, dei
grandi magazzini e delle catene alberghiere, nei quali riconoscerà il carattere prescrittivo del non-luogo. L.P.
Herzen e la sua filosofia
In BREVE STORIA DEI RUSSI (Corbaccio,
Milano 1994), recentemente ristampata, Aleksandr Herzen analizza le
conseguenze e la trasformazione della Russia in seguito alla rivoluzione del
1948, la caduta del marxismo e il ruolo
dell’euroasismo quale filosofia oggi
diffusa fra gli intellettuali vicini al potere. Opinioni drastiche nei confronti
di un ordine morale oggettivo opposto ad un agire di libere coscienze
sono espresse da Herzen in DALL’ALTRA
SPONDA (trad. it. di P. Pieri, Adelphi,
Milano 1993), una riflessione critica
sull’esito fallimentare delle rivoluzioni europee del 1848.
Aleksandr Herzen si è interessato in modo
attivo alla storia russa e al periodo del 1948,
illustrandone gli aspetti populisti. Autore
di vari saggi, ha rivolto particolare attenzione alla caduta del marxismo come un
cambiamento globale del mondo. In Breve
storia dei russi Herzen critica quelle ideologie che pur di soddisfare l’impellente
bisogno di Assoluto che c’è nell’uomo
esasperano i concetti di uguaglianza, di
nazionalità, di democrazia, di progresso,
senza in realtà difendere i veri diritti umani,
affrontando i problemi più urgenti dei lavoratori. Herzen si scaglia contro ciò che sta
dietro ai grandi movimenti popolari, ovvero il cinismo, la lotta per il potere...; un’intera storia umana si rivela dominata da
ambiguità, da principi oscuri, non da lotte
autentiche in difesa dei veri interessi dei
cittadini, dei deboli.
Herzen propone un’interpretazione della
storia che si oppone a un finalismo predeterminato; la storia non ha altro impulso
che la volontà di ogni singolo individuo,
che agisce o contro il bene collettivo, o in
sua difesa, spinto da motivazioni autentiche. La storia è in continua evoluzione,
un’evoluzione che vede come responsabile
l’umanità e la sua opera.
Herzen prende in considerazione soprattutto la storia dell’Unione Sovietica e il
post comunismo marxista. La rivoluzione,
il crollo del marxismo e la transizione al
nuovo regime anticomunista hanno avuto
le loro cause in fatti, in precisi momenti, in
fenomeni umani e sociali che non hanno
niente a che fare con un intervento o un
giudizio Divino. Storia e natura sono sfere
separate, secondo Herzen, e hanno leggi
completamente diverse e un orizzonte completamente diverso, terreno, il primo, ultraterreno, il secondo.
Per una teoria della comprensione dei fatti
storici come è la filosofia della storia, «i
destini umani non sono liberi, poiché nello
sviluppo storico rientrano molti principi
variabili, la volontà e il potere personali
prima di tutto.» Con queste parole Herzen
caratterizza la sua riflessione critica sull’esito fallimentare delle rivoluzioni europee del 1848. Dall’altra sponda è una lunga
22
e spietata riflessione sul significato e il fine
della storia, nella consapevolezza che dietro tante guerre inutili, assurde tragedie
collettive, rivoluzioni e rivendicazioni combattute in nome dell’Umanità e della Libertà, si nascondono la ragion di Stato e la
spregiudicatezza degli uomini politici, burocrati che dovrebbero garantire la giustizia, ma che non fanno che legittimare le
peggiori scelleratezze.
Herzen si scaglia contro ogni forma di
dispotismo, e critica a spramente «la meschinità e il livore della borghesia, che
schiaccia tutto ciò che è originale, indipendente e aperto», prevedendo quella che
sarà la tirannia dei grandi sistemi altruistici
del nostro secolo: il «panteismo aritmetico
del suffragio universale», «fede superstiziosa nella repubblica», a cui fa riscontro la
brutale arroganza della minoranza dall’altro.
Per la filosofia della storia porsi il problema del “senso” significa considerare il corso storico, dalla sua origine al suo compimento, come diretto a un fine, a un telos.
Ogni evento, ogni fatto, ogni episodio diventano, in tal senso, segni o indizi rivelatori di un processo, non necessariamente
cosciente, verso una direzione prestabilita.
Herzen rifiuta tutto ciò, nega qualsivoglia
prospettiva finalistica che porta ad una
storia profetica. «Guardare alla fine e non
alla cosa stessa, è un errore gravissimo»
secondo Herzen; la vita ama il nuovo, il
corso della storia non è preordinato da
“un’astuta” ragione, che armonizzi i moti
disordinati degli uomini secondo un proprio disegno segreto. L’assunto principale
del pensiero di Herzen è che Natura e storia
non appartengono a due ordini diversi, ma
formano un’unica realtà in cui le esistenze
umane si trovano immerse e dalla quale
sono determinate. Le riflessioni di Herzen
non si presentano mai come pura speculazione filosofica, perché le esigenze di individuo e comunità ne costituiscono il presupposto e il fine. M.Ma./D.M.
In onore di Hermann Schmitz
Con il titolo REHABILITIERUNG DES SUBJEKTIVEN . FESTSCHRIFT FÜR HERMANN
SCHMITZ (Riabilitazione del soggettivo. Scritti in onore di Hermann Schmitz, Bouvier Verlag, Bonn 1993) è
stato pubblicato un grosso volume,
curato da Michael Grossheim e HansJoachim Waschkies, che raccoglie
contributi di numerosi autori, allievi
e amici, che hanno voluto così festeggiare il 65° compleanno del loro
maestro, Hermann Schmitz, e il suo
ritiro dall’insegnamento.
Nella premessa dei curatori viene brevemente richiamata l’opera di Hermann Schmitz, il cui asse direttivo fondamentale si
pone sotto il segno di una “destrutturazione
AUTORI E IDEE
fenomenologica della tradizione”: «Il
compito che mi sono posto - ha dichiarato Schmitz - è quello di non far cominciare il filosofare con costruzioni o proiezioni della nostra specifica oggettivazione culturale, ma, alla luce di una più
precisa osservazione e concettualizzazione, risalire all’originario, involontario, momento dell’esser sorpreso, enuclearlo e da qui raggiungere le strade
dell’oggettivazione che portano a teoria
e prassi, diritto e religione, orientamento spaziale e temporale, arte e costumi».
Di questo progetto filosofico Michael
Grossheim e Hans-Joachim Waschkies
intendono, con questo volume, saggiare
il valore euristico, proponendo percorsi
che toccano diversi ambiti del sapere e
dell’esperire umano. Nella prima parte
del volume sono riuniti contributi che si
confrontano prevalentemente con la filosofia di Schmitz sotto aspetti di tipo
sistematico. Dopo un breve saluto di
Hans-Georg Gadamer, si succedono
contributi inerenti all’idea di ragione e
razionalità (Ulrich Pothast), al rapporto tra neo-fenomenologia e costruttivismo (Peter Janich), all’istanza di una
nuova estetica della natura che consideri
il nesso soggetto-oggetto (Gernot Böhme), alla paradoxia di Epimenide in H.
Schmitz e N. Luhmann (Günther Schulte), alla problematica della conoscenza
scientifica e allo statuto di “paradigma”
scientifico in S. Kuhn (Hans-Jürgen
Wendel), al concetto di animal rationale (Arno Baruzzi), al rapporto antitetico
che ha l’idea di “principio” in Ernst
Bloch e Ludwig Klages (Michael
Grossheim), al concetto di responsabilità
(Karl-Otto Apel) e infine al carattere che
la nuova fenomenologia può rivestire per i
problemi presenti in modo specifico nel
pensiero europeo (Hans Werhahn).
Nella seconda parte del volume vengono
raccolti saggi che cercano di dimostrare
come la nuova fenomenologia possa rivelarsi proficua anche in altri ambiti
scientifici, come la psicosomatica (Gerhard Danzer) e la fisiologia (Hans
Schäfer). Seguono poi contributi sulla
fenomenologia della religione (Hermann Timm), sul significato dell’opera
di Schmitz nel campo religioso della
cura delle anime, sulla rilevanza della
psicolinguistica nel Sistema della filosofia di Schmitz (Bernd Tischer) e sul
rapporto tra filosofia della corporeità e
arti figurative (Lorenz Dittmann). Tra i
contributi in ambito politico-giuridico,
viene affrontata la questione se il moderno
Stato dei partiti definisca effettivamente il
tipo di Stato oggi dominante (B. C. Vis).
Nella terza parte del volume, infine, compaiono contributi a carattere storiografico, che in qualche modo sono originati
dalla filosofia di Schmitz. Sono presi in
considerazione la filosofia di Parmenide
(Wilhelm Perpeet), quella di Empedocle (Guido Rappe), i motivi letterario-
filosofici presenti in Lucrezio (Hartmut
Böhme), l’estetica kantiana (Reinhard
Brand), la teoria dell’incoscio di Freud
(Siegfried Brasch), l’ontologia di Husserl
(Tadashi Ogawas) ed infine il rapporto
tra Heidegger e la rivoluzione conservatrice tedesca (Ernst Nolte). G.B.
Rivoluzioni in geometria
I principi e le ipotesi della nuova geometria, nata dalla confutazione del V
Postulato di Euclide, sono l’oggetto
di due opere: NUOVI PRINCIPI DELLA GEOMETRIA CON UNA TEORIA COMPLETA DELLE
(trad. it. a cura di R. Pettoello, Bollati-Boringhieri, Torino 1994),
di Nikolai Lobacevskij, e SULLE IPOTESI
PARALLELE
CHE STANNO ALLA BASE DELLA GEOMETRIA
(trad. it. a cura di L. Lombardo Radice,
Bollati-Boringhieri, Torino 1994), di
Bernhard Riemann.
Quando nel 1829 il matematico russo
Nikolai Lobacevskij pubblicò, su una
sconosciuta rivista di uno sperduto paesino russo, il suo lavoro sui nuovi principi della geometria, mise una conclusione originale e del tutto inaspettata al
problema della inconfutabilità della verità del V Postulato di Euclide: il postulato meno intuitivo della geometria euclidea (per una retta e per un punto non
appartenente ad essa passa una ed una
sola parallela alla retta data) veniva fatto
cadere e dalle sue ceneri nasceva una
geometria del tutto nuova, una geometria dove la somma interna degli angoli
di un triangolo vale sempre meno di
180°, dove la curvatura dello spazio è
sempre negativa e dove le parallele alla
famosa retta sono in numero infinito.
La convinzione che lo spazio euclideo
fosse l’unico spazio assiomatizzabile e
che, soprattutto, fosse la rappresentazione unica dello spazio reale, aveva profonde radici, che attingevano linfa vitale
dalla formulazione filosofica di quella
credenza ad opera di Kant nella Critica
della ragion pura. Questa giustificazione filosofica crollava e la rivoluzione
geometrica di Lobacevskij varcava i confini del mondo matematico per minare
alla base la fiducia nel sistema kantiano.
Questa situazione di sfiducia nella matematica, e di perplessità in filosofia, che
sarà propria degli anni a venire, diviene
materia di dibattito nell’Introduzione di
Lucio Lombardo Radice a Nuovi principi della geometria con una teoria completa delle parallele, e nella recentissima prefazione di Evandro Agazzi al
medesimo volume. Tutto ciò non trova
tuttavia spazio nei saggi di Lobacevskij,
in cui viene data una presentazione compiuta di quella che è stata una delle
scoperte più feconde e, nello stesso tem23
po, delle più ignorate, della ricerca matematica, nonostante il matematico russo abbia cercato per tutta la vita e in ogni
parte d’Europa un riconoscimento adeguato del suo lavoro.
Ben altro successo ebbero conclusioni
altrettanto originali del medesimo postulato. Quando la geometria senza parallele di Bernhard Riemann venne
presentata nel 1854, fu sufficiente una
decina di anni perché si potesse sviluppare quella catena di reazioni che Lucio
Lombardo Radice descrive nella sua
introduzione al volume.
Sulle ipotesi che stanno alla base della
geometria, che include il famoso scritto,
edito postumo nel 1867, nel quale Riemann generalizza le vedute di Lobacevskij partendo da studi di Gauss sulle
superfici curve, presenta anche saggi
dell’autore di ordine filosofico e scientifico, in cui si profila il progetto di trovare una formulazione matematica unitaria
per descrivere le leggi di propagazione
dei fenomeni fisici, dalla propagazione
della luce a quella gravitazionale. Mentre questi progetti sono stati vanificati
dalla prematura morte dell’autore, il suo
scritto sulle basi della geometria ha avuto
un grande influsso, non solo sullo stesso
Gauss, del quale Riemann era stato allievo
ed erede brillante, ma su tutto l’ambiente
matematico contemporaneo. M.P.
L’etica nell’età della tecnica
Poco prima della sua morte, avvenuta nel febbraio 1993, mentre era
prossimo ai novant’anni, Hans Jonas aveva autorizzato la raccolta in
volume di una serie di interventi
(brevi scritti, discorsi, interviste), da
lui effettuati dopo la pubblicazione,
nel 1979, del suo fortunato ‘Das Prinzip Verantwortung’ (trad. it., Torino
1990), in cui, come è noto, Jonas
poneva il problema di un’etica appropriata alla condizione dell’uomo
nell’età del suo dominio tecnologico. La raccolta di questi scritti esce
ora in volume, a cura di Wolfgang
Schneider, col titolo: DEM BÖSEN ENDE
NÄHER (Più prossimi alla cattiva fine,
Suhrkamp, Francoforte s.M. 1994).
Una ridefinizione delle categorie etiche alla luce del problema ecologico
è invece la proposta di Konrad Ott,
ÖKOLOGIE UND ETHIK. EIN VERSUCH PRAK TISCHER PHILOSOPHIE (Ecologia ed etica. Saggio di filosofia pratica, Attempto Verlag, Tubinga 1993).
Il titolo di questa raccolta di scritti riprende le parole stesse pronunciate da
Hans Jonas in un’intervista concessa al
periodico «Der Spiegel» nel maggio
1992, e qui posta ad apertura del volume.
AUTORI E IDEE
Jonas osserva che di fronte alla domanda
fondamentale sulla possibilità della sopravvivenza in questo pianeta non è stato fatto, in pratica, alcun passo avanti;
anzi, la situazione è andata sempre più
degenerando. L’idea centrale, a cui Jonas si richiama nei nove scritti raccolti
nel volume, è che l’uomo trova il suo
limite nell’accrescersi delle sue stesse
potenzialità tecniche, che finiscono con
l’impedirgli di usufruire di quanto è in
suo potere. Una tale consapevolezza, ammonisce Jonas, richiede a sua volta una
sorta di nuova rivoluzione copernicana
da attuarsi nel campo dell’etica, che non
può più accontentarsi di indicare all’uomo le sue responsabilità di fronte al suo
prossimo, ma deve includere nel suo ordine di considerazioni il rapporto dell’uomo
con il mondo vivente e le esigenze di tutti
coloro che non hanno voce in capitolo,
come ad esempio (e in primo luogo) le
generazioni future. In tal modo l’etica si
apre per la prima volta ad una dimensione
quasi cosmica, tale per cui più si amplia il
nostro potere sul mondo, più “noi” diveniamo responsabili della sua sorte.
Ma chi è questo “noi” - si chiede ora
Jonas? Si tratta della società nel suo
insieme, considerata nelle forme delle
sue espressioni politiche. Qui però, osserva Jonas, non vi è garanzia che la
scelta operata dal “noi” sia improntata al
principio responsabilità. Il soggetto etico è sempre stato un io individuale, che
risponde alla propria coscienza. Istituire
un insieme collettivo come soggetto etico significa responsabilizzare la struttura politica della società. In democrazia,
fa notare Jonas, tutte le domande sociali
sono tese alla soddisfazione dei bisogni
e degli interessi immediati, senza che si
tenga conto delle ricadute globali e a
lunga scadenza che ciò comporta. Affinché si crei una coscienza etica allargata,
non resta altro, secondo Jonas, che affidarsi ad una sorta di Erziehung durch
Kastrophen (educazione attraverso catastrofi), agli shock prodotti dai piccoli e
grandi eventi catastrofici che si verificano di tanto in tanto.
Nonostante Jonas continui a sostenere
che l’enorme potere di disposizione tecnica dell’uomo sia un prodotto della libertà umana, e che dunque tecnica e
libertà crescano insieme, pure egli non
rinuncia a mettere in guardia sul fatto
che nel momento in cui l’uomo si afferma come soggetto tecnico, si smarrisce
come soggetto etico. Tuttavia, anche
ammessa la legittimità di questo interrogativo, Jonas non è affatto propenso a
mettere in discussione “l’avventura tecnologica” dell’uomo, per quanto essa
comporti necessariamente che «nel futuro si debba vivere all’ombra di minacciose calamità».
Seguendo gli sviluppi del concetto di
ecologia fin dalla sua comparsa all’interno della biologia, Konrad Ott si in-
Hans Jonas
serisce invece nel dibattito sull’etica,
richiamando l’attenzione sul fatto che
l’emergere dell’istanza ecologica all’interno delle vedute scientifiche costituisce ben più di un cambio di paradigma.
Introducendo un elemento di autoriflessività, di cui finora la scienza aveva fatto
a meno, l’ecologia segna un momento di
profonda discontinuità e di rottura radicale della scienza in rapporto alle forme
da essa assunte lungo tutta l’età moderna. Spinta dalla preoccupazione ecologica, la scienza diventa consapevole di
essere un sapere intorno alla vita e quindi una pratica di trasformazione delle
forme vitali, che le impone di sollevarsi
fino alla considerazione responsabile del
suo operare. Se un tempo tutto poteva
giustificarsi in nome della scienza, osserva Ott, ora invece la scienza deve
procedere parallelamente alla sua capacità di giustificazione dei risultati che
essa persegue. Ma poiché la scienza non
può comunque trovare istanze giustificati24
ve né al di fuori, né al di sopra di sé, ne
consegue che per garantire alla scienza la
consapevolezza del suo operare bisogna
passare ad un illuminismo riflessivo o responsabile, che Ott designa semplicemente come “illuminismo ecologico”.
Secondo Ott, dunque, l’ecologia non segna una negazione del progresso, del sapere e delle pratiche tecnico-scientifiche, ma
una loro riformulazione all’insegna dello
stesso campo problematico da essi introdotto. Tuttavia, osserva Ott, la vigilanza
sul proprio operare, a cui è chiamata la
scienza, non rientra nelle sue categorie
costitutive ed essa deve far conto su un
altro campo del sapere, quello etico, nei
confronti del quale permane comunque
uno iato insuperabile. Certo, l’ecologia
costituisce in tal senso un tentativo di
conciliazione, anche se essa risulta ora
assorbita nel massimalismo etico, ora nel
minimalismo scientifico. G.B.
AUTORI E IDEE
La teoria della scelta razionale
in Nozick
Robert Nozick torna, per la seconda
volta a distanza di anni, ad affrontare il
tema della teoria della scelta razionale
nel suo nuovo lavoro: THE NATURE OF
RATIONALITY (La natura della razionalità,
Princeton University Press, Princeton
1993), in cui viene fornita una soluzione
al problema dell’induzione sollevato da
Hume, cioè al dilemma della reciproca
consistenza del principio dominante e
di quello di massima probabilità. Il saggio è ideologicamente orientato verso
una visione evoluzionista della realtà
per cui la teoria della scelta razionale,
così come le strutture della nostra società, sono il risultato di un’evoluzione
darwiniana della realtà biologica.
The Nature of Rationality è un saggio di
natura ideologica, che parte dalla soluzione
del dilemma dell’induzione di Hume per
giungere all’ipostatizzazione della razionalità che estende il suo dominio sull’ordine
del mondo. La natura della razionalità, così
come quella di tutte le altre realtà, è biologica
ed è frutto dell’evoluzione; quindi è razionale, giusta, inevitabile e dotata di valore.
Due sono i principi che reggono in Robert
Nozick la teoria della scelta razionale. Il
primo, il principio “dominante”, afferma che
se un’azione ha conseguenze più desiderabili di qualunque altra, questa sarà quella da
portare a termine. Il secondo, il principio
della “massima prospettiva”, espresso in termini di probabilità, sostiene che è bene performare quell’azione che ha maggiori possibilità di riuscita. In passato Nozick aveva
mostrato che i due principi non erano mutualmente consistenti, utilizzando un argomento del fisico William Newcomb, che
osservava come in una scommessa, col variare della quantità di denaro scommesso, si
modifica anche la scelta del principio della
scommessa stessa. Nozick dimostrava allora
che i due principi sono reciprocamente consistenti se sono intesi come un continuo che
il singolo individuo, in una determinata situazione, miscela in un certo modo. L’ultimo
tentativo di risolvere il problema dell’induzione con la logica delle probabilità, ricordava Nozick a questo proposito, è quello di
Rudolf Carnap che in The Continuum of
Inductive Methods (Il continuum del metodo
induttivo, 1952) affermava che le previsioni
sul futuro possono essere fatte in diversi
modi: saltare alle conclusioni, prestare attenzione a qualche evidenza, ecc. L’individuo
razionale, secondo Carnap, isolaun punto significativo nel continuo ed agisce di conseguenza.
La teoria della scelta razionale ha due scopi
principali: la soluzione di conflitti interni,
che rende possibile ad una congregazione di
individui di raggiungere una decisione pratica, valutando le opinioni e senza provocare
scismi; la soluzione di conflitti esterni, che
permette l’integrazione democratica dei diversi interessi, conoscenze, obiettivi e meto-
Robert Nozick
25
AUTORI E IDEE
di d’azione tra i membri o i gruppi. La
teoria della scelta razionale è quindi un
fenomeno culturale e come la cultura e la
storia è, per Nozick, l’esito dell’evoluzione
biologica degli istinti di razionalità. Il ragionamento stesso che lo ha portato alla
soluzione del dilemma è considerato da
Nozick come risultato dell’evoluzione biologica e dell’adattabilità delle intuizioni in
conflitto, senza individuare nessun meccanismo per la selezione. La razionalità cessa di
essere una caratteristica essenziale dell’umanità, di essere universale; infatti, osserva
Nozick, «la nostra razionalità, sia individuale che coordinata, [che] definisce e simbolizza la distanza che ci separa dalla semplice
animalità, [...] ha reso il mondo, in vari modi,
inospitale ai minori livelli di razionalità»,
trasformando caratteristiche co-ordinate in
inferiori, fino a concludere che alcune persone sono più vicine di altre all’animalità.
Il lavoro di Nozick si conclude con 35
pagine di note bibliografiche sul tema della
teoria della scelta razionale. Tra gli spunti
di ricerca e gli approfondimenti, Nozick
propone, ad esempio, utilizzando la nozione di “utilità simbolica”, di integrare la
teoria della scelta razionale, che fino ad ora
è stata intesa in senso calcolistico, con una
rappresentazione di tutti quei valori e interessi che l’impostazione della teoria non ha
ancora permesso di esprimere. M.G.
Bergson, o la filosofia
come scienza rigorosa
Forte di una riconosciuta stima di specialista della filosofia classica tedesca
e autore di volumi fondamentali su
Kant e Fichte, Alexis Philonenko ha
recentemente dato alle stampe un
saggio critico sull’opera di Henri
Bergson, BERGSON OU DE LA PHILOSOPHIE
COMME SCIENCE RIGOUREUSE (Bergson o la
filosofia come scienza rigorosa, Cerf,
Parigi 1994), nella prospettiva di dissipare quell’aura di “vaga sentimentalità” nella quale verrebbe confinata la
filosofia da una critica superficiale.
Per Alexis Philonenko, l’incontro con
Bergson passa attraverso la mediazione di
Georges Canguilhelm, che nel 1956 tiene le
sue magistrali lezioni su Bergson alla Facoltà di Lettere dell’Università di Parigi e apre
la strada ad una lettura non condizionata dal
pregiudizio di irrazionalismo mistico e più
fedele al rigore filosofico dell’autore del
noto Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Nella convinzione che «la
filosofia di Bergson si sia andata facendo, ed
è questo l’atto che bisogna seguire», Philonenko ripercorre con spirito sistematico le
sue opere, esponendo un sistema aperto che
ha nondimeno le caratteristiche di una scienza rigorosa: «il modo di procedere di Bergson
è sempre rigoroso e, quantunque sperimen-
tale, si considera scienza e non poesia o
sentimento». È il caso della categoria di
intuizione, tensione estrema nell’apprensione delle cose, momento teoretico originario
di una filosofia che afferma «il primato dello
spirituale sulla materia, sia che si tratti della
libertà, del ricordo o della vita».
È del resto un metodo, questo, che oppone
a quello scientifico una nozione qualitativa
di esperienza, interiore e fondata su una
percezione fluida del tempo. La scienza
fisico-matematica nasce dall’esigenza di
ordinare logicamente gli oggetti, creando
dei simboli astratti ed un concetto “spazializzato” di tempo che frammenta il flusso
continuo dell’esperienza. All’omogeneità
pura dello spazio matematico dove si allineano gli enti, Bergson sostituisce l’eterogeneità pura della durata, le variazioni e le
trasformazioni incessanti del flusso di coscienza, riaprendo le possibilità di un concetto qualitativo di conoscenza.
Su queste basi prende le mosse quello che
Philonenko definisce un «attacco alla fortezza kantiana». Kant, la cui impresa critica si vuole quale compimento della metafisica, disegnando i limiti della conoscenza,
poggia sul medesimo concetto spazializzato di tempo delle scienze e si risolve a
«platonizzare più rigorosamente di qualsiasi altro filosofo, (...) per giungere alla
desolante constatazione di quanto la scienza sia relativa». L’autentico tentativo di
superamento della tradizione filosofica
spetta invece, nell’ambiziosa lettura di Philonenko, a Bergson che compie «l’atto di
instaurazione della filosofia (...) A differenza del kantismo che vuole portare a compimento la filosofia, il pensiero di Bergson è il
balbettio di una scienza che sta nascendo».
Lettura estrema e suggestiva, questa di
Philonenko, ma rigorosamente motivata a
partire dai testi bergsoniani, che ha il merito di riaprire la discussione su uno tra i più
significativi filosofi del ‘900. E.N.
Linguaggio
ed evoluzione naturale
Si può ipotizzare un nesso teoretico tra
ricerche sui linguaggi naturali, come
quello dei sordi o di altre patologie, e
scienza del linguaggio? In altri termini è
possibile conciliare la linguistica
chomskiana con le scienze cognitive?
THE LANGUAGE INSTINCT: HOW THE MIND CREATES LANGUAGE (L’istinto linguistico:
come la mente crea il linguaggio, Allen
Lane, 1993), di Steven Pinker, e PATTERNS IN THE MIND LANGUAGE AND HUMAN NATURE (Modelli mentali: linguaggio e natura umana, Harvester, 1993), di Rayè
Jackendoff, indicano una positiva svolta nella polemica che ha separato, fin
dalla sua fondazione, il formalismo
grammaticale di Chomsky dalla psicologia e dalla neuropsicologia.
26
Collaboratore di prestigio, l’uno, e brillante allievo di Noam Chomsky, l’altro,
Steven Pinker e Rayè Jackendoff partono dalla convinzione dell’importanza
teoretica di integrare ricerche empiriche
sul linguaggio con lo studio formale ed
astratto della linguistica. La recente filosofia del linguaggio, di cui i presenti
saggi esaminano le acquisizioni più significative, ha infatti dimostrato che il
linguaggio ha una innegabile base naturale, è anzitutto un fenomeno biologico.
Da questo punto di vista, osservano i due
studiosi, le principali affermazioni della
linguistica circa l’elaborazione mentale
del linguaggio mostrano possibili implicazioni con i modelli neurologici, dato
che è ormai appurato che il cervello
trasforma sistematicamente in codici le
rappresentazioni mentali o le strutture di
dati. Nonostante i legittimi dubbi degli
studiosi di neurologia riguardo l’esistenza di modelli cognitivi, i vaghi schemi di
information-processing - entusiasticamente postulati - hanno ora un solido
terreno. Molte ricerche hanno ormai accertato, infatti, che il cervello effettivamente si occupa di una enorme quantità
di processi che possono essere descritti e
previsti attraverso modelli cognitivi di
rappresentazione, e solo da questi.
Se tuttavia Pinker tende maggiormente a
sottolineare la molteplicità dei dispositivi conoscitivi che compongono la mente, Jackendoff propende per una visione
unitaria, nella preoccupazione di rispondere alle perplessità concettuali e filosofiche riguardo all’idea di sistema interno
di rappresentazione. Dal suo punto di
vista, i fenomeni linguistici non sono gli
unici fenomeni mentali ad essere ordinati secondo tali schemi rappresentativi.
Ciò che avviene nel caso del linguaggio
è anzi, secondo Jackendoff, l’esempio
più chiaro, quasi il modello paradigmatico, di ogni sistema di rappresentazione. Motivo di fondo dello studio di Jackendoff è che le rappresentazioni si organizzano attorno a diverse strutture (o
format), che, poi, indirizzano in vario
modo le specifiche richieste su quanto
può essere rappresentato al loro interno,
svolgendo in tal modo una funzione
“grammaticale” in senso ampio. Tutto
ciò è condiviso nelle sue linee essenziali
anche da Pinker, che dal canto suo sottolinea come tale organizzazione mentale
coincida perfettamente con le linee evolutive darwiniane.
Il maggior contributo derivante da questo
primo sforzo di conciliazione tra linguistica e scienze dell’apprendimento è la maggior scientificità, in senso stretto, che gli
studi chomskiani acquisiscono. Una buona
scienza del linguaggio risulta in grado di
riunificare la linguistica con le ricerche
della psicologia e della neurologia. Ciò,
d’altro canto, apre nuovi, affascinanti interrogativi e prospettive speculative sull’intero sistema evolutivo umano. A.A.
AUTORI E IDEE
Frank: lo stile della filosofia
e la questione del mito
Attraverso un’originale contaminazione della filosofia analitica con la riflessione ermeneutica, l’ultima opera di
Manfred Frank, LO STILE IN FILOSOFIA
(trad. it. di M. Nobile, con un saggio di
M. Ruggenini, Il Saggiatore, Milano
1994) afferma la mai completa risolubilità, in un’intuizione trasparente, del
“contenuto del linguaggio”, a causa
dell’ineliminabilità dell’impronta individuale che il linguaggio porta con
sé nello “stile”. Di Frank è stato recentemente pubblicato un altro testo, risalente al 1982, IL DIO A VENIRE.
LEZIONI SULLA NUOVA MITOLOGIA (trad. it.
a cura di F. Cuniberto, prefaz. di S.
Givone, Einaudi, Torino 1994), che
ebbe particolare rilevanza nell’ ambito della cosiddetta “Mythos-Debatte”
degli anni ’80 in Germania.
Che sussista una differenza tra il linguaggio della filosofia e quello della letteratura, Manfred Frank, ne Lo stile in filosofia
(testo tratto dalle lezioni tenute dall’autore
a Princeton nel 1990) se ne dice convinto;
egli nega, però, che la specificità della
filosofia nei confronti della letteratura risieda nella cogenza del contenuto veritativo della prima in rapporto alla seconda.
L’elemento comune al linguaggio delle
due discipline consiste, da un lato, nell’appartenenza a una tradizione, per cui il
messaggio veicolato «non si lascia mai
risolvere in un’intuizione trasparente»;
dall’altro, nell’impronta conferita al linguaggio dal suo “stile”, che rappresenta
l’ineliminabile dimensione individuale attraverso cui si verifica, da parte del soggetto, l’accesso al mondo.
Dal riconoscimento di questi due aspetti
del linguaggio scaturiscono una serie di
questioni: in primo luogo, quella della congruenza tra il carattere individuale e irripetibile dello stile e la pretesa di universalità,
implicita nella questione veritativa posta
dalla filosofia; in secondo luogo, quella del
ruolo che lo stile, elemento propriamente
“letterario”, riveste nell’elaborazione concettuale. A partire da tali questioni, sostiene Frank, si può infine stabilire il grado di
autoriflessività che il pensiero filosofico,
in quanto ermeneutica cosciente della rilevanza dei propri elementi stilistici, può
acquisire nei confronti di sé medesimo.
Nel suo saggio Una filosofia dello stile.
Verso l’intransparenza del vero, che accompagna l’edizione italiana de Lo stile in
filosofia, Mario Ruggenini mostra come
la ricerca avviata da Frank giunga all’affermazione di una “intransparenza del vero”,
mettendo in gioco elementi provenienti
dall’ermeneutica con motivi mutuati dalla
filosofia analitica. La tesi di Frank di una
radice individuale dell’universale si oppone all’idea di una coscienza assoluta, che
nel suo potere di autoriflessione totale si
presenti come assolutamente monologica.
Una tale coscienza, secondo Frank, risulta
incrinata proprio da quell’elemento, lo stile, che nell’ironia romantica serviva a svalutare il relativo a favore dell’assoluto, ma
che, considerato nella sua irripetibilità letteraria, rappresenta la traccia indelebile
dell’individuale, del relativo medesimo.
“Intransparenza del vero” è appunto ciò
che designa quella situazione per cui la
ragione non può esaurire la propria realtà
nell’atto autoriflessivo.
Frank vede all’opera il paradigma della
coscienza assoluta e delle sue pretese di
autotrasparenza anche nel tentativo, rintracciabile nel “neostrutturalismo”, di riconduzione dell’elemento individuale, di
per sé incodificabile, alle regole che presiedono alla sua formazione: il modello della
sussunzione. Ascendenze di questo modello sono rintracciabili, secondo Frank, già in
Aristotele, dal quale la filosofia, in quanto
“scienza prima”, riceve il paradigma della
propria autocomprensione. A questo paradigma si mostra fedele anche Martin
Heidegger: l’esigenza di considerare come
preliminare, ai fini della comprensione
dell’ente, quella dell’essere, viene da Frank
reinterpretata come l’affermazione relativa alla possibilità, per i soggetti, di relazionarsi all’ente solo tramite la mediazione linguistica - del senso, ovvero del significato. Contro il modello sussuntivo Frank
obietta, facendo riferimento alle analisi e
alle argomentazioni di Donald Davidson,
che è il “fatto” linguistico che spiega le
regole, e non viceversa. Nessuna regolarità
può spiegare la comprensione di un’espressione; né il codice sociale può risolvere in
sé (come crede l’approccio che Davidson
definisce social externalism) il problema
dell’accesso al senso del discorso.
Sottolineando il carattere “letterario” del
testo filosofico, Frank suggerisce l’ipotesi
di una connotazione “estetica”, rintracciabile nell’argomentazione filosofica, rimuovendo in tal modo una consolidata distinzione di “genere” tra scrittura letteraria e
scrittura filosofica. In tal senso, osserva
Frank, l’uso reiterato, da parte di
Wittgenstein, di “immagini” o “similitudini” riveste un significato profondamente
filosofico, in quanto, nella sua difformità
stilistica dal linguaggio filosofico usuale,
ne persegue invece la finalità euristica più
profonda: attraverso una non paradossale
conformità al proprio oggetto, l’indicibile
viene infatti mostrato “in quanto” indicibile, l’inesprimibile viene “detto” attraverso
l’evocazione. In questo, l’analisi di Frank
si oppone, da un lato, all’illusione (illuminista e positivista) di risolvere il mito nella
sua spiegazione; dall’altro al misticismo di
chi, insistendo sull’aspetto metaforico del
linguaggio, esaurisce la spiegazione nell’evocazione, riducendo l’analisi razionale
a una narrazione mitologica.
All’interno della Mythos-Debatte, il dibattito sul mito sviluppatosi in Germania negli
anni ’80, si colloca propriamente un’altra
27
opera di Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla
nuova mitologia, ora finalmente disponibile in edizione italiana. Come ricorda Sergio Givone nella sua “Prefazione” al volume, gli autori che hanno animato questo
dibattito appaiono accomunati dal tentativo di rivendicare al mito un valore di verità
non contrapposto, bensì connesso a quello
della razionalità. Ad essa viene delegato il
compito di problematizzare il mito con
l’obiettivo di giungere a una “mitologia
della ragione”, secondo la definizione di
Schelling che, secondo Frank, rappresenta
l’esordio dell’idealismo tedesco nella sua
versione estetico-romantica. Il Romanticismo per primo (non certo Nietzsche), ricorda infatti Frank, intuì «il fondo oscuro di
un’antichità non classica, ossia non apollinea e non omerica: l’idea di un underground culturale che solo nell’epos apollineo trova un’espressione linguistica articolata, e un’elaborazione simbolica complessiva». Solo il Romanticismo poteva
dunque porsi la “questione del mito”, ovvero la questione della razionalità, e stabilire come esigenza programmatica la loro
risoluzione. Presupposto di un tale programma era che la fonte di senso della
ragione rimane estranea alla ragione stessa; essa la trova davanti a sé - o, più propriamente “dietro”: dietro le spalle - come un
“dato”, un “dio a venire” che è, in realtà, già
da sempre dato alla ragione in quanto sostrato del suo operare.
Il carattere di novità della “nuova mitologia” schellinghiana, che può parimenti essere considerata come il programma del
filosofo novecentesco, consiste «nel voler
salvare il mito solo per la sua funzione di
legittimazione trascendente, ma non per i
suoi contenuti superstiziosi». A questo
programma, osserva Flavio Cuniberto nel
suo saggio Una mitologia trasparente?
Nota su Manfred Frank, che conclude l’edizione italiana de Il dio a venire, non appare
estranea una finalità politico-culturale, oltre che filosofica: sottrarre la riflessione
sul mito, e la sua utilizzazione, alla pratica
di pensiero e alla politica neofascista. Intento, quest’ultimo, attuato da Frank attraverso la già ricordata contaminazione fra
decostruzionismo, ermeneutica e pensiero
analitico, nonché attraverso il dialogo
soprattutto con la cultura francese e, segnatamente, con la figura di Jacques
Derrida. In questo modo, il mito viene
sottratto al suo radicamento in uno specifico contesto storico ed etnico e proiettato
in una dimensione archetipica, dove esso
funge, nel suo rapporto con la ragione, da
entità paradigmatica. Anche per questo
verso, la questione dello “stile in filosofia”
trova qui le sue radici: nell’esigenza ispirata alla cultura francese - di una clarté
che sappia compiere, nei confronti del
mito, quella Aufklärung non totalizzante
che consiste, nel contempo, nel portare la
ragione a imbattersi nei propri limiti, realizzando in questo modo il programma di
una “mitologia della ragione”. F.C.
TENDENZE E DIBATTITI
Jean-Paul Sartre
Jacques Lacan, Louis Althusser
Michel Foucault
28
TENDENZE E DIBATTITI
TENDENZE E DIBATTITI
Su Foucault
In concomitanza con la pubblicazione
dell’immenso lavoro di raccolta dell’opera di Michel Foucault, si moltiplicano le iniziative editoriali sull’autore
scomparso dieci anni fa. Nella biografia intellettuale MICHEL FOUCAULT ET SES
CONTEMPORAINS (Michel Foucault e i suoi
contemporanei, Fayard, Parigi 1994),
Didier Eribon si sofferma sui rapporti
di Foucault con i pensatori del suo
tempo, delineando un quadro del clima culturale francese di questi ultimi
decenni. In MICHEL FOUCAULT , LA CLARTÉ
DE LA MORT (Michel Foucault, il chiarore della morte, Odile Jacob, Parigi
1994), Jeannette Colombel, dopo aver
tentato una diagnosi del presente sulla
base di un’attenta lettura dei testi di
Foucault, individua un punto d’incontro tra questi e Jean Paul Sartre. Un
testo inedito di Gilles Deleuze, DÉSIR
ET PLAISIR (Desiderio e piacere, «Magazine Litteraire», n. 325, ottobre 1994)
rappresenta l’ultimo dialogo tra
Deleuze e Foucault. A cura di Alain
Brossat appare MICHEL FOUCAULT, LES
JEUX DE LA VERITÉ ET DU POUVOIR (Michel
Foucault, i giochi della verità e del
potere, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994), da cui si può ricavare
il taglio particolare con cui Foucault è
recepito nei paesi dell’Est. Da segnalare infine due edizioni francesi di
opere in lingua inglese: la biografia di
David Macey, MICHEL FOUCAULT (Gallimard, Parigi 1994), e, in uscita entro
l’anno, il lavoro critico di John Rajchmann, EROTIQUE DE LA VERITÉ, FOUCAULT,
LACAN ET LA QUESTION DE L’ÉTHIQUE (Erotica della verità, Foucault, Lacan e la
questione dell’etica, PUF, Parigi 1994).
Risale a cinque anni fa la prima biografia
su Michel Foucault ad opera di Didier
Eribon. Vi si raccontava del legame di
Foucault con Louis Althusser, della sua
iscrizione al Partito Comunista, della sua
difficoltà a vivere l’omosessualità e delle
influenze che questa aveva avuto nel suo
percorso intellettuale, pur senza presentarla come unica chiave interpretativa. La
parte iniziale della nuova biografia che
Eribon dedica a Foucault è incentrata proprio sulla ricezione che ha avuto il suo
precedente lavoro. Riveduto e arricchito
da numerose appendici, questo nuovo volume rappresenta infatti, per Foucault, l’occasione per ribattere alle obiezioni che gli
sono state rivolte da più parti. Pur senza
stabilire un rapporto diretto di causa-effetto tra vita e opera, Eribon suggerisce che
l’esperienza di marginalità vissuta dal pensatore francese lo avrebbe sensibilizzato a
ogni forma di esclusione. A sostegno di
questa tesi è riportata un’illuminante affermazione di Foucault contenuta in L’intellettuale e i poteri: «Ho sempre sostenuto che ognuno dei miei libri è in qualche
modo costituito da frammenti di autobiografia: i miei libri sono sempre stati i miei
problemi personali con la follia, la prigione, la sessualità».
Successivamente Eribon passa in rassegna
i legami che Foucault ha intrattenuto con
alcuni dei maggiori intellettuali del tempo.
Innanzittutto Georges Dumezil, “un vero
modello intellettuale” per Foucault, nonostante l’abisso che separava le loro convinzioni politiche: Dumezil era stato in
gioventù un simpatizzante di Azione francese, mentre Foucault, influenzato da
Althusser, aveva aderito al Partito comunista. Il rapporto con Althusser, racconta
Eribon, si instaurò nel 1946, quando tutti e
due «camminavano con equilibrio instabile sulla linea di creta che separa la ragione
dalla follia». All’insegna dell’omosessualità invece fu la relazione con Dumezil.
Successivamente Eribon si occupa dei rapporti con la coppia Sartre e Beauvoir,
della disputa tra strutturalismo e umanismo, del dibattito sul dopo ’68, dell’insegnamento della filosofia. Tra gli altri, compaiono anche Lacan e Habermas nei loro
punti d’incontro-scontro con la traiettoria
di Foucault, che si trova così inserita nel
contesto allargato della vita intellettuale francese di questi ultimi decenni. Particolare
rilievo è dato alla relazione di stima e ammirazione instaurata con Roland Barthes.
In Michel Foucault. La clarté de la mort,
Jeannette Colombel, senza mai abusare
dell’amicizia che le fu offerta, si “limita”
a interrogare le opere di Foucault così da
«evitare la doppia ignominia del sapiente
e del familiare», come ammonisce Jilles
29
Deleuze, citato in esergo al volume (e al
cui dialogo con Foucault è dedicato il
prologo). A partire dall’opera fucaultiana,
Colombel getta uno sguardo sul presente,
ovvero mette le opere di Foucault in situazione: dal flagello dell’AIDS alla Bosnia,
emerge la straordinaria fecondità di queste
riflessioni che, se opportunamente recepite, danno spunti per leggere la nostra epoca. L’ “attualità” era d’altronde uno dei
soggetti preferiti di Foucault, tant’è che
soleva definirsi uno “storico del presente”,
attribuendosi il compito di rendere visibili
le opacità contemporanee che si traducevano in esclusioni e marginalizzazioni.
Il confronto con Sartre, avanzato da Colombel, intende mettere in luce i punti di
convergenza tra due pensatori ritenuti spesso agli antipodi, soprattutto in seguito alla
polemica suscitata dalla pubblicazione di
Le parole e le cose, di cui Colombel fornisce un resoconto, citando la risposta di
Sartre, contenuta nel numero di «Arc» del
1966, dedicato a Foucault. Il punto d’incrocio tra i due, che rimangono comunque
irriducibili, riguarda la questione della “costituzione del soggetto morale” e della
soggettività. Sartre è presentato, più che
come un sostenitore della filosofia della
coscienza, come colui che per primo ha
rotto con il cogito fondatore di Kant e
Husserl: è da un ambito impersonale, attraverso una molteplicità di atti, di “estasi” che per Sartre si costituisce la soggettività. In Sartre troviamo un rifiuto della
vita interiore analogo a quello presente in
Foucault, che in Il pensiero del fuori, scritto in omaggio a Blanchot, sostiene la scomparsa del soggetto a favore del linguaggio.
Se si considerano le analisi condotte a
partire da Sorvegliare e punire, si potrebbe
essere indotti a collocare il potere al centro
dell’interesse di Foucault. Ma in un’intervista rilasciata nel 1983, egli stesso precisa: «Non è il potere, ma il soggetto che
costituisce il tema generale delle mie ricerche». La delineazione della “microfisica dei poteri” si rivela così, osserva Colombel, funzionale alla messa in luce di
«una “storia” dei modi di soggettivazione
nella nostra cultura»: il metodo genealogico, ovvero la ricerca dell’origine di strutture divenute ormai abituali e delle soggettività a cui hanno dato luogo, consentiva di
TENDENZE E DIBATTITI
problematizzarle e mettersi al riparo da
ogni loro ipostatizzazione e passiva accettazione. Da parte sua, Sartre ritiene che la
soggettività sia irriducibile alla storia pur
essendo ad essa relativa, tant’è che pone la
“situazione” come condizione di possibilità della libertà, come ciò a partire da cui
«il soggetto crea dei valori attraverso i suoi
atti e la sua condotta». A sua volta Foucault,
partendo dalle strutture e dalle posizioni in
esse occupate dai soggetti, fa riferimento
alla libertà come scelta etica, come conquista in fieri del soggetto: «lavoro indefinito sui nostri limiti, fatica paziente che dà
forma all’impazienza della libertà». Sul
terreno di una morale non prescrittiva Colombel fa dunque incontrare due pensieri che prevedono l’esigenza di una libertà interna alle strutture in cui il soggetto
è inserito e in cui deve costituirsi come
soggetto morale.
La problematica etica è anche il motivo
che regge l’accostamento tra Foucault e
Lacan proposto da John Rajchmann in
Erotique de la verité, Foucault, Lacan et
la question de l’éthique. Nonostante l’avversione di Foucault per la psicoanalisi,
che fa della sessualità una questione di
desiderio e del desiderio l’essenza dell’uomo, questi avrebbe in comune con
Lacan la ricerca dei rapporti tra soggettività e verità.
I punti di convergenza e di divergenza tra
Foucault e Gilles Deleuze li si può ricavare, invece, da un testo inedito di Deleuze
dedicato a Foucault, Desir et Plaisir, e ora
pubblicato in «Magazine Littéraire». Più
che di una critica, si tratta del tentativo di
Deleuze di riprendere il dialogo con un
amico di vecchia data, dialogo un tempo
intenso e che si era poi interrotto in seguito
alla recensione di Deleuze all’opera di
Foucault, Sorvegliare e punire (1975), apparsa su «Critique».
I temi trattati da Foucault in questa sua
opera - la questione del potere, delle sue
tecniche, dei modi di esercitarlo, dei suoi
rapporti col sapere - sono al centro dell’incontro organizzato nel giugno del 1993 a
Sofia e di cui sono stati pubblicati di recente gli atti con il titolo: Michel Foucault, les
jeux de la verité et du pouvoir. La raccolta
mostra come l’opera di Foucault sia particolarmente letta e utilizzata nell’Europa
dell’Est come analisi delle forme di governabilità, che appoggiandosi su articolazioni di saperi e poteri, si esercitano sia a
livello di Stato che di individuo.
La biografia dedicata a Foucault da David
Macey, sebbene ricca di dettagli sulla sua
vita, rimane spesso a livello poco critico,
poco interpretativo: Macey riporta le circostanze della nascita delle opere di
Foucault, ne ricorda i temi principali e
segue le trasformazioni della loro ricezione. Più che di una biografia intellettuale, si
tratta qui, in realtà, di una biografia evenemenziale. Se la pratica filosofica di
Foucault è indissociabile dal suo impegno
militante - «Ogni volta che ho cercato di
fare un lavoro teorico - dichiara lo stesso
Foucault - è stato a partire da elementi
della mia esistenza, sempre in rapporto
con dei processi che vedevo dispiegarsi
intorno a me» - un’interpretazione che non
si faccia carico di questa dinamica tra vita
e pensiero, è destinata a rendere un Foucault
monco, sfigurato. A.M.
La filosofia del linguaggio
di Davidson
Le indagini di Donald Davidson sulla
natura degli eventi, sulla teoria causale dell’azione e sulle relazioni tra
mente, corpo e verità, sulle condizioni di possibilità della teoria del significato, sul rapporto tra linguaggio e
interpretazione e sull’aspetto sociale
del linguaggio, trovano un ampio e
preciso riscontro in alcune recenti pubblicazioni. VERITÀ E INTERPRETAZIONE
(trad. it. a cura di E. Picardi, il Mulino,
Bologna 1994), che raccoglie i più
importanti saggi di filosofia del linguaggio di Davidson, analizza temi
portanti del dibattito odierno in campo analitico sui caratteri e le condizioni della teoria del significato, il rapporto tra linguaggio e interpretazione, l’aspetto sociale e pubblico del
linguaggio. LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE (trad. it. a cura di L. Perissinotto,
Unicopli, Milano 1993) riporta il saggio di Davidson sui malapropismi, che
giunge a negare l’esistenza del linguaggio, e le risposte critiche di Ian
Hacking e di Michael Dummett, che
invece pongono in primo piano il ruolo dell’interpretazione, per la comprensione degli enunciati e l’esistenza e la natura del linguaggio, e il ruolo
delle convenzioni. A questi scritti di
Davidson fa riscontro il saggio critico
di Davide Sparti, SOPPRIMERE LA LONTA NANZA (La Nuova Italia, Firenze 1994),
che pone la domanda se la teoria
dell’interpretazione di Davidson possa dar conto della diversità interculturale e linguistica e della loro interpretazione.
I più importanti saggi di filosofia del linguaggio di Donald Davidson sono disponibili oggi in traduzione italiana, rivisti e
modificati dall’autore, nel volume: Verità
ed Interpretazione (una raccolta analoga,
dedicata alla filosofia dell’azione, Essays
on Actions and Events, del 1980, è stata
pubblicata in edizione italiana nel 1992
con il titolo: Azioni ed eventi). Nella prima
parte della raccolta, che riporta il titolo:
“Verità e Significato”, Davidson si chiede
quale tipo di teoria della verità possa costituire una teoria del significato nei termini
di una nozione di interpretazione valida
per tutti gli enunciati attuali e possibili del
30
linguaggio. Secondo Davidson l’unica nozione appropriata è quella di soddisfacimento di un enunciato, cioè quella che
rende la correlazione tra realtà e linguaggio; mentre quelle di corrispondenza e
coincidenza sono da rifiutare. La nozione
di soddisfacimento, osserva Davidson, è
correttamente formulata da Tarski per
mezzo delle tabelle di verità, con il merito
di mostrare anche il suo carattere composizionale. La teoria della verità costituisce
la semantica formale per i linguaggi naturali, che va ad affiancarsi alla sintassi
formale di Chomsky.
Il progetto di Davidson intende porsi come
un progetto globale; per questo, nella seconda parte del volume, denominata “Applicazioni”, egli cerca di “addomesticare”
i casi idiomatici della citazione, del discorso indiretto e degli operatori per il
modo verbale. La citazione e il riferimento
indiretto sono risolti dall’autore come casi
speciali del riferimento dimostrativo delle
parole nell’immediato contesto discorsivo. Il caso degli operatori del modo verbale, invece, può essere spiegato analizzandolo separatamente dalle forze illocutorie
attraverso un’analisi paratattica, nei limiti
della teoria della verità tarskiana.
Nella terza parte, denominata “Interpretazione radicale”, Davidson si interroga come
una teoria della verità, per un parlante,
possa essere verificata senza far uso della
nozione di significato. Per Davidson una
tale verifica può essere condotta solo indirettamente, attraverso lo studio della struttura dell’assenso, utilizzando il metodo
formulato nel principio di carità. Questo ci
permette di separare che cosa si vuole
significare da che cosa si crede e di scegliere tra le teorie dell’interpretazione quella che permette la comprensione tra i parlanti, obiettivo della comunicazione verbale. Tuttavia, il principio di carità, osserva Davidson, è criticabile nella misura in
cui dà per scontato che l’ascoltatore conosca molte delle credenze del parlante e che
solo l’individuo provvisto di linguaggio
possieda una struttura degli atteggiamenti
proposizionali perfettamente sviluppata.
Le ricadute filosofiche della sua concezione sono illustrate da Davidson nella quarta
parte del volume, dal titolo: “Linguaggio e
Realtà”. Ciò che emerge, in primo luogo,
è l’imperscrutabilità del riferimento, dato
che la teoria della verità è verificata dai
suoi stessi teoremi, che stabiliscono a quali condizioni l’enunciato è vero, non per
quale oggetto esso è verificato. In secondo
luogo emerge la similarità dei metodi con
cui ognuno di noi guarda il mondo; il che
comporta anche la correttezza, nelle sue
linee generali, della visione del mondo.
Contro il relativismo concettuale Davidson mostra come il linguaggio non sia uno
schermo o un filtro, annullando con ciò il
dualismo contenuto-schema e scalzando
la possibilità dell’empirismo.
Infine, nella quinta parte del volume, “Limiti del letterale”, Davidson investiga i
TENDENZE E DIBATTITI
limiti della teoria del significato, che deve
essere ampia, ma allo stesso tempo ristretta, per poter essere sistematizzabile. A tale
proposito Davidson si interroga sui casi
linguistici limite come le metafore, i malapropismi e i lapsus linguae, nella convinzione che siano analoghi ai casi dei proferimenti incompleti o grammaticalmente
confusi e delle parole inedite e che quindi
non costituiscano un’eccezione, ma una
realtà onnipresente e pervasiva nella nostra pratica linguistica. Il significato usato
negli enunciati metaforici, afferma Davidson, non può che essere quello letterale,
altrimenti le metafore risulterebbero incomprensibili. Per quanto riguarda il limite dell’adeguatezza delle teorie, Davidson sostiene che essa è stabilita sul campo, non utilizzando regole formalizzate
nella teoria, ma grazie all’intuito dell’interprete, in cui si presuppone la capacità di elaborare teorie.
A quest’ambito problematico del pensiero
di Davidson appartiene anche il saggio
Una graziosa confusione di epitaffi, che
compare nel volume curato da Luigi Perissinotto, Linguaggio e interpretazione,
unitamente alle risposte critiche di Ian
Hacking, La parodia della conversazione,
e di Michael Dummett, Una graziosa confusione di epitaffi: alcune note su Davidson e Hacking (i tre saggi costituiscono
l’ultima parte della raccolta a cura di E.
Lepore: Truth and Interpretation. Perspectives on the Philosophy of Donald Davidson, del 1986).
Nel saggio Una graziosa confusione di
epitaffi, Davidson descrive che cosa implica l’idea di avere dimestichezza con la
pratica linguistica e come è possibile applicare ai singoli proferimenti questa padronanza, mostrando come ciò sia inspiegabile senza la nozione di interpretazione
e senza un concetto di linguaggio come
convenzione e, dal punto di vista del suo
utilizzo, come applicazione meccanica di
regole generali acquisite. Un tale progetto
porta Davidson alla conclusione provocatoria che non esiste un qualche cosa come
il linguaggio.
Ponendosi in un contesto dialogico, Davidson ritiene che la conoscenza del linguaggio sia data nei termini di una teoria transitoria e di una anteriore. La prima è costituita dalla lista dei nomi usati nel discorso
e dei significati letterali delle parole; la
seconda può essere identificata con l’idoletto, cioè il linguaggio di un determinato
parlante, spazialmente e temporalmente
situato, che contiene tutte le nostre conoscenze linguistiche e non sull’interlocutore. Nella pratica comunicativa i due parlanti, che prima di dialogare possiedono la
teoria anteriore, sviluppano le rispettive
teorie transitorie, che interagendo con le
teorie anteriori le modificano. La comprensione linguistica dei parlanti dipende, secondo Davidson, dall’abilità nel far convergere le teorie transitorie, a partire da
vocabolari e grammatiche private, per mez-
zo di strategie non comunicabili, constatato che le regole sono irrilevanti teoricamente, ma non pragmaticamente.
Nel suo saggio di risposta alla concezione
di Davidson, Ian Hacking nota come la
negazione dell’esistenza del linguaggio e
la contemporanea esistenza di molti linguaggi formali ponga Davidson sullo stesso punto di partenza di Tarski, ma in
opposizione a questi, dal momento che per
Davidson è necessaria la precomprensione della verità per poter ottenere il significato, mentre per Tarski è necessaria la
conoscenza del significato per giungere
alla verità degli enunciati. Inoltre Hacking
rileva che la sistematicità del linguaggio
non richiede ricorsività, come vuole Davidson, la cui visione olistica del linguaggio
è per Hacking insostenibile, non essendo
confermata dall’esperienza e risultando
incompatibile con la descrizione della comunicazione nei termini di teoria transitoria. Infine, osserva Hacking, se consideriamo il linguaggio come un insieme di
regole unitario e monolitico e affermiamo
che non esiste il linguaggio, allora non
esistono nemmeno i vari linguaggi “L”
che ne sono parte e i rispettivi enunciati
“vero-in-L”. L’unica lettura accettabile
delle conclusioni di Davidson, ribadisce
Hacking, è quella di negare l’esistenza di
un unico linguaggio totale, di vocabolari e
linguaggi privati, e affermare l’esistenza
di molteplici linguaggi debolmente connessi, provenienti dalle varie comunità
linguistiche in cui viviamo; ciò permetterebbe di spiegare sia l’errore che la correttezza linguistica.
Conclude la raccolta curata da Perissinotto un saggio di Michael Dummett, Una
graziosa confusione di epitaffi: alcune note
su Davidson e Hacking, in cui l’autore
cerca di chiarire quale siano lo scopo e la
natura della teoria anteriore e transitoria
(ribattezzate “teoria a lungo raggio” e “teoria a breve raggio”) che determinano la
nozione di significato, di linguaggio e
l’obiettivo della proposta di Davidson.
Questi, osserva Dummett, intende dare un
resoconto totale della comprensione linguistica, estendendo le conclusioni dello
studio dei casi non-standard a quelli standard, per determinare quali sono le abilità
linguistiche che il parlante deve conoscere. Considerando innegabile l’esistenza
del linguaggio comune come modello comunicativo, Dummett riformula la proposta di Davidson, introducendo la nozione
di teoria di secondo grado - ossia di teoria
di teoria. Nella pratica linguistica, osserva
Dummett, le intenzioni hanno bisogno,
per manifestarsi, delle convenzioni relative alle comunità linguistiche; di fatto la
padronanza della pratica linguistica è una
conoscenza a metà strada tra quella teorica
e quella pratica, dato che non si può sapere
che cosa sia in effetti una pratica fino a
quando non la si padroneggia. Individuando due possibili spiegazioni del linguaggio, una schematica (teoria del significato
31
corredata dai principi di collegamento) e
una reale (attività linguistica come padronanza di una pratica), Dummett ritiene,
infine, che sia stata la tentazione di descrivere la nostra abilità linguistica come una
conoscenza teoretica ciò che ha portato
Davidson ad affermare l’inesistenza del
linguaggio.
Un ulteriore approfondimento delle concezioni di Davidson può essere tratto dalle
considerazioni critiche di Davide Sparti,
espresse nel saggio Sopprimere la lontananza uccide, che affronta il tema della
differenza nel linguaggio, interrogandosi
sulla natura della comprensione dello straniero. Lo straniero è non solo l’immigrato
ma anche il nativo estraniato per situazioni
di incertezza, conflitto o cambiamento, esperienze queste che si pongono fuori dall’ambito razionale analizzato da Davidson.
Sparti affronta la concezione di Davidson,
muovendo dalle sue considerazioni critiche sul relativismo degli schemi concettuali, in cui si esprime la non coincidenza
del mondo e del linguaggio con il nostro
raggio del mondo e del linguaggio. La
possibilità di errori o di una interpretazione parziale richiede per Davidson l’appello al “principio di carità”, che instaura una
relazione inscindibile tra semantica, razionalità e interpretazione radicale. Ma
questo, rileva Sparti, porta Davidson a
reintrodurre il dualismo mondo-schema,
che era stato eliminato per mezzo della
nozione di causa, considerata un requisito
fondante del principio di carità. Tale nozione, benché sia definita come a-significante e appartenente all’ambito extra linguistico, sottopone e determina gli atteggiamenti cognitivi.
In base a queste considerazioni, Sparti
individua all’interno della proposta di Davidson una insanabile tensione tra la spinta
olistico-emergentista e normativa, che
comporta una semantica intensionale per
gli atteggiamenti cognitivi e linguistici
dell’uomo, e la spinta realistico-causale
che, centrata sulla nozione di causalità,
adotta una semantica estensionale per potersi riferire agli oggetti ed agli eventi
esterni che ci caratterizzano. La filosofia
di Davidson, osserva Sparti, mostra dunque di appartiene ancora all’empirismo
che pretendeva di superare.
Riferendosi alla nozione di interpretazione, proposta da Davidson sulla base delle
idee di regola, condizione di asserzione,
uso, ecc. di Wittgenstein, Sparti critica il
progetto esternalista e quello olistico-cognitivo di Davidson. Per quanto riguarda il
progetto esternalista, Sparti rileva che in
Davidson la causa è sottodeterminata dall’interpretazione, cioè non esiste nessuna
causa autoreferenziale che si applichi a se
stessa, determinando il suo contenuto intenzionale; anzi, per una sola causa si
possono dare molte interpretazioni. Gli
enunciati stessi, continua Sparti, sono agiti secondo l’uso linguistico, non interpretati o causati. In definitiva, l’immagine
TENDENZE E DIBATTITI
di interpretazione formulata da Davidson risulta insufficiente, e la nozione di
comprensione è troppo concettuale e
astratta rispetto a quella che ha luogo
nelle interazioni sociali.
Per quanto concerne invece il progetto olistico-cognitivo di Davidson, Sparti rileva
una sottovalutazione dell’importanza dell’intenzione come motore dell’azione a favore dei desideri e delle credenze. Al modello causale o intenzionale, Sparti oppone, come più adeguato, quello del recettore, che pone nell’agire ciò che determina il
significato e nelle condizioni d’uso, che
ricostruiscono continuamente il principio
di carità, la fonte per la recezione del significato da parte dei recettori. Il rifiuto del
progetto olistico-cognitivo esternalista è
da ricercare, secondo Sparti, nell’illegittimità della riduzione della comprensione
alla capacità di traduzione-interpretazione;
anzi è proprio la traduzione a portare a
fraintendimenti e anomia. La proposta di
Davidson deve essere, in tal senso, invertita, affinché si comprenda senza tradurreinterpretare, cioè senza dover ridimensionare i processi dell’interpretazione. Solo
considerando contemporaneamente la proposta causalista ed esternalista di Davidson
e quella contingente e serialista di
Wittgenstein possiamo avere un’immagine
globale della comprensione del significato.
Queste valutazioni preliminari servono a
Sparti per affrontare, in Davidson, il tema
della differenza culturale e del possibile
rapporto con essa, quindi i legami tra interpretazione, traduzione e le interruzioni
della comprensione sociale, in riferimento
all’esperienza dello “straniero”, cioè della
diversità culturale, linguistica e della loro
interpretazione. L’esperienza rara, accidentale e anomala di estraniamento dello
straniero si genera, per Sparti, a seguito di
un’interpretazione parziale che avviene in
un ambito esterno alla zona di razionalità,
in cui, per Davidson, si ha il riconoscimento della persona in quanto tale. Negando
l’esistenza di forme traducibili e tuttavia
nettamente alternative in termini di credenze e razionalità, che comportino un
fondamentale accordo umano e comunità
autoreferenziali, Davidson misconosce la
specificità, la varietà e la radicale situazionalità del noi. A questo Sparti obietta che
solo nel mutuo confronto tra le comunità si
ha il riconoscimento e la comprensione
reciproca che produce l’identità e la distinzione sociale: l’estraneo o lo straniero è
necessario per la formazione e la ritenzione della nostra identità. Sparti, in altri
termini, contrappone alla proposta di Davidson di una comunità cognitiva, razionale, individualista, basata sull’assunto non
dimostrato di unità cognitiva dei suoi individui, quella di una comunità di comunicanti che, salvaguardando le connessioni
di usi, atti, tecniche e asserzioni che gli
uomini instaurano tra di loro, conserva la
diversa identità dello straniero.
Tra i recenti testi critici che affrontano
l’opera filosofica di Davidson è opportuno
segnalare, in questo contesto di riflessione, il saggio di J. E. Malpas, Donald
Davidson and the mirror of meaning (Donald Davidson e lo specchio del significato, Cambridge 1992). L’opera si articola
su due livelli: il primo fornisce un’esegesi
della riflessione più recente di Davidson
riguardo l’indipendenza ontologica dei
contenuti mentali dell’interpretazione, la
teoria della causalità e i suoi rapporti con
il significato e il principio di carità; il
secondo sviluppa oltre la lettera la sua
posizione olista collegandola alla tradizione fenomenologica e heideggeriana.
L’opera di Malpas è articolata in sette
capitoli. I primi due capitoli sono dedicati
alla presentazione delle linee generali della filosofia di Davidson e di quella del suo
maestro W. V. O. Quine. I tre capitoli
successivi si occupano dell’olismo, dell’indeterminatezza e del principio di carità. Infine, gli ultimi due capitoli trattano
delle questioni metafisiche ed epistemologiche, sollevate dall’interpretazione,
come lo scetticismo, il relativismo, il
realismo e la verità.
In particolare, anche se non in misura così
ampia quanto promette il titolo del testo,
Malpas rivolge l’attenzione al rapporto di
rispecchiamento tra la struttura psicologica e quella dell’interpretazione che permette a Davidson di spiegare l’indipendenza ontologica dei contenuti mentali
dall’interpretazione, senza che quest’ultima debba svelare tali contenuti.
Partendo dalla concezione di Davidson,
Malpas sviluppa una teoria olistica che
prende a prestito dalla fenomenologia e
dall’ermeneutica le nozioni di “intenzione” e di “orizzonte” e vi aggiunge quella di
“progetto”. In questo, tuttavia, Malpas viola oltre che la lettera, anche le intenzioni
di Davidson, affermando che la corretta
caratterizzazione della nozione di verità
è quella di aletheia, di verità come disvelamento, proposta da Heiddeger. Tale
nozione, osserva Malpas, è contenuta
implicitamente nella concezione di Davidson, secondo cui la comprensione è
insita nel dialogo e nell’implicazione
con il mondo. M.G.
Geofilosofia
Con il titolo GEOFILOSOFIA viene pubblicato il primo numero di una nuova
rivista, «MILLEPIANI», diretta da Tiziana
Villani e promossa dall’associazione
culturale “Mimesis”, il cui intento consiste nel realizzare «un progetto-laboratorio che avvii una riflessione sul
Moderno, e sui principali percorsi di
pensiero che lo attraversano».
Il saggio di apertura, Geofilosofia, che dà
il titolo a questo primo numero della rivi32
sta «Millepiani», è frutto della collaborazione fra Gilles Deleuze e Felix Guattari
ed è tratto da Qu’est-ce-que la philosophie?
(1991). Si tratta una riflessione che vuol
porsi come topologica, “a partire dal luogo”, anziché come gnoseologica, ontologica, etica o politica, a partire dalla relazione fra soggetto e oggetto. Secondo
Deleuze e Guattari, il pensiero e l’agire
dell’uomo si collocano in una logica di
dislocazione, di deterritorializzazione e
successiva riterritorializzazione, che costituiscono l’essenza tanto della pratica
politica, quanto di quella filosofica. Lo
Stato, sia quello moderno, sia la polis
greca, opera una deterritorializzazione,
perché considera il territorio in base a
finalità (economiche, politiche), a “misure”, che esorbitano da esso; ma anche la
filosofia nasce da un’operazione deterritorializzante, attraverso lo straniamento semantico-concettuale di strumenti linguistici decontestualizzati rispetto alla cultura da cui provengono.
D’altra parte, ogni deterritorializzazione
comporta una riterritorializzazione: una
nuova identità nello Stato; una nuova referenzialità semantica nel concetto. In questa prospettiva, fa notare Tiziana Villani
nel suo intervento: Verità e divenire. Attualità e necessità del nomadismo, lo sradicamento diventa un atto strategico dell’esercizio di verità: in ciò consiste la “nomadologia”, la proposta di un “sapere nomadico”, che si faccia carico dell’erranza
e delle verità nel loro sorgere dai “luoghi
comuni”. La sortita dal luogo comune si
attua attraverso una pratica dell’eccesso,
che è nel contempo deterritorializzante, in
quanto rottura della ritualità dei percorsi
consuetudinari, e contestualizzante, in
quanto richiesta di una ricollocazione in
un “progetto”. A questa prospettiva si oppone ciò che Paul Virilio, nel suo Utopia
o teletopia, definisce come “mediatizzazione totale dell’umanità”, quella “mondializzazione” che identifica l’u-topia, l’assenza di luogo, con la tele-topia, in quanto
lontananza da ogni luogo. Tale lontananza
si qualifica come indifferenza dei luoghi, e
risulta essere il fondamento di quell’atteggiamento che, richiamandosi a Peter Sloterdijk, Pierre dalla Vigna, in Metamorfosi del moderno. Nomadismi e transizioni
nel pensiero contemporaneo, definisce
come “neocinismo”, in quanto «accoglimento di ogni cosa nell’indifferenziato»,
come “adesione all’indifferenziato”. Nella sua radicalità antiteologica, questo atteggiamento, insieme trasformistico e opportunista, costituisce l’essenza della prassi
politica nella modernità, e rinvia a una
visione dell’essenza umana più pessimistica che disincantata.
Alla possibilità di ricostruzione del soggetto agente è orientato anche il saggio di
Adelino Zanini, Sottrarsi alla vista. I paradigmi dell’esodo, della fuga, dell’abbandono, del “sottrarsi a” rinviano tutti,
sottolinea Zanini, all’idea di movimento:
TENDENZE E DIBATTITI
il nomadismo si qualifica dunque, in via
immediata, come un “pensiero del territorio”, nel senso che non può fare a meno di
“pensare il territorio”, almeno nella forma
dell’abbandono, ma anche in quella della
sua ricerca. Esso si qualifica però, al contempo, come pensiero della pluralità; nella
sua erranza il soggetto cambia molti luoghi, e con ciò muta esso stesso, si muove in
contesti non congruenti, irriducibili l’uno
all’altro, diventa altro, “straniero”; si sottrae alla presenza, alla vista, a uno sguardo,
cioè, omnicomprendente ed esaustivo. F.C.
Su Nietzsche
Tra gli scritti che intendono analizzare
l’eco di risonanza della filosofia nietzscheana nella cultura contemporanea
segnaliamo l’opera di Steven Aschheim, THE NIETZSCHE LEGACY IN GERMANY (L’eredità di Nietzsche in Germania, University of California Press, Berkley 1992) e
tre recenti studi di Antimo Negri, NIETZSCHE NELLA PIANURA. GLI UOMINI E LA CITTÀ
(Spirali, Milano 1993), NIETZSCHE. LA SCIENZA SUL VESUVIO (Laterza, Roma-Bari 1994)
e INTERMINATI SPAZI ED ETERNO RITORNO (Le
Lettere, Firenze 1994).
Steven Aschheim analizza le diverse interpretazioni del pensiero nietzscheano in
Germania nell’età contemporanea, individuando tre filoni interpretativi. Il primo si
afferma all’inizio del Novecento e vede
Nietzsche come il dissacratore delle tradizioni e delle verità precostituite, considerate come pregiudizi ideologici. Il secondo,
assolutamente antitetico al primo, si manifesta tra la prima e la seconda guerra mondiale, in virtù anche alla manipolazione
operata dalla sorella del filosofo, e pone la
filosofia di Nietzsche come paradigma dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo.
Dopo la seconda guerra mondiale, nota
Aschheim, grazie a pensatori come Derrida,
prende corpo la tendenza a considerare
Nietzsche padre del decostruzionismo,
ambio tradizionale del pensiero liberaldemocratico, opposto al nazismo.
Questa varietà di interpretazioni, osserva
Ascheim, mostra come sia impossibile collocare stabilmente Nietzsche all’interno
dell’origine o della derivazione di una qualche corrente ideologica. Il pensiero nietzscheano è fluido e soggetto a infinite interpretazioni ed è proprio questo, ricorda
Aschheim, che costituisce l’autenticità del
suo messaggio. La riduzione di questa
molteplicità di interpretazioni ad una sola
scuola di pensiero, conclude Aschheim,
non farebbe che distorcere l’originarietà
del suo pensiero in forme del tutto estranee
alla sua intenzione teoretica.
Per Antimo Negri, invece, rintracciare in
Nietzsche un “manifesto politico” è comunque impossibile e illegittimo. Nel suo
studio: Nietzsche nella pianura. Gli uomini
e la città, Negri oserva come la posizione
nietzscheana vada innanzitutto compresa
attraverso le coordinate del riferimento alla
cultura antica, da un lato, e alla critica dei
valori (e, dunque, delle ideologie), dall’altro. Il realismo tucidideo si coniuga, in Nietzsche, con l’antidemocraticismo di Teognide. L’aristocraticismo che ne consegue non
si fonda dunque in nessun modo, secondo
Negri, su un estetismo di stampo dannunziano (il culto della bellezza, che la massa non
riesce a comprendere), bensì su una visione
che, pretendendosi disincantata, giudica e
condanna infingimenti e dissimulazioni a
suo giudizio ideologici, quali le teorie egualitarie, il mito del progresso; ma anche la
retorica vitalista o biologico-razziale.
La pianura o la “palude”, cui Nietzsche
pure guarda (e in ciò consiste la sua dimensione “politica”), va indagata con gli occhi
del realista Tucidide, che sa vedere come
la polis costituisca il necessario risultato
delle passioni di cui gli uomini sono in
balìa, piuttosto che il frutto di un loro
calcolo razionale. Di qui l’infondatezza
delle retoriche politiche (da D’Annunzio a
Mussolini, da Rensi a Heidegger), reazionarie o progressiste che siano, superomiste
o egualitarie, che si configurano, perciò,
come mitologie. La prospettiva di Nietzsche, al di là (o al di qua) delle sue eredità
e delle sue manipolazioni, si delinea dunque come una visione politica non ideologica, fondata sulle acquisizioni di una “volontà di potenza” che si presenta, anzitutto,
come physis dell’uomo.
In Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, Negri
mostra come il messaggio nietzscheano e
la cultura dionisiaca siano fortemente radicati nell’età contemporanea. La scienza
viene collocata sul Vesuvio in quanto ha
perso quel margine di universalità che la
caratterizzava nella sua fondatezza. La
“gaia” scienza, al contrario, è posta alle
pendici del Vesuvio, soggetta, nella sua
leggerezza e fragilità, al continuo rischio di
frane ed eruzioni.
Negri analizza la “cultura del vulcano”
nell’epistemologia e nell’estetica contemporanee, riscontrando anche in autori, normalmente non legati a Nietzsche, elementi
di forte connessione. In ambito epistemologico, infatti, Popper e Mach rappresentano la caduta dell’oggettivismo, tipica della
filosofia nietzscheana. Il primo per l’affermazione dell’inesistenza di una vera e propria “logica” nella scoperta scientifica (le
palafitte su cui si erge la scienza popperiana ricorderebbero le pendici vesuviane),
mentre il secondo per il sensualismo che,
come il prospettivismo di Nietzsche aveva
ridotto i fatti a interpretazioni, circoscrive
gli elementi del mondo a sensazioni.
In ambito estetico Negri ritrova la filosofia
nietzscheana nell’incontro tra impressionismo ed espressionismo, tendenze che meglio sintetizzano il rovesciamento del rapporto tra soggetto e oggetto. La tensione
del soggetto verso l’oggetto dell’espres33
sionismo e il turbamento del soggetto da
parte dell’oggetto dell’impressionismo si
incontrano infatti, ad esempio, ne “L’Urlo”
di Munch, che rappresenta, allo stesso tempo, il grido dell’uomo verso la natura e il
suo contrario. Anche la musica, prosegue
Negri, reca l’impronta nietzscheana: oltre
alla musica di Wagner, la “Carmen” di
Bizet, in particolare, coglie il senso di quell’amore dionisiaco che sfugge a qualsiasi
istituzione, come il matrimonio, che lo
svuoterebbe del suo senso originario.
Restando ancora in ambito estetico, in Interminati spazi ed eterno ritorno, Negri
affronta il rapporto tra Nietzsche e Giacomo Leopardi. Il legame fondamentale tra
i due consiste nella produzione letterariofilosofica, che scavalca i generi classici per
raggiungere nuove forme di espressione. Il
poetare pensante di Leopardi, infatti, viene
accostato da Negri al pensare poetante di
Nietzsche attraverso l’analisi di diverse
opere, come lo Zibaldone di Leopardi, che
contiene riflessioni filosofiche espresse in
forma poetica, o lo Zarathustra di Nietzsche, dove nella pratica della “danza della
penna” il verso sostituisce e accompagna il
concetto. La convergenza formale dei due
autori è dovuta, secondo Negri, all’impostazione post-metafisica e anti-hegeliana
che accomuna i due autori in una nuova
utilizzazione del linguaggio che rispecchia
quella visione del mondo in cui, dopo la
“morte di Dio”, ogni dimensione, tra cui
quella letteraria, viene distorta e riadattata.
La concezione decentrata, o post-copernicana, dell’uomo, posto alla periferia dell’universo, è ciò che accosta, secondo Negri, Nietzsche a Leopardi. Ma non solo:
l’universo materialistico, privato della presenza di Dio, si muove, per i due autori, di
un moto ciclico e infinito che riproduce se
stesso inesorabilmente, senza lasciare alcuna libertà all’individuo. L’eterno ritorno
nietzscheano viene ricondotto, così, al riprodursi meccanicistico della natura leopardiana, insensibile e indifferente all’uomo, sempre più solo.
A questo proposito può essere interessante
confrontare queste considerazioni con le
valutazioni su Nietzsche espresse da Gabriele D’Annunzio in due recensioni e in
due altri scritti dedicati al filosofo e ora
raccolti nel volume: Su Nietzsche (a cura e
con postfazione di D. Valenti, De Martinis, Catania 1993). D’Annunzio, che non
leggeva il tedesco, venne a conoscenza del
pensiero nietzscheano grazie alla mediazione della cultura (e della lingua) francese. Le problematiche del superomismo e
del disprezzo per le masse, delle quali si
sarebbe nutrita la poetica (se non la poesia) dannunziana, trovano qui il loro cespite. Le recensioni dannunziane appaiono significative per la ricezione non
solo italiana di Nietzsche, anche perché
mostrano il carattere anzitutto estetico
di tematiche sulle quali, successivamente, farà leva l’interpretazione “politica”
di Nietzsche da parte del nazismo. A.S.
TENDENZE E DIBATTITI
Martin Heidegger, Carl Schmitt
Schmitt e Heidegger di fronte
al nazismo
La pubblicazione in Germania della
prima biografia completa di Carl Schmitt ad opera di Paul Noack: CARL
SCHMITT (Propyläen, 1993), ha suscitato sulla stampa tedesca vaste e profonde reazioni. Nell’analisi sulla vita e
le opere del brillante giurista della
repubblica di Weimar, considerato con
Ernst Jünger il battistrada della dittatura nazista, Noack mette in dubbio
non solo l’autenticità della sua conversione al regime hitleriano, ma considera il pensiero politico e giuridico
di Schmitt “innocente e atemporale”.
In tono di riabilitazione di un altro
importante pensatore tedesco coinvolto con il nazismo, Martin
Heidegger, si esprimono anche lo studio di Francois Fediér, HEIDEGGER E LA
POLITICA (trad. it. di M. Borghi, Egea,
Milano 1993), e quello di Ernst Nolte,
MARTIN HEIDEGGER TRA POLITICA E STORIA
(trad. it. di N. Curcio, Laterza, RomaBari 1994).
«Il Führer protegge il diritto dal peggiore
abuso se al momento del pericolo, in forza
della sua stessa natura di Führer, crea
direttamente il diritto come supremo capo
giudiziario». Con queste parole inizia l’articolo tristemente famoso Der Führer
schützt das Recht (Il Führer protegge il
diritto), con il quale Carl Schmitt giustificava gli assassinii ordinati da Hitler il 30
giugno del 1934; un articolo che dovrebbe
togliere ogni dubbio sulla fede nazionalsocialistica del suo autore. Eppure sull’autenticità dell’adesione di Schmitt al regime hitleriano permangono ancor’oggi non
pochi dubbi.
Per Paul Noack, l’adesione di Schmitt al
nazismo fu “occasionale”: «un cattivo uso
delle sue teorie, uno sbandamento politico, un’iperreazione, forzata dalla crisi della repubblica di Weimar». Per questo, sostiene Noack, è giunto il momento di «riammettere Carl Schmitt al circolo delle idee»,
in quanto autore di un pensiero giuridico e
politico «innocente e atemporale». Fu dunque un “errore” politico quello che portò
Schmitt a considerare il sistema nazionalsocialista come l’incarnazione dell’auspicato Stato totale, espressione dell’
“omogeneità” sociale che aveva nel rapporto “amico-nemico” il cardine della
sua politica?
Negli anni della repubblica di Weimar, gli
scritti di Schmitt sulla teoria del diritto
erano tra i più letti e discussi, considerati
unanimamente come punto di riferimento
decisivo sull’attuabilità del sistema democratico in Germania. Come consigliere del
governo Hindenburg, Schmitt fornì le giustificazioni teoriche e giuridiche al sistema presidenziale che governò la Germania
34
dal 1930 al 1933 con decreti di emergenza.
Furono dunque il suo sostegno attivo al
governo presidenziale, i compromessi nella
prima fase del governo di Hitler e soprattutto la sua fama di Kronjurist del Terzo
Reich, che per Noack hanno portato a
interpretare le sue opere scritte prima del
1933 come «le fondamenta giuridiche dello stato nazista» e quindi ad esporlo a
«numerose e ingiustificate censure».
Furono dunque la paura, l’ambizione e la
vanità a determinare il modo in cui Schmitt reagì ai vari cambiamenti nei quali si
trovò coinvolto. Noack sembra convinto
che se ci si dimentica dell’ “uso” errato che
hanno subìto le sue teorie, il pensiero di
Schmitt si presenta come un modello di
orientamento politico e giuridico straordinariamente attuale. È questo il caso, in
particolare, della sua critica al parlamentarismo e più in generale al liberalismo,
presente nello scritto del 1923, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno), dove
vengono denunciati non solo le disfunzioni della vita parlamentare di Weimar, ma
gli inconvenienti “strutturali” del parlamentarismo stesso, quali l’egemonia dei
partiti, la lottizzazione dei pubblici poteri,
l’abuso dei privilegi, la politocrazia, le
ricorrenti crisi di governo, la separazione
tra elettori ed eletti. Per questi motivi Schmitt credeva che la democrazia e il parla-
TENDENZE E DIBATTITI
mentarismo liberale non fossero la stessa
cosa. Per uscire dall’empasse occorreva
un’istanza decisionistica in grado di affermare la sovranità super partes dello Stato,
identificata da Schmitt nel presidente del
Reich quale Hüter der Verfassung (custode della costituzione).
I commentatori tedeschi della biografia di
Noack si sono trovati daccordo nel ritenere che se è corretto nei confronti di Schmitt
leggere le sue opere scritte prima del 1933
indipendentemente dall’orizzonte politico della dittatura nazista, questo atteggiamento non appare altrettanto corretto nei
confronti della sua opera. Il motivo ricorrente delle critiche all’opera di Noack riguarda la stessa possibilità di pensare oggi
una «dittatura sana», definita da Schmitt in
Die Diktatur (La dittatura, 1921) «l’essenza dello Stato moderno», in grado di collegare l’istanza democratica con quella dello Stato forte. Tuttavia, proprio in questo
testo, nella distinzione tra «dittatura commissariale», che non abroga la costituzione vigente, e «dittatura assoluta», Noack
coglie la maggiore distanza di Schmitt dal
nazismo. Molte delle idee di Schmitt sul
diritto costituzionale e sul governo, osserva Noack a questo proposito, sono state
incorporate nella costituzione di Bonn della
Repubblca Federale, in particolare le limitazioni alle modifiche costituzionali mediante emendamenti, per evitare che il
sistema possa fornire gli strumenti legali
per la propria distruzione. Tuttavia occorre sottolineare a questo riguardo che anche
quando prima del 1933 Schmitt optò per la
dittatura di von Schleicher, la sua costruzione teorica non si distingueva da quella
nazista. Infatti il regime nazista restò una
«dittatura commissariale» in quanto non
abolì la costituzione di Weimar nel suo
complesso, ma pose nello stesso tempo
fuori gioco tutte le garanzie democratiche
e di diritto dello Stato, lasciando inviolato
solo il diritto alla proprietà. Al tempo
stesso il nazismo è stato una «dittatura
sovrana» perché concentrò nell’esecutivo
anche la facoltà legislativa arrogandosi
anche il potere costituente. Questo sistema
coincideva così fin nel dettaglio con lo
stato interventista e divenne, secondo le
teorie di Schmitt, uno «stato di eccezione»
permanente.
Se uno dei motivi della recente renaissance del pensiero di Schmitt è dovuto all’indiscutibile potenziale teorico, ciò che nelle analisi di Noack resta in ombra è proprio
la critica al parlamentarismo, fondata su
conoscenze di teoria del diritto e di sociologia del diritto che non sono presenti nelle
sue opere di primo piano.
Nell’intento di riabilitare la figura di Martin Heidegger dal coinvolgimento con il
nazismo, Francois Fediér imposta la sua
difesa su due argomentazioni: in primo
luogo lo smantellamento delle tesi di Victor
Farias; in secondo luogo la dimostrazione
dell’incompatibilità delle intenzioni filosofiche di Heidegger con la effettiva rea-
lizzazione nazista. Nella prima parte del
suo studio Fediér analizza tutti gli episodi
biografici che costituiscono, secondo Farias, una chiara prova di collusione tra
Heidegger ed il nazismo, presentandoli
come irrilevanti o addirittura come dimostrazioni dell’indipendenza del filosofo
rispetto all’ideologia nazista e antisemita.
Nella seconda parte Fediér affronta il legame reale tra Heidegger e la politica del suo
tempo, dimostrando che in Heidegger l’intervento effettivo del pensiero filosofico
sull’azione reale necessitava di un organismo in grado di farsene carico. La riabilitazione dell’università tedesca, operata da
Hitler, rappresentava in tal senso l’occasione migliore. La Rede del ’33 annunciava appunto il progetto di riforma dell’università, che sarebbe dovuta diventare la
guida destinale del popolo tedesco verso la
propria redenzione. L’intenzione heideggeriana, infatti, era quella di una vera e
propria rivoluzione nazionalsocialista che,
con l’eliminazione della dialettica tra le
diverse classi sociali, avrebbe portato il
lavoro di ogni individuo al servizio della
nazione e lo avrebbe elevato a strumento
spirituale di coesione dei popoli. Nel 1933
Hitler sembrava rappresentare la possibilità concreta per questa trasformazione e
Heidegger confuse il proprio progetto con
il suo. Ma quando, un anno dopo, nel piano
hitleriano il concetto di nazione diventava
quello fanatico di razza, Heidegger prendeva le distanze dal suo incarico universitario e dal progetto di rivoluzione nazista.
La mancanza di una abiura pubblica nei
riguardi della scelta del ’33 è dovuta, secondo Fediér, non ad una mancata condanna verso il nazismo, bensì alla concomitanza della ricerca di un nuovo tipo di
pensiero che riuscisse a pensare l’impensato e che coincideva con il silenzio.
Più incisivo nell’analisi politica e filosofica è lo studio di Ernst Nolte, che non vede
nelle dimissioni di Heidegger del ’34 un
rifiuto dell’ideologia nazionalsocialista,
quanto una posizione più complessa. Me-
Manifesto per la “Giornata del Partito” a Norimberga nel 1934
35
TENDENZE E DIBATTITI
diante l’analisi parallela della vita e del
pensiero di Heidegger, Nolte, differenziandosi dalle tesi di Fediér, dimostra chiaramente che esiste una profonda continuità tra il periodo antecedente e quello
posteriore al rettorato del ’33, testimoniata dal rifiuto del cattolicesimo, dalla
paura del comunismo e dalla necessità di
un destino diverso e rivoluzionario per il
popolo tedesco.
Il pericolo del marxismo, avvertito durante la Repubblica di Weimar e confermato
più volte anche dopo la seconda guerra
mondiale, spinge Heidegger a ricercare
nel nazionalsocialismo quella soluzione
rivoluzionaria che avrebbe salvato i tedeschi dall’appiattimento e dallo sradicamento, causati dalla tecnica, e avrebbe
fornito quei valori che, al posto del cattolicesimo, avrebbero portato l’uomo ad una
più alta considerazione di se stesso e del
proprio popolo. Il progetto di Heidegger
consisteva nella istituzione di una sorta di
polis tedesca, in cui tutti i lavoratori, costituendo un’unità culturale, avrebbero oltrepassato la dicotomia metafisica di soggetto e oggetto che aveva caratterizzato,
sino ad allora, il destino dell’Occidente.
Lo Studium generale dell’università da lui
prospettato, infatti, istituiva quell’unità tra
insegnante e studente che, sul piano spirituale, rappresentava l’unità tra lavoratore
e datore di lavoro.
Il vizio di fondo di tale progetto consisteva, certamente, nella presunzione che la
filosofia potesse farsi carico di una tale
trasformazione della realtà, e i riferimenti
alla Repubblica di Platone testimoniano
questa tendenza. Secondo Nolte, comunque, al momento dell’investitura di Hitler
a cancelliere del Reich niente faceva presagire la profonda discrepanza tra il progetto heideggeriano e l’effettiva realizzazione del nazismo. Per questo, una volta
manifestatosi, nella sua interezza, il progetto hitleriano, Heidegger si è mosso su
due piani: la rivendicazione del proprio
progetto nazionalsocialista, come l’unico
ed autentico, e il distacco da quello di
Hitler, considerato inadeguato e spesso
paragonato al comunismo e all’americanismo, movimenti di massa e nichilisti.
Heidegger non fece mai autocritica perché
il suo progetto, non essendo mai stato
nazista nel senso hitleriano del termine,
era assolutamente estraneo all’antisemistismo. Per questo, sostiene Fediér, la responsabilità personale di Heidegger di fronte agli orrori del nazismo è praticamente
nulla. Il suo silenzio sull’accaduto diventa, così, il risultato di «chi pensa in grande
ed in grande è costretto ad errare», mentre
il progetto per una soluzione diversa, anche manifestato in forme differenti, resterà sino alla morte. M.C./A.S.
Hobbes, e oltre
Si deve in particolare all’opera di Yves
Charles Zarka, direttore di un progetto di ricerca su Hobbes presso il CNRS
di Parigi, la serie delle iniziative (seminari, convegni, pubblicazioni) sulla
storia e sulla teoria della moderna
filosofia etica e politica. Oltre alla traduzione delle opere di Hobbes, tra le
recenti pubblicazioni, frutto di questo
gruppo di ricerca, segnaliamo: RAISON
ET DÉRAISON D’ETAT, (Ragione e sragione di Stato, a cura di Y. C. Zarka, Puf,
Parigi 1994) e L’INTERPRETAZIONE NEI SECOLI XVI E XVII (a cura di G. Canziani e
Y. C. Zarka, F. Angeli, Milano 1993).
Per quanto riguarda le iniziative seminariali, nell’anno 1993-1994 si è tenuto a Parigi un seminario dal titolo:
“JEAN BODIN: NATURA, STORIA, DIRITTO E
POLITICA”. Il seminario è stato accompagnato da due giornate di studio e
un colloquio. La prima delle due giornate di studio ha avuto luogo alla
Sorbona, il 30 aprile 1994, ed è stata
dedicata al tema: “TEOLOGIA E POLITICA
IN HOBBES ”. Una seconda giornata è
stata organizzata a Parigi il 21 maggio 1994, sul tema: “DALLA RESISTENZA
ALLA RIVOLTA: LA POLITICA DEI MONARCOMACHI (XVI E XVII SECOLO )”. Il colloquio,
organizzato in collaborazione con il
Centre de recherches politiques Raymond Aron, si è invece tenuto a Parigi, all’EHESS, il 17 e il 18 giugno 1994
sul tema: “SOVRANITÀ E GOVERNO: JEAN
BODIN E I TEORICI DELLA RAGION DI STATO”.
Il progetto di ricerca, diretto, dal 1988, da
Yves Charles Zarka, riunisce ricercatori
francesi e stranieri di differenti discipline
attorno a un intento iniziale di traduzione
in lingua francese delle opere complete di
Hobbes. Pubblicate presso le edizioni Vrin
di Parigi, le opere già tradotte sono, a
tutt’oggi, quattro: Béhémoth (tr. franc. di
Luc Borot) e Dialogue des Common Laws
(tr. franc. di Lucien e Paulette Carrive),
editi nel 1990; De la liberté et de la nécessité e Hérésie et histoire (tr. franc. di F.
Lessay), pubblicati nel 1993. In mancanza
di un’edizione completa nella lingua originale, e a causa delle lacune della maggior parte delle edizioni parziali, tali traduzioni forniscono un strumento di lavoro
indispensabile per tutti i ricercatori che
s’interessano a Hobbes, grazie anche, in
particolare, a un’accurato apparato critico
che permette di reperire e di correggere le
imperfezioni delle edizioni dei testi originali. Quanto alla presentazione, ogni volume comporta un’introduzione storica relativa all’opera e al suo contesto, un apparato critico comprensivo delle differenti lezioni delle edizioni dell’epoca e delle divergenze fra queste e i manoscritti stessi.
Non mancano inoltre precise annotazioni
storiche, un quadro delle corrispondenze
fra la traduzione francese e altre edizioni
36
del testo originale, glossari e indici analitici. Quest’ampia impresa si avvale della
stretta collaborazione fra filosofi, anglicisti e latinisti e proseguirà nel 1995 con la
pubblicazione di Questions concernant la
liberté, la nécessité et le hasard (tr. franc.
di L. Foisneau e di F. Perronin) e di Eléments de la loi (tr. franc. di M. Triomphe).
La traduzione delle opere di Hobbes non è
un progetto isolato, bensì è accompagnato
da una serie di ricerche strettamente connesse e che si aprono a compasso sul
pensiero politico moderno. A questo scopo, Zarka ha costruito una rete europea di
ricerche congiunte sulla filosofia moderna. Solo per L’Italia, numerose sono le
collaborazioni con il Centro di studi del
pensiero filosofico del XVI e del XVII del
CNR di Milano (direttore: Guido Canziani), con l’Istituto Luigi Firpo di Torino
(direttore: Enzo Baldini), con il Dipartimento di Filsofia - Progetto bilaterale CNR
di Pisa (direttore: Onofrio Nicastro), con
l’unità di ricerca su “Ragione di Stato:
teoria e storiografia” del CNR di Trento
(direttore: Diego Quaglioni).
Uno degli interessi maggiori di questo
gruppo di ricerca è lo studio dei fondamenti metafisici dell’etica e della politica del
XVII secolo. L’idea iniziale di Zarka è
stata quella di estendere all’insieme del
secolo il metodo di ricerca utilizzato ne La
décision métaphysique de Hobbes. Conditions de la politique (La decisione metafisica di Hobbes. Condizioni della politica,
1987), che intendeva riattivare il senso
della problematica etico-politica, inscrivendola nel contesto dottrinale in cui appare, e nel valutare gli spostamenti (o i
prolungamenti) che tale problematica provoca nel preciso ambito concettuale che
prende avvio con la tarda scolastica e si
sviluppa pienamente nel XVII secolo. Tale
approccio metodologico lasciava emergere una storia filosofica della filosofia, capace di mettere in luce i presupposti teorici
di un’opera, inquadrandola nel contesto di
elaborazione dei maggiori concetti dell’etica e della politica moderne e mettendo
in evidenza il peso teorico degli spostamenti terminologici e concettuali, presenti
in questa o in quell’opera.
Tra i progetti di seminario organizzati in
questi ultimi anni dal gruppo di ricerca,
l’anno 1989-1990 fu consacrato alle ricerche sulla lessicografia hobbesiana, che confluirono nella pubblicazione del volume
collettivo: Hobbes et son vocabulaire
(Hobbes e il suo vocabolario, 1992). Nel
1990-1991, l’attenzione si rivolse all’analisi delle complesse relazioni fra Locke e
Hobbes (alcuni risultati furono pubblicati
nel n. 37/1993 della rivista «Philosophie»).
Nell’anno 1991-1992, al centro delle ricerche fu il tema della ragione di Stato, che
diede origine al volume: Raison et déraison d’Etat. Nel 1992-1993, nuovo impulso è stato dato all’analisi della storia dei
sistemi, attraverso un’indagine sulle fonti
scolastiche della filosofia morale e politi-
TENDENZE E DIBATTITI
ca del XVII secolo, con l’intento di ricostruire nessi teorici comuni tra tradizioni
apparentemente estranee. Una parte di
questo lavoro di ricerca sarà pubblicato
nel 1995, nel volume: Aspects de la pensée
médiévale dans la philosophie politique
moderne (Aspetti del pensiero medievale
nella filosofia politica moderna).
Il seminario dell’anno 1993-1994, dal titolo: “Jean Bodin: natura, storia, diritto e
politica”, ha inteso raccogliere i risultati
più recenti della ricerca sul pensiero di
Bodin. Marie-Dominique Couzinet ha
proposto una ridefinizione dell’idea di
metodo alla luce della cultura filosofica
della fine del secolo XVI, richiamando in
particolare l’attenzione sul sapere geografico nel pensiero di Bodin. John Salmon
si è occupato principalmente dell’eredità
di Bodin in Inghilterra e in Germania;
mentre Claude-Gilbert Dubois ha messo
in relazione il concetto di nazione di Bodin
con la cultura dell’epoca, confrontando
l’immagine “nazionalista” di Bodin con la
realtà della nazione francese. Gérard
Mairet si è interrogato invece sul fondamento metafisico della sovranità ne Les
six livres de la république (I sei libri della
repubblica). Tra le altre comunicazioni,
Vincenzo Piano Mortinari si è occupato
di Bodin come giureconsulto; François
Berriot ha analizzato il concetto di natura
in uno scritto poco conosciuto, Le Théâtre
de la nature universelle (Il teatro della
natura universale); Pierre Magnard ha
proposto una lettura delle teorie religiose
di Bodin e Nicole Jacques-Chaquin ha
sottolineato l’importanza del problema
della stregoneria.
Due giornate di studio e un colloquio hanno arricchito e sviluppato la ricerca sviluppata nel seminario. Il colloquio: “Sovranità e governo: Jean Bodin e i teorici della
ragion di Stato”, ha messo in luce i legami
tra la teoria bodiniana della sovranità e le
teorie della ragion di Stato, tanto francesi,
quanto tedesche che italiane, che ripresero
una quantità notevole di concetti e di posizioni di Bodin, considerato, al pari di Aristotele e di Machiavelli, una fonte perenne
di elaborazione teorica. La distinzione bodiniana tra Stato e governo è apparsa infatti come una condizione della razionalizzazione delle pratiche di governo, sviluppata
dalle dottrine della ragione di Stato, anche
se una delle principali preoccupazioni di
Bodin era di fondare una teoria giuridica
dello Stato, mentre la corrente dottrinale
della ragion di Stato considerava l’azione
politica in termini di deroga alla legge
comune o al diritto comune.
Simone Goyard-Fabre ha richiamato l’attenzione sullo statuto giuridico del magistrato, insistendo sulle connessioni fra politica e giurisprudenza. Diego Quaglioni
si è occupato dell’edizione latina de La
République (1586), soffermandosi, in particolare, sull’espressione: Imperandi ratio, che nell’edizione latina traduce gouvernement et administration con il nuovo
significato di moyen d’exercer la souveranité. Nella teoria bodiniana della sovranità
e dei suoi limiti, secondo Quaglioni, bisogna ricercare la “radice ideologica” della
ragion di Stato. Marie-Dominique Couzinet ha analizzato la ripresa, da parte di
Bodin, della teoria machiavellica della
conservazione dello Stato, dimostrando
come Bodin tenti di fare di questa teoria
una scienza che, concepita sul modello
della medicina, riposa sulla conoscenza
del naturale dei popoli e delle cause naturali delle trasformazioni delle repubbliche
(conversiones rerum publicarum).
Il rapporto fra obbedienza politica e obbligazione giuridica è stato al centro dell’intervento di Gianfranco Borrelli, il quale
ha affermato come i teorici della ragion di
Stato, Botero in particolare, oppongano
alla teoria bodiniana d’una sovranità assoluta e impersonale una teoria delle tecniche politiche in grado di disciplinare i
soggetti. Silvio Suppa ha voluto mettere
in rapporto la riflessione sulla sovranità di
Machiavelli e di Bodin all’interno del
processo più generale di formazione della
ragione moderna, seguendo la linea di ricerca di Horkheimer. Alberto Tenenti ha
insistito sulla diversità delle concezioni
della ragion di Stato nelle differenti città
italiane nella seconda metà del XVI. Enzo
Baldini ha sottolineato l’importanza dei
primi scritti di Bodin, De regia sapientia
(1583) e Dispregio del mondo (1584), e ha
attirato l’attenzione sui primi critici italiani contrari alle teorie di Bodin, come Botero, Minucci e Innocenzo IX, ricordando
il ruolo del cardinale Facchinetti come
ispiratore dei principali scritti anti-machiavellici e anti-bodiniani in Italia intorno al 1588. Michel Senellart, ha presentato un’analisi della ricezione di Bodin presso i teorici tedeschi della prudenza civile
del XVII. Yves Charles Zarka ha concluso il colloquio con un’accurata riflessione
sulle nozioni di Stato e di governo in
Bodin e nei teorici della ragion di Stato,
mettendo a fuoco tre livelli di rapporto:
tra sovranità e deroga; tra Stato e governo; tra conservazione dello Stato e prudenza politica.
Quanto alle due giornate di studio, nella
prima, dal titolo: “Teologia e politica in
Hobbes”, G. A. J. Rogers si è occupato del
rapporto fra legge naturale e legge morale,
dimostrando come la teoria delle leggi di
natura sia suscettibile d’una doppia lettura, secolare e religiosa, dove quest’ultima
si giustifica soprattutto per la preoccupazione, manifestata da Hobbes, di tener
conto della cultura religiosa dei suoi contemporanei. Martine Pécharmann, intervenendo sui rapporti fra logica e teologia, ha messo in evidenza i fondamenti e le
difficoltà in Hobbes di pensare la prova
dell’esistenza di Dio. Luc Foisneau, facendo riferimento alla riflessione hobbesiana sui fondamenti dell’obbedienza civile, ha analizzato la teoria secondo cui la
mortalità naturale degli uomini procede
37
dalla volontà divina, sottolineando come il
“mortalismo”, che Hobbes condivide con
lo scrittore Milton, acquista nel suo sistema un significato filosofico importante.
Infine, Tom Sorell ha dimostrato che se
Hobbes non elimina Dio, lo relega comunque ai confini del suo sistema.
Nella seconda giornata di studio, “Dalla
resistenza alla rivolta: la politica dei monarcomachi (XVI e XVII secolo)”, Arlette Jouanna ha proposto un’interpretazione storica della questione del dovere della
rivolta, a partire da un’analisi della funzione del contratto, inteso come principio di
legittimazione della resistenza politica.
Marie-France Renoux-Zagamé ha presentato i grandi temi della teologia politica
della Lega, sottolineando la difficoltà
d’unificare un pensiero indissolubilmente
legato al contesto polemico delle guerre di
religione. Paulette Carrive si è occupata
in particolare di Georges Buchanan, mentre Jean Fabien Spitz si è interessato al
rapporto fra Locke e i monarcomachi, nel
quadro di una storia delle origini della
moderna filosofia politica in una prospettiva meno continuista di quella proposta
da Skinner.
I lavori del gruppo di ricerca su Hobbes
proseguiranno quest’anno (1994-1995) con
una riflessione sul pensiero di Grotius (per
informazioni: GDR O988, “Recherches
sur Hobbes et sur la philosophie éthique et
politique du XVII siècle”, 7 rue Guy Mocquet, BP n°8, 94801 Villejuif cedex). L.F.
Su Marx e il marxismo
Il volume CARLO MARX: È TEMPO DI UN
BILANCIO , a cura di Paolo Sylos Labini
(introd. di G. Becattini, Laterza, RomaBari 1994), raccoglie scritti di autori
tra economia e filosofia, che in alcuni
casi tracciano un’analisi decisamente
negativa della dottrina marxista, in
altri la rivalutano, riconoscendo al
marxismo forti meriti sia in campo
ideologico, che economico. Un confronto tra Comte e Marx sul tema del
progresso come fenomeno socio-politico e scientifico è sviluppato da Giovanni Magistrale in NEUTRALIZZAZIONE SPOLITICIZZAZIONE - IPERPOLITICIZZAZIONE
(Schena, Fasano di Brindisi 1994).
Il volume curato da Paolo Sylos Labini,
Carlo Marx: è tempo di un bilancio, è
frutto del dibattito, svoltosi tra il ’91 e il
’93 sulla rivista di Pietro Calamandrei, «Il
Ponte», circa la validità del sistema marxista, dando adito a posizioni anche molto
critiche nei confronti delle concezioni economiche e dei presupposti ideologico-culturali elaborati da Marx. Sylos Labini
considera il marxismo responsabile, da un
lato, dell’avanzare del fascismo, dall’altro
della dittatura e dello sfruttamento di clas-
TENDENZE E DIBATTITI
se; le responsabilità si accentuano, secondo Sylos Labini, in tema di conflitto di
classe, inteso da Marx come il motore
della storia. Per tali motivi Sylos Labini
ritiene necessario dissociarsi dalla dottrina economica ed etica marxista, che a suo
parere ha favorito l’inserimento di elementi di corruzione nei partiti comunisti,
determinando il fallimento economicosociale e ideologico.
Di pareri opposti sono Siro Lombardini e
Giorgio Lunghini, che ritengono il Marx
economista ancora un punto di riferimento
utile, che non può essere ignorato, dal
momento che le concezioni del marxismo
restano ancora a fondamento di ideologie
che rivestono un ruolo di rilievo nella
dinamica politica internazionale. La grandezza di Marx, sostengono i due autori, sta
nell’aver preso come oggetto di indagine
non il denaro, la merce, l’alienazione, lo
sfruttamento, il lavoro, ma le forme che
queste categorie assumono nel modo capitalistico di produzione. Lombardini, in
particolare, rivaluta l’utopia marxiana nella
realizzazione di una società democratica a
partire da una riflessione sul ruolo degli
emarginati, attribuendo meriti, in tal senso, sia al Marx economista, che al Marx
ideologo. Lunghini opera invece un confronto tra Marx e il marxismo, osservando
che la rivoluzione di cui il marxismo si è
fatto portavoce non coincide con quella
voluta da Marx, a cui viene riconosciuto il
merito di essere stato critico nei confronti
di un utopismo “marxista”.
Anche Bruno Jossa non condivide la
critica di Marx come responsabile teorico del socialismo e dello stalinismo, sollevata da Sylos Labini. Che Marx abbia
commesso grossi errori di valutazione,
osserva Jossa, è innegabile; ma è altrettanto innegabile che egli abbia impostato nel giusto modo il problema di una
trasformazione dei rapporti di produzione in ambito economico: da questo non
si può prescindere nel fare un bilancio
critico su Marx e le sue teorie.
Nel contesto di riflessione sulla validità
attuale della teoria marxiana, un interessante spunto è offerto da Giovanni Magistrale, che in Neutralizzazione - Spoliticizzazione - Iperpoliticizzazione mette
a confronto le teorie di Comte e Marx
riguardo alla questione del progresso.
La teoria di Comte, osserva Magistrale,
cerca di coniugare scienza (ordine) e
progresso, di fondare un ordine sociale
sulla base del progresso; ordine dinamico, evolutivo, che garantisce stabilità
senza escludere il cambiamento. Ciò che
Comte rifiuta del progresso è il riduzionismo matematico-biologico, legato ad
una ragione pianificatrice; per Comte la
storia della società (e quindi anche il
progresso) è dominata dalla storia dello
spirito umano, che non segue un processo cumulativo ma, un cammino pluralistico, evoluzionistico.
Comte ritiene di poter confidare nel pro-
gresso; ma solo in un progresso che vada
contro le leggi del potere e che difenda la
consapevolezza del carattere trasformatore della realtà, che è imprevedibile e che
non può essere sottoposta ad una forzata
coerenza logica. Ciò che piuttosto si verifica è un’alternarsi di egoismo e di altruismo, che conduce ad un equilibrio di forze
e di posizioni.
Di parere più drastico è Marx che, secondo Magistrale, attacca la teoria del progresso, attribuendole inconsistenza; il progresso, come lo hanno designato i suoi
sostenitori e fondatori, per Marx risulta
astratto, irrealizzabile, dal momento in cui
nella realtà assistiamo a continui regressi e
movimenti circolari. Differentemente da
Comte, osserva Magistrale, Marx critica
in modo evidente la dottrina del progresso,
ma non formula alcun compromesso; l’unica progresso che prospetta è la lotta contro
l’alienazione, contro la società alienata,
che non permette alcun progresso, né scientifico, né umano. D.M.
Sul pregiudizio morale
e il diritto alla vita
Tra i recenti studi in ambito etico che
affrontano il problema del rapporto
tra necessità biologica e legge morale
si segnala il saggio di Annette Baier,
già presidente dell’American Philosophical Association, MORAL PREJUDICES: ESSAYS ON ETHICS (Pregiudizi morali: saggi sull’etica, Harvard UP, Harvard 1994), che rivendica spazio alle
leggi biologiche nelle norme etiche e
sprona ad affermare la professionalità di una filosofia “al femminile”. Le
fa eco Ronald Dworkin, che in LIFE
DOMINION: AN ARGUMENT ABOUT ABORTION
AND EUTHANASIA (Il dominio della vita:
discutendo di aborto ed eutanasia,
HarperCollins, 1993) esamina dal punto di vista formale le spinose questioni del “diritto alla vita”.
La tendenza di molti studiosi di morale a
sviluppare una meta-teoria etica della natura dell’obbligazione morale, definisce
quella linea platonico-kantiana, secondo
la quale, osserva Annette Baier, «essere
persona “non” è essere nato uomo o donna,
ma piuttosto non essere nati affatto; anzi,
germogliare da qualche fertile campo noumenico, completamente formati ed educati». Da ciò consegue una visione antinaturalistica della ipseità umana, astratta
ed astorica.
Muovendo dalla critica ai due capisaldi
della filosofia moderna, il cogito cartesiano e la kantiana volontà noumenica, Baier
sostiene che la tanto declamata indipendenza dalle circostanze, la ricerca di incondizionalità e di rigore sono i prodotti
tipici di una cultura patriarcale. Di contro,
38
Baier preferisce considerare il soggetto
morale innanzitutto come organismo biologico, alla stregua di quanto affermato già
da Darwin e sviluppato nelle loro teorie
morali da Dewey e MacIntyre. Lo sforzo
di Baier, tuttavia, non consiste solo nel
riconoscimento della dignità della donna
di fronte alla legge morale, né nella semplice difesa delle reciproche differenze
sessuali. Al centro della sua argomentazione vi è la critica al concetto di obbligazione, così come viene codificato dalla
tradizione. «Se il dovere di educare con
amore i propri figli - afferma Baier - venisse aggiunto alla lista delle obbligazioni
morali, la maggior parte delle teorie della
giustificazione degli obblighi cadrebbe in
contraddizione». È infatti assurdo ipotizzare “il dovere di amare”, come se si trattasse di una necessità, dato che il “dovrei”
implica il “posso”. Da ciò Baier conclude
che «dalla morale liberale non può discendere nessuna coerente guida», soprattutto
su questioni come la guerra, l’aborto e i
doveri materni.
Sulla valutazione morale di problemi relativi alle cosiddette situazioni-limite della
vita interviene Ronald Dworkin, nel suo
Life’s Dominion, in cui il concetto di “diritto” viene invocato in difesa della vita,
contro aborto ed eutanasia. A questo proprosito, Dworkin afferma che attribuire
diritti a qualsiasi entità implica, da un lato,
che la difesa dei diritti di un essere equivale a pronunciarsi sull’importanza di proteggere i suoi “interessi”; il che è possibile
solo se si suppone l’esistenza di una forma
di “coscienza”, la qual cosa, tuttavia, non
sarebbe sostenibile nel caso dei feti. D’altro lato, osserva Dworkin, si possono
legittimamente supporre e difendere i
diritti umani anche nelle situazioni-limite solo se si riconosce l’intrinseco
valore della vita.
Per quanto riguarda l’argomento del valore, fa notare Dworkin, la vita umana rappresenta due differenti tipi di processi creativi. Dal punto di vista naturale, la vita
stessa nasconde qualcosa di miracoloso
con il suo fiorire e crescere da una dotazione genetica. D’altro canto, dal punto di
vista della consapevolezza, la vita rappresenta «non solo un esempio biologico, ma
un nuovo inizio per la cultura e l’individualità, un’opportunità per creare inediti
significati nel mondo». In tal senso
Dworkin ritiene che i disaccordi sul tema
dell’aborto e dell’eutanasia possano essere riletti alla luce delle profonde divergenze circa l’importanza morale di queste due
dimensioni nella valutazione intrinseca
delle vite umane. A.A.
PROSPETTIVE DI RICERCA
PROSPETTIVE DI RICERCA
S̆pet: ermeneutica ed estetica
La traduzione quasi contemporanea
in lingua tedesca e italiana di due
importanti testi del filosofo russo
˘
Gustav G. Spet,
allievo di Husserl, che
diffuse e sviluppò in modo originale la
fenomenologia nel suo paese, rende
per la prima volta accessibile al pubblico dell’Europa occidentale il pensiero di uno dei più interessanti filosofi russi del nostro secolo. Mentre in
Germania viene pubblicato lo studio
˘
di Spet:
DIE HERMENEUTIK UND IHRE PROBLEME (L’ermeneutica e i suoi problemi, a cura di Alexander Haardt e Roland Daube-Schackat, trad. ted. dal
russo di E. Freiberger e A. Haardt,
Alber, Friburgo-Monaco di Baviera
1993), in Italia giunge a termine, con
la pubblicazione del saggio: MOMENTI
ESTETICI NELLA STRUTTURA DELLA PAROLA
(trad. it. di E. Klein, in «Kamen’. Rivista di poesia e filosofia», n. 4, dicembre 1993), la traduzione dei FRAMMENTI
˘
DI ESTETICA, in cui Spet
sviluppa i principi della propria analisi ermeneutica
e fenomenologica del segno nell’ambito dell’estetica e dello studio della
letteratura.
˘
Nato a Kiev nel 1879, Gustav G. Spet
conclude i propri studi universitari con la
dissertazione Il problema della causalità
in Hume e Kant. Dopo la Rivoluzione
d’Ottobre, diventa docente di Filosofia
nell’Università di Mosca, ove fonda un
centro di studi di “psicologia etnica”, ed
entra a far parte del “Circolo linguistico di
Mosca”, uno dei centri principali del formalismo russo. Escluso dall’Università per
˘
motivi politici nel 1923, Spet
si concentra
sulla propria attività di vicepresidente dell’Accademia di stato delle scienze dell’arte, dalla quale viene però estromesso nel
1929. Da questo momento si guadagna da
vivere come pubblicista e traduttore: a lui
si devono le versioni russe di opere di
Dickens, Byron e Shakespeare e della Fenomenologia dello spirito di Hegel, terminata nel 1937, ma pubblicata solo nel 1959.
Arrestato nel 1935 con l’accusa di “attività
anti-sovietiche”, viene confinato a Jenisejsk e a Tomsk. Di nuovo arrestato nel-
l’ottobre 1937, viene ucciso dalla polizia
segreta staliniana il 16 novembre dello
stesso anno.
Come nel caso di altri pensatori russi di
questo secolo (N. Berdjaev, S. Bulgakov,
˘
S. L. Frank), anche il pensiero di Spet
conosce, sotto l’influsso del neo-kantismo, una transizione “da Marx a Kant”. La
svolta decisiva viene però a seguito del˘
l’incontro di Spet
con la fenomenologia di
Husserl, risalente ad un viaggio di studio
in Europa occidentale negli anni 1912-13,
durante il quale frequenta a Gottinga le
lezioni di Husserl, e in particolare un seminario su “Natura e spirito”. Sotto l’influsso della fenomenologia di Husserl, nel
˘
1914 Spet
scriverà Fenomeno e senso.
˘
Nella fenomenologia Spet
individua una
scienza filosofica fondamentale che, riprendendo e superando il motivo gnoseologico delle correnti scettiche, empiristiche e kantiane, tematizza l’ambito ontologico della coscienza e lo pone in relazione
alle altre forme dell’essere. In generale, si
˘
può dire che Spet
sviluppa in modo originale la fenomenologia husserliana in due
direzioni: estende l’analisi costitutiva (in
senso fenomenologico) agli atti di coscienza e alle formazioni segniche in cui si
realizza il fenomeno del comprendere; considera la realtà, che è oggetto della filosofia, come realtà storico-sociale. Seguendo
queste due direzioni di indagine egli giunge così a un’integrazione tra fenomenologia, ermeneutica e semiotica e a sviluppare
le indagini husserliane di Ideen II relative
alla costituzione del mondo storico e culturale (personalistico), riprendendo la distinzione di Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito e la teoria diltheyana del comprendere.
Questi temi costituiscono il filo conduttore dello studio Die Hermeneutik und ihre
Probleme, composto nel 1918, ma rimasto
inedito e pubblicato in russo solo tra il
1989 e il 1992, a cura di A. Mitjukin, nella
rivista «Kontekst». Nella sua analisi dei
˘
problemi dell’ermeneutica, Spet
muove
dallo studio di Dilthey, Die Entstehung
der Hermeneutik, ma prende in considerazione uno spettro storico e teorico più
ampio, che comprende, oltre alla teoria
ermeneutica dello stesso Dilthey espressa
nel saggio del 1910, Der Aufbau der ge39
schichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito), autori classici nella storia dell’ermeneutica come
Ernesti, Ast, Schleiermacher, la teoria del
comprendere di Boeckh, la metodologia
della storia di Droysen, e, relativamente al
rapporto tra ermeneutica, psicologia e
scienze sociali, le posizioni di autori come
Steinthal, Spranger, Simmel. La possibilità di superare quelli che gli sembrano i
limiti psicologistici della concezione del
˘
comprendere, Spet
la individua nel saggio
del 1910 dello stesso Dilthey, ove la comprensione di un prodotto del mondo della
cultura non consiste nella riconduzione di
tale prodotto (poesia, opera d’arte, sistema
filosofico) all’esperienza vissuta del soggetto creatore, ma nella comprensione di
una configurazione culturale dotata di una
propria legalità e struttura.
˘
In Dilthey manca però, secondo Spet,
una
determinazione dell’essenza del comprendere in quanto fonte specifica di conoscenza delle scienze dell’uomo. Se ci si chiede
in che modo le “oggettivazioni” del mondo spirituale possano venire interpretate in
modo intersoggettivo e obbligante per i
membri di una stessa comunità culturale, e
se si è consapevoli del carattere segnico di
tali oggettivazioni (arte, lingua, diritto
ecc.), si pone allora la necessità di una
chiarificazione della struttura del segno
come oggetto e strumento dell’interpreta˘
zione. Per questo aspetto, Spet
si riferisce
da una parte alla “Prima” delle Ricerche
logiche di Husserl (“Espressione e significato”), dall’altra si ricollega alla tradizione razionalistica del secolo XVIII (G. Fr.
Meier, C. Wolff), e determina la semiotica
come disciplina ontologica, che si muove
cioè al livello di un’ontologia formale.
Questa stessa concezione si ritrova nei
Frammenti estetici, dove leggiamo: «La
teoria della parola come segno è un problema dell’ontologia formale o teoria dell’oggetto, nella sezione della semiotica».
In questo testo del 1922, costituito da tre
parti, intitolate rispettivamente: “Ripetizioni al momento giusto - Miscellanea”,
“Ammonimenti al momento giusto” (queste due parti sono state pubblicate in «Kamen’», n. 2, ottobre 1992, e n. 3, maggio
1993) e “Momenti estetici nella struttura
PROSPETTIVE DI RICERCA
˘
Gustav G. Spet,
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
Wilhelm Dilthey, Edmund Husserl
40
PROSPETTIVE DI RICERCA
˘ sviluppa le proprie anadella parola”, Spet
lisi semiotiche, fenomenologiche ed ermeneutiche negli ambiti dello studio della
letteratura e dell’estetica. Di particolare
interesse il tentativo di determinare l’ambito dell’estetica in quanto “scienza dell’arte”, distinguendo fenomenologicamente l’approccio dell’estetica da quello della
poetica e della critica, tema caro, nell’estetica italiana, a Dino Formaggio.
A temi tipici della riflessione estetica contemporanea rinviano anche le riflessioni
su “L’arte e la vita”, “Poesia e filosofia”,
“Segni e stili”, reperibili nelle “Ripetizioni al momento giusto”. Le parti di questi
˘
Frammenti in cui Spet
sviluppa le riflessioni di maggiore impegno sistematico nel
senso di un’analisi fenomenologica della
parola sono i saggi “La struttura della
parola in usum aestheticae” (in “Ammonimenti al momento giusto”) e “Momenti
estetici nella struttura della parola”.
Nel suo saggio Hermeneutische Logik im
Umfeld der Phänomenologie, pubblicato
nel volume Erkenntnis des Erkannten. Zur
Hermeneutik des 19. und 20. Jahrhunderts
(Conoscenza del conosciuto. Sull’ermeneutica del XIX e XX secolo, 1990; trad.
it. di A. Marini e G. Matteucci, di prossima
pubblicazione presso l’editore F. Angeli
di Milano) Frithjof Rodi ha messo in luce
i rapporti tra la concezione semiotico-er˘
meneutico-fenomenologica di Spet
e la
tradizione diltheyana. Questi rapporti sono
particolarmente significativi per quanto
riguarda il concetto di “struttura” in Dilthey
˘
e nella sua scuola, dal momento che Spet
considera il mondo culturale come dotato
di struttura, tanto che «si può dire che lo
stesso “spirito” o la cultura sono struttura˘
ti». Da qui Spet
sviluppa una fenomenologia della parola che intende metterne in
luce i diversi momenti strutturali, le diverse stratificazioni di senso: dalla parola
come dato sensibile alla dimensione del
senso o significato, dalle funzioni “naturali” della parola (percezione di una voce
identificata come voce umana ed esprimente la condizione psicofisica di una
persona) alla sua dimensione comunicativa nell’appartenenza al mondo sociale e
culturale. Particolarmente importante per
la considerazione della parola come “fatto
estetico” è la sua facoltà di essere veicolo
di un “tono emozionale”.
Su questa base, e distinguendo ulteriormente tra la “natura oggettiva” (comunicazione di un contenuto oggettivo di pensie˘
ro) e il “ruolo espressivo” della parola, Spet
analizza gli “elementi estetici” nella struttura della parola, intendendo con ciò «quegli elementi di una struttura creativa e oggettiva che sono legati all’emozione estetica (all’esperienza)». Egli giunge così a una
determinazione dell’ambito dell’estetico
che risulta non da definizioni preliminari, e
dogmatiche, dell’oggetto estetico, ma da
una descrizione immanente del piano dell’esperienza e da un’analisi-descrizione
dell’uso estetico del linguaggio. M.M.
Etica e diritto in Fichte
Il diritto e l’etica, considerate da
Johann Gottlieb Fichte come discipline specifiche da dedurre direttamente dai principi della scienza, trovano la loro sistematizzazione in due
opere, recentemente apparse in una
nuova edizione italiana: DIRITTO NA TURALE (a cura di L. Fonnesu, Laterza,
Roma-Bari 1994) e SISTEMA DI ETICA (a
cura di C. De Pascale, trad. it. di R.
Cantoni, Laterza, Roma-Bari 1994).
Oggetto di ripetuti studi da parte di
Johann Gottlieb Fichte il diritto trova,
nel Diritto naturale del 1896, la sua
definitiva organizzazione. La struttura
della legislazione verte ora su un presupposto soggettivo ed uno oggettivo
che fondano e giustificano il diritto; il
primo è dato dalla libertà dell’individuo,
che, grazie all’amor di sé tende a salvaguardare la propria autonomia; il secondo è costituito dalla coesistenza di uomini liberi che, necessariamente, pongono
in essere il diritto. In questo modo, ribaltando la struttura delle opere precedenti,
in cui la morale costituiva il fondamento
ontologico del diritto, Fichte separa le
due dimensioni, conferendo loro un rapporto di accordo e insieme di indipendenza. Infatti, mentre la morale è formale, assoluta e incondizionata, il diritto ne
costituisce il contenuto e dipende dalla
scelta degli individui di vivere in comunità. In altre parole, se la morale costituisce una dimensione esistenziale e imprescindibile per l’individuo, il diritto
dipende dalla scelta di vivere in uno
Stato e quindi può essere accolto, o non
esserlo, senza inficiare il valore della
morale. Le due discipline, in questo
modo, vengono rese autonome, in quanto la libertà dell’individuo costituisce la
condizione di possibilità del diritto, ma
non ne esaurisce i contenuti.
Il Diritto naturale è diviso in due parti,
la prima si occupa della struttura dello
Stato, mentre la seconda del diritto applicato. La genesi dello Stato, secondo
Fichte, dipende dalla decisione degli individui di costituire delle forme di coercizione e sanzione, radicate nell’istituzione statale. Per salvaguardare la propria libertà individuale, gli uomini devono necessariamente porre limitazioni
alla loro coesistenza, decidendo liberamente di organizzarsi in ordinamento
statale e darsi delle leggi. La forma di
governo prediletta da Fichte non contempla la tripartizione dei poteri, che,
per questioni di funzionalità e responsabilità, devono essere assegnati, in toto,
al potere esecutivo. La garanzia di giustizia e democrazia, secondo Fichte, è
data, in primo luogo, dall’eforato, un’assemblea rappresentativa con diritto di
veto, e in secondo luogo, dalla possibilità, in casi estremi, di sollevazioni popo41
lari, che metterebbero fine a qualunque
tentativo di dispotismo. Nella seconda
parte, Fichte tratta le questioni del diritto applicato, in particolare del diritto di
proprietà, salvaguardato in ogni sua forma: il diritto-dovere di tutti i cittadini al
lavoro; la divisione in classi; il dovere
dello stato di assistere i cittadini più
bisognosi; e, infine, la necessità di uno
stato di polizia che sorvegli e protegga la
totalità dei cittadini.
Scritto e pubblicato nel 1798, il Sistema
di etica, trattando della libertà nei suoi
fondamenti ontologici e teoretici, costituisce il completamento ideale del diritto applicato, che si occupava della libertà dell’individuo all’interno della comunità. Fedele alla sua impostazione di
fondo, Fichte deduce la libertà da un
principio originario che lo ponga in essere. Così, se il fondamento della Dottrina della scienza consisteva nell’Egoità e
quindi nell’unità originaria dell’Io, quest’ultimo necessita ora di un facoltà primitiva e superiore alla conoscenza, in
grado di darle forma. L’intuizione intellettuale, infatti, determina l’Io esclusivamente come facoltà conoscitiva e, per
questo, non esaurisce le sue potenzialità.
Vi è allora, secondo Fichte, una spinta
originaria (Urtrieb) che, prima della divisione tra conoscenza e volontà e dell’opposizione tra soggetto e oggetto,
determina il porsi dell’Io come assoluta
libertà morale.
Seguendo il procedere dell’Io, Fichte
colloca l’etica dei doveri nel momento
in cui l’opposizione del Non-Io di fronte
all’Io genera la corporeità e la natura.
L’applicazione dei doveri nasce così con
la consapevolezza, da parte dell’Io, del
proprio Sé, che costituisce la volontà
determinata. La morale, in tal modo, si
manifesta come l’autocoscienza dell’azione che si fa legge e diventa rigore
solo in rapporto a se stessi. L’etica dei
doveri, in altre parole, nasce in relazione
all’io empirico, inteso come opposizione tra pensiero e corporeità, tra Io e Non
-Io e, ribadisce Fichte, si distingue dal
diritto, relativo esclusivamente alla convivenza dei diversi Io empirici in una
società.
Nonostante la presenza di elementi di
vicinanza con la concezione di Kant, la
morale kantiana è rigidamente formale e
incondizionata, mentre quella fichtiana
si risolve nelle azioni morali, che riguardano più da vicino l’Io empirico. Fichte,
infatti, oltre a parlare di doveri universali, vicini all’etica kantiana, descrive accuratamente quelli pratici che riguardano, tra le altre situazioni, il diritto di
famiglia, che comprende quello tra coniugi e quello tra genitori e figli, il dovere del dotto, dell’educatore morale e dell’artista e il dovere di diffondere e promuovere la moralità. A.S.
PROSPETTIVE DI RICERCA
Heidegger di fronte a Hegel
Nella ricostruzione dell’itinerario filosofico di Martin Heidegger, la pubblicazione di due scritti inediti, ora
raccolti con altri nel volume della
«Gesamtausgabe» dal titolo: HEGEL
(vol. 68, Klostermann, Francoforte
1993), rappresenta senza dubbio una
tappa importante. Nei due testi, che
si presentano come una raccolta di
appunti di lavoro degli anni 1938-39,
Heidegger analizza minuziosamente l’intrinseca logica del sistema hegeliano, individuando nel concetto
di “negatività” e di “esperienza” i
momenti centrali del suo confronto
con Hegel.
L’itinerario del pensiero di Martin
Heidegger è segnato, con accentuazioni e
valenze diverse, dal confronto con Hegel.
Lo stesso riferimento a Hegel, che conclude la dissertazione su Duns Scoto del 1915,
è quasi un’indicazione programmatica dalla quale, pur con oscillazioni di tono e
valenze diverse, Heidegger non si discosterà. Tuttavia, nei testi di Heidegger finora pubblicati, Hegel non ha mai lo spessore
e la ricchezza delle articolazioni con cui,
ad esempio, Heidegger fa agire nella propria costellazione speculativa l’opera di
Nietzsche. Per questo motivo risulta ancor
più significativo quest’ultimo volume della «Gesamtausgabe» dedicato a Hegel, in
cui figurano due saggi che mostrano come
Heidegger si sia di fatto direttamente confrontato con l’intrinseca logica della filosofia hegeliana.
L’annotazione di Heidegger del 1938-39,
che definisce il primo dei due scritti come
Abhandlung, è in qualche modo fuorviante; si tratta, in realtà, di una raccolta di
appunti di lavoro fortemente legati ai Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis)
(Contributi alla filosofia (Dell’evento)).
Proprio da questi appunti appare chiaramente come il confronto con Hegel sia
stata sofferto e difficile e come lo stesso
Heidegger ne fosse consapevole. In questo
scritto, il punto di partenza di Heidegger
consiste nella ricerca di un momento determinante del sistema filosofico hegeliano che sia in grado di «sottrarsi all’esigenza di integrazione del sistema in quanto lo
rende possibile». La chiave del confronto
Heidegger la coglie nel concetto di “negatività” (Negativität) come fondamento
della dialettica costitutiva della vita dello
Spirito. In sostanza Heidegger prende
Hegel alla lettera quando afferma che
«l’unità di pensiero e cosa appartiene alla
negatività» e cioè che la realtà concreta si
mostra proprio quando l’autosussistenza
della cosa viene negata. Per Hegel, infatti,
il pensiero e la cosa divengono concreti
grazie al movimento del pensiero che si
separa dalla cosa pensata solo per tornare
a negare tale divisione; per Heidegger «la
concreta realtà del pensiero e della cosa
viene dalla negatività». Che questa affermazione sia sottilmente provocatoria, risulta chiaramente dal fatto che per Hegel
la realtà concreta è l’Assoluto: parlando
della negatività come “energia” (Energie)
dell’assoluto, Heidegger non sostiene nulla che Hegel stesso, per ragioni fondamentali, non avrebbe potuto dire; ma allo stesso tempo pone il pensiero di Hegel sotto
tutt’altra luce. Se Hegel aveva inteso l’Assoluto come in sé chiuso, come motilità
pacificata, per Heidegger si tratta della
«vita in sé chiusa perché unitariamente
plasmata dalla negatività».
Nel secondo scritto, del 1938-39, il confronto con Hegel è basato sul concetto di
“esperienza” e si presenta come un’anticipazione di Hegels Begriff der Erfahrung
(Il concetto hegeliano di esperienza), del
1942, pubblicato nella raccolta Holzwege
(1950). Rispetto allo scritto del ’42, dove
il tono della discussione condotta da
Heidegger sull’ Introduzione alla Fenomenologia dello spirito è pacato e distaccato, in queste pagine d’appunti ci rendiamo conto fino a che punto Heidegger fosse
colpito dal pensiero hegeliano. Il metodo
dell’analisi è quello della Destruktion:
demolire le determinazioni concettuali e
gli “indurimenti” della teoria, per rendere
vivo il pensiero, nella consapevolezza dei
limiti intrinseci di questo metodo distruttivo (decostruttivo). Nello scritto concernente il concetti di negatività Heidegger
afferma che l’esperienza originaria del
pensare non può essere conservata, intendendo che ogni esperienza è più ricca della
possibilità della sua stessa articolazione.
Allo stesso tempo, però, il tradurre in parola l’inesplicato o l’inindagato di un pensiero ha per Heidegger il significato di un
“ricominciare”, di un retrocedere verso
l’inizio, che ricorda le parole di Hegel
nella Wissenschaft der Logik (Scienza della logica): «l’andare innanzi è un retrocedere nel fondo, all’originario e a ciò che ha
verità». Ma è forse proprio in questo che
consiste la maggiore distanza di Heidegger
da Hegel.
Per Heidegger nuovo inizio significa oltrepassamento (Überwindung) della metafisica, un appropriarsi di ciò che ancora
non è stato pensato in quello che è già stato
pensato. Un tornare a ciò che è stato a
partire da ciò che è a-venire. Come è noto
questo ritorno del nuovo inizio nel primo
comporta una rifondazione della storia della filosofia che prende le distanze da quella
hegeliana che connette la storia della filosofia all’ “idea” come autocoscienza assoluta. Tuttavia al di là delle conseguenze
teorico della “decostruzione”, Heidegger
è d’accordo con Hegel nel considerare
l’esperienza intrinseca alla coscienza, nell’affermarne cioè il carattere storico.
Heidegger però vuole mostrare come Hegel
abbia in un certo senso «addomesticato la
rischiosa esperienza del pensare», deducendo formalmente il momento negativo
più che farlo concretamente sperimentare
42
dalla coscienza. Nell’affermare che: «l’Assoluto è già in sé e per sé presso di noi e
vuole essere presso di noi», Hegel rivelerebbe il suo intento principale di rinviarci
a quel rapporto con l’Assoluto in cui già
sempre ci troviamo.
Malgrado l’insistenza con cui Heidegger
si misura con Hegel, il confronto tra i due,
come testimonia Heidegger in una lettera a
Gadamer del 2 dicembre 1971, resta aperto: «Io stesso non so ancora abbastanza
chiaramente come debba essere definita la
mia posizione rispetto a Hegel. Come posizione opposta sarebbe troppo poco [...].
Ripetutamente mi sono opposto al discorso del “crollo” del sistema hegeliano. Crollato, cioè decaduto è ciò che seguì - Nietzsche compreso». M.C.
Heidegger
nella biografia di Safranski
Un’ampia biografia su Martin
Heidegger è oggi giunta in Germania
già alla sua terza edizione: si tratta
dell’opera di Rüdiger Safranski, EIN
MEISTER AUS DEUTSCHLAND. HEIDEGGER UND
SEINE ZEIT, (Hanser, Monaco di Baviera
1994). Safranski non è filosofo, né
storico della filosofia, ma giornalista
con spiccate attitudini filosofiche e
dotato di una particolare abilità nel
ricostruire gli ambienti e i quadri storici nei quali hanno vissuto e operato
grandi pensatori. Tra le documentazioni a cui Safranski fa riferimento
figura in particolare la monografia di
Elzbieta Ettinger dal titolo: HANNAH
ARENDT - MARTIN HEIDEGGER . EINE GESCHICHTE (München 1994) che ricostruendo l a vi ce nda de l l ega me t ra
Heidegger e Arendt, fornisce al contempo un resoconto del carteggio
intercorso tra i due.
«L’Università è noiosa. Gli studenti sono
mediocri, senza particolari stimoli, e poiché mi occupo molto del problema della
negatività, ho qui la migliore occasione
per studiare il modo in cui il nulla si
presenta». Così scriveva Martin
Heidegger nel 1926 all’amico Karl
Jaspers, al quale lo legavano un comune
atteggiamento critico nei confronti della
filosofia universitaria e una comune volontà di rinnovare radicalmente la pratica
del domandare filosofico. Un anno dopo la
noia è passata. Essere e tempo, la sua opera
capitale, è apparsa. Heidegger, ormai trentottenne è diventato famoso e nel 1928
viene chiamato all’Università di Friburgo
quale successore del proprio maestro Edmund Husserl. Nel ’33 Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo e
tenta di cavalcare il movimento nazionalsocialista. A Jaspers viene invece impartito il divieto di insegnamento, es-
PROSPETTIVE DI RICERCA
sendo sposato con una donna ebrea. Fu
la rottura tra i due.
“Heidegger e il proprio tempo”: questo
potrebbe essere il titolo che meglio di ogni
altro esprime lo sforzo biografico di Rüdiger Safranski: la sua biografia offre una
ricostruzione plastica delle vicende storiche e dell’ambiente in cui Heidegger visse
e operò. Certo, Heidegger ha sempre teso
a minimizzare gli aspetti biografici della
propria opera. Ma Safranski ha saputo
rendere in modo esemplare tutto ciò che
attualmente è possibile sapere sulla biografia di Heidegger, connettendolo in modo
organico sia con la ricostruzione dell’ambiente storico, sia con l’evoluzione teorica
del pensiero dell’essere. In verità Safranski, a cui si deve già una fortunata biografia su Schopenhauer (1987), non conduce
in prima persona ricerche storiche, ma
utilizza piuttosto materiali già disponibili,
in particolare le ricerche di Hugo Ott o
anche di Victor Farias. La sua incomparabile superiorità espositiva e capacità di
scrittura gli consentono tuttavia di fornire
un quadro molto più persuasivo, come
dimostra, in particolare, il modo in cui
Safranski illustra il rapporto di Heidegger
con il nazionalsocialismo e il ruolo che
ebbe nella sua vita la relazione d’amore
con Hannah Arendt.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Safranski svolge in tutta la sua complessità
l’intreccio che lega alcuni elementi del
pensiero heideggeriano ad altrettante componenti dell’ideologia nazionalsocialista,
mettendo in guardia, tuttavia, dall’interpretare semplicisticamente il pensiero heideggeriano in chiave esclusivamente politica. Ma è riguardo al secondo aspetto che
Safranski ottiene il massimo effetto: sfruttando la descrizione del carteggio (ancora
inedito) tra Heidegger e Arendt ad opera di
Elzbieta Ettinger in Hannah Arendt Martin Heidegger. Eine Geschichte, in cui
si parla di una vera e propria storia d’amore durata fino alla fine, Safranski presenta tale relazione come una sorta di filo
rosso che attraversa la vita di Heidegger
e dal quale, a lungo, il destino di
Heidegger sembrò dipendere, non sapendo egli recidere tale relazione con
una autentica decisione.
Da quando Heidegger fu colpito e fatalmente attratto dalla giovane Arendt che,
vestita di un verde sgargiante, fece la sua
comparsa nel seminario di filosofia, fu
preso da una passione profonda, pienamente corrisposta, senza la quale, come
egli stesso ebbe a confessare, non avrebbe
mai scritto Essere e tempo. Fu la passione
di una vita, che i due furono però costretti
a vivere clandestinamente - come se non
fosse mai esistita. Quando nel 1960 Arendt ebbe tra le mani, fresca di stampa, la
versione tedesca di Vita activa, sul frontespizio della prima copia scrisse questa
dedica a Heidegger: «De vita activa. Mi
risparmio la dedica. Come potrei dedicare
questo libro a te, mio intimo, cui sono e
non sono rimasta sempre fedele, e in entrambi i casi amandoti», aggiungendo, nella
lettera di accompagnamento, che quel libro non sarebbe mai nato «senza quel che
da te ho imparato in gioventù».
Su questo punto il lavoro di Safranski
presenta forse le maggiori novità e notevoli motivi di interesse, anche se la sua esposizione dei fatti non mancherà di far discutere. In ogni caso, la biografia di Safranski
riesce a restituirci intensi momenti della
vita e del pensiero di Heidegger, dalla
prima formazione e il primo insegnamento
a Friburgo, attraverso l’assiduo e produttivo periodo di Marburgo, al secondo insegnamento a Friburgo fino all’ultima fase;
dall’interdizione all’insegnamento dopo
la guerra fino agli anni della grande risonanza internazionale. E.C.
Leibniz e la teodicea
Questioni di ordine esistenziale e religioso sono al centro dei SAGGI DI TEODICEA (a cura di V. Mathieu, San Paolo,
Cinisello Balsamo 1994) di Gottfried
Wilhelm Leibniz, in cui vengono affrontate questioni relative all’esistenza del male, alla libertà dell’uomo e
alla bontà di Dio.
Rifacendosi, in parte, all’edizione italiana
del 1973, la nuova traduzione dei Saggi di
Teodicea, a cura di Vittorio Mathieu,
riporta alla luce uno dei cardini essenziali
del pensiero di Gottfried Wilhelm
Leibniz. Il volume raccoglie tre saggi, che
affrontano, come recita il sottotitolo, il
problema della bontà di Dio, della libertà
dell’uomo e dell’origine del male, ai quali
seguono tre appendici, che trattano le principali obiezioni e difficoltà suscitate dai
problemi trattati. L’occasione del volume,
introdotto da una lunga prefazione di carattere religioso sulla infinità e bontà di
Dio, consiste nella risposta alle questioni
suscitate da Pierre Bayle, avversario di
sempre di Leibniz, che pone, sistematicamente, i problemi della Teodicea.
La prima questione è quella della creazione del mondo; di fronte all’infinità dei
mondi possibili presenti, di fronte a Dio
nel momento della genesi, la scelta è stata
sempre fatta secondo un criterio eticomorale. Animato da bontà e perfezione
infinite, infatti, Dio, assolutamente libero
nella sua scelta, ha deciso per il migliore
dei mondi possibili, che, in questo modo,
passa dal piano dell’essenza dei possibili a
quello dell’esistenza dei reali. Grazie a
questa dicotomia tra essenza ed esistenza,
Leibniz risolve le difficoltà relative alla
nozione di “incompossibilità”. Se, infatti,
sul piano delle essenze, gli infiniti mondi
coesistono nella loro molteplicità e differenza, questo non accade sul piano fattuale, dove l’esistenza dell’uno è incompossi43
bile a quella di un altro suo contrario.
Lo stesso argomento risolve anche gli altri
due problemi, la libertà dell’uomo e la
presenza del male. Per quanto riguarda il
primo, Leibniz ricorda che la perfezione di
Dio, costituito da monadi infinite, determina anche la totale conoscenza della possibilità degli eventi passati, presenti e futuri del mondo. Questo toglie, apparentemente, libertà all’uomo, che sembra appartenere ad un destino precostituito. In
effetti, poiché l’imperfezione dell’essere
umano si manifesta, secondo Leibniz, nella sua incapacità di conoscere totalmente
gli eventi sul piano reale, l’uomo è assolutamente libero di scegliere sul piano esistenziale, e dei fatti, ma non lo è sul piano
delle essenze, già disposte da Dio secondo
l’armonia prestabilita. L’uomo, insomma,
è libero di scegliere quello che, al momento della creazione, è già stato scelto da Dio.
Analogamente si giustifica per Leibniz il
problema del male. La perfezione delle
essenze, presenti nella mente di Dio, decade al momento del passaggio all’esistenza.
Il nostro mondo, anche se “il migliore di
quelli possibili”, è pur sempre finito e il
nostro sguardo su di esso è pur sempre
limitato. Il male metafisico è allora giustificato dalla nostra incapacità di comprenderlo su di un piano che, per costituzione,
è imperfetto. In altri scritti, tuttavia, non
mancano, da parte di Leibniz, giustificazioni di tipo estetico - come quella secondo cui il male esiste solo per darci la
possibilità di comprendere il bene - che qui
non sono prese, però, in considerazione.
Sebbene le tre soluzioni adottate da Leibniz
sembrano risolvere ogni dubbio, esistono
difficoltà, di ordine più esistenziale, che
logico, che non trovano una soluzione. Ad
esempio l’aporia di fondo, insita nel concetto di “migliore dei mondi possibili”, per
cui un qualcosa di finito è posto come
“migliore” in senso assoluto. Inoltre, Dio
è libero di scegliere quale possibilità rendere esistente, ma non lo è altrettanto rispetto alle possibilità stesse che gli si presentano di fronte, indipendentemente dalla sua volontà. Infine, se il criterio di scelta
adottato da Dio è quello morale e se ha
scelto il migliore dei mondi possibili, allora la scelta non è stata fatta in assoluta
libertà. In altre parole, essendo il nostro
già il migliore dei mondi, Dio, nel crearlo,
si è “limitato” a sceglierlo.
Leibniz non risolve queste aporie che,
secondo Mathieu, dipendono dalla decisione del filosofo di porre Dio sul piano
della scelta e non su quello della creazione. Determinando Dio come colui che
decide tra infinite alternative, Leibniz
concede razionalità e rigore alla monadologia, ma le sottrae quel margine di
infinità che solo la creazione avrebbe
potuto concederle. A.S.
PROSPETTIVE DI RICERCA
Epistemologia
ed empirismo logico
E‘ apparsa la nuova edizione di un
classico dell’epistemologia del Novecento, IL VALORE DELLA SCIENZA (trad. it. di
F. Albèrgamo, rev. e introd. di G. Polizzi, La Nuova Italia, Firenze 1994), di
Henri Poincaré, in cui la figura del filosofo e matematico emerge come svincolata dall’etichetta di “convenzionalista” e si proietta in direzione di un
realismo strutturale all’interno di una
prospettiva semi-razionalistica. Un’opportuna integrazione di questo ambito di pensiero è la raccolta di testi dal
titolo: FILOSOFIA SCIENTIFICA ED EMPIRISMO
LOGICO (a cura di G. Polizzi, Unicopli,
Milano 1993), che riporta le relazioni
tenute al I Congresso Internazionale
di Filosofia scientifica di Parigi nel 1935,
da cui si può ricavare, attraverso una
intensa ricognizione storico-teoretica,
le linee portanti del dibattito contemporaneo sull’empirismo logico.
Le Ouvres di Henri Jules Poincaré sono
oggi raccolte in 10 ponderosi volumi: nella
produzione dell’«ultimo grande scienziato
universale» - come affermava Jules Vuillemin - la profondità delle indagini si coniuga alla stupefacente varietà dei campi
sondati, indice di una personalità leonardesca difficilmente riscontrabile nel panorama attuale. Come sottolinea Gaspare Polizzi nell’ampio saggio introduttivo, Henri
Poincaré, tra matematica ed epistemologia, l’indagine di Poincaré, ne Il valore
della scienza, opera del 1905, appare costantemente guidata da uno “stile” e da una
“mente matematica” in grado di affrontare
con lo spirito dell’epistemologo problematiche fondazionali relative tanto alla questione delle geometrie non-euclidee, quanto a quella della rigorizzazione dell’analisi
e della assiomatizzazione dell’aritmetica.
Matematico puro e di grande valore, Poincaré lo fu per tutta la vita: pubblicò la sua
ultima memoria di carattere matematico una soluzione di un teorema topologico
connesso con il problema dei tre corpi - nel
1912, a quattro mesi dalla morte. D’altra
parte Poincaré inizia la riflessione sulla
scienza già dal 1887, considerando i postulati geometrici quali ipotesi vagliate a seconda del grado di comodità e di pregnanza
logica. Nonostante la poca consuetudine
con il linguaggio filosofico, rilevata anche
dal nipote Pierre Boutroux, nel saggio Sur
les hypothèses fondamentales de la
géométrie Poincaré sostiene il carattere
convenzionale degli assiomi della geometria, che viene considerata un “ponte” tra
matematica e fisica. Le successive ricerche, come gli studi di meccanica celeste,
vengono guidate da un apparato matematico che affronta la realtà fisica, in base al
presupposto che esiste sempre un’equazione differenziale in cui inserire le interrelazioni fenomeniche. In seguito, Poincaré
inizia a profondere contributi notevoli in
direzione degli sviluppi della fisica relativistica e quantistica.
Il valore della scienza riveste un’importanza fondazionale di assoluto rilievo. Nella
prima sezione vengono analizzate le scienze matematiche, delle quali è affermata
l’autonomia nei confronti della psicologia;
da qui il primato della deduzione logica. La
seconda sezione svolge riflessioni sulle
scienze fisiche e sull’astronomia. Nella
storia della fisica la visione atomista si
oppone a quella infinitaria e continuista;
Poincaré prevederà nel 1912 l’affermarsi
della prima. I due saggi della terza ed
ultima sezione delineano una filosofia generale della scienza.
Dopo aver riassunto le posizioni convenzionaliste di Le Roy, Poincaré sviluppa
una disamina dell’anti-intellettualismo,
imputando a Le Roy di considerare l’intelligenza e il “discorso” quali agenti deformanti la realtà, e le leggi scientifiche quale
valore puramente strumentale e utilitaristico. Per Poincaré, invece, le “regole d’azione” posseggono valore a partire dalla loro
capacità previsionale. Nelle scienze fisiche, attraverso l’esperienza, si apportano
determinate correzioni agli errori “accidentali” e “sistematici”; ugualmente in
matematica, per verificare l’attendibilità di
postulati o di teoremi non si ricorrerà alla
testimonianza dei sensi e al ricordo di questa testimonianza, bensì all’intelletto. Il
fatto scientifico, dal quale deriva la scienza, non è altro che il fatto “bruto” sperimentato, tradotto nel codice di un linguaggio
(donde la sua “comodità”). A partire da qui
vengono posti in luce i limiti del convenzionalismo mediante l’esame di esempi
tratti dalla cinematica dei corpi solidi alla
geometria, dalla meccanica alla fisica. La
scienza è dunque un sistema di relazioni,
una classificazione in cui va cercata l’oggettività, costituita dai rapporti fra gli enti.
Gaspare Polizzi è anche il curatore del
volume Filosofia scientifica ed empirismo
logico che riporta, suddivisi in quattro gruppi - “Razionalismo empirico ed empirismo
logico”, “Enciclopedia”, “Induzione e Logica”, “Matematiche e realtà” - saggi scelti
tra gli Atti del Congresso di Parigi del
1935. Polizzi rileva che il principale proposito del Congresso si presenta come tentativo di conferire all’empirismo logico lo
statuto di una “filosofia scientifica”, contribuendo «in modo decisivo alla fondazione dell’epistemologia come disciplina autonoma». Tra gli interventi raccolti nel
volume, Federigo Enriques ci introduce
nel clima del positivismo suo contemporaneo, sollevando dubbi sulla filosofia empirica, ma anche sul logicismo, chiedendosi
se la logica «è un’analisi delle operazioni
del pensiero esatto o al contrario mira a
relazioni che sono - in qualche maniera fuori dal nostro spirito». Partendo invece
da una ridefinizione teoretica di alcune
istanze della fisica contemporanea, Hans
Reichenbach, esponente del Circolo di
44
Berlino, si adopra in direzione di un annullamento dell’a priori sintetico nei giudizi
scientifici mediante una riformulazione, in
termini logico-matematici, del principio di
induzione. La comunicazione di Rudolf
Carnap concerne la fondazione di una
“logica della scienza”, ovvero una rigorosa
analisi logica del linguaggio scientifico.
Per Carnap «la logica è il metodo di filosofare» e «filosofare vuol dire soltanto chiarire i concetti e gli enunciati della scienza
mediante l’analisi logica» nel tentativo di
eliminare residui psicologici dalla teoria
della conoscenza. La relazione di Charles
W. Morris è incentrata su una contaminazione tra pragmatismo, empirismo e formalismo. La semiotica determina l’essenza dei segni, mentre la filosofia «si occupa
del confronto della critica e della proposta
delle strutture linguistiche generali»: la
“semiotica filosofica” è una “metascienza”, che saprà svelare le potenzialità conoscitive del linguaggio, per giungere al progetto enciclopedico di una lingua scientifica unificata.
Con l’intervento di Otto Neurath si giunge alla ricapitolazione degli interrogativi,
sollevati dai precedenti interventi, intorno
alla possibilità di una scienza unificante.
Allontanandosi da alcune posizioni del
Circolo di Vienna e rifiutando sia la teoria
wittgensteiniana del significato (possibilità del confronto fatti-proposizioni), sia la
distinzione tra linguaggio scientifico e ordinario, Neurath giunge fino a negare la
teoria semantica della verità. Particolarmente significativa appare la sua proposta
di introdurre un linguaggio “fisicalistico”,
visuale e non formalizzato, l’ISOTYPE
(International System of Typographic
Pictorial Education) in vista della costituzione di una “scienza totale”. In posizione
divergente rispetto alla svolta logica di
Carnap e al fisicalismo di Neurath, per il
quale l’unica versione accettabile è quella
che ribadisce il valore empirico, di linguaggio oggettivo, da attribuirsi al linguaggio fisico) si muove invece Moritz
Schlick. Come sottolinea anche Ludovico
Geymonat, che fu suo allievo, il realismo
empirico di Schlick ben si inserisce nel
panorama delle acquisizioni della fisica
agli inizi del Novecento, ma, ricorda Polizzi, «appare difforme e “anacronistica”
rispetto agli orientamenti logico-formali e
alla proposta enciclopedica», e si colloca
piuttosto accanto alle discussioni wittgensteiniane e alla tradizione gnoseologica
kantiana. Va ricordato, infine, che l’uso
del criterio di falsificazione di Karl Popper, attivo al Congresso parigino, fu causa
di fraintendimenti nelle relazioni tra il
filosofo e il Circolo di Vienna. A questo
proposito Polizzi ripercorre gli esiti diversi che ebbero al Congresso, e hanno avuto
fino ad oggi, il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein e la
Logik der Forschung di Karl Popper: non
si tratta, osserva Polizzi, di dare giudizi
postumi, bensì di tracciare una “storia del-
PROSPETTIVE DI RICERCA
l’epistemologia” che possa rispondere (anche) alle questioni cruciali del dibattito
filosofico -scientifico contemporaneo in
buona parte già così autorevolmente enucleate nelle tesi parigine. M.B.
Per una storia filosofica
dell’infinito
Benché Jonas Cohn sia stato un riferimento importante e esplicito di pensatori della taglia di Cassirer e di Koyré,
e più recentemente di Lévinas e Desanti, la sua opera sulla “storia dell’infinito”, del 1896, non è stata percorsa
con l’attenzione che le conviene. L’edizione francese dell’opera di Cohn, che
appare con il titolo: HISTOIRE DE L’INFINI
(Storia dell’infinito, a cura di J. Seidengart, Cerf, Parigi 1994), ha il duplice merito di colmare un oblio e di
presentare, accompagnata da un’erudita e accurata introduzione, un’opera
il cui carattere “attempato” non pregiudica affatto la pertinenza e l’oculatezza della riflessione.
Nell’Introduzione all’opera di Jonas Cohn,
Histoire de l’infini, Jean Seidengart, che
si occupa, in particolare, del rapporto fra
filosofia e storia delle scienze attraverso il
filtro della cosmologia, si prende cura non
solo di riassumere e presentare i punti salienti dell’opera, ma anche di segnalare i
momenti critici della riflessione, il carattere “datato” dell’impostazione, gli sviluppi
successivi della teoria dell’infinito (in particolare della relatività), che Cohn non poteva ancora conoscere. Impariamo così a
leggere e ad apprezzare un’opera, ancora
oggi non superata per lo sguardo ampio che
Cohn dispiega sul fenomeno dell’esperienza dell’infinito e non solo su questa o quella
concezione dell’infinito.
L’originale prospettiva di Cohn consiste
nel voler tenere insieme, da un lato, lo
studio delle diverse concezioni dell’infinito, le cui trasformazioni dipendono tanto
da implicazioni logiche (contraddizioni delle teorie precedenti, paradossi e teoremi,
ecc.), quanto da motivi alogici (mutamenti
assiologici, visioni del mondo, ecc.), dall’altro, la visione unitaria dell’esperienza
dell’infinito, visione al contempo nutrita
da un approccio trascendentale (neokantiano) e al contempo antropologico. In tal
senso, le analisi storiche di Cohn, certamente incomplete, ingombrate da pregiudizi, seguono il filo di una storia che è
anche genesi di un’idea, di un’esperienza
costitutiva del mondo. E‘ chiaro allora come
per Cohn le contraddizioni inerenti all’idea
d’infinito appartengano a due attitudini
antropologiche costitutive e incompatibili
dell’esperienza: il finitismo, l’esigenza di
dare un contorno alle cose per conoscerle e
“controllarle”, e l’infinitismo, l’impulso a
superare i limiti, il tropismo verso la continuità. Per questo, in Cohn, i problemi teorici connessi all’idea d’infinito catalizzano
altri aspetti cruciali per il pensiero filosofico e scientifico: il rapporto fra continuo e
discontinuo; la concezione del tempo e
dello spazio; la riflessione sul mondo e
sull’universo.
In questa prospettiva di riflessione, si è
tenuto all’Osservatorio di Parigi, dal 12 al
16 settembre 1994, un importante convegno dal titolo: “Storia e attualità della cosmologia”, organizzato da un comitato
scientifico composto da Pierre Léna, Jacques Merleau-Ponty, Jim Peebles, JeanRené Roy, Alain Segonds. F.M.Z.
Detti e scritti da Foucault
In occasione del decimo anniversario
della morte di Paul-Michel Foucault
una monumentale iniziativa editoriale getta luce nuova sulla sua opera. Si
tratta di quattro volumi di DITS ET ECRITS (Detti e Scritti, a cura di D. Defert e
F. Ewald, Gallimard, Parigi 1994), che
raccolgono tutto quel che Foucault
ha scritto al di fuori delle sue opere:
articoli, interviste, prefazioni, interventi a tavole rotonde: un gigantesco
caleidoscopio che consente di cogliere la diversità dei registri con cui
Foucault ha condotto la sua attività
intellettuale.
«Nessuna pubblicazione postuma». Questa la volontà di Foucault espressa nel suo
testamento e rispettata da Daniel Defert e
François Ewald, che hanno raccolto le
pagine foucaultiane rimaste esclude dalle
sue opere. Michel Foucault, che più volte
ha diagnosticato la fine di Dio e quindi
dell’uomo, la fine della filosofia, la fine
dell’autore e della sua propria opera, si
preoccupa tuttavia di fissare dei limiti a
quel che, suo malgrado, rimane come traccia indelebile dei suoi percorsi intellettuali
ed esperenziali.
Così, nelle 3556 pagine che compongono
i quattro volumi di Dits et ecrits compaiono solo quegli scritti pubblicati da Foucault
stesso e quelli a cui aveva comunque dato
il suo assenso. Niente manoscritti trovati
nei cassetti, dunque, né appunti personali,
ma solo pezzi autografati già pubblicati.
La portata innovativa dell’opera non risulta tuttavia pregiudicata; la sua novità sta
innanzitutto nell’aver reso accessibili scritti
introvabili - come la Prefazione Rêve et
existance di Binswanger, l’articolo La situazione di Cuvier nella storia della biologia, la prima Prefazione alla Storia della
follia - o comunque difficilmente reperibili; nell’aver restituito i mille volti di
Foucault all’estero, rendendo disponibili
in francese i testi scritti in altre lingue come La verità e le forme giudiziarie e le
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diverse interviste rilasciate soprattutto in
Italia, Giappone, USA.
In secondo luogo, questa operazione di
raccolta crea un innegabile effetto postumo: l’inedito è costituito dalla coesistenza
spaziale di una molteplicità di scritti sparsi
(sono in tutto 364, pubblicati tra il 1954 e il
1988) e dagli effetti che questa produce.
Per orientarsi nella miriade di temi trattati
(dalla psicologia alla letteratura, dalla stregoneria alla guerra iraniana, dal liberalismo all’arte erotica e all’amicizia) i curatori forniscono tre sussidi: una bio-cronologia, dove eventi privati si intrecciano con
quelli pubblici nell’intento di cogliere uno
stile di vita; cinque indici (dei nomi di
persona, delle nozioni, delle opere di riferimento, dei nomi di luoghi, dei periodi storici); una bibliografia, resa esaustiva da un
complément. L’edizione, molto accurata,
risponde a un criterio di precisione: testi
annotati disposti in ordine cronologico di
pubblicazione; indicazioni di tutte le varianti e le correzioni; citazioni controllate e
provviste di riferimento; ogni tomo riporta
il sommario degli altri tre.
Qualche perplessità sulla fedeltà di questa
impresa editoriale alla volontà di Foucault
potrebbe sorgere se si considera l’ “effetto
d’opera” che essa induce: dovremmo chiederci se l’autore di Qu’est-ce qu’ un auteur? (Che cos’è un autore, testo redatto
per una conferenza del 1969) l’avrebbe
autorizzata nella sua pretesa di esaustività
(non una riga di Foucault pubblicata a suo
nome manca all’appello nella raccolta).
D’altra parte l’effetto prodotto dai quattro
volumi è anche quello di un continuo movimento: Foucault cambia continuamente
volto, moltiplica incessantemente la sua
identità: «Foucault - osserva François Ewald
- amava indubbiamente questa dispersione, questa difficoltà di totalizzarlo, questa
possibilità di sfuggire a ogni identità in cui
lo si voleva rinchiudere”.
Alcuni interventi di Foucault, presenti nei
volumi, assumono poi la funzione di metatesto, utile a scongiurare il pericolo che il
lettore colga come immobile, cristallizzato il senso di un qualsiasi scritto: «Io non
sottoscrivo mai senza restrizioni quello
che ho detto nei miei libri»; oppure: «I
miei libri sono delle configurazioni aperte». Sulla “funzione” di queste righe disperse nell’economia del suo lavoro
Foucault osservava che gli interventi in
articoli o riviste «sono per lo più riflessioni
su un libro finito che possono aiutarmi a
definire un altro lavoro possibile. Sono
spazi di impalcatura che possono servire
da ponte tra un lavoro che sta per essere
completato e un altro». Quel che Foucault
considerava utile, può risultare comodo
anche per il lettore, che può essere coinvolto nel lavoro di gestazione di testi già
noti per far luce sulle diverse zone d’ombra di un Foucault ancora clandestino. Una
sorta di commento alle sue opere che costituisce anche un’agevole introduzione per
quanti non lo conoscono. A.M.
PROSPETTIVE DI RICERCA
Immanuel Kant
Razionalità e religione in Kant
Il “primato della ragion pratica” è il
fondamento comune di due opere di
Immanuel Kant, che recentemente
sono state oggetto di nuove edizioni.
Si tratta de LA RELIGIONE ENTRO I LIMITI
DELLA SOLA RAGIONE (trad. it. di A. Poggi,
Laterza, Roma-Bari 1994), che si occupa del rapporto tra religione naturale e
rivelata, e de IL CONFLITTO DELLE FACOLTÀ
(trad. it. di D. Venturelli, Morcelliana,
Brescia 1994), che studia le relazioni
esistenti tra le diverse facoltà universitarie, tra cui la teologia e la filosofia.
Pubblicata originariamente nel 1794, La
religione entro i limiti della sola ragione è
stata caratterizzata da un iter difficile. Il
testo, che, pur non essendo una “critica”
vera e propria, si colloca sulla scia della
Critica del giudizio per l’analisi della fede
riflettente, contiene quattro saggi che si
occupano del male radicale esistente nel
mondo, della possibilità della ragione di
affrontarlo, del ruolo del male nella società
e dei rapporti tra Stato e religione. Il tratto
comune a tutti i saggi consiste nella teorizzazione del rapporto esistente tra religione
naturale e religione rivelata.
Prendendo le mosse dalla struttura della
morale e dalla sua autonomia, Kant sottolinea più volte che gli imperativi categorici
traggono il loro valore e la loro universalità
esclusivamente da se stessi. La morale razionale non necessita di un Sommo Bene come
suo fondamento, che, al contrario, toglierebbe universalità al proprio valore. Ciò non
esclude, comunque, che dalla morale derivi
la necessità di una fede razionale che completi e dia il senso all’etica stessa. La religione diventa così il fine, a posteriori, della
morale ed è connotata da una struttura esclusivamente razionale. Da qui deriva la celebre
teoria dei due cerchi concentrici, di cui la
religione naturale, o razionale, costituisce il
cerchio interno, e quindi prioritario, proprio
perché derivato dalla morale. Si tratta di una
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religione universale e necessaria che esiste,
propriamente, “entro i limiti della ragione”.
Il cerchio esterno, che invece esce dai confini della ragione, è costituito dalla religione
rivelata, che si manifesta empiricamente nelle
religioni storiche ed è, per questo, contingente. In tal modo la Chiesa e la storicizzazione della religione sono considerati insufficienti per la realizzazione completa della
razionalità etico-religiosa, che non si avvale,
peraltro, neanche di una filosofia della storia, imperfetta e incapace di rispettare l’ideale razionale. Da qui le numerose critiche di
cui è stata bersaglio l’interpretazione kantiana del cristianesimo, che pur essendo la
sintesi che meglio ha saputo schematizzare
la religione naturale, rimane pur sempre una
fede e quindi una costruzione empirica.
Considerato una palese aggressione alla
religione cristiana, lo scritto di Kant, anche a
seguito dell’intervento del Re di Prussia,
Federico II, fu censurato, in quanto sminuiva
le fede nei confronti della ragione, concepita
come l’unico fondamento, universale e necessario, di tutti i campi dell’agire umano. La
censura di Federico II e la relativa risposta di
Kant, che, pur difendendo la sua impostazione, si dichiara il “primo suddito” del Re,
costituiscono l’apertura de Il conflitto delle
facoltà, che si occupa, ancora, del rapporto
tra religione e razionalità.
Le facoltà di cui qui parla Kant sono gli
istituti universitari, che spesso si trovano in
contrasto tra loro. In particolare Kant si
occupa dei conflitti tra filosofia e teologia,
filosofia e giurisprudenza e filosofia e medicina, che costituiscono gli argomenti trattati
nei tre saggi contenuti nel volume. Il riferimento è alla distinzione, operata nel Medio
Evo, tra facoltà superiori, teologia, medicina
e giurisprudenza, e inferiori, la filosofia. A
questa distinzione Kant oppone quella secondo cui la filosofia, intesa come la disciplina ad uso della ragione, costituisce il
fondamento comune e universale di tutte le
altre scienze. Il conflitto delle facoltà, diventa, in tal modo, fittizio proprio perché vinto
da una facoltà superiore in grado di superare
i particolarismi delle singole discipline. Ne
risulta una sorta di platonismo, per cui la
filosofia si assume l’onere e l’onore di guidare e di indirizzare anche, ad esempio, la
politica e la religione.
Nel secondo saggio emerge, di fatto, la completa superiorità della filosofia sulla politica,
cui consegue un rifiuto della tradizione e
dell’autorità, visti come manifestazioni storiche dei pregiudizi. Riprendendo i toni della
Risposta alla domanda: “Che cos’è l’Illuminismo?”, Kant mostra come i particolarismi
delle diverse discipline siano superabili esclusivamente dalla capacità razionale e umana
di trovare un fine comune e ultimo, che dia
senso all’esistenza. Appare dunque evidente
come per Kant l’universalità della ragione
non riguardi l’ambito conoscitivo: la rivoluzione copernicana costituisce una parte determinante della razionalità, ma non ne esaurisce i fini. La conoscenza del soggetto trascendentale, infatti, perde quella connota-
PROSPETTIVE DI RICERCA
zione di sintesi universale, caratteristica
della Critica della ragion pura, e viene
limitata all’ambito gnoseologico e fenomenico. Spetta, allora, alla ragion pratica il
compito di unificare il pluriprospettivismo
delle diverse scienze, che senza un’unità di
fondo rivelano conflitti e aporie. Il fondamento di libertà e verità, inteso come base
della ragion pratica, costituisce quell’apertura universale in grado di dare senso all’uomo e alle sue attività. A.S.
L’essenza del cristianesimo
in Feuerbach
Ne L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, di cui
oggi è finalmente disponibile l’edizione integrale italiana (a cura di F. Bazzani, trad. it. di F. Bazzani e D. Haibach,
Ponte alle Grazie, Firenze 1994), si
esprime l’antropologia filosofica di
Ludwig Feuerbach, nel suo tentativo
di rintracciare il fondamento della religione, in particolar modo della religione cristiana. Posta l’origine della religione nell’alienazione dell’essenza
umana in quella divina, Feuerbach delinea la sua filosofia come ricostituzione delle capacità dell’uomo di riconoscere le qualità divine della sua stessa
natura. Particolare interesse assume
qui la religione cristiana con le sue
contraddizioni, il suo nascosto desiderio di recuperare la fisicità mediante
il mistero della reincarnazione.
Ne L’essenza della religione l’argomentazione teorica di Ludwig Feuerbach è suddivisa in due sezioni. Nella prima sezione, più
ampia e articolata, Feuerbach presenta le sue
tesi sulla base di stringenti dimostrazioni.
Tutto il suo discorso ruota intorno alla riduzione della religione e della teologia ad antropologia attraverso l’esame del significato
dell’alienazione umana. Con la religione
l’uomo si allontana da sé, esce da sé, alienando in Dio, in una realtà estranea, la propria
essenza e quindi ponendo il problema della
ricostituzione della propria identità. Le potenzialità umane vengono completamente
dispiegate ed attualizzate in Dio, che assume
perciò sembianze umane, rivelando il suo
carattere di un Dio a misura d’uomo. Infatti, osserva Feuerbach, quando l’uomo descrive Dio si avvale delle caratteristiche
della sua stessa natura, ampliandole all’infinito; Dio diventa un puro oggetto di pensiero, frutto unicamente dell’intelletto umano, che pensando se stesso si illude di
pensare Dio, mentre rivela solo la coscienza che ha di se stesso.
Il Dio che emerge dalle pagine di Feuerbach
è il risultato di un progetto esistenziale umano, che attraverso gli attributi della provvidenza, della predestinazione, del miracolo,
ha un unico obiettivo: l’uomo. Questo fine
peculiare si evidenzia particolarmente nel
Ludwig Feuerbach
tema della salvezza, che è rivolta in modo
privilegiato all’uomo che attraverso la fede
religiosa mostra orgogliosamente i propri
privilegi rispetto agli altri esseri viventi. E
quando l’uomo, in silenzio, si rivolge a Dio
con la preghiera, per Feuerbach non fa altro
che dialogare con il proprio cuore, confidando nell’esaudimento dei suoi desideri. In
quest’ottica, la fede in Dio risulta essere la più
grande celebrazione della fede nell’uomo.
Nel tentativo di dimostrare la propria validità razionale, fa notare Feuerbach, la religione si involge in una spirale di argomentazioni sofistiche che sono proprie della teologia
razionale e che rivelano il loro carattere
contraddittorio quando venga messa in rilievo l’essenza umana della religione. Così,
una dopo l’altra, sotto le sferze concettuali di
Feuerbach, cadono tutte le credenze religiose. Il segreto fondamento della creazione
divina del mondo è l’autocoscienza umana;
ugualmente, la causa del misticismo è rintracciabile nell’essenza umana che si trasfigura nell’essenza divina mediante la separa47
zione dello spirito dal corpo. Per quanto
riguarda l’immortalità umana, osserva ancora Feuerbach, l’uomo con essa non solo
realizza uno dei suoi maggiori desideri, ma
riacquista anche quella sua parte materiale
dalla quale aspirava a distaccarsi in nome
della fede religiosa, spirituale. Anche il dogma della trinità ha qui una sua spiegazione:
l’essenza umana, pur nella sua unicità, è
differenziata a causa della particolarità irripetibile di ogni individuo; la trinità non
sarebbe altro che la rappresentazione sostanzializzata di questa ricchezza e varietà proprie dell’essenza umana.
Nel suo intento di cogliere l’essenza della
religione Feuerbach mostra la sua predilezione per il cristianesimo, che edificando un
Dio più umano rispetto a quello di altre
religioni, come quello freddo e distante, quasi inumano, della religione ebraica, rivela
maggiormente le contraddizioni della religione stessa. La peculiarità del cristianesimo
è costituita dalla figura di Cristo, che simboleggia il cuore liberato da tutti i legami e
PROSPETTIVE DI RICERCA
quindi “l’onnipotenza della soggettività”.
Nella figura di Cristo è posta l’esigenza,
propria del Cristianesimo, del superamento della scissione dell’uomo. Una volta
separatosi dalla sua essenza, alienandola in
Dio, l’uomo avverte l’esigenza di recuperarla e quindi edifica il mistero della reincarnazione, che dunque costituisce un circolo vizioso: l’uomo, fattosi Dio, ritorna ad
essere uomo.
La filosofia di Feuerbach è volta a valorizzare l’uomo nel suo essere sensibile, concreto,
lontano dall’ingannevole cielo spirituale della
religione, mediante il recupero di tutte quelle
qualità che aveva perduto. Si tratta quindi di
un’antropologia che fa dell’uomo il Dio di se
stesso, che riafferma la divinità nell’anima
umana contro un Dio mistico, lontano dalle
radici terrestri umane, un Dio immensamente distante, che rende l’uomo estraneo a se
stesso. Quest’antropologia si ripropone di
ricondurre Dio all’essenza umana, consentendo all’uomo di riappropriarsi della sua
essenza alienata e recuperare così il suo
valore divino. In questo Feuerbach si inserisce in quella linea di pensiero che si
oppone alla riduzione dell’esistenza all’essenza, proponendo invece una valorizzazione dell’esistenza sensibile, quella che è
attestata direttamente dalla concretezza dei
sensi, che non può essere ricondotta ad un
astratto oggetto di pensiero.
La filosofia di Feuerbach è quindi celebrazione dell’esistenza umana, di quell’esistenza che assume significato solo nel rapporto
con gli altri. Per Feuerbach, l’uomo prende
coscienza di se stesso nel momento in cui
prende coscienza degli altri uomini. In quest’ottica Feuerbach apprezza della religione
cristiana l’attributo divino dell’amore, che
per lui è solo amore per gli altri uomini,
l’amore per l’umanità. Se la fede religiosa
separa l’individuo dagli altri, dandogli l’illusione di un destino privilegiato, l’amore invece lo ricongiunge agli altri uomini. Riportando Dio a sé, l’uomo non fa altro che
riconciliarsi con se stesso. M.Mi.
Biografie nietzscheane
La connessione tra vita e pensiero nell’opera di Friedrich Nietzsche è al centro di
due recenti biografie: si tratta dell’opera
di Joachim Köhler, NIETZSCHE. IL SEGRETO DI
ZARATHUSTRA (trad. it. di P. Fontana, pref. di
F. Minazzi, Rusconi, Milano 1994), che
affronta la vita del filosofo da un punto di
vista psicologico, e della raccolta autobiografica di scritti dello stesso Nietzsche,
COME SI DIVENTA CIÒ CHE SI È (trad. it. di C.
Buttazzi, introd. di C. Pozzoli, Rusconi,
Milano 1994).
La biografia di Joachim Köhler affronta la
vita del filosofo tedesco in funzione della sua
sessualità e psicologia. Come osserva Fabio
Minazzi nella sua Prefazione, l’identità di
vita e pensiero, tanto esaltata da Nietzsche,
comporta un’attenzione alla corporeità dell’uomo, che intende anche, e soprattutto,
superare “fisicamente” se stesso. Per tale
motivo Köhler rifiuta una lettura come quella di Heidegger, che vedeva in Nietzsche
“una testa senza corpo”, e, al contrario, volge
la sua attenzione all’animalità corporea del
filosofo. Addentrandosi nella psiche del giovane Nietzsche, Köhler riscontra un complesso di Edipo esasperato al punto da manifestarsi, anche secondo le testimonianze di
amici e studenti del filosofo, in una nascosta,
e drammaticamente vissuta, omosessualità.
Da un tale punto di vista, Köhler può spiegare diversi elementi teoretici che, finora, non
avevano trovato una reale giustificazione.
Ricordiamo, in tal senso, l’importanza della
lettura da parte di Nietzsche della Metafisica
della sessualità di Arthur Schopenhauer,
che descriveva l’amore eterosessuale come
la massima manifestazione dell’arbitrio e
del dominio della voluntas sull’uomo. Il
rifiuto di questo tipo di amore ha, secondo
Köhler, condotto Nietzsche all’esaltazione
di quell’unica forma di rapporto amoroso
che, alternativamente, esclude la procreazione, e cioè l’omosessualità. Da un tale
punto di vista, la vera colpa di Socrate,
nella filosofia nietzscheana, consisterebbe
infatti, osserva Köhler, nell’aver respinto il
giovane Alcibiade, come si legge nel Simposio di Platone. In altre parole la rinuncia
all’amore omosessuale avrebbe in seguito
portato Socrate a commettere altre colpe,
come la definitiva esclusione del dionisiaco dalla cultura greca, che, una volta privata del culto della pederastia, avrebbe iniziato la sua vera decadenza.
Anche la raccolta autobiografica nietzscheana dal titolo: Come si diventa ciò che si è, si
caratterizza per i continui richiami a vissuti
e ad elementi biologico-corporei. Il volume
comprende tre gruppi di scritti autobiografici, che narrano il guardarsi dal di dentro di
Nietzsche in tre diversi momenti della propria vita. Il primo gruppo, “La mia vita”,
raccoglie le pagine dei diari scritti dal 1856
al 1869, quando il giovane Nietzsche, profondamente segnato dalla morte del padre, si
affacciava alle soglie dell’età adulta. Il secondo gruppo, che risale al 1886, contiene le
prefazioni agli scritti più famosi, ricche di
elementi biografici e di vissuti. Chiude la
raccolta “Ecce homo”, del 1888, l’autobiografia in cui Nietzsche, pochi mesi prima
della pazzia, giustifica la stesura delle sue
opere in funzione della propria esistenza.
Così, una volta dichiarato il proprio compito, il rovesciamento degli idoli, il filosofo
racconta quegli episodi che hanno inciso la
sua vita al punto da essere trascinati nella
sua produzione filosofica e letteraria. Emerge tra questi il sofferto rapporto con Richard Wagner: l’iniziale passione e l’identificazione del musicista con Dioniso e
Zarathustra e la definitiva rottura, seguita
dopo la stesura del Parsival che, dolorosamente, porta Nietzsche a definire l’amico
di un tempo “rammollito”. A.S.
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Lettere di Epicuro
La pubblicazione delle LETTERE SULLA
FISICA, SUL CIELO E SULLA FELICITÀ (trad. it.
di N. Russello, Rizzoli, Milano 1994) di
Epicuro offre una sintesi essenziale,
ma non schematica, di una dottrina
volta a definire un metodo scientifico
basato sull’esperienza. I temi maggiormente trattati sono la fisica come
scienza, l’astronomia e l’etica.
Per comprendere queste Lettere di Epicuro
occorre fare un salto indietro nella storia e
calarsi nel contesto socio-culturale in cui
Epicuro è vissuto. La dottrina di Epicuro
rappresenta una vera innovazione; per la
prima volta la fisica viene considerata come
scienza autonoma. La prima lettera che
Epicuro indirizza a Erodoto verte infatti su
una concezione della fisica che riprendendo i principi dell’atomismo, si contrappone
radicalmente agli esiti di un tutto ordinato
del pensiero platonico, così come agli sviluppi aristotelici. Per affermare l’esistenza
di un universo, scrive Epicuro all’amico,
non si può partire dal nulla, ma dai corpi e
dallo spazio in cui essi si muovono. La
materia, a sua volta, ha come elemento
costituitivo gli atomi che rappresentano
l’origine e la spiegazione di tutte le cose.
Muovendosi, infatti, gli atomi si aggregano
a formare mondi infiniti, che nascono e si
dissolvono, nell’eterna durata del tempo.
Nella sua ricerca scientifica Epicuro non si
avvale di alcun disegno aprioristico, ma si
limita a considerare la realtà tangibile, i
fatti riscontrabili nell’esperienza. Anche
nella seconda lettera, diretta a Pitocle, che
tratta di astronomia, Epicuro pone come
fondamento unico di ogni indagine sugli
astri i fenomeni, ovvero quelle entità date e
conoscibili mediante l’esperienza. Anche
gli astri vengono visti in chiave materialista e non metafisica, pur non escludendo
l’esistenza degli dei.
La terza lettera, diretta a Meneceo, è una
lunga riflessione sul problema etico e sulla
felicità quale obiettivo di ogni individuo.
La felicità di cui parla Epicuro è una felicità dell’anima, un raggiungimento di saggezza e serenità interiore per sconfiggere
la paura della morte e dell’ignoto. Epicuro
esorta Meneceo (e con lui i suoi discepoli)
a diffidare dei piaceri effimeri della vita
terrena e ad inseguire una vita semplice,
dedita alla meditazione e all’autenticità
dei valori umani. La lettera solleva la necessità del raggiungimento di una ricchezza interiore, considerata dall’autore premessa indispensabile per una autentica
felicità, singola e collettiva. Anche in questo caso l’esperienza dell’esistere è il perno su cui poggia la fedeltà epicurea; la
dottrina della felicità, in particolare, rappresenta da parte di Epicuro una difesa
dell’unicità dell’esistenza, pur non essendo egli un esistenzialista. D.M.
NOTIZIARIO
Del fondatore del positivismo,
AUGUSTE COMTE, è stata pubbli-
cata in ambito anglosassone una dettagliata biografia intellettuale: Auguste Comte. An intellectual biography,
Volume one (Auguste Comte. Una
biografia intellettuale, volume uno,
Cambridge University Press, Cambridge 1993). L’autrice, Mary Pickering, ritiene che ripercorrendo la vita
di Comte possa essere chiarita la plausibilità della sua autoproclamazione
di inventore della scienza delle relazioni sociali: la sociologia. Filo conduttore dell’analisi di Pickering è
costituito dalle relazioni di Comte
con il mondo femminile. La prima
significativa presenza femminile nella vita di Comte fu la madre, che
dominava in modo opprimente la vita
della famiglia e verso la quale egli
nutrì sempre sentimenti ambivalenti.
A tredici anni, si ribellò contro la fede
cattolica e monarchica dei genitori,
annunciando che non avrebbe più creduto in Dio, proclamandosi “repubblicano”. La triste esperienza dell’infanzia spinse Comte, secondo la sua
stessa ammissione, a cercare nella
«vita pubblica la nobile, anche se
imperfetta, compensazione dell’infelicità della sua vita privata». Anche la
sua relazione matrimoniale con Caroline Massin, una ex prostituta che
egli voleva sottrarre alle liste di prostituzione della polizia, fu misera,
tanto da essere definita da Comte
«l’unico irreparabile errore» della sua
vita. Il naufragio matrimoniale fu poi
anche aggravato da difficoltà finanziarie. L’esperienza negativa del matrimonio, secondo quanto riferisce Pickering, portò il filosofo ad individare
nell’amicizia tra uomini «il solo legame completo, veramente durevole» e
a sconfessare le sue precedenti opinioni sull’emancipazione delle donne.
A ventotto anni, Comte sperimenò la
discesa nella follia, che descrisse come
una «crisi cerebrale» dovuta alla «fatale coincidenza di grandi dolori morali e duro lavoro». Dopo la malattia,
ottenuto il divorzio, incontrò Clothilde de Vaux, con la quale ebbe una
relazione solo platonica, facendo di
lei «l’angelico modello» del suo programma di “religione dell’umanità”.
Così, paradossalmente, osserva Pickering, “il fondatore” della sociologia come scienza dei rapporti sociali
si trovò a disagio proprio nell’ambito
delle relazioni fondamentali della vita.
La vita di Comte dimostra come il suo
progetto intellettuale di riconciliare
scienza e consenso morale, scienza e
religione, esprima un’esperienza centrale della sua esistenza. In tal senso,
Pickering si oppone con forza a quei
critici che vedono nella seconda parte
dell’opera di Comte, quella dedicata
alla “religione dell’umanità”, un aberrante frutto della sua follia, come
afferma ad esempio J. S. Mill, dimostrando invece come il programma di
una “religione dell’umanità” e la riforma politica ad essa connessa siano
già presenti a partire dalle prime opere di Comte. Inoltre Pickering rileva
che la concezione positivistica sostenuta da Comte è una prospettiva che
denuncia il “puro empirismo” e ac-
NOTIZIARIO
cetta che il giudizio sui valori possa
portare ad una conoscenza positiva,
cioè una fondazione dei principi morali positivi. Lo stesso Circolo di Vienna gli rimproverò l’assenza, nella sua
filosofia, di una distinzione adeguata
degli aspetti rigorosi delle procedure
scientifiche da quelli più speculativi
morali e valoriali. In conclusione, secondo le considerazioni di Pickering,
l’autoproclamazione di Comte come
fondatore della sociologia, deve essere rivista,dato che egli, insieme a
Saint-Simon, fu solo una delle fonti
dello sviluppo della scienza sociale
nel XIX secolo e l’aver posto al centro della teoria sociologica la “legge
dei tre stati” e la nozione di gerarchia
delle scienze non fu determinante nel
successivo orientamento di questa disciplina. M.G.
“luoghi del sapere”, nei quali le trasformazioni e gli incontri del pensiero possano dispiegare le loro potenzialità critiche. Quest’impostazione,
ha sottolineato Adelino Zanini, presuppone un’esperienza e uno stile di
lavoro, nonché di scrittura, che intendono fornire elementi utili a un’indagine di tipo genealogico sugli eventi
della contemporaneità, che in quanto
tali hanno costituito, e devono costituire, motivo e ambito del dispiegarsi
di una passione filosofica in grado di
operare collegamenti non irrilevanti
tra linguaggio e saperi che intendano
esperire il mondo.
La categoria del “possibile”, reinterpretata attraverso quella di “virtuale”, viene da Fadini accostata alla
nozione di “attualità” in quanto entrambe elementi di una lettura del
reale che - citando Canetti - intende
istaurarsi a partire da un’esperienza
di pensiero e per questo non può esaurirsi nell’ordine dell’esistente. Il tentativo filosofico si connota perciò, in
via immediata, come “politico” e
come “storico”; il referente ideale
appare, infatti, quello di una “comunità”, linguistica e concettuale, tenuta assieme da relazioni che contengono in sé la possibilità del proprio
divenire, del proprio “poter essere
altrimenti” e, in ciò, del proprio essere “altre”. Un tentativo filosofico che
non può dunque che porre a tema le
questioni del soggetto e dell’alterità,
concepite come quel rapporto tra teoria e prassi nel soggetto, che fa perno
su una ridefinizione della categoria di
corporeità. F.C.
Nel maggio del 1994, presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate si è costituito il SEMINARIO
PERMANENTE DI FILOSOFIA
CONTEMPORANEA, diretto da
Ubaldo Fadini e Adelino Zanini. La
struttura intende dare veste formale
all’attività di un gruppo di studiosi
che da alcuni anni lavorano intorno
alla riproposizione di un pensiero critico-affermativo, che sia in grado di
articolare posizioni teoriche alternative rispetto a quelle delineate dall’approccio, comunque variegato,
della riflessione filosofica incentrata
sulla nozione di “postmoderno”. In
questa prospettiva, i primi confronti
hanno avuto per oggetto la riflessione
di Gilles Deleuze (gli atti del convegno relativo, dal titolo: Gilles Deleuze:
un pensiero “forte” della differenza
ontologica, sono stati pubblicati nel
secondo fascicolo del 1993 della rivista «Fenomenologia e società») e,
successivamente, con quella di Michel Foucault, al quale è stato dedicato un seminario sul tema: “Archeologìa dei saperi. Produzione di soggettività e forme di razionalità”. Nel
novembre del 1994 è stato infine organizzato un convegno dal titolo: “Essere-Nulla-Progetto. A proposito di Jean
Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty”.
Illustrando le finalità dell’iniziativa,
Ubaldo Fadini ha affermato che uno
degli intenti del Seminario è quello di
evidenziare, e mettere alla prova, capacità di analisi in grado di produrre
In una nuova edizione, a cura di Carlo
Augusto Viano, è stata ripubblicata la
LETTERA SULLA TOLLERANZA
(Laterza, Roma-Bari 1994) di John
Locke, uno dei manifesti più efficaci
del liberalismo, scritto durante il tentativo di restaurazione degli Stuart. A
fronte della stretta alleanza tra il potere della Corona e quello della Chiesa,
con il conseguente venir meno delle
libertà politiche e religiose del singolo individuo, la lettera ribadisce
l’irrinunciabilità dei diritti fondamentali dell’uomo. In opposizione a
una concezione utilitaristica dello
Stato, così come a una concezione
etica, la difesa programmatica della
tolleranza presuppone, innanzitutto,
49
la separazione tra potere politico e
religioso e, in secondo luogo, il rispetto assoluto delle diversità di fede
religiosa degli individui.
La tolleranza religiosa, secondo
Locke, ha però un limite: gli orrori
compiuti dai cattolici in Inghilterra. Il
magistrato, secondo Locke, deve infatti avere tolleranza illimitata per le
questioni religiose puramente speculative; ma deve limitare la propria
tolleranza di fronte a questioni che
possono nuocere allo Stato. In questo
modo, Locke intendeva porre un limite all’azione dei cattolici, che, soggetti ad un’autorità diversa da quella
del Re, il Papa, potevano interferire
con le vicende politiche dello Stato.
Decisamente intollerante, infine, deve
essere l’azione giuridica verso qualsiasi comportamento immorale. La
difesa della società libera e tollerante
operata da Locke auspica, in questo
modo, la convivenza pacifica di diverse culture e rifiuta, aprioristicamente,
qualsiasi ideologia. Una concezione
di questo tipo, osserva tuttavia Viano,
nasconde a sua volta un elemento ideologico, cioè la considerazione di una
società minimale, in cui ogni fede o
cultura può convivere con le altre al
prezzo di ridimensionare i propri confini e di cancellare quegli eccessi, tipici di alcune culture, che di fatto non
vengono tollerati da Locke. A.S.
La nuova edizione de L’APOLOGIA
DI SOCRATE di Platone (trad. di A.
De Fabrizio, Sellerio Editore, Palermo 1994) è preceduta da un ampio
saggio di Luciano Canfora che, considerando il rapporto tra maggioranza e minoranza, mette sotto accusa la
giuria che condannò Socrate. Influenzata dalle produzioni letterarie del
tempo, come le commedie di Aristofane, responsabili di una forte influenza sull’opinione pubblica, la giuria appare soggetta a un condizionamento di massa che le impedisce di
valutare l’appassionata difesa di
Socrate. A nulla, infatti, valgono le
argomentazioni del filosofo, che deve
difendersi dall’accusa di empietà e di
corruzione dei giovani. Nonostante
le argomentazioni di Socrate, rette da
una profonda coerenza formale e di
contenuto, la giuria dà credito alle
accuse, a volte incoerenti e spesso
infondate, e decide per il verdetto di
colpevolezza.
Dalle parole di Platone traspare la
reazione serena di Socrate che, dopo
aver rifiutato la possibilità di una
vita senza ricerca, riflette sul senso
della morte, intesa o come dolce sonno o come luogo di incontro delle
anime più sapienti. Alla ragione, a
cui fa appello Socrate e la minoranza
della giuria a lui favorevole, si oppone una maggioranza condizionata e
parziale, che decide per la condanna
a morte. A.S.
Avvalendosi dell’opera e della consulenza di un qualificato gruppo di
studiosi e di ricercatori nell’ambito
NOTIZIARIO
del goethianismo scientifico, la casa
editrice Il Capitello del Sole ha avviato l’edizione integrale in lingua
italiana degli SCRITTI SCIENTIFICI
DI GOETHE, con l’intento di colmare una grave lacuna nel panorama
culturale italiano, essendo ancora
praticamente inediti i saggi, gli studi, le monografie e i frammenti, che
complessivamente costituiscono il
corpus dell’opera scientifica di
Goethe. Le rare e sommarie edizioni
antologiche e i parziali estratti monotematici risultano infatti avulsi
dalla complessa organicità in cui si
articola la sua indagine. Se si considera che nella grande edizione di
Weimar gli scritti di scienze naturali
riempiono quattordici volumi e che
molti ampi passi sono presenti nei
cinquanta volumi delle lettere e nei
trentasette volumi dei diari, questo
panorama statistico dà l’idea dell’importanza dell’opera scientifica
goethiana.
Iniziata negli anni universitari di Lipsia e Strasburgo con il saggio La
natura, apparso sul «Tiefurter Journal» del 1782, l’opera scientifica di
Goethe terminò solo poco prima della sua morte. Il costante interesse di
Goethe per le più diverse manifestazioni della natura (botanica, zoologia, teoria dei colori, metereologia,
geologia), e la sua contesa con
Newton, non fecero però di lui un
naturalista noto. I suoi scritti scientifici venivano giudicati “eterodossi”:
di poco conto dal punto di vista letterario e imbarazzanti da quello
scientifico. Inoltre, grandi difficoltà
dovette affrontare Goethe per pubblicare i suoi studi; emblematica, in
tal senso, fu la riluttanza dell’editore
Göschen a pubblicare la Metamorfosi delle piante. Lo stesso importante
lavoro sull’osso intramascellare fu
stampato per la prima volta solo nel
1830 dall’Accademia Leopoldo-Carolina di Halle.
L’ordine dei volumi delle opere di
Goethe, attualmente esistenti, pubblicati intorno al 1900 da R. Steiner
e S. Kalischer, sarà mantenuto nell’edizione italiana. I testi saranno
accompagnati da un esauriente apparato di note storico-biografiche e
terminologico-scientifiche. Ai dodici volumi suddivisi per grandi aree
disciplinari: la morfologia della natura organica, la filosofia della natura e la scienza, la natura minerale e la
dottrina dei colori e un volume di
massime e riflessioni di argomento
filosofico e scientifico, seguiranno
una scelta di testi e di contributi, a
carattere specialistico e generale, di
ricercatori e scienziati che negli ultimi decenni hanno assunto l’epistemologia di Goethe a guida delle loro
ricerche. M.C.
Di MARGHERITA PORETE, condannata come eretica il 1 giugno
1310, appare, in prima edizione
italiana,Lo specchio delle anime semplici annichilate e che dimorano soltanto in volontà e desiderio d’amore
(Le mirouer des simples ames anien-
ties et qui seulement demourent en
vouloir et desir d’amour, trad. it. di
G. Fozzer, San Paolo, Milano 1994).
L’edizione presenta il testo mediofrancese a fronte e, in appendice, la
versione trecentesca italiana, a cura
di Romana Guarnieri.
Lo specchio delle anime semplici
conduce il lettore alla conoscenza
non solo della tragedia di cui Porete
fu vittima, ma al suo sofferto percorso mistico-spirituale che segnò tutta
la sua esistenza. Nata a Valenciennes tra il 1250 e 1260, Margherita
Porete, incarna i più alti valori della
fede cristiana a partire dalla messa in
atto dei precetti evangelici, per giungere alla piena libertà dello spirito.
L’elemento che caratterizza l’opera
è un linguaggio che si presenta sotto
forma di dialogo espresso in lingua
volgare (piccardo), con toni che in
alcuni passaggi assumono un carattere simbolico, sintesi di esperienza
mistica. D.M.
Segreteria centrale della Facoltà di
Lettere e Filosofia, via Savonarola
9, 44100 Ferrara (per ulteriori informazioni ci si può rivolgere alla Segreteria della Facoltà, tel. 0532/
247506, 210929, 210007 - fax 0532/
202689).
Si è costituito a Oldenburg (Oldb.),
in Germania, il centro di ricerca
FILOSOFIA ITALIANA-STIFTUNG,
il cui scopo è promuovere la ricerca
scientifica sulla filosofia italiana contemporanea e avviare contatti con
filosofi italiani. A tal fine sono previsti borse di studio e sovvenzioni
per favorire progetti di ricerca sulla
filosofia italiana contemporanea; filosofi italiani sono invitati a tenere
conferenze e corsi di lezioni presso
l’Università di Oldenburg; vengono
finanziati convegni su tematiche inerenti all’attuale situazione della filosofia italiana con l’intento di creare
condizioni proficue per uno scambio
di idee tra studiosi tedeschi e italiani.
L’intenzione è anche quella di creare presso l’Università di Oldenburg
un centro di ricerca sulla filosofia
italiana contemporanea, che attraverso monografie, traduzioni, conferenze, faccia conoscere in Germania gli sviluppi della tradizione filosofica italiana a partire dall’Illuminismo fino alle più recenti tendenze
del dibattito filosofico. Attuale presidente del cento di ricerca è Wilhelm
Büttemeyer, a cui si devono importanti studi sul pensiero filosofico italiano del XIX e XX secolo. Tra le
prime iniziative del centro si segnala
una conferenza tenuta a Oldenburg
da Franco Volpi il 28 giugno 1994
sul tema: “Nietzsche in Italia. Una
ricezione senza confini”.
La Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Ferrara,
bandisce 50 posti per la frequenza al
corso annuale di perfezionamento in
STUDI SUL RINASCIMENTO
ITALIANO. Il corso si propone di
offrire, attraverso diversi contributi
disciplinari, una preparazione specifica nell’area della cultura rinascimentale. La durata del corso è di un
anno accademico, e non è suscettibile di abbreviazioni. Prevede duecento ore di lezione, che saranno concentrate in due periodi (maggio-giugno e settembre-ottobre). Il corso si
articola nelle seguenti aree disciplinari: letteratura e storia della lingua
italiana, filologia umanistica, storia
medioevale e moderna, storia delle
scienze e della geografia, storia dell’arte e della critica d’arte, storia
della musica e del teatro, storia della
filosofia e dell’educazione, letterature comparate. Il programma completo delle discipline e l’elenco dei
docenti, interni ed esterni, sarà comunicato entro il 31 dicembre 1994.
Il Consiglio di Corso è formato dai
docenti della Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Ferrara,
che svolgono attività didattica nel
Corso. I corsi inizieranno nel mese
di maggio 1995. L’Università rilascerà ai partecipanti un diploma di
laurea presso un’Università italiana
o presso un’Università straniera, secondo la normativa vigente in materia di equipollenza.
La domanda di ammissione, accolta
in base alla valutazione dei titoli,
dovrà essere accompagnata da due
lettere di presentazione da parte di
docenti o studiosi di chiara fama. Il
numero massimo di partecipanti è
fissato in 50, il numero minimo in
35. Il termine per la presentazione
delle domande di iscrizione scade il
31 gennaio 1995 e la quota prevista
è fissata in L. 1.000.000 da versarsi
in due rate. La domanda va compilata su carta legale, indirizzata al Magnifico Rettore dell’Università degli
Studi di Ferrara e presentata alla
Con l’inizio del 1995 prende avvio
INSEGNARE FILOSOFIA, una rivista quadrimestrale di ricerca sulla
didattica della filosofia, diretta da
Mario Quaranta e pubblicata dalla
casa editrice Pagus di Treviso. In
questi anni l’attenzione ai problemi
della didattica è cresciuta; sono state
svolte diverse indagini sull’insegnamento della filosofia da parte della
Società Filosofica Italiana e di diversi IRRSAE. Queste indagini hanno messo in evidenza un disagio
diffuso e la domanda di strumenti
didattici nuovi, per non ridurre lo
studio della filosofia a pura e semplice memorizzazione di parti di un
manuale. Nel frattempo i nuovi programmi di filosofia elaborati dalla
commissione “Brocca” hanno precisato fini e metodi dell’insegnamento
della filosofia nella ipotizzata riforma della scuola secondaria superiore. La novità di questi programmi sta
nell’aver posto al centro della didattica la lettura dei filosofi e nell’aver
relegato il manuale in una posizione
marginale.
«Insegnare Filosofia» vuole essere
una risposta alla nuova domanda degli insegnanti. L’ambizione della ri-
50
vista è costruire un circuito di collaborazione, di dialogo e di ricerca
comune fra gli insegnanti nel presupposto che anche la didattica della
filosofia sia un campo di ricerca capace di dare frutti significativi.
Il primo numero apre la riflessione
su: L’aggiornamento degli insegnanti di filosofia (Anna Sgherri Costantini), Possibilità e problemi di una
didattica della filosofia (Armando
Girotti), L’educazione alla ricerca
filosofica a scuola (Giuseppe Deiana), Il ruolo della memoria e del
pensiero per immagini in didattica
della filosofia (Mario Trombino),
Bilancio di un esperimento in filosofia (Guerrina Della Valle). Al corpo
di saggi sulla “filosofia insegnata”
vanno aggiunti un saggio di Karl
Popper, inedito in Italia, Come la
luna potrebbe gettare un po’ di luce
sulle due vie di Parmenide e un testo
inedito di Enzo Melandri, La precomprensione di Leibniz.
Quali sono i caratteri del nuovo equilibrio mondiale che si va profilando?
Quali vincoli e quali opportunità esso
pone per il processo di integrazione
europea? In un mondo sempre più
interdipendente, ma nel quale permangono gravi disuguaglianze di sviluppo economico e sociale, qual è il
significato e quale il futuro prevedibile delle comunità politiche, caratteristiche dell’epoca contemporanea:
le nazioni, delle vecchie nazioni e
delle nazioni nuove? Alla fine del
secolo, che sarà forse chiamato il
secolo delle ideologie, quali sono i
connotati presenti e le prospettive
future della politica ideologica?
Come dobbiamo correggere la nostra interpretazione della democrazia liberale ora che essa appare quasi
privata dei suoi nemici più tenaci?
Come dobbiamo ripensare il caso
dell’Italia? Come possiamo prospettare politiche costituzionali capaci
di promuovere il consolidamento istituzionale della democrazia? A queste e ad altre domande intendono
fornire una risposta i QUADERNI DI
SCIENZA POLITICA, una nuova rivista quadrimestrale, diretta da Mario Stoppino, che intende prsi in costante collaborazione con tutte le
discipline che studiano la politica
con criteri diversi, o che studiano
fenomeni sociali importanti per comprendere la politica. Nel primo numero (1/1994) compaiono articoli di
Mario Stoppino, Che cos’è la politica, di Giuseppe Ieraci, Presidenzialismo e parlamentarismo nelle democrazie difficili, di Marco Clementi, La teoria dei regimi internazionali. Nel secondo numero (2/1994) sono
previsti articoli di Franco Goio, Teoria della nazione, di Giampiero
Cama, Istituzioni politiche, movimento operaio e crisi di partecipazione. Un confronto fra Gran Bretagna e Germania, di Alessandro Bruschi, Narrazione e teoria.
CONVEGNI E SEMINARI
CONVEGNI E SEMINARI
Augusto Guzzo
nel centenario della nascita
In occasione del centenario della nascita di Augusto Guzzo, l’Accademia
delle Scienze di Torino, la Facoltà di
Lettere e Filosofia, i Dipartimenti di
Ermeneutica filosofica e di Filosofia
dell’Università di Torino hanno organizzato il 12 e il 13 aprile 1994, presso
l’Università di Torino, un convegno
dal titolo: “AUGUSTO GUZZO A CENT’ANNI
DALLA NASCITA”, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Giuseppe Riconda, Pietro Rossi, Francesco Barone, Vittorio
Stella, Nynfa Bosco, Vittorio Mathieu,
Carlo Augusto Viano, Amalia De Maria, Corrado Rosso, Francesco Moiso e
Giuseppe Cambiano.
Ha aperto i lavori del convegno Francesco Barone, che ha sollevato l’esigenza di
rivedere la teoria storiografica che classifica Augusto Guzzo come spiritualista.
Guzzo, infatti, ha sempre cercato di distinguere il chiarimento di sé a se stessi, opera
della filosofia, e il tentativo di rispondere
agli interrogativi, che tale chiarimento solleva, di competenza invece della religione,
intesa come «esperienza del soprannaturale, per iniziativa dello stesso soprannaturale». Secondo Barone, la speculazione
guzziana, volendo chiarire l’ambiguo rapporto tra filosofia religione, delinea la possibilità di una concezione della filosofia
che non sia in concorrenza con le altre
attività umane, ma affermi, attraverso l’innegabile vitalità di queste, la propria vitalità. Il senso del rapporto tra filosofia e
religione nella sua complessità dà luogo
ad una riflessione, da intendere come una
Weltanschauung distinta dalla filosofia,
che è, invece, ricerca trascendentale. Di
fronte al venir meno del peso della certezza nella cultura contemporanea, l’attualità
di Guzzo, ha osservato Barone, risiederebbe in quella tensione tra il bisogno di
certezza e le risposte sempre storiche e
contingenti, che ad esso vengono date in
ogni campo dell’attività umana.
Per ciò che riguarda la prospettiva estetica,
Vittorio Stella ha sottolineato la costante
disposizione di Guzzo a riflettere sull’arte,
la cui esperienza, per essere compresa nel
suo svolgimento spirituale, deve essere
pensata come sensazione che si configura
in sentimento. In particolare, Stella ha messo
in evidenza la distanza tra l’estetica guzziana e quella crociana: la prima, forte di
un’istanza conoscitiva, guarda alla “realtà”
e intende l’arte come conoscenza e l’intuizione come un cogliere il “profondo”; la
seconda si disinteressa della “realtà” e si
concentra sul “motivo” o “spunto”. Così,
l’arte è per Guzzo espressione di ciò che lo
spirito pensa e sente in forme inventate
apposta per esprimerlo. Il tema della forma
formante, ha ricordato Stella, sarà sviluppato da Luigi Pareyson, la cui estetica
prenderà emblematicamente il nome di “teoria della formatività”.
L’aspetto morale della speculazione guzziana è stato invece analizzato da Nynfa
Bosco, che ha definito la filosofia di Guzzo come un’antropologia filosofica, poiché il suo oggetto è costituito da tutta
quanta l’esistenza dell’uomo. Dato che
eminentemente morale è il processo per il
quale l’individuo si universalizza in una
nuovissima sintesi, nella quale i due opposti si trascendono l’un l’altro, si può parlare in Guzzo di un primato della coscienza
morale. L’etica guzziana, ha rilevato Bosco, appare, da un lato, filocalica e platonica nella sua genesi, in quanto in essa la
libertà si configura non solo come responsabilità, ma anche come disposizione a
formare, ossia come arte; dall’altro, aristotelica nel suo dispiegarsi, in quanto
propone un legame vitale che unisce la
scelte dei singoli e le forme della civiltà,
senza, tuttavia, che i due profili possano
essere separati. L’etica di Guzzo risulta, in
ultima analisi, essenzialmente vocazionale e naturale; ne deriva una raffigurazione
della vita morale vivace, dettagliata e armonica, ma per nulla tragica e, quindi, di
stile classico.
Vittorio Mathieu ha illustrato la prospettiva religiosa di Guzzo, prendendo spunto
da una lettera inedita a Ugo Spirito, scritta
da Guzzo nei primi mesi successivi alla
morte della madre, che tratta principalmente della correlazione tra immanenza e
trascendenza, interpretata qui in senso idealistico. In questa lettera, Guzzo fa riferimento al suo biglietto di annunzio della
morte della madre, identificata con la tra51
scendenza, che, secondo Mathieu, lascia
emergere una dichiarazione esplicita di
conversione al cattolicesimo, mai sentita in
seguito. La religione in Guzzo appare ancorata alla speculazione agostiniana, per
via della necessità dell’affidamento del singolo all’iniziativa divina: caratteristica,
questa, propria della religione rispetto alla
filosofia. Inoltre, ha osservato Mathieu,
che l’idealismo guzziano sia di origine
platonica emerge dalla sua interpretazione
del trascendente come trascendentale. Guzzo nega l’immanenza del positivista, che
non è immanenza vera e propria, e non
nega, invece, l’immanenza dell’idealista,
che è immanenza del trascendentale: Dio è
il principio e la norma, e la realtà proviene
da esso come l’azione dalla norma.
Soffermandosi poi sulla memoria accademica: La Religione. Fenomenologia e filosofia dell’esperienza religiosa, del 1964,
Mathieu ha evidenziato come essa sia in
realtà un commento a Sant’Agostino, che
Guzzo vuole giustificare nel suo apparente
rovesciamento dall’antimanicheismo all’antipelagianesimo. Emerge qui, come ha
notato Mathieu, il richiamo alla responsabilità individuale, contro Gentile, nell’interpretazione della grazia come una possibilità di libertà: essa è il dono di una norma
interna, che si tratta continuamente di interpretare. Interviene allora la filosofia in
aiuto della religione, dal momento che non
è possibile seguire passivamente un dogma
religioso, ma bisogna capire la Rivelazione
e, quindi, capire noi stessi come luogo in
cui questa continua ad attuarsi a noi, anche
attraverso la nostra partecipazione ad essa.
Nel corso della tavola rotonda, che ha concluso i lavori, Pietro Rossi ha rievocato le
collocazioni storiografiche finora proposte
per il pensiero di Guzzo. Una prima lo
considera come un esponente dello spiritualismo cristiano, rappresentante dell’ala
destra dell’idealismo gentiliano insieme a
Carlini e Sciacca. Una seconda, radicata
nello stesso Guzzo e poi ripresa da Pareyson,
lo pone come terza via dell’idealismo rispetto a Croce e Gentile, a partire da Sebastiano Maturi. Per collocare adeguatamente il pensiero di Guzzo, ha osservato Rossi,
occorre soprattutto ricordare gli autori da
lui studiati, Bruno e Spinoza, da una parte,
e Agostino, dall’altra, che permette di spie-
CONVEGNI E SEMINARI
Augusto Guzzo
52
CONVEGNI E SEMINARI
gare l’ambiguità di formulazioni, sempre
presente in lui, relative al trascendente e al
trascendentale e ai loro rapporti. Sull’ambiguità di Guzzo si è soffermato anche
Carlo Augusto Viano, il quale ha ricordato la sua figura di grande apologeta della
filosofia pura e lo ha definito erede di una
tradizione idealistica religiosa, ma non confessionale, alternativa rispetto a quella laica e a quella cattolica.
Amalia De Maria ha parlato della pedagogia di Guzzo, mostrando come egli abbia
sottolineato il carattere autonomo dell’educazione, che è un processo di formazione
spirituale che non può essere sostituito né
da tecniche metodologiche, né da ricerche
psicologiche, né da sussidi didattici. I rapporti di Guzzo con l’estero sono stati analizzati da Corrado Rosso, in particolare,
grazie anche all’amicizia con René Le Senne, quelli con la Francia, probabilmente
frutto di una sua affinità molto forte con
Pascal e con i moralisti in genere.
Sulle ricerche storiografiche di Guzzo si
sono invece soffermati Francesco Moiso
e Giuseppe Cambiano: il primo ha evidenziato la concretezza del suo metodo; il
secondo ha messo in rilievo l’interpretazione, soprattutto morale, dei dialoghi platonici. Giuseppe Riconda ha evidenziato
il rifiuto di Guzzo per la gnoseologia scettica di Gentile, poiché essa concepisce
l’atto del pensiero come soppressione dell’alterità dell’altro. Nel filosofare di Guzzo, invece, il momento teoretico non è mai
disgiunto dal confronto storiografico. In
tal senso, ha osservato Riconda, proprio
l’interesse di Guzzo per Agostino e Tommaso dimostra il suo allontanamento dall’hegelismo; il che rende necessaria una
revisione non solo dell’interpretazione che
lo considera spiritualista, ma anche di quella che lo vede prosecutore di Maturi. La
prospettiva di Guzzo si allontana, per altro, anche da Kant, perché pone al centro
una religiosità non astratta, ma concreta.
La sua filosofia della religione nasce da
una parte da questa invocazione, che è
slancio umano verso Dio, dall’altra dall’iniziativa del soprannaturale, con lo scopo di restituire pieno valore e dignità alla
religione, aprendo la strada ad un’ermeneutica dell’esperienza religiosa. M.L.B.
Rivoluzioni concettuali
In occasione della presentazione dell’opera di Paul Thagard, RIVOLUZIONI
CONCETTUALI (trad. it. a cura di E. Giorgi, introd. di L. Magnani, Guerini e
Associati, Milano 1994) si è svolto alla
Casa della Cultura di Milano, il 17
maggio 1994, un dibattito dedicato al
tema: “FILOSOFIA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE”, con la partecipazione di Gianni
degli Antoni, Lorenzo Magnani, Fulvio Papi, Mario Stefanini.
Il dibattito è stato inaugurato da Fulvio
Papi, che ha sottolineato gli elementi di
originalità e il carattere di novità della
concezione di Paul Thagard, che propone
l’utilizzo di strumenti computazionali per
l’individuazione di modelli di concettualizzazione. In questo, Thagard, come ha
ricordato Lorenzo Magnani, intende rendere conto di un problema epistemologico classico: individuare i criteri in base ai quali una
teoria è ritenuta preferibile a un’altra.
A partire dagli anni Sessanta, si è posta
l’alternativa tra confrontabilità e incommensurabilità di teorie scientifiche concorrenti. Optando per la seconda tesi, come ha
fatto per esempio Thomas Kuhn, si pone il
problema di far ricorso, nel dar conto del
prevalere di una teoria scientifica rispetto a
un’altra, a motivazioni inerenti al contesto
storico. Questa impostazione, ha rilevato
Magnani, è stata ben accetta nella cultura
italiana, grazie all’impronta storicista che
l’ha permeata, mentre l’impostazione strutturale, di ascendenza neopositivista, è invece passata in secondo piano. Dalla tesi dell’incommensurabilità delle teorie scientifiche, e dalla conseguente apertura alla dimensione “storica” (non estranea neppure alla
prospettiva di Popper), deriva l’impostazione di Feyerabend, che rappresenta la crisi
dell’idea della razionalità nella scoperta scientifica. Alla restaurazione di una tale idea
all’interno della “logica della scoperta scientifica” può essere funzionale l’utilizzazione
di un programma computazionale che, nel
momento della decisione fra due teorie confliggenti, consideri “olisticamente” un gran
numero di possibilità esplicative, conseguenze e presupposti di ciascuna. In altri termini,
il testo di Thagard tenta di restituire un
contenuto razionale alla scoperta e alla capacità esplicativa delle teorie scientifiche.
Nel suo intervento, Mario Stefanini ha
sottolineato il valore della possibilità di
analizzare problemi epistemologici attraverso strumenti computazionali. La questione filosofica verte sulla rappresentabilità del ragionamento scientifico, ovvero
sull’analizzabilità dei modelli di ragionamento. Thagard opera in questa direzione,
quando prende in esame il procedimento
inferenziale dell’abduzione. Gianni degli
Antoni ha invece sottolineato l’esigenza di
collegare la riflessione epistemologica allo
sviluppo della ricerca scientifica. Che lo
sviluppo scientifico provochi delle rivoluzioni concettuali, non significa necessariamente mettere in “crisi” una disciplina scientifica; la “crisi” pertiene, più propriamente,
alla riflessione epistemologica. Il panorama
della riflessione scientifica odierna, ha osservato degli Antoni, va stravolgendosi attraverso la ridefinizione dei campi disciplinari, nonché attraverso l’irrompere di una
componente “etica” nelle analisi di ciascuna
disciplina. In tal senso, la novità della concezione di Thagard sta appunto nell’utilizzo
dell’intelligenza artificiale per spiegare il
rapporto fra la dimensione dello “scientifico” e quella del “non scientifico”. F.C.
53
Presso la sezione filosofico-teorica del Dipartimento di filosofia dell’Università di
Pavia è stato recentemente attivato il Laboratorio di Filosofia Computazionale. Al
suo direttore, Lorenzo Magnani, ha rivolto alcune domande Flavio Cassinari.
D. La filosofia computazionale, che si colloca nello spazio dello studio dei sistemi
intelligenti nella relazione interdisciplinare tra filosofia, logica, intelligenza artificiale e scienze cognitive, ha conosciuto,
negli Stati Uniti, uno sviluppo rilevante sia
per pubblicazioni che per attività universitaria. Il Laboratorio di Filosofia Computazionale di Pavia è il primo in Italia e uno dei
primi in Europa. Professor Magnani, quali
sono gli obiettivi che questo indirizzo di
ricerca si pone?
R. L’obiettivo più generale della filosofia
computazionale consiste nel costruire nuovi modelli e programmi per la selezione e la
valutazione delle ipotesi nell’ambito della
ricerca scientifica, grazie ai metodi e ai
concetti dell’intelligenza artificiale. La filosofia computazionale affronta, tra gli altri, problemi inerenti al rapporto tra scoperta e spiegazione scientifica, al ruolo dell’analogia, alla questione dell’evoluzione
dei concetti. Viene in particolare presa in
considerazione la struttura epistemologica
delle scoperte scientifiche e del ragionamento diagnostico, attraverso l’analisi di
alcuni programmi particolari, finalizzati
alla diagnosi medica.
Su un altro versante, la filosofia computazionale si occupa tanto dell’analisi dei sistemi esperti relativamente alla questione
dell’abduzione, quanto dell’elaborazione
di programmi computazionali prototipali,
collegati ai problemi epistemologici e logici individuati. I metodi computazionali del
problem solving e della scoperta forniscono un’alternativa, rispetto ai metodi della
logica formale, nell’analisi di molti problemi epistemologici. Per quanto riguarda il
problema della giustificazione e della scelta fra teorie rivali, occorre rispondere a
questioni quali la possibilità dell’accadere
delle “rivoluzioni concettuali” (cioè della
sostituzione, in ambito scientifico, di un
sistema concettuale con un altro), nonché
di un eventuale loro carattere razionale. In
questa prospettiva, la ricerca condotta dal
Laboratorio di Filosofia Computazionale
di Pavia, istituito dal Dipartimento di Filosofia dell’Università nel dicembre del 1993,
si svolge parallelamente a quella del Laboratorio di Scienze Cognitive, già attivo
presso l’Istituto di Psicologia della Facoltà
di Lettere e Filosofia.
D. C’è dunque il tentativo di ricostruzione,
mediante l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale, dei processi che presiedono alla logica della scoperta scientifica?
R. Non solo. L’attività si indirizza non
esclusivamente all’opera di ricostruzione
di processi cognitivi, che hanno già dato
luogo a risultati, ma all’elaborazione di
sistemi in grado di estrinsecare una capaci-
CONVEGNI E SEMINARI
tà previsionale. In concreto, grazie alle
ricerche sviluppate nell’ambito della filosofia computazionale, negli Stati Uniti sono
stati messi a punto programmi finalizzati
alla diagnostica internistica che, opportunamente caricati di dati sintomali, hanno
dimostrato capacità previsionale pari a quella di un “medico esperto”. In effetti, fino a
oggi non sembra legittimo sostenere che
siano stati elaborati programmi computazionali in grado di produrre nuove teorie;
questo però è l’obiettivo, dal momento che
la costruzione di nuove teorie rappresenta
il grado più elevato di scoperta scientifica.
D. In questa prospettiva, però, l’approccio
della filosofia computazionale esorbita
dall’esame di casi di scoperta scientifica e
sembra voler proporre una teoria generale
a livello non solo epistemologico.
R. Certo! La nozione stessa di explanatory
coherence, sulla quale fa perno il progetto
di filosofia computazionale che intendiamo sviluppare nel nostro laboratorio, implica una prospettiva olistica, in quanto la
“coerenza esplicativa”, che costituisce il
criterio di decisione fra teorie confliggenti,
non si pone sul livello di un “evento particolare” (nozione, come si sa, già di per sé
problematica in epistemologia), bensì a un
livello superiore, e più globale. La teoria
della explanatory coherence, proposta dallo statunitense Paul Thagard, intende illustrare la “coerenza” o “incoerenza” di
un’ipotesi scientifica, in relazione a caratteristiche e proprietà “esplicative” della
stessa, nei confronti di un’evidenza empirica. In tale prospettiva, una teoria scientifica (intesa come insieme di ipotesi che
spiegano evidenze empiriche) viene considerata migliore di un’altra quando gode,
complessivamente, di una maggiore explanatory coherence.
Va sottolineato che la questione messa in
gioco dalla nozione di “coerenza esplicativa” investe tanto l’accettazione o il rifiuto
di ipotesi nell’ambito delle teorie scientifiche, quanto le procedure di decisione della
razionalità quotidiana. L’inferenza che
porta a scegliere la spiegazione più efficace
nella valutazione di differenti teorie, o differenti ipotesi, coinvolge un insieme dinamico di criteri, caratterizzati in modo multidimensionale. Per esempio, se una teoria
scientifica è più semplice, e spiega più dati
significativi di quanto non facciano le teorie concorrenti, può essere accettata come
la spiegazione più efficace. Questo tipo di
inferenza è certo quella coinvolta nella
procedura di tipo diagnostico, dove l’obiettivo consiste nel selezionare la spiegazione
migliore (la diagnosi più efficace) nell’ambito di una gamma predeterminata di ipotesi diagnostiche. La fase preliminare del
progetto relativo a un’attività di filosofia
computazionale è dunque dedicata allo studio di una teoria generale della explanatory
coherence nella accettazione e nella eliminazione delle ipotesi, sia nel campo delle
teorie scientifiche, sia nel ragionamento
comune o esperto.
D. Esiste una connessione fra il concetto di
inferenza chiamato in causa dalla nozione
di explanatory coherence e le questioni
tradizionalmente trattate dalla filosofia?
R. La risposta è affermativa, perché l’analisi relativa alla nozione di explanatory
coherence appare strettamente collegata a
quella riguardante lo status cognitivo del
ragionamento e della conoscenza, nonché
a quella del problema della abduzione sul
piano epistemologico. A questo proposito,
credo si possano individuare due concetti
di abduzione. Il primo è quello individuato
dal filosofo americano Charles Sanders
Peirce, che interpreta l’abduzione come
una procedura inferenziale, e la considera
come il processo di “creazione” di nuove
ipotesi scientifiche. Nell’ambito del ragionamento diagnostico ci si imbatte però in
una seconda tipologia di abduzione, il cui
grado di creatività appare, in certo senso,
inferiore: l’ “abduzione selettiva”. Nella
diagnosi è infatti sufficiente giungere a
“scegliere”, tra molte altre, un’ipotesi diagnostica, selezionandola all’interno di una
casistica, fornita dalla scienza medica.
Il problema della scelta e della valutazione
delle ipotesi riveste, in effetti, un ruolo
centrale nel campo degli studi sull’utilizzo
dell’intelligenza artificiale nel caso del ragionamento diagnostico; il concetto di abduzione ha comunque da sempre indicato, nella tradizione filosofica ed epistemologica, proprio la situazione di generazione
e di valutazione delle ipotesi. In altri termini, il concetto di abduzione ha sempre rappresentato, nella riflessione filosofica “tradizionale”, la via dell’inferenza verso la
“spiegazione più efficace”.
Il confronto tra le culture
Negli ultimi due anni di attività (ottobre 1992- maggio 1994) il Centro
Culturale della Fondazione San Carlo di Modena ha intrapreso una ricerca sul problema dell’incontro,
dello scontro e del confronto fra le
culture che si è articolata in giornate
di studio e cicli di lezioni. In questo
contesto si è svolto, dall’ottobre
1993 al maggio 1994, un ciclo di
lezioni dal titolo: “LA PROVA DELLO
STRANIERO. FIGURE PER IL CONFRONTO TRA
LE CULTURE”, con la partecipazione di
Romano Màdera, Francesco Remotti,
Giovanni Filoramo, Pierre Rosanvallon, Francisco Jarauta, Simonetta Tabboni, Enrico Pozzi, Alessandro Pizzorno, Mary Douglas, Franco Cassano.
La ricerca sul confronto tra le culture ha
preso avvio con una giornata di studio,
tenutasi il 16 ottobre 1992, dal titolo: “La
comprensione dell’altro. Premesse filosofiche del confronto tra le culture”, a cui
hanno partecipato: Armando Rigobello,
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Carlo Sini, Salvatore Natoli, Sergio Moravia. In questa giornata di studio si sono
voluti ricostruire e discutere i principali
orientamenti presenti nella filosofia contemporanea sul problema della comprensione dell’altro, dalla filosofia della differenza all’ermeneutica, dalla fenomenologia alla filosofia analitica, al fine di scoprire se la riflessione filosofica possa offrire
qualche strumento, qualche base su cui
avviare, eventualmente, un confronto fra
le culture.
A questa prima iniziativa ha fatto seguito
un ciclo di lezioni, svoltosi tra il novembre
1992 e il maggio 1993, sul tema: “Questioni del tradurre. Traducibilità e intraducibilità di linguaggi, culture e forme di vita”
che ha visto la partecipazione Emilio Mattioli, Rosaria Egidi, Simona Argentieri,
Diego Marconi, Davide Sparti, Goffredo
Bartocci, Alessandro Simonicca, Steven
Lukes, Clifford Geertz. Scopo di ciclo di
lezioni è stato individuare possibili criteri
coi quali commisurare il noto e l’ignoto
attraverso l’analisi di alcuni grandi dibattiti che hanno investito parallelamente settori diversi del sapere contemporaneo,
come l’estetica, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio e l’etica. Dal piano teorico, su cui è avanzata questa prima fase
dell’indagine sul confronto tra le culture,
il ciclo si è spostato su un piano più direttamente connesso con la dimensione empirica, interrogando da una parte le scienze
sociali, in particolare l’antropologia, capace di evidenziare la dimensione propriamente interpretativa dell’agire e il carattere simbolico delle pratiche umane associate, dall’altra la psicanalisi, impegnata a
scoprire se la pluralità delle lingue sia una
ricchezza o una tara, e l’etnopsichiatria,
volta a trovare nel vissuto emotivo un
nuovo canale per la comunicazione tra
mondi diversi.
La “prova dello straniero” è stato il tema
che ha caratterizzato il secondo ciclo di
lezioni. Lo “straniero”, infatti, da sempre
oggetto di un atteggiamento ambivalente,
insieme di fascino e repulsione, interesse e
chiusura, rappresenta una sfida a tutto campo per la società in cui si inserisce. La sua
presenza mette alla prova tanto il sistema
della nostra convivenza civile quanto il
sistema concettuale e di credenze con il
quale definiamo la nostra cultura e la nostra identità, misurando tanto il grado di
identificazione collettiva, quanto la capacità di trasformazione interna. All’interno
di questo contesto si sono analizzati figure
e concetti dello straniero attraverso l’esame di esempi provenienti dall’antichità,
dalle società di interesse etnografico, dalla
riflessione che la cultura occidentale ha
prodotto sull’alterità, al suo interno e al
suo esterno.
Romano Màdera (“L’ombra dello straniero”) ha rintracciato lo straniero nell’immagine del mondo, del divino, dell’anima e della persona. In un mondo apparentemente privo di confini, il “pianeta
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di tutti”, si assiste, nelle diverse società, a
un ripiegamento sulle appartenenze etnico-linguistiche e religiose. Le ragioni di
questo paradosso sono da cercare, secondo Màdera, nelle dinamiche del capitalismo globale. In particolare ciò si spiega
come reazione alla condizione generale di
straniamento che risulta da una valorizzazione della persona non come individualità concreta, ma come uomo universale
astratto. Con il capitalismo globale si è
anche realizzata la purificazione del sacro
prevista dal programma platonico: il dominio dell’astratto ha cacciato il divino
dalla vita sociale; ma esso ora si ripresenta
come dio straniero (ad esempio l’islamismo). Nell’immagine dell’anima, che ci
consegna la psicologia del profondo, scopriamo dentro di noi la figura dello straniero, di cui ci liberiamo o proiettandone i
tratti sull’altro, l’immigrato di colore, oppure dipingendo di bianco lo straniero
esterno per non riconoscere lo straniero
che è in noi.
Facendo un passo indietro, Giovanni
Filoramo (“Pellegrino, straniero, senza
patria. Figure dell’estraneità al mondo
nel Cristianesimo antico”) ha descritto
tre figure che, nei sec. I-V d. C., hanno
incarnato l’esperienza di straniero del
cristiano: il pellegrino, straniero perché
ha la sua vera patria nella città celeste
ma - a differenza dello gnostico e dell’anacoreta - vive nel mondo in cui è solo
di passaggio e, senza lasciarsene assimilare, segue le sue leggi; lo gnostico,
straniero per definizione, al di sopra del
mondo perché viene da un mondo trascendente, per il quale il mondo rappresenta una prigione, ma anche qualcosa di
ostile, in quanto creato da un dio malvagio, l’anacoreta, colui che, per raggiungere il suo scopo, deve scegliere continuamente di estraniarsi dal mondo e,
facendo del suo esilio volontario una
condizione permanente, vive da “senza
patria”. Da una prospettiva opposta,
un’altra tradizione religiosa, quella ebraica, è stata interrogata sul tema dello
straniero: non più il punto di vista dell’uomo di fede in quanto straniero, ma
dello straniero in quanto oggetto dei comportamenti e degli atteggiamenti degli
uomini di fede. A questo proposito, Mary
Douglas (“Immigrati e stranieri. L’idea
di straniero nella Bibbia”) ha fatto notare come le prescrizioni esplicite e generose del Levitico e del libro dei Numeri
(noti come “Libri Sacerdotali”) sono in
contrasto con l’assunzione che la religione basata su questi libri sacri sia fondata su un’esclusione etnica. Douglas ha
preso in considerazione la relazione fra
le storie attribuite a Esdra e Neemia,
risalenti al periodo del Secondo Tempio,
quando i “Libri Sacerdotali” ricevettero
la loro forma definitiva. In quell’epoca
(V sec. a.C.) gli esiliati ebrei, di ritorno
da Babilonia, volevano ottenere le restituzioni delle terre di famiglia. Esdra e
Neemia descrivono alcune brutali discriminazioni etniche commesse nel
nome della religione, ma non c’è traccia
nei “libri Sacerdotali” del fatto che la
loro legislazione sia sostenuta da una
dottrina religiosa.
La prospettiva antropologica, affrontata
da Francesco Remotti (“Cannibali, schiavi
e sovrani. Il ricorso allo straniero in una
prospettiva antropologica”), ha preso in
considerazione, tra le forme di ricorso
all’alterità, la figura dello schiavo, oggetto
di sfruttamento culturale, oltre che economico, quella del sovrano, come nel caso
dell’Africa precoloniale, e quella del cannibale, figura capace di mettere a nudo
l’intreccio tra alterità e identità e dunque il
carattere artificioso di qualsiasi identità. Il
cannibalismo, ha osservato Remotti, dimostra che il ricorso dell’alterità si spiega
non solo in base a un esigenza di identificazione, che risolve il rapporto con l’altro
nell’opposizione noi-loro, ma anche in base
a un’esigenza di alterazione, che trasforma il rapporto in assimilazione.
Degli aspetti giuridico-politici relativi al
problema dell’estensione dei diritti civili e
politici agli stranieri che si inseriscono in
comunità politiche fortemente strutturate
si è occupato Pierre Rosanvallon (“Straniero e cittadino. I confini della politica”),
facendo riferimento alla sua recente ricerca su La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia
(Anabasi, Milano 1994). In particolare,
Rosanvallon si è soffermato sulla questione del diritto di voto agli stranieri nelle
elezioni locali, rilevando i rischi e le deficienze della distinzione tra una cittadinanza locale e una cittadinanza nazionale, e
sul problema dell’inserimento degli emigranti nel sistema distributivo, che egli
pensa debba essere discusso alla luce dell’avvenuto passaggio dello Stato-provvidenza da meccanismo assicurativo a Stato
di solidarietà. Con Francisco Jarauta
(“Abitare la frontiera. Riflessioni su meticciato e interculturalità”) la discussione
si è spostata dagli assetti giuridico-politici
all’assetto sociale. Jarauta ha constatato
l’emergenza di una nuova situazione, caratterizzata da processi di meticciato, nomadismo e diverse forme di incrocio culturale e, in base a ciò, ha individuato i
compiti dell’intellettuale nell’elaborazione di nuovi concetti per pensare l’alterità,
una geofilosofia (alla Deleuze-Guattari) e
una nuova cartografia.
Muovendo da un’analisi delle figure dello
straniero in Simmel e in Elias, Simonetta
Tabboni (“Lo straniero e la modernità.
Dall’uguaglianza del diritto al riconoscimento della differenza”) ha tracciato il
cambiamento del rapporto tra straniero e
modernità. Lo straniero è stato una figura
paradigmatica della modernità: immagine
dello sradicamento, mercante per eccellenza, ha minato le basi della società tradizionale, rivendicando la parità del diritto
e parlando il linguaggio universalista della
55
ragione contro il linguaggio dell’appartenenza. Oggi lo straniero rivendica il riconoscimento della differenza parlando il
linguaggio dell’etnicità, che di conseguenza, ha osservato Tabboni, può fungere, sul
piano pragmatico, da mediatore delle due
anime antitetiche della modernità: il richiamo alla ragione e il richiamo all’identità. Con un atteggiamento simile Alessandro Pizzorno (“Usi cognitivi e normativi della metafora dello straniero”) si è
dichiarato contrario a una soluzione in
astratto del problema morale dello straniero e vede in una soluzione “locale”, analoga a quella data da Quine sul piano della
teoria della conoscenza, il modo per evitare i rischi di una soluzione di principio: reprimere la specifica identità dello
straniero sotto il peso di regole tratte da
una concezione universalistica dell’essere umano. Lo straniero come scopritore di individualità è invece ciò che ha
proposto Pizzorno riguardo al problema
di capire lo straniero.
Enrico Pozzi (“Il traditore come straniero interno. Psicanalisi di una condizione-limite”) ha fornito una definizione formale del traditore come un terzo,
che abita sul confine tra due gruppi. Da
questa definizione il traditore risulta essere una delle grandi figure dello straniero interno, il viandante potenziale di
Simmel, colui che, del tutto uguale al
gruppo, salvo che per un aspetto, non
potrebbe tradire se non fosse riconosciuto come suo membro a pieno titolo. Si
tratta di una figura che svolge una propria funzione sociale: la presenza di una
differenza, infatti, è lo stimolo attraverso il quale il gruppo ristabilisce la propria coesione. La nozione di confine, già
chiamata in causa nella riflessione di
Jarauta su meticciato e interculturalità e
in quella di Pozzi sulla figura del traditore, è stata oggetto di ulteriori considerazioni da parte di Franco Cassano (“Il
confine e lo straniero”). Egli, in particolare, si è domandato come è possibile
che l’estraneità non si trasformi in ostilità, ma diventi occasione di conoscenza
a partire dal carattere di ambivalenza
che contraddistingue il confine. Infatti,
se da una parte il confine è la zona in cui
due comunità si separano, dall’altra la
linea di confine è anche quella in cui due
paesi si toccano, l’insieme dei punti che
appartengono ad entrambi; dunque, un
luogo d’incontro.
Il complesso degli interventi verrà raccolto in forma rielaborata e pubblicato
nella collana «Punti critici» della Fondazione Collegio San Carlo entro il primo semestre del 1995. F.B.
CONVEGNI E SEMINARI
Scritture del pensiero
Con il titolo: “SCRITTURE
DEL PENSIERO :
LINGUAGGI A CONFRONTO ”, l’I.S.U. di Mila-
no, in collaborazione con la rivista «autaut», ha promosso, tra l’11 maggio e il
1 giugno 1994, un ciclo di lezioni che fa
seguito a quello svoltosi nel 1993, dedicato ai “Linguaggi della filosofia”.
Attraverso gli interventi di Giancarlo
Majorino, Giampiero Comolli, Giuseppe Pontiggia, Fausto Petrella, Pier Aldo
Rovatti Paolo Flores d’Arcais e Alessandro Dal Lago, questo secondo ciclo
ha proposto un approfondimento della ricerca sulla scrittura attraverso un
confronto tra il linguaggio della poesia, della narrazione, della psicoanalisi
e del discorso politico.
La questione della scrittura è certamente
indistinguibile da quella del pensiero, ma
spesso il discorso filosofico si è costituito,
in opposizione ad altri tipi di discorso, in
uno scarto con il mito, il poetico, l’immaginario. Intervenendo sul “linguaggio della
poesia”, Giancarlo Majorino ha parlato
della struttura in sé conchiusa, autoreferente della poesia. Nel suo rimando a sé, la
parola poetica vanifica il suo rapporto con
l’altro, il referente, perdendo la funzione
denotativa. Ciò implica una circolarità dell’atto di lettura che deve percorre a ritroso
il cammino della poesia che si fa strada
nelle parole, per poterne cogliere l’autoreferenzialità. Riprendendo il tema del “comunicare sé” della poesia, Giampiero
Comolli ha posto l’interrogativo sul destinatario di tale “mettere in comune”, sul
“tu” al quale la poesia, mentre comunica, si
rivolge. Richiamando le analisi di Levinás
sull’intersoggettività e sottolineando
l’aspetto della “materialità” della parola
poetica, Comolli ha ipotizzato che l’ “altro”, a cui la poesia comunica, sia il “tu
corporeo”. A questo proposito Majorino si
è trovato d’accordo nel sottolineare l’importanza della “corporeità”, propria del linguaggio poetico, presente nella sonorità
della parola. Nella poesia di Dante, dove il
“vedere” diviene “visione”, il suono della
parola, ha osservato Majorino, esprime un
“retrosenso” - in opposizione a quello denotativo dominante - che è la trascrizione
della corporeità del poeta, trascrizione cioè
di quell’insieme di vedere e immaginare
che sono già potenzialmente uno scrivere.
Per Giuseppe Pontiggia, intervenuto insieme a Carlo Sini sul “linguaggio della
prosa”, un testo letterario, poetico o filosofico non può venir riassunto, parafrasato o
concettualizzato senza venir anche necessariamente “tradito”. Citando il Fedro, dove
Platone parla del tradimento dell’oralità
da parte della scrittura, Pontiggia ha rilevato come la concettualizzazione di un qualunque testo, ogni forma di sinossi, rappresenti un tradimento di secondo grado. Non
esiste insomma una scrittura neutra, denotativa: il pensiero nasce e si costruisce nelle
pieghe di ciascun testo e solo in esso. Sini
ha invece distinto il testo poetico-letterario
da quello filosofico. Le antiche “Dossografie” (manuali ante litteram), mostrano che
fin dalle origini il pensiero filosofico ha
potuto essere ritrascritto, schematizzato e
riassunto in un testo, senza per questo venir
necessariamente tradito. Il filosofo, ha fatto notare Sini, non si realizza nell’opera
proprio perché scrive in un’«assenza costitutiva di opera»: l’opera non suscita interesse in sé, ma solo in quanto rappresenta la
mise en scene del pensiero.
Interrogandosi su come la scrittura affronta
lo psichico, Fausto Petrella è intervenuto
sul “linguaggio della psicoanalisi”. Il punto di riferimento obbligato è stata l’opera di
Freud: undici volumi caratterizzati da uno
stile analogico e ricco di metafore, in grado
di rappresentare in “visioni dinamiche” la
configurazione dello psichico. In particolare, Petrella ha condotto la sua indagine
sulla “metafora archeologica”, come rappresentazione del lavoro di analisi che tien
conto dell’assunto teorico della nuova scienza dello psichico, impedendo che la si limiti ad una «descrizione morfologica della
lesione». Nel saggio sulla Gradiva di Jensen, così come ne Il disagio della civiltà,
Freud utilizza, come metafora dell’inconscio, l’immagine delle rovine che “si animano e parlano”, dipendentemente dal nostro modo di interrogarle.
Riprendendo da Heidegger l’affermazione: «I filosofi devono riconoscere che
non sono così versati nel dire», Pier
Aldo Rovatti ha sottolineato come la
metafora, distanziandosi dalla letteralità
e lungi dall’essere un viraggio della parola filosofica verso la parola poetica,
evita al pensiero di “arrestarsi” nella
parola; la metafora consente al pensiero
di dirsi e di eclissarsi. La psicoanalisi, ha
osservato Rovatti, suggerendo alla filosofia un “più di metafore”, può consentire al pensiero di superare la sua indigenza, anche se la metafora psicoanalitica, non avendo alcun “proprio” a cui riferirsi, è per sua stessa essenza “designificativa”. Se però la psicoanalisi dà importanza
a ciò da cui il linguaggio nasce, è allora il
“destino” stesso del linguaggio, in uno con
quello dell’essere, il non potervi tornare.
Intervenendo sul “linguaggio della politica”, a latere dal cammino di indagine
seguito dai precedenti interventi, Paolo
Flores d’Arcais e Alessandro Dal Lago
hanno indicato nel pensiero di Albert
Camus e Hannah Arendt, una possibile
via d’uscita dall’attuale “crisi d’identità”
della sinistra. In quanto forme di espressione di un pensiero esistenzialistico-libertario, che fa riferimento al “dover essere” e ai valori, questi autori devono essere
considerati come una fonte d’ispirazione
preziosa per il pensiero politico della sinistra, in alternativa a quei territori culturalmente estranei del Neo-utilitarismo o della contrapposizione “amico-nemico” proposta da Schmitt. M.C.
56
Individuo e tradizione
in Popper
Con il titolo “Individuo, critica e tradizione in Karl Popper”, Giovanni De
Crescenzo ha tenuto dal 6 all’8 aprile
1994, nella sede dell’Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici di Napoli, un
seminario che, muovendo dall’analisi
della teoria della tradizione elaborata
da Popper negli anni ’30 e ’40, ha
affrontato il problema del rapporto
tra l’individuo, inteso come soggetto
razionale titolare di un “atteggiamento critico”, e la tradizione stessa.
Nell’analisi popperiana del rapporto individuo/tradizione, Giovanni De Crescenzo individua tre direttive di ricerca
incompatibili fra loro. Secondo la prima, che ha il suo apice nella conferenza
di Oxford del 1948, “Per una teoria razionale della tradizione”, l’ “atteggiamento critico” dell’individuo non può
dar luogo ad una sua completa liberazione dalla tradizione: invero il cosiddetto
“processo di liberazione”, per il Popper
degli anni ’40, è soltanto un passaggio
da una tradizione all’altra. Nell’interazione tra individuo e tradizione, questa
prima impostazione riconosce il vincolo
inevitabile che lega la critica razionale
della conoscenza alla tradizione, ma interpreta questo vincolo a vantaggio dell’individuo e della sua critica, che sembra poter scegliere nella cultura e la
storia ciò che più gli aggrada; il rapporto
individuo/tradizione risulta essere così
assurdamente squilibrato in senso decisionistico e convenzionalistico in favore
dell’individuo.
Ora, ha osservato De Crescenzo, dalla
prima direttiva di ricerca, in cui l’individuo, come abbiamo appena visto, sopravanza sempre la tradizione, Popper passa,
nel corso degli anni ’60, alla posizione
esattamente opposta, dove la tradizione,
intesa come “Mondo 3”, domina e addirittura forma l’individuo. Popper propone
un’interpretazione interazionistica e relazionale dell’autonomia del “Mondo 3”,
affermando che tale autonomia non è assoluta, ma relativa, poiché il “Mondo 3” non
fa altro che retroagire sugli individui che
lo hanno generato, e poiché questi ultimi
continuano ad agire, a loro volta, sul “Mondo 3”, sia modificando in qualche modo gli
oggetti in esso già esistenti, sia generando
altre teorie. Quest’ultima impostazione,
ha obiettato De Crescenzo, viene tuttavia
contraddetta dal fatto che se gli oggetti del
“Mondo 3” esistono ed agiscono indipendentemente dagli uomini che li generano e
li conoscono, questi ultimi, invece, non
potrebbero esistere come soggetti razionali e come persone senza il “Mondo 3”.
Dovendo infatti spiegare come e perché
l’individuo si personalizza, Popper si appella all’apprendimento degli oggetti del
“Mondo 3” che vede tuttavia l’individuo,
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rispetto al “Mondo 3”, in una posizione
contemplativa e non selettiva, ricettiva e
non costruttiva.
Ma se è vero, ha notato De Crescenzo, che
l’individuo non può prescindere dalla cultura e dalla società per realizzarsi come
persona, Popper non vede che l’individuo,
personalizzandosi, non cessa di vivere; il
soggetto che si personalizza è infatti vivente, biopsicologico. Inoltre, la cultura
non fornisce univocità alla direttiva attraverso la quale l’individuo si personalizza,
ma questi, in quanto soggetto agente, sceglie fra le varietà di immagini offerte dalla
cultura e dalla tradizione.
De Crescenzo ha infine individuato una
“terza direttiva” nell’approccio popperiano allo studio dell’interazione individuo/
tradizione, che restituisce al primo la sua
iniziativa critica nei confronti della seconda, di cui viene riconosciuta però l’intrinseca storicità e problematicità. Tale direttiva esclude sia l’ipotesi che la tradizione
sia un semplice campo di scelta, una cornice in cui l’individuo esercita la sua critica
razionale, sia l’ipotesi per la quale la tradizione stessa è una componente essenziale
del “Mondo 3”, e come tale domina l’individuo che è alle prese con essa.
La “terza direttiva” è inaugurata da Popper
in un importante saggio del ’76: Del mito
della cornice, che è una critica del relativismo culturale e dello storicismo estremo.
Polemizzando con i relativisti, anzitutto
con Kuhn, ma anche con Wolff e Quine,
Popper, ha rilevato De Crescenzo, non
esita a riconoscere nella loro posizione un
“nucleo di verità”. Egli infatti ammette
che: 1) qualsiasi critica o teoria razionale
del soggetto è inserita in una tradizione; il
confronto fra le teorie può essere quindi,
se non impossibile, certo difficile e problematico; 2) la traduzione di una teoria in
un’altra inserita in una diversa cornice o
tradizione, una volta realizzata, risulta per
lo più parziale e imprecisa, e in definitiva
appena soddisfacente. Ma questo non
esclude, secondo Popper, che l’esercizio
della critica, la conoscenza e la discussione razionale delle tradizioni altrui, siano
possibili. Popper ritiene che l’individuo
possa, sia pure gradualmente, pervenire ad
un punto di vista ugualmente esterno alla
sua cornice e tradizione come ad una qualsiasi altra, e stabilire in tal modo quale
delle due abbia conseguenze preferibili. In
questo egli non si rende conto, ha commentato De Crescenzo, che proprio un’iniziativa del genere è preclusa all’individuo,
che è legato alla sua tradizione da innumerevoli e inconsapevoli vincoli che egli può
controllare e circoscrivere solo in parte,
ma non abolire; la tradizione infatti agisce
nell’individuo stesso secondo la precomprensione. La tradizione resta quindi immanente in noi, anche quando facciamo
lavoro critico. Ciò che soltanto è possibile
all’individuo, ha concluso De Crescenzo,
è consapevolizzare alcune componenti
della propria società-cultura per confron-
tarle con singole componenti di altre società-cultura anche lontane dalla sua e
quindi niente affatto precomprese, e così
pervenire ad una certa distanza critica,
sempre finita e fluida, dalle prime e dalle
seconde. L.M.
Su nazione e nazionalismo
Tra gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi di quello attuale si è affermata una storiografia che ha imposto
un’interpretazione falsata del passato
con il solo scopo di allontanare indietro nel tempo le radici dei moderni
Stati nazionali. Alla luce di queste considerazioni Alberto Cabella ha tenuto
dal 7 al 11 marzo 1994, nella sede
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario su “L’IDEA
DI NAZIONE E IL NAZIONALISMO ”.
Il concetto di nazione, ha rilevato Alberto
Cabella, e gli altri ad esso connessi, a
cominciare da quello di “nazionalismo”,
nascono e acquistano il loro senso odierno
solo con la Rivoluzione francese e i moti
ottocenteschi. Lo Stato moderno coincide,
nella sua fase iniziale, nonché sostanziale,
con la costituzione di principati e monarchie assolute sulle ceneri degli imperi feudali; nasce come Stato patrimoniale, ossia
come proprietà del monarca, i cui abitanti
sono ancora “sudditi” che pagano imposte,
combattono e muoiono per il re. la Rivoluzione del ’93 renderà questi sudditi “cittadini”, e i loro sacrifici saranno dedicati non
al re, ma al Paese.
Già gli intellettuali illuministi si consideravano “cittadini del mondo”, invertendo la
scala di valori propria del Medioevo, che
vedeva al primo posto l’essere cristiani, al
secondo l’appartenenza a un microcosmo
feudale, e solo all’ultimo posto l’essere
nazionale. Nel ‘700, al primo posto vi è
l’umanità, senza distinzioni di fede, al secondo l’Europa, al terzo la patria e, infine,
la famiglia. La Rivoluzione francese, ha
rilevato Cabella, mobilitando tutto il popolo, crea lo Stato nazionale con i suoi cittadini, comportando anche una sorta di rivoluzione culturale nei campi istituzionale,
giuridico, politico, che portano a ulteriori
nazionalizzazioni: innanzitutto quelle della scuola e dell’esercito, con l’istruzione
pubblica obbligatoria gratuita e la leva di
massa; poi quella della Chiesa, con la requisizione dei beni ecclesiastici. Nasce
anche una religione civile, che secolarizza
espressioni propriamente religiose, e la
nazione viene ad acquisire connotazioni
individualistiche, divendendo “persona”
dotata di “anima”, di “coscienza”.
Ma se si può affermare che il concetto di
nazione nasce in ambito democratico, anzi
rivoluzionario, bisogna poi constatare, ha
osservato Cabella, come controrivoluzio57
ne e Restaurazione se ne impadroniscano
attraverso la mediazione di un personaggio
bifronte come Napoleone.
Due sono i fondamentali referenti culturali
chiamati in causa da Cabella: Rousseau e
Fichte. Rousseau è il primo a rompere
veramente con la concezione patrimoniale
dello Stato, opponendosi all’assolutismo,
al giusnaturalismo, e proponendo un nuovo contrattualismo: una condizione in cui
ciascuno, unendosi a tutti, ubbidisca solo a
se stesso, restando libero; la “volontà generale” sarebbe in tal senso il riflesso delle
singole volontà morali. Resta tuttavia il
problema, ha obiettato Cabella, di come
conciliare gli interessi individuali, garantire l’umanità, evitare degenerazioni totalitarie. Il pensiero di Rousseau si può infatti
considerare all’origine di molte ideologie,
sia della democrazia, ma anche del totalitarismo nazionalista. Tra le opere di Rousseau,
ha aggiunto Cabella, due preludono chiaramente al nazionalismo: Considerazioni sul
governo di Polonia, che mostra la necessità
di formare il carattere nazionale a cominciare dall’istruzione elementare, fornendo
l’idea di “primato” della propria nazione; e
il Saggio sulla costituzione della Corsica,
che afferma un altro postulato nazionalistico, l’autarchia.
Per quanto riguarda Fichte, ha proseguito
Cabella, bisogna innanzitutto considerare
la sua ammirazione per Rousseau e per la
Rivoluzione francese; dall’iniziale cosmopolitismo passerà poi a posizioni schiettamente nazionalistiche, allorché Napoleone
invaderà la Prussia, esprimendo chiaramente motivi ancora impliciti nel pensiero
di Rousseau: innanzitutto, l’affermazione
del primato di un Paese predestinato a fare
da guida politica e culturale agli altri.
Quello francese può essere dunque considerato, secondo Cabella, il primo nazionalismo, a cui fecero seguito ideologie analoghe nei Paesi che subiranno l’occupazione
napoleonica, a cominciare dalla Germania,
dai precursori Herder e Schiller, a Humboldt, Hegel, Novalis, Schlegel, Schelling, A.
Müller, fino a Treitscke, esplicitamente
imperialista, pangermanista, antisemita,
riconosciuto come precursore dai nazionalisti. Intanto, gli anni ’70-’80 vedranno il
trionfo del colonialismo imperialista e il
fallimento del liberismo; tutte le grandi
potenze europee diventano protezioniste:
nasce il nazionalismo economico dei grandi imperi industriali e finanziari. Maurice
Berrès e Claude Marras saranno i maggiori esponenti di questa fase più matura
del nazionalismo francese.
Nella società industriale di massa, ha osservato in conclusione Cabella, l’idea di
nazione è stata spesso (e lo è ancora) intenzionalmente manipolata da chi ha inteso
sfruttare la sfera emotiva, propria di una
fase di rivolgimento sociale, a fini totalitari
e monopolistici; del resto, ha fatto notare
Cabella, l’idea di nazione si è dimostrata un
mezzo indispensabile per la legittimazione
dell’ordine costituito. M.Ga.
CONVEGNI E SEMINARI
due linee di indagine, a seconda che ci si
rivolga a realtà nazionali o a realtà di cui
occorra, invece, apprendere la lingua. In un
caso e nell’altro, si verifica un atteggiamento di fondo che appare di tipo colonialista, dominativo, da parte del cittadino nei
confronti del campagnolo, in un caso, del
civile nei confronti del selvaggio, nell’altro. Il passaggio dall’antropologia alla sociologia, da questo punto di vista, consiste
proprio nel ritenere, da parte del ricercatore, di rivolgersi non a un popolo colonizzato, “selvaggio”, bensì alla propria stessa
realtà sociale.
Si può anche leggere la nascita dell’antropologia come scienza, ha sostenuto Godelier, nel passaggio da un’antropologia “interessata” e strumentale, ma dilettantistica
e narrazionale (quella di missionari e colonizzatori), a una professionale, caratterizzata dalla costruzione, mediante grafici,
della struttura delle relazioni parentali delle civiltà prese in esame. A partire da questa evoluzione dell’antropologia, ha osservato Godelier, si può in concreto verificare
che cosa significhi il superamento dell’eurocentrismo e il decentramento del pensiero occidentale: le circa mille culture, attualmente censite sul pianeta, vengono oggi
ripartite in sette tipologie di struttura parentale, e quella occidentale appare niente
più che come la variante di una di esse, la
tipologia “eschimese”. F.C.
Particolare di recipiente in terra cotta grigia. Nayarit (Messico)
Le frontiere dell’antropologia
Organizzata dall’Associazione internazionale per l’antropologia e il mondo
antico, si è tenuta nel novembre 1993,
presso l’Università degli Studi di Milano, la conferenza di Maurice Godelier
dedicata al tema: “LE FRONTIERE DELL’ANTROPOLOGIA ALLE SOGLIE DEL III MILLENNIO”.
Nel panorama dell’antropologia contemporanea, Maurice Godelier ha rilevato il
delinearsi di una contrapposizione fra due
tendenze. L’una “post-modernista”, attualmente in auge negli Stati Uniti, professa
una forma di scetticismo più o meno marcato, a seconda dei suoi esponenti, nei
confronti della possibilità di conoscere l’
“altro”, cioè l’oggetto dell’indagine antropologica. Questa impostazione, che appare fortemente debitrice alle analisi di Michel Foucault e Jacques Derrida, concepisce l’oggetto dell’indagine come un testo da decostruire, affermando nel con-
tempo che esso, in quanto testo “originario”, al di là delle mediazioni culturali, non
ci è mai dato.
L’altra tendenza dell’antropologia contemporanea, che può essere definita global
approach, prende le mosse dall’assunto
secondo il quale nessuna civiltà è isolata
dalle altre, e nessuna manifestazione di
ciascuna di esse è isolata dal contesto generale del pianeta. Questa tendenza si occupa
soprattutto dei problemi del degrado ambientale e della sua percezione da parte
dell’uomo, nonché dei conflitti interetnici.
Come questione filosoficamente rilevante,
Godelier si è chiesto se effettivamente l’antropologia rappresenti uno strumento di
normalizzazione culturale, da parte dell’Occidente, nei confronti delle altre culture, o se, invece, la riflessione etnologica e
quella antropologica siano riuscite, almeno
nei loro ultimi sviluppi, a decentrare il
pensiero occidentale, dal quale entrambe
pure provengono. Per l’etnologia contemporanea, ha ricordato Godelier, esistono
58
Tra i più importanti antropologi viventi,
Mary Douglas si inserisce nella tradizione
dell’antropologia anglosassone. Sostenitrice del metodo comparativo e della ricostruzione globale della struttura sociale, ha
sviluppato in modo originale l’analisi dei
sistemi simbolici in rapporto alle differenti
società ed ha colto con chiarezza i rischi di
una impostazione eurocentrica. Su queste
tematiche e sulle sue ultime ricerche Franco Sarcinelli ha intervistato Mary Douglas, in occasione di una sua recente conferenza presso la Fondazione Collegio San
Carlo di Modena.
D. Signora Douglas, potrebbe parlarci del
concetto di simboli naturali?
R. Ho scritto un libro, intitolato: I simboli
naturali; sebbene il titolo sia un ossimoro
paradossale, ciò che esprime resta tuttavia
un concetto importante. All’interno di ogni
cultura la gente cerca nella natura un’autorità di quello che dice e così accade che
ogni comunità ha una sua particolare lista
preferita di simboli naturali. La mia convinzione è che non esiste una simbolizzazione naturale, artificiale. Noi abbiamo
uno stesso corpo e stesse esperienze fisiche, che sono espresse in modo differente
in culture differenti; in tal senso il titolo
del mio libro è volutamente ironico. Su
questo penso la stessa cosa di Levi-Strauss,
che evidenzia in ogni società una commistione e una distinzione tra natura e cultura; solo che questa stessa distinzione è
sempre artificiale e differente caso per caso.
CONVEGNI E SEMINARI
D. Per comprendere meglio che cosa significa questa distinzione “caso per caso”,
diventa importante il problema della comparazione tra culture?
R. La comparazione - una seria comparazione che sancisca cosa è dimostrabile e
cosa è rilevante o irrilevante - è faccenda
assai importante ed è molto differente dall’idea di esplicazione. C’è bisogno di solidi
principi per determinare che cosa sia confrontabile; soprattutto, sono necessarie basi
teoriche di comparazione, per cui quando
un antropologo si trova di fronte due tribù
simili, o che vivono nella stessa area, può
applicare la regola del ceteris paribus, dato
che in situazioni abbastanza simili gli elementi differenzianti risultano assai interessanti. Per esempio, in Zaire ho studiato un
popolo che viveva su una sponda di un
fiume e andava a caccia con arco e frecce e
non usavano né reti, né veleno; sull’altra
sponda del fiume viveva un popolo con un
linguaggio molto simile e con un sistema
politico molto più elaborato, poiché vi era
un re. Ho pensato che fosse ovvio e del
tutto necessario istituire la comparazione
tra gli effetti provocati sulle tipologie di
ciascun popolo dai caratteri del suolo, dal
clima, dalla popolazione, dalla povertà,
presente su entrambe le sponde del fiume,
per capire che dove vigeva il sistema politico del re l’organizzazione del lavoro era
differente e vi era meno povertà e dispersione... - questo è il tipo di comparazione
che ritengo che l’antropologia debba fare.
Vi è poi un secondo livello di comparazione, in cui tentiamo di interpretare per
noi stessi gli elementi che abbiamo a
disposizione: è a questo livello che ho
scritto I simboli naturali. Sono rimasta
molto colpita dal fatto che nell’Africa
Occidentale è presente il culto degli antenati e non genealogie di gruppi socialmente riconosciuti come discendenza;
nell’Africa Orientale, invece, vi sono le
classi di età e non è presente alcun culto
degli antenati; infine, nell’Africa Centrale non hanno il culto degli antenati,
ma la stregoneria. Per capire le differenze che vi erano tra diversi tipi di strutture
sociali e la religione che le caratterizzava
ho dovuto fare un’astrazione dalle strutture sociali per elaborare una teoria e con
essa chiarire le relazioni tra religione e
società: ciò ha implicato comparazioni che
hanno richiesto molta attenzione. A questo tipo di lavoro alcuni antropologi non
sono affatto interessati e altri credono che
ciò non abbia alcun interesse - perciò sostengono che le comparazioni sono impossibili e non puntano a un lavoro di comparazione, ma a quello di argomentazione.
D. Dunque, il problema in antropologia è
quello della generalizzazione...
R. Certo, questo è il problema. Ora, nessuna
generalizzazione è impossibile; la generalizzazione è necessaria in ogni cosa. Se hai una
gran quantità di informazioni e non possiedi
Recipiente in legno. Haida (America)
59
una teoria, l’informazione di cui si dispone
rappresenta un “caso da museo”. L’antropologo fa una ricerca molto dettagliata del
modo di vivere in un’intera regione , in ogni
fase storica; ma se non c’è un nesso che
colleghi a noi questa ricerca, essa non è di
nessun interesse e diventa un “caso da museo “.
D. Nel suo studio sui simboli naturali Lei
descrive la questione del rapporto metaforico tra corpo e società. Ha in seguito continuato ad approfondire questo problema?
R. Non ho continuato su questa strada. Ho
pensato al corpo come metafora della società, ma i miei amici e critici mi hanno
fatto notare che è un problema troppo arduo spiegare la scelta di una metafora piuttosto che di un’altra, ossia il procedimento
che porta a scegliere una metafora. Pertanto mi sono concentrata maggiormente sui
meccanismi della vita collettiva; in particolare, il mio interesse per il corpo si è
orientato sul modo di usare il corpo per
accusare le persone. Se qualcuno ha il corpo malato, la cosa interessante è che a
qualcun’altro viene attribuita la colpa (potrebbe essere un capo gerarchico o uno
straniero). Così, il mio lavoro riguardo i
simboli si è spostato in quello di rintracciare le accuse e le colpe in relazione al corpo;
non il corpo come metafora, ma come locus
di attacco, socialmente predisposto, in base
al quale le persone esprimono come regola
ciò che essi si aspettano come esigenze di
altri. E’ un approccio differente rispetto al
CONVEGNI E SEMINARI
corpo metaforico; è un approccio di tipo
più sociologico.
Recentemente ho scritto un saggio con un
giovane medievalista in relazione al fenomeno della lebbra nel XII secolo in Inghilterra e in Francia. Siamo partiti da questo
problema: chi era il lebbroso? Ora, secondo il mio approccio, la lebbra è da considerarsi un attacco: qualcuno viene accusato di
aver contratto la malattia; e questa è un’accusa vera e propria, perché il suo effetto, a
metà del XII secolo in Inghilterra e in
Francia, è tale per cui la persona dichiarata
lebbrosa doveva essere segregato dalla società; non poteva né ricevere, né lasciare in
eredità del denaro; il suo status civile diveniva fortemente controllato; anzi, non aveva un suo status e, se era fortunato, poteva
andare in un lebbrosario, altrimenti finiva
sulla strada. La lebbra era considerata fortemente contagiosa e si pensava che fosse
trasmessa sessualmente - come l’Aids -,
che il lebbroso avesse impulsi sessuali spropositati e che il suo interesse fosse quello di
contaminare il maggior numero di persone
possibile; era quindi una terribile specie di
outsider. All’epoca, sembra che ci sia stata
una vera e propria epidemia: migliaia di
essi vennero messi in edifici appositi; così
che il tipico atto filantropico dell’epoca
divenne quello di costruire nuovi lebbrosari. Tuttavia, resta il fatto che non vi era
alcun mezzo per diagnosticare la lebbra.
Per comprendere il fenomeno della lebbra
occorre un’analisi sociologica o antropologica, che metta a confronto l’atteggiamento rispetto al corpo e alla lebbra in differenti
periodi storici, in Inghilterra e in Francia,
che sono espressione di differenti visioni
culturali. Alla fine del X secolo, prima
delle Crociate e della minaccia dell’Islam,
pochissimi casi di lebbra furono registrati
in Inghilterra e in Francia; la direzione
dell’accusa era diretta sempre verso l’alto un superiore accusato dai suoi subordinati
- ed accadeva che la persona accusata era
oggetto anche di altre accuse - per esempio
di crudeltà verso i sudditi, di appropriazione indebita di denaro, di cattivo governo.
Ma l’accusa principale rimaneva la lebbra
e nel caso di un largo consenso contro
l’accusato, seguiva la sua rimozione dall’incarico. L’accusa di lebbra era dunque
un modo di correggere atti di ingiustizia in
una piccola comunità. Il contrasto consiste
nel fatto che alla fine del XII secolo la
direzione dell’accusa cominciò ad andare
in senso opposto e nessuno più della classe
superiore risultò affetto dalla lebbra, ma
solo le classi povere e i meno abbienti.
La prima, la seconda e la terza Crociata
avevano completamente ribaltato il sistema feudale, gettato i poveri sulla strada ed
eliminato le barriere tra nobiltà e borghesia
con un effetto di grande confusione sociale: si erano diffusi molto denaro e benessere nel paese dopo le Crociate, per cui i
ricchi, invece di dare contributi in denaro ai
poveri, li accusavano di lebbra in modo da
non sentirsi più socialmente responsabili
nei loro confronti, dal momento che la
lebbra era il male ed essi erano peccatori.
L’accusa si era trasformata nella direzione
opposta rispetto a prima e, tuttavia, nessuno sapeva nulla sulla lebbra. Ecco un esempio del mio attuale lavoro sul corpo come
strumento di accusa.
‘Philosophia naturalis’
Nel decennale dell’A.I.S.E. (Associazione Italiana di Studi di Estetica) si è
tenuto a Trento, nei giorni 11 e 12
aprile 1994, il convegno: “SIGNIFICATI E
VALORI DELLA NATURA NEL PENSIERO ESTETI CO D’OCCIDENTE E ORIENTE”, organizzato e
coordinato da Maria Grazia Marchianò, con la collaborazione di Renato
Troncon dell’Università di Trento.
Due le novità proposte al convegno: una
“sezione” dedicata al pensiero orientale e
una di estetica musicale, a testimonianza
del carattere ramificato dell’estetica e della
fecondità delle analogie fra mondi culturali
diversi per lingua, disciplina, civiltà. La
riflessione sull’estetica orientale ha dato
prova della sua variegata geografia e della
sua differenziata topica: l’oriente russo,
l’oriente cinese, l’oriente giapponese...; e
ancora: gli intrecci fra oriente e occidente,
fra epoche e concezioni apparentemente
lontani. L’estetica russa è stata al centro
dell’intervento di Roberto Salizzoni, che
si è occupato di A. Platonov e della sua
ricezione del processo di sovietizzazione
degli anni ’20 e ’30. Chiara Cantelli,
invece, ha discusso il paradosso inerente al
pensiero di Solov’ev: la bellezza è più
diffusa negli esseri inferiori del cosmo e si
presenta come deformità rispetto all’armonia assoluta di Dio.
Della vitalità della riflessione estetica in
civiltà ancor più remote ha testimoniato
Giangiorgio Pasqualotto, che ha chiarito
le differenze terminologiche e gli usi metaforici dell’idea di natura nelle grandi tradizioni del taoismo, polarizzato sul carattere
fisico dell’esperienza naturale, e del buddhismo, orientato verso una comprensione
intellettuale e mentale. Monica Ferrando
ha invece presentato l’interpretazione metafisica della pittura, vera e propria depositaria della creazione dei “possibili” naturali, nel pensiero di Shitao. In quest’ambito
di ricerca non sono mancate le analisi comparativistiche fra modelli culturali: Riccardo Franciolli ha elaborato una rete di
analogie tra la polarità Terra-Mondo in
Heidegger e quella Yin-Yang; Enrico
Giannetto ha sviluppato i punti di convergenza e di distacco fra la metafisica occidentale contemporanea e il buddhismo di Tagore; Francesco Solitario ha seguito le tracce
dell’opera novellistica indiana Pancatantra
(IV-V) nella scrittura leggiadra di un noto
umanista, Agnolo Fiorenzuola, analizzan60
do differenze e affinità dei due testi in merito
alla concezione del mondo animale.
Per la sezione di estetica musicale, Enrico
Fubini si è soffermato sull’invito alla natura - nella duplice accezione di natura del
linguaggio musicale e di natura percettivopsicologica dell’ascoltatore - nel linguaggio musicale del Novecento. Luciana Galliano ha sottolineato l’opposizione fra suono e rumore nella cultura occidentale e ha
operato un raffronto con la musica orientale, in particolare quella giapponese. Michele Garda ha tracciato l’itinerario dell’estetica del sublime letterario e del sublime musicale nell’estetica inglese e tedesca
del Settecento.
Tra gli interventi caratterizzati da una correlazione tra piano storico delle ricerche e
piano trasversale degli interrogativi teorici, Renato Troncon ha propugnato una
riflessione estetica che sappia render conto
non tanto delle ragioni, quanto dei caratteri
delle cose inanimate; mentre Elio Franzini ha presentato una riflessione personale,
incentrata sul tema dell’ “intenzionalità
fungente”, di origine husserliana, e sull’idea di artisticità come interpretazione
della natura, a partire dalle modalità qualitative della descrizione. Luisa Bonesio ha
invece ribadito la necessità di restituire
“verticalità” all’immagine della Terra in
una dimensione cosmica, per sottrarla allo
svuotamento e alla desertificazione della
riflessione contemporanea; laddove Paolo
D’Angelo ha vagliato motivi e paradossi
dell’ “estetica ecologica” contemporanea
(tedesca e americana).
Non sono mancati i raffronti e gli “scorci”
intesi a esemplificare le inquietudini e i
motivi teorici di un’epoca o di una tradizione di pensiero. In tal senso, Stefano Benassi ha analizzato la problematica dell’armonia estetico-etica nell’età rinascimentale;
Maurizio Ferraris ha analizzato il nodo
fra produzione e riproduzione nell’immaginazione, individuando due grandi tradizioni moderne, l’una identificabile nella
“pista” associazionistica, l’altra orientata a
evidenziare il carattere innovativo dell’analogia; Annamaria Contini ha sviluppato i
rapporti fra organico e meccanico in seno al
positivismo francese, soffermandosi in particolare su Guyau e Séailles; Reimar Klein
ha ripercorso alcuni momenti del pensiero
filosofico e letterario tedesco, Goethe, i
romantici, Benjamin e Adorno, individuando come motivo sotterraneo la ricerca
di una lingua della natura depositata nella
storia; Marco Macciantelli ha esaminato
l’intreccio fra simbolo e sublime, da Burke
alle poetiche simboliste; Giovanna Pinna
ha affrontato il nodo fra autonomia del
giudizio estetico e modello organico nella
riflessione sul bello naturale nell’idealismo tedesco; Federico Vercellone, infine,
ha proposto il problema cruciale quello
dell’individualità attraverso le figure di
Goethe e di Novalis.
Alcuni interventi hanno potuto porsi in
“dialogo” l’uno con l’altro: così, Elena
CONVEGNI E SEMINARI
Tavani, Carlo Gentili, e Elio Matassi
hanno presentato le loro ricerche sul pensiero di Adorno. Tavani ha insistito sull’alleanza fra “naturale” e “estetico” in Adorno come istanza critica e trascendente in
vista dell’esperienza individuale e attiva
nel corso del mondo; Matassi ha interpretato la “seconda natura” in Adorno come
“caducità” esclusa dal movimento dialettico, affrontando il rapporto tra Hegel e Adorno; Gentili ha invece connesso le osservazioni di Adorno e di Horkheimer sui miti
dell’Odissea con l’interpretazione nietzscheana del mito di Edipo.
Altri oratori si sono concentrati sulla figura
e l’opera di Kant, di cui Gianluca Garelli
ha affrontato il tema della melanconia; di
Addison, di cui Giuseppe Patella ha analizzato il rapporto fra gusto, arguzia e piacere in merito all’immaginazione; di Leopardi, di cui Franco Rella ha voluto mettere in risalto la riflessione sul carattere
“silvestre” della natura tesa fra un troppo
pieno e l’annientamento; di Heidegger, di
cui Caterina Resta ha ripreso il tema della
“physis”; di Schelling, di cui Tonino Griffero ha analizzato le due coppie proporzionali, pianeti-comete e Antichi-Moderni; di
Jakob Boehme, di cui Flavio Cuniberto
ha interpretato la nozione di “paesaggio
primordiale”. Infine, Leonardo Amoroso
ha sottolineato il ruolo di Fedro nel dialogo
omonimo di Platone; Clementina Gily
Reda ha ricordato il pensiero estetico di
Remo Cantoni.
Altri oratori si sono concentrati sul rapporto fra arti figurative, estetica e retorica.
Giorgio Maragliano ha evidenziato la rottura effettuata da Winckelmann nel campo della ekphrasis, descrivendo il corpo
umano come fosse un paesaggio; Roberto
Diodato ha presentato, in riferimento a un
quadro di Vermeer, le analogie fra il pittore
e Spinoza inerenti alla comune valutazione del finito, se non del “quotidiano”; Fosca Mariani Zini ha evocato il ruolo della
leggiadria nel Rinascimento italiano e ha
ricordato l’importanza per l’estetica dell’opera di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili ; Fausto Testa si è soffermato sull’idea di giardino in Leonardo,
analizzando il testo e l’immagine del foglio
W.12591 di Windsor. F.M.Z.
La riforma di Lutero
Dall’11 al 15 aprile 1994, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
di Napoli, Bruno Forte, della Pontificia facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli), ha tenuto un Seminario dal titolo: “INITIA LUTHERI - INITIA
REFORMATIONIS”.
Come ha sottolineato Bruno Forte in apertura dei lavori, lo scopo del seminario è
stato di sviluppare una storia della Rifor-
ma, della Controriforma e dell’apologia
luterana, avvalendosi, oltre che dei testi
tradizionalmente in uso per lo studio di
Lutero, anche dei Dictata super psalterium, pressoché ignorati dalla tradizione.
Nei testi sacri, ha osservato Forte, Lutero
cerca la risposta alla domanda vera, quella
che dia un senso alla sua vita e risponda al
suo bisogno di grazia e di luce, la domanda
sulla salvezza. Ciò che, secondo Forte,
caratterizza i “Commenti” luterani alle
Scritture è il profondo coinvolgimento esistenziale che si avverte dalla loro lettura:
l’ermeneutica di Lutero, in tal senso, può
essere interpretata come una riappropriazione esistenziale della parola di Dio nettamente contrapposta ad una visione legalistica della fede che il teologo tedesco rifiuta fermamente. Nell’Evangelo, Lutero scopre che la salvezza non è in se stessi, ma è
piuttosto apertura all’altro.
Dei quattro sensi interpretativi (letterario,
allegorico, tropologico e anagogico) Lutero, nella sua interpretazione delle Scritture,
privilegia quello allegorico (oggettivo) e
quello tropologico-morale (soggettivo), finendo poi coll’accordare al secondo una
netta preferenza. L’allegorico ha, tuttavia,
valore soltanto in rapporto al tropologico:
ciò che Dio dice è ciò che dice a me, e che mi
dà la forza di uscire da me per ritrovarmi in
Dio. Se, dunque, ha rilevato Forte, tutto sta
nell’incontro con l’alterità dell’altro, la realtà vera sta nell’attesa, e quella luterana appare come nient’altro che un’ontologia dell’attesa: la vita è domanda, invocazione, dinamismo; è, in una parola, attesa della grazia.
Nell’interpretazione dei testi, e in particolare nei Dictata, Lutero si rifà continuamente alla condizione esistenziale dell’uomo e l’attesa della salvezza ne appare come
l’elemento caratterizzante. Secondo Forte,
Lutero è il teologo del vissuto; le sue domande sono vere e le sue risposte non
possono che essere vere, tratte cioè dall’esperienza reale. La verità sta nell’incontro con l’alterità e la salvezza si realizza
proprio nella scoperta di questa verità. Ma
la strada che conduce alla salvezza non è
priva di insidie: il pericolo maggiore è
rappresentato dalla negazione dell’alterità
e affermazione della soggettività che conduce inevitabilmente al nulla.
Esiste, si chiede Lutero, una possibilità di
salvare la vita, di renderla giusta e quindi
degna di essere vissuta? La risposta sta nel
processo della giustificazione, che Lutero
identifica proprio con la redenzione dal
nulla. La giustificazione, ha osservato Forte, è un processo altamente dialettico, costituito dai tre momenti fondamentali della
tesi, dell’antitesi e della sintesi. La tesi è
rappresentata dal cosiddetto “naufragio”, e
cioè dall’esperienza che l’uomo fa del proprio nulla, il cui risultato è la presa di
coscienza della necessità di aprirsi all’altro, che Forte ha definito come la «coscienza dell’ontologia dell’attesa, del nulla che
siamo», e che avviene in primo luogo attraverso l’umiltà di Dio: che si è umiliato, si è
61
nientificato per far sì che il mondo esistesse. La redenzione dal nulla, la salvezza,
non sta dunque nel merito, che è sempre e
comunque merito di Dio, dell’Altro, ma
piuttosto nella grazia divina che permette
all’uomo di prendere coscienza del proprio
nulla e della necessità di offrirsi a Dio per
la propria salvezza. Il secondo momento
del processo della giustificazione, ha proseguito Forte, è il giudizio di Dio, che
scopre e rivela ciò che l’uomo è, mettendo
a nudo il suo essere e facendogli prendere
coscienza del fatto che nulla è utile alla
propria salvezza se non Dio. Terzo e ultimo momento del processo è la Iustitia Dei,
per cui il nostro nulla, sperimentato nel
naufragio e messo a nudo dal giudizio
divino, viene sottoposto alla grazia di Dio,
attraverso la quale si realizza la redenzione dell’uomo.
Questo concetto della giustizia divina è
ripreso da Lutero anche nel “Commento”
alla Lettera ai Romani, in cui tema centrale
è di nuovo l’incontro dell’umano e del
divino nell’evento della giustificazione. Il
peccato assume in questo “Commento”
una veste del tutto nuova. In questa nuova
prospettiva il nulla appare non come semplice negazione, ma piuttosto come fascino, come amore dell’errore e delle tenebre:
si tratta, come ha affermato più volte Forte,
di una concezione rivoluzionaria, che inaugura l’età moderna. L’uomo, di fronte al
giudizio divino, ha fatto notare Forte, è
esso stesso peccato, perché è esso stesso il
nulla al quale tende. Sorge qui la questione
della predestinazione, che Lutero, come
Agostino, non risolve: ogni uomo è attratto
dal peccato e può salvarsi soltanto attraverso il processo della giustificazione divina.
Lutero elabora a questo proposito la dottrina del “simul iustus et peccator”, per cui il
peccato diventa un momento del processo
della giustificazione: non si può fare esperienza della grazia se prima non si fa esperienza del male e l’uomo giustificato resta
un peccatore anche se è giusto. Con questo
Lutero non nega, ha osservato Forte, che le
opere prodotte dall’uomo abbiano un certo
valore e una certa consistenza, ma nega
fermamente che l’uomo abbia la possibilità di autoredimersi. L’unica opera umana
che abbia una funzione attiva nel processo
della giustificazione è il totale abbandono,
la resa incondizionata a Dio, la presa di
coscienza del proprio nulla e quindi il
consapevole riconoscimento dell’ontologia dell’attesa.
Secondo Forte, Lutero non dice nulla di
nuovo; la novità sta piuttosto nel fatto che
Lutero si riappropria delle Scritture in chiave esistenziale. La stessa Controriforma,
che sarà avviata dal Concilio di Trento,
dimostra, in realtà, secondo Forte, una sostanziale identità di vedute tra Lutero e
Trento: tutta la controversia sarebbe nata,
secondo Forte, da una diversità ermeneutico-linguistica che è quella su cui si è posta
tutta l’incomprensione tra Lutero e il Concilio tridentino. G.M.
CONVEGNI E SEMINARI
Nietzsche: tra filologia
e filosofia
Al Nietzsche dei nietzscheani e degli
anti-nietzscheani, del culto deteriore,
della leggenda si deve contrapporre il
Nietzsche che emerge dal lavoro di ricerca storica e filologica, messo al riparo dalle semplificazioni e dalle tentazioni dell’immediatezza. Questo l’intento
complessivo di un seminario dal titolo:
“FRIEDRICH NIETZSCHE, A CENTOCINQUAT’ANNI
DALLA NASCITA”, tenutosi a Pisa da febbraio a maggio del 1994, in occasione
dei 150 anni della nascita del filosofo.
La serie cadenzata dei vari incontri si è
presentata come un percorso di riflessione su vari temi di più studiosi, che da
diverse prospettive hanno trovato e
riconosciuto nell’edizione critica dell’opera completa di Nietzsche, intrapresa da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, uno strumento essenziale per un
percorso di lavoro e per un viaggio di
scoperta ancora aperto su un periodo
storico e culturale molto importante.
Come ha sottolineato nella sua prolusione
Giuliano Campioni, uno degli organizzatori del convegno, questa serie di seminari
dedicati a Nietzsche ha voluto essere anche
un omaggio all’opera di Colli e Montinari,
che a Pisa si sono formati e hanno operato
e insegnato. La prospettiva metodologica
di Colli e Montinari, ha osservato Campioni, non si presenta come una soluzione
definitiva al problema Nietzsche, e ai problemi di Nietzsche, ma come coscienza
della complessità del fenomeno Nietzsche
e dell’attuale impossibilità di una sintesi
del suo pensiero che si sottragga ad un
totale, quanto falsante prospettivismo. Al
contempo, si rendeva necessario fare chiarezza sugli effettivi contenuti di questo
pensiero, che possono essere evidenziati
solo da un costante e puntuale esame dei
suoi scritti e da un’attenta ricostruzione
della fitta rete di relazioni e di rimandi, di
cui questi sono intessuti.
Nel primo appuntamento, Domenico Maria Fazio ha passato in rassegna fortune e
sfortune critiche dell’opera di Nietzsche in
Italia, mettendo in risalto come la ricezione
italiana, soprattutto agli inizi del secolo, sia
stata condizionata da una scarsa e molto
approssimativa conoscenza dei testi. Nonostante ciò, ha osservato Fazio, l’Italia è
stato uno dei paesi in cui il dibattito nietzscheano si è acceso con maggior fervore,
dal tentativo di Croce di lettura idealistica
di Nietzsche in chiave estetica, al “filosofare con Nietzsche” di Papini e Prezzolini.
La fine della Grande Guerra e il conseguente antigermanesimo portarono a una
rivalutazione dell’aspetto letterario e stilistico delle opere di Nietzsche ad opera di
Gozzano e di Campana. Solo nel 1926,
grazie all’editore Monanni, si ebbe la pri-
Friedrich Nietzsche (1867)
62
ma edizione italiana “completa” delle opere,
sulla base della Taschenausgabe del 1906,
che comprendeva solo le opere principali,
inclusa un’edizione filologicamente infondata e non curata della Volontà di potenza.
Contrariamente a quanto si può pensare, il
Fascismo dedicò a Nietzsche un’attenzione molto relativa. Per contro, verso la metà
degli anni Trenta si diffuse, ad opera di A.
Banfi, un’interpretazione antifascista di
Nietzsche, incentrata sull’antidogmatismo
e sul libertarismo del suo pensiero. Con
l’arrivo in Italia delle interpretazioni di
Jaspers, Heidegger e Löwith, seguite e riprese dalle letture fenomenologico-esistenzialiste di Pareyson e di Paci, finisce in
Italia l’epoca delle strumentalizzazioni a
sfondo sociale e politico e si apre la possibilità di una comprensione più autentica e
profonda del pensiero di Nietzsche.
I problemi etici e tecnici connessi al lascito
letterario (Nachlass) di Nietzsche sono stati invece al centro della conferenza di David Marc Hoffman, coeditore dell’edizione completa Steiner delle opere di Nietzsche, che ha affrontato esplicitamente il
problema della liceità di una sorta di voyerismo psicologico, che si esercita sulle testimonianze intime della vita di un autore e
che non necessariamente aggiungono qualcosa al suo valore teorico o letterario. In
questo, ha osservato Hoffman, è responsabile il curatore che deve mettere il pubblico
in grado di ponderare i differenti tipi di
testo e coglierne il valore specifico per la
comprensione dell’autore. In questo contesto, il caso del Nachlass nietzscheano assume un valore esemplare, in particolare per
quanto riguarda la Volontà di potenza, che
come è noto fu costruita arbitrariamente
dai suoi curatori, in primis dalla sorella
Elisabeth. In direzione del tutto diversa si
muove l’edizione Colli-Montinari, che usa
il principio ordinatorie della cronologia,
distinguendo tra frammenti e stesure preparatorie. Per quanto riguarda le lettere,
Montinari ha coscientemente contravvenuto alle indicazioni di Nietzsche, ma non ha
trascurato di riferirsi alle conseguenze per la
ricezione e accetta la colpa dell’indiscrezione senza però mancare di mettere in guardia
il lettore sul tipo di operazione compiuta.
Un punto di contatto tra Nietzsche e Spencer è stato individuato da Andrea Orsucci
nel suo seminario, che ha evidenziato come
Nietzsche si sia servito delle nozioni etnologiche contenute nell’Etica e nei Principi
di Sociologia di Spencer, per la formulazione di alcune analisi sull’origine dei concetti morali nella Genealogia della Morale.
Il rapporto di Nietzsche con la filosofia
preplatonica è stato al centro di un seminario a due voci, tenuto da Paolo D’Iorio e da
Francesco Fronterotta. Prendendo in considerazione l’attività filologica del giovane
Nietzsche, Fronterotta ha osservato, da un
punto di vista metodologico, come Nietzsche invitasse a diffidare costantemente e
regolarmente delle eccessive e artificiali
coincidenze nelle cronologie antiche e a
CONVEGNI E SEMINARI
Friedrich Nietzsche tra le braccia della sorella Elisabeth Förster Nietzsche
valutare i dati cronologici attraverso una
rigorosa verifica della tradizione dossografica; una conquista di metodo molto innovativa per quei tempi, che fu avversata ad
esempio, da Diels. Da un punto di vista
storico, ha aggiunto Fronterotta, Nietzsche
intendeva operare un’analisi delle diverse
fasi della storiografia greca per esprimere
una valutazione complessiva; di qui la valutazione dei preplatonici come figure indipendenti che non intrattengono tra loro
rapporti di scuola o personali.
Secondo D’Iorio, le opere dedicate ai filosofi preplatonici permettono di chiarire come il
periodo “mitico - wagneriano” appaia in
Nietzsche come una parentesi all’interno
della ricerca sul problema della conoscenza.
La tensione tra questi due momenti del suo
pensiero, la si può rintracciare, per D’Iorio,
nel rapporto di antitesi che intercorre tra La
Nascita della Tragedia e La Filosofia nel-
l’epoca tragica dei Greci. La prima è legata all’ideologia mitico-comunitaria di
Bayreuth; la seconda, influenzata dalla
lettura della Storia del Materialismo di
Lange e preparata da alcuni cicli di lezioni
sui Filosofi preplatonici, tenuti dal 1872 al
1876, si rivela pervasa d’amore per una
concezione del sapere scientifico antimetafisico ed iconoclasta, rappresentato in
modo eminente nella figura di Democrito.
Il tentativo di sintesi dei due punti di vista
nel saggio Su verità e menzogna in senso
extramorale, in cui scienza e arte vengono
ricondotte alla comune radice metaforica e
illusoria, si rivela, secondo D’Iorio, inefficace e Nietzsche abbandonerà i suoi studi
sui presocratici, per dedicarsi a temi più
utili alla causa di Bayreuth, che tuttavia, di
lì a qualche anno, abbandonerà definitivamente per riprendere il filone “democriteo”
e volterriano della ricerca sulla conoscenza.
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Del giovane Nietzsche si sono occupati
anche Roberto Venuti, che ha evidenziato
i rapporti tra Nietzsche e Schiller, riguardo
alla considerazione della tragedia e del
mito nella classicità, quali emergono ne La
Nascita della tragedia, e Luigi Alfieri, che
ha invece posto l’accento sul pensiero politico giovanile di Nietzsche, delineando la
possibilità di darne una lettura antiautoritaria, contrassegnata da forti accenti anarchici e religiosi.
Al pensiero politico di Nietzsche si è rivolto
anche Urs Marti, che ha presentato una
proposta interpretativa della teoria del superuomo in senso democratico. Nell’anelito
verso l’uomo superiore, elemento germinativo della teoria del superuomo, si esprime il
sogno di un nuovo tipo di uomo che si elevi
al disopra dei concetti morali convenzionali.
Secondo Marti, il concetto nietzscheano dell’uomo superiore «tradisce effettivamente
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l’influsso della letteratura francese e questa
letteratura a sua volta rispecchia diverse possibilità di contrasto con la democratizzazione della società francese».
Al tema del rapporto tra Nietzsche e la
cultura francese si riallaccia anche Giuliano Campioni, il quale ha indicato nella
cultura parigina del naturalismo e della
fisiologia il terreno su cui nasce la nozione
di décadence, impiegata da Nietzsche per
definire l’arte di Wagner e tutta la cultura
della modernità fin de siècle. Autori quali
Bourget, i Goncourt, Balzac, Flaubert, Renan, forniscono a Nietzsche gli strumenti
per una concezione della décadence intesa
come malattia, insubordinazione delle parti al tutto, degenerazione, incapacità di
dominare la contraddizione dei molti istinti
e dare forma alle forze contrastanti che
agiscono all’interno della personalità e della società. La malattia della modernità è il
dominio del milieu, della massa priva ogni
disciplina e dominio. Al tipo della décadence, prodotto necessario dell’azione plasmatrice del milieu, Nietzsche oppone i grandi
uomini del passato, Cesare, Napoleone,
espressione autentica della volontà di potenza, intesa come autodisciplina e volontà di
dare forma al caos interiore degli istinti.
Dopo un ricco e complesso excursus sulla
cultura tedesca del primo novecento Franco Volpi ha analizzato l’interpretazione di
Heidegger della Volontà di potenza, ricostruendo i riferimenti testuali adoperati dal
filosofo di Essere e tempo e alcuni problemi critici insiti nella sua interpretazione del
pensiero nietzscheano.
Un preciso resoconto tecnico sul lavoro
filologico svolto sul Nachlass nella ricerca delle fonti e degli influssi che hanno
contribuito alla stesura dello Zarathustra
è stato presentato da Marie-Luise Haase,
che ha sottolineato come il lavoro filologico sui frammenti postumi e sulle fonti
contribuisca a restituire l’esatto valore del
pensiero di Nietzsche, eliminando le possibilità di abuso o di interpretazioni avventuristiche, e a collocarlo con sempre maggiore precisione all’interno del tessuto
culturale della sua epoca.
Prendendo in esame la ricezione della Nascita della tragedia nella letteratura tedesca di fine secolo, Karl Pestalozzi ha messo in luce un momento fondamentale della
nascita dell’epoca moderna in Germania
alla fine del XIX secolo, mostrando l’influenza di Nietzsche su alcuni artisti tedeschi “moderni”, quali Hoffmansthal, Hauptmann, Rilke. I poeti a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo lessero La
Nascita della Tragedia di Nietzsche come
poetica, a partire dalla quale intesero e
legittimarono la loro poesia, generalizzando il titolo dell’opera nietzscheana in “La
nascita della poesia dallo spirito della musica”. L’origine della poesia risiedeva al di
là dell’individualità della quale erano coscienti; in essa si manifestava qualcosa di
immanentemente divino.
L’opera giovanile di Nietzsche assegnò ai
poeti anche una particolare collocazione
storico-filosofica e il relativo compito, cioè
quello che egli aveva concepito per Wagner,
che consisteva nel porre termine all’epoca
socratica, esercitando una critica della letteratura e delle società vigenti in quanto socratiche, o unilateralmente apollinee. S. F.
Viaggio
come esperienza religiosa
Nell’ambito di un ciclo di lezioni sul
tema dello spazio sacro e del viaggio
nell’esperienza religiosa, organizzato
dal Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo di Modena nell’ultimo
biennio di attività (ottobre 1992-aprile
1994), ha avuto luogo dal 7 ottobre
1993 al 14 aprile 1994 il secondo ciclo di
lezioni dal titolo: “IN CAMMINO VERSO DIO.
LA METAFORA DEL VIAGGIO NELL’ESPERIENZA
RELIGIOSA”, che ha visto la partecipazione di Raimon Panikkar, Filippo Gentiloni, Amalia Pezzali, Ermenegildo Manicardi, Paolo Branca, Anna Maria Leonardi, Franco Cardini, Erminia Macola,
Gianni Celati, Severino Dianich.
Da sempre il tema del “luogo sacro” è stato
oggetto di studio, dai classici della ricerca
fenomenologica - Rudolf Otto, Mircea Eliade - al semplice uomo di fede. Con questi
presupposti prendeva avvio il primo ciclo
di lezioni, dal titolo: “I paesaggi del sacro”,
proponendo interventi di Armido Rizzi,
Paolo Branca, Paolo De Benedetti, Sergio
Ribichini, Giuseppe Barbaglio, Pierangelo
Sequeri, Filippo Gentiloni, Aldo Natale
Terrin, Franco La Cecla, Paolo Ricca.
Il secondo ciclo di lezioni ha affrontato la
metafora del viaggio, utilizzata nelle varie
religioni, in Occidente come in Oriente, per
rendere evidente la ricerca di Dio da parte
dell’uomo e anche l’apertura tra l’umanità
ed il sacro. Il primo incontro, di taglio
metodologico, è stato condotto dal teologo
e filosofo Raimon Panikkar, che ha mostrato l’ampio uso di questa metafora. Due
diversi codici del viaggiare sono stati presentati da Filippo Gentiloni: quello di Ulisse, che viaggia per poi ritornare a casa e ha
sempre ben presente la meta; e quello di
Abramo, che rappresenta «l’uomo che se
ne va; ma non sa bene dove arriverà», per il
quale la fede è sempre “un camminare”,
seguendo l’indicazione di un dito, secondo
una concezione storica del viaggio - tutta la
Bibbia, peraltro, narra esperienze di percorsi (l’uscita dall’Egitto, il vagare nel deserto, l’esilio...). Altre figure di viaggiatori
prese in considerazione sono state Gautama Siddharta, Buddha e il suo cammino
spirituale per il raggiungimento del nirvana, la “rottura” con il ciclo delle rinascite,
di cui si è occupata Amalia Pezzali; Gesù,
annunciatore itinerante del Regno, ma anche “via, verità e vita”, come ha mostrato
64
Ermenegildo Manicardi, mettendo in evidenza come tutto ciò che riguarda il cammino di Gesù non sia circoscrivibile solo alla
sua esistenza storica, ma, abbracciando la
Risurrezione, coinvolga anche ogni uomo.
L’Islam, su cui si è soffermato Paolo Branca, si propone di dare, anche in senso
morale, una direzione al muoversi dell’uomo, del beduino; nella Sura che apre il
Corano si legge: «Indicaci la via!». Dal
punto di vista fisico e geografico, La Mecca testimonia la disposizione dell’uomo a
seguire Dio; e inoltre, il pellegrinaggio costituisce uno dei cinque pilastri della fede.
Avvincente anche l’esempio dell’itinerario
dantesco nei regni dell’oltretomba, proposto
da Anna Maria Chiavacci Leonardi; così
come l’immagine del pellegrino medievale,
offerta da Franco Cardini, che ha fatto
notare come il pellegrino vuole toccare con
mano la presenza di Dio nella storia, andando da un luogo profano a un luogo sacro; in
realtà, tutta la vita è un pellegrinaggio e il
passaggio da uno stato all’altro è da intendersi come metanoia interiore.
Alle esperienze di viaggio dei grandi mistici ha fatto riferimento Erminia Macola.
Nel viaggio che avviene di notte, secondo
l’esperienza di Giovanni della Croce, ci si
perde per ritrovarsi in un processo profondo di identificazione: «per essere ciò che
non sono, devo andare per dove non sono».
La strada è oscura, buia; i pericoli sono le
abitudini, che bisogna abbandonare per
«correre con leggerezza verso Dio, prenderlo e stringerlo senza lasciarlo andare».
Teresa d’Avila, invece, fece dell’anoressia, di cui soffrì, la risposta letterale al
dettato dei testi ascetici: il cibo e il sonno
non sono che una perdita di tempo; molto
più proficuo è non mangiare e rimanere
nell’attesa della venuta di qualcosa/qualcuno (ostia, cibo divino) che doni la vera vita.
Gianni Celati ha invece parlato dell’avventura poetica di Rilke come esperienza mistica di illuminazione a partire da una sua
traduzione originale delle Elegie duinesi.
All’elemento di novità - indice di movimento ed ansia - introdotto da Gesù, che
paragona il Regno di Dio al sale ed al
lievito, ha fatto riferimento Severino Dianich, mostrando come questa espressione
rimandi sempre ad un’ulteriorità, ad
un’aspirazione. Il Regno è dunque un orizzonte in cui possono essere iscritte mete
diverse; qualsiasi movimento sarebbe deviante se non rientrasse in questo orizzonte, che «è già, ma deve ancora venire» Sia
la “fuga dal mondo” nella vita contemplativa, travalicando la storia, sia l’impegno
per rendere la vita sulla terra più umana
sono mete che devono essere iscritte nell’orizzonte del Regno e delle sua venuta ed
il progresso terreno non fa che accelerare la
discesa definitiva dal cielo della città santa,
la nuova Gerusalemme.
Il complesso degli interventi verrà raccolto in forma rielaborata e pubblicato nella
collana «Punti critici» della Fondazione
San Carlo. B.S.
CONVEGNI E SEMINARI
Avventure delle verità:
da Hegel a Goodman
Il corso di aggiornamento e perfezionamento in discipline storico-filosofiche organizzato dal novembre 1993 al
marzo 1994 dall’Istituto Suor Orsola
Benincasa di Napoli ha avuto come
tema: “LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA. STORIA DELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA”. Il
Corso, inaugurato da Vittorio Mathieu
e Francesco M. De Sanctis, ha visto la
partecipazione di Valerio Verra, Lucio
D’Alessandro, Franco Volpi, Carlo Sini,
Aldo G. Gargani, Maurizio Ferraris,
Aldo Trione, Domenico A. Conci, Vincenzo Vitiello, Enrico Berti, Giuseppe
Limone, Evandro Agazzi, Remo Bodei,
Saverio Maffettone, Francesco Moiso,
Salvatore Veca.
Secondo Valerio Verra (“La dialettica nella
cultura filosofica contemporanea”), è necessario smentire l’apparente “eclisse” della
dialettica, mostrandone invece la presenza
sotterranea in tutta la filosofia del Novecento. La dialettica fenomenologica hegeliana ha rivoluzionato la filosofia, dimostrando che tutto è da considerarsi in rapporto alla coscienza, rovesciata rispetto a
se stessa. La dialettica logica, che comporta l’identità di filosofia e storia della filosofia, non è poi, secondo Verra, così lontana
dall’ermeneutica, dato che Gadamer condivide con Hegel l’idea che la verità non si
possa esprimere attraverso la proposizione
ed entrambi presuppongono un processo
necessario di integrazione delle varie posizioni concettuali o di fusione di orizzonti.
Maurizio Ferraris (“Deduzione di una
storia dell’ermeneutica”), ha proposto un
modo di uscire da quel “miraggio della
fine” che sembra accompagnare l’universalizzazione dell’ermeneutica. L’esistenza
di una tradizione scritta, di una distanza
temporale e di un linguaggio dimostrano
che tutto è mediato, che non esiste alcuna
origine semplice. Gli sviluppi della filosofia da Kant a Husserl e Heidegger indicano
che l’evidenza e l’immediatezza sono sempre effetto di una costituzione, di una mediazione. Dunque, anche l’attesa del nuovo
avviene sempre nell’orizzonte aperto della
tradizione. All’idea della fine della storia o
del senso della storia, che circola oggi con
il nome di post-storia, non crede affatto
Romeo Bodei (“La post-storia”). Ciò a cui
si assiste, ha fatto notare Bodei, è piuttosto
lo sgretolamento della congiunzione tra
storia e utopia realizzatasi alla fine del
Settecento, quando, con l’ “ucronia” (2440,
di Louis-Sébastien Mercier, è il primo
romanzo ucronico), la società perfetta viene collocata nel futuro, nella storia. Questa
trasformazione dette alla storia un telos e
all’utopia l’aggancio alla realtà. Oggi, che
l’orizzonte storico si presenta contratto, il
futuro, per Bodei, appare più come una
minaccia che come una promessa.
Per stabilire ciò che è rilevante, ciò che
conserva il suo significato nella tradizione,
Francesco Moiso (“Storiografia e ermeneutica filosofica”) ha proposto una concezione “morfologica” e sistemica, in cui il
concetto di “forma” indica una struttura
auto-riferita in interazione con altro, che
nella sua permanenza porta con sé molteplici possibilità di cambiamento. Da ciò
conseguirebbe anche una risimbolizzazione della conoscenza. Del simbolo, inteso
non come segno arbitrario, forma retorica o
pura metafora, ma come potenza capace di
strutturare un campo di forze, ha parlato
anche Giuseppe Limone (“Figure del simbolo e figure della simbolica”).
Aldo G. Gargani (“La revisione critica
della tradizione metafisica nel neo-pragmatismo di Richard Rorty”) ha illustrato il
pensiero Rorty, la sua concezione dell’uomo come intreccio di desideri e il suo
concetto di razionalità in quanto partecipazione ad una comunicazione tollerante. Per
il neopragmatista Rorty, ha osservato Gargani, la verità non presuppone un rispecchiamento del mondo, bensì la coerenza tra
enunciati del nostro linguaggio e la scienza è
ricerca di quegli enunciati veri che meglio
servono a risolvere i problemi degli uomini.
Come ha mostrato Salvatore Veca (“Paradigmi e versioni del mondo: da Nelson
Goodman a Hilary Putnam”), Nelson Goodman (Vedere e costruire il mondo, 1988)
rifiuta, da una posizione nominalista, il
“mito” della riducibilità di una varietà di
versioni del mondo ad una sola vera e
valida, che consentirebbe di guardare al
mondo così come esso si dà. Secondo tale
prospettiva, ha notato Veca, la filosofia deve
allora occuparsi non di “un” mondo, ma dei
modi di fabbricare mondi, delle versioni del
mondo (artistiche, scientifiche o morali che
siano). Qui la verità diventa una sottospecie,
valida per i soli sistemi enuncitivi, della
rightness (correttezza, giustezza, congruenza), quale criterio per distinguere versioni
reali da versioni spurie o “fallite”.
A proprosito delle trasformazioni nella sfera dell’estetica, Aldo Trione (“L’estetica
contemporanea come problema”) ha preso
spunto dall’opera di Mallarmé, in quanto
in essa si esplicita poeticamente l’assunzione del destino di finitezza dell’opera
umana. Franco Volpi (“La filosofia pratica contemporanea”) ha parlato invece della
riabilitazione della filosofia pratica e in
particolare del modello aristotelico. Successivamente Enrico Berti (“La presenza
della tradizione classica nel dibattito filosofico contemporaneo”) è tornato sulle “appropriazioni” novecentesche di Aristotele,
ma ha soprattutto inquadrato il ritorno del
Platone delle “dottrine non scritte”, prendendo atto della relazione con la linea neoplatonica e con l’entusiasmo per la metafisica dell’Uno, pur rilevando una certa reticenza circa i motivi teoretici che hanno
spinto in tale direzione.
Nel sostenere un incontro necessario tra
etica e ontologia, Saverio Maffettone
(“L’ontologia nel dibattito etico contem65
poraneo”) ha invitato al sospetto nei confronti del pensiero antimetafisico, che confonde nel giudizio negativo la metafisica
“speculativa”, dogmatica e portatrice di
una presunta autenticità ristretta a pochi, e
la metafisica “pubblica”, a cui è legata la
difesa del “pluralismo” dalla totale relativizzazione, facendo appello ai principi primi che uniscono le nostre conoscenze con
quelle degli altri, o che governano i nostri
atteggiamenti in rapporto a quelli degli
altri. Evandro Agazzi (“Scienza e metafisica”) ha invece proposto una riabilitazione della metafisica in senso classico, aristotelico, alla luce del fallimento delle tesi
neopositivistiche che l’avevano condannata al non-senso. L’impossibilità di eliminare dalla scienza i termini teorici, la necessità di inventare nella scienza modelli interpretativi portano a concludere che non si
può negare, almeno in linea di principio, la
legittimità della ricerca metafisica, il cui
punto di vista è quelo dell’ “intero”.
Sulle vicende della scienza e dell’epistemologia novecentesca si è soffermato anche Domenico A. Conci (“Realtà e oggettività nel pensiero cognitivo contemporaneo”), rilevando i limiti della altermativa
popperiana tra epistéme e doxa. La struttura linguistica della scienza mostra come
l’applicazione della matematica e della logica alla fisica sia un procedimento di traslazione con cui si veicolano semanticamente elementi astratti per enti concreti.
L’oggettività è dunque una valenza traslata: non si dà il reale “in carne e ossa”, ma
una affermazione di esistenza; questa situazione è propria della cultura occidentale.
Infine, il problema di una ridefinizione del
senso della filosofia è stato affrontato da
Carlo Sini (“Il problema della pratica filosofica”) e Vincenzo Vitiello (“Filosofia e
topologia”). Sini ha sottolineato come la
filosofia, nell’interrogarsi su se stessa, sulla sua “soglia”, ovvero sul luogo dal quale
il filosofo parla, non possa che reiterare la
sua pratica. L’evento del domandare socratico instaura la filosofia, che resta strutturalmente nell’assenza di risposta: questa
paradossalità è propria dell’età del trionfo
moderno della scienza; né il soggetto, né il
logos hanno trovato posto nell’enciclopedia del sapere, poiché essi sono un limite,
un orlo. Occorre quindi ridare la parola al
soggetto, che sa di non sapere, attraverso
un diverso modo di atteggiarsi ed una diversa formazione del filosofo.
Nel quadro delle ragioni che motivano la
sua topologia filosofica, Vitiello ha chiarito che, a differenza della parola del sophos
e di quella del sofista, la parola “sempre
seconda” del filosofo si caratterizza originariamente come parola “della” verità, nel
senso che la verità è in essa, senza però
esaurirvisi. Stando in questo “frammezzo”, il problema della filosofia è di riconoscere l’ “alterità” dell’altro che essa dice;
essa ripete in qualche modo, il gesto originario della nascita dell’autocoscienza, ed
in questo rimane la sua dignità. C.T.
CONVEGNI E SEMINARI
Parmenide e dopo Parmenide
Il poema filosofico di Parmenide venne a costituire un punto di confronto
obbligato per i pensatori che, dopo di
lui, indirizzarono la loro riflessione a
visioni totalizzanti del mondo o anche a
temi più circoscritti. La tensione ed
articolazione argomentativa del suo
poema ‘Sulla natura’ ne fecero una sorta di passaggio obbligato per intellettuali che, da Zenone a Gorgia, «dovettero definire la loro identità culturale in
rapporto a lui». Sul tema: “IL DIBATTITO
SU PARMENIDE. ASPETTI DELLA FILOSOFIA GRECA TRA V E IV SECOLO”, Maurizio Migliori,
dell’Università di Macerata, e Livio Rossetti, dell’Università di Perugia, hanno
organizzato un convegno che si è svolto a Macerata e successivamente a Perugia dal 24 al 26 marzo 1994.
Ha aperto i lavori Giovanni Casertano
(“Chi è il sofista? Gorgia e il peri tou me
ontos”), che ha analizzato il rapporto tra
realtà e linguaggio-pensiero nello scarto
che assume tra Parmenide e Gorgia. Quest’ultimo individua la difficoltà insita nella
formalizzazione della realtà empirica, affermando che il discorso è altro rispetto
agli oggetti di cui abbiamo esperienza, e la
significazione non è semplice sovrapposizione o appiattimento del discorso sugli
oggetti: c’è una dialettica sempre reversibile fra essere e logos. Per questo i discorsi
sono “tutti falsi”; ma perciò stesso - in
quanto esiste solo una verità dei discorsi
che non è quella della realtà a cui essi si
riferiscono - sono “tutti veri”. La verità del
discorso è quella della coappartenza di
pensiero e realtà esterna.
A Zenone hanno rivolto la loro attenzione
Livio Rossetti (“Sui primi detrattori di
Parmenide e sulla fedeltà di Zenone all’ortodossia parmenidea”) e Rafael Ferber
(“Lo ‘Stadio’ di Zenone”). Rossetti si è
interrogato su quanto Zenone, da allievo di
Parmenide, sia stato fedele al paradigma
parmenideo e quanto invece, da apologista
di Parmenide, sia stato intellettuale subalterno rispetto al maestro. Se negare spazio,
tempo, molteplicità è un’ardua proposta,
Zenone li avrebbe negati per “proteggere”
Parmenide, nonostante l’ “anonimo antieleata” che si oppose al maestro eleata
(presumibilmente in opposizione a quanto
espresso nel fr. 8, 38-40), lo facesse indubbiamente in nome di un’esperienza immediata di oggetti in movimento, nello spazio
e nel tempo. Zenone, ha rilevato Rossetti,
cercò una contro-mossa che fosse pari alla
sfida, mettendo in discussione il mondo dei
fenomeni; in questo, la provocazione dell’anonimo anti-eleata si può dire sia una
delle sollecitazioni che hanno “reso possibile” il pensiero zenoniano.
Ferber ha proposto una nuova “difesa”
filosofica del tema dello “stadio” di Zenone contro l’esposizione datane da Aristotele. Nello stadio le due masse devono muo-
versi in direzione differente; ma entrambe
devono percorrere infiniti punti. Nell’infinito non c’è più differenza; il mezzo e
l’intero sono uguali e le due masse, così,
non si potranno mai incontrare. In questo
IV paradosso, ha osservato Ferber, si deve
riconoscere non una mechane banale, bensì
il rafforzamento, e quasi il culmine, degli
altri tre precedenti. Come per Achille e per
la freccia, anche nello stadio lo spazio
totale “non è percorribile”, e lo spostamento è sempre e solo “puntuale”; il paradosso
fondamentale è che i punti infiniti di un
segmento non hanno dimensione. In rapporto a Parmenide, per il quale l’essere,
finito, è dappertutto uguale a se stesso e le
differenze di spazio e di tempo sono solo
apparenza, anche per Zenone, che pur ha
introdotto nell’essere la nozione di infinito, le differenze di spazio e di tempo sono
apparenti, se la metà è uguale all’intero.
Per Nestor L. Cordero (“Dall’esti all’essere uno: il Parmenide ‘parmenidizzato’ di
Melisso”) la “linea eleatica” procede piuttosto per fratture che per continuità. In
Parmenide, il “cuore della verità” è in
quell’esti, esperienza primaria, originaria,
espresso senza soggetto per non minarne
l’universalità. Esti ed einai convivono nel
participio presente eon (“ciò che è adesso”): l’essere è la “presenza assoluta” che
non viene mai meno, una realtà totale che si
presenta nelle sue manifestazioni. L’unità
dell’essere non è così un fantasma. Con
Zenone, però, si perviene alla negazione
del molteplice attraversando la paradossalità propria della “dimensione”, della “grandezza”: l’unità residua, per essere unità,
dovrebbe essere “indivisibile”. Per Melisso l’essere non è negabile, perché ne abbiamo continuamente esperienza, e il vuoto
non esiste; dunque l’essere è infinito e la
sua comparazione a una sfera è solo un’immagine; essendo infinito è dunque “uno”.
Con Mario Vegetti (“Katabasisis”), la
linea del discorso si è spostata dalla scansione storico-temporale a quella storicotematica, nell’esame del senso della Katabasis, a partire dalla prima parola, kateben,
presente nella Repubblica di Platone, dove
il termine katabainein comporta il senso di
una “discesa”: di Socrate, in un Ade sociale
e ambientale, di Gige o di Er nelle viscere
della terra, della dialettica dalle ipotesi. Lo
spazio culturale della katabasis, ha notato
Vegetti, ha una sua dimensione nella necromanzia (così con Odisseo, con Orfeo) e,
fra i suoi tratti dominanti, comporta l’incontro con una figura femminile (la deamadre), legata alla conoscenza della verità:
Epimenide incontra Aletheia e Dike, Pitagora trova Themis. La storia di Parmenide, nel suo poema, è quella di un’iniziazione-rivelazione corrispondente non, come
spesso si crede, a una anabasis verso la
luce, bensì proprio ad una katabasis. Attraverso Parmenide la katabasis raggiunge Platone: quella di Socrate nella Repubblica non
è solo un viaggio agli Inferi, analogo a quello
di Odisseo, ma ha a che fare con la tradizione
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sciamanico-sapienziale. La Repubblica è
dunque, ha concluso Vegetti, un racconto di
formazione; la struttura del dialogo segna la
continuità e la cesura fra la tradizione sapienziale e la conoscenza dialettica.
Indagando il rapporto fra theoi e arche, e
indicando in Senofane un disegno di teologia sostitutiva del pantheon olimpico con
un dio-persona diverso (un dio “maschile”:
ho theos), Ileana Chirassi Colombo (“Theos/thea. Il politeismo e l’indifferenza del
divino nella ricerca sull’essere tra Parmenide e Platone”) ha messo a fuoco in Parmenide una riformulazione, tutta al femminile, del politeismo, ma con un uso ridottissimo del termine thea (l’unità del divino)
a favore di sue manifestazioni-denominazioni particolari, come Nux, Dike, Themis,
Ananke, Peitho, Aletheia, Moira, Daimon.
In generale, ha sottolineato Chirassi Colombo, la divinità femminile greca si trova
espressa col sostantivo maschile preceduto
dall’articolo femminile: he theos.
Renato Laurenti (“La componente geometrica della teologia di Empedocle”) ha
richiamato l’attenzione sulla non separabilità, in Empedocle, della dimensione scientifica da quella religiosa, evidente nel fatto
che nel Peri phuseos le “radici”, o elementi
fondamentali, sono indicati coi nomi delle
divinità dell’Olimpo e nei Katharmoi si
ripresentano i medesimi elementi come
costitutivi del tutto. Nella religione greca
in generale, e nell’orfismo e pitagorismo in
particolare, Apollo era dio dei vaticinii e
della poesia, dio risanatore, dio della luce:
prerogative che ritornano in Empedocle, il
quale considera Apollo quasi l’espressione
del divino. In Empedocle, tuttavia, il divino lo si incontra a più livelli: lo sfero,
momento del divenire del tutto, è anche
dio: sphairos è divino; sphaira, invece,
rimanda a Parmenide (e, prima, ad Omero:
la sfericità porta con sé la perfezione), così
come le nozioni di uno, di tutto, di proporzione. In Empedocle, ha concluso Laurenti, la geometria aiuta a capire la perfezione:
il dio supremo, che è fondamentalmente
phren, abbraccia il tutto con i suoi pensieri,
rispondendo alla formula più caratteristica
della fisica empedoclea, l’uno-molti.
Lo sviluppo scientifico dei presupposti
parmenidei è stato affrontato da Filippo
Mignini (“Il concetto di vuoto, e i suoi
correlati, nel dibattito post-eleatico”) e da
Conrado Eggers Lan (“Parmenide e la
nascita della matematica scientifica”). Nel
IV libro della Fisica di Aristotele, ha notato Mignini, il vuoto è inteso come luogo
privo di corpi, non esiste, poiché se fosse
separato dai corpi, e perciò diverso dalla
materia prima, renderebbe impossibile il
movimento: esso non è dunque “il luogo”
in cui avviene lo spostamento, bensì “la sua
materia”. In Parmenide, l’essere, assoluto,
immobile, è indifferente ad ogni determinazione di estensione e di temporalità. L’essere di Melisso è invece eterno e illimitato
(perché altrimenti confinerebbe con il vuoto): unico; il vuoto come intervallo non
CONVEGNI E SEMINARI
Testa di filosofo identificato con Parmenide
67
CONVEGNI E SEMINARI
esiste. Così, se l’essere eleatico è principio
di tutte le cose, ha osservato Mignini, esso
è anche indifferente alle loro determinazioni e modificazioni, tanto che essere e vuoto
(cioè l’indeterminato indifferente ad ogni
determinazione) si possono identificare.
Concorde con C. H. Kahn nel riconoscere
come fattore decisivo per il progresso della
matematica la prova deduttiva, Eggers Lan
ha rilevato come il ragionamento deduttivo
compaia per la prima volta in Parmenide,
quando questi, per confermare che l’essere è
ingenerato, utilizza una dimostrazione indiretta, per assurdo (anche se il ragionamento
deduttivo del poema di Parmenide non è
certo di impronta matematica). Alcuni, come
Cornford, ritennero che la “dimostrazione”
sia nata prima di Parmenide, con i Pitagorici;
in tal senso, il primo documento sicuro per
noi è probabilmente il Menone di Platone
(82c ss.). Prima dell’introduzione della prova deduttiva il metodo di dimostrazione usato dai matematici consisteva nell’epharmozein, nella verifica di coincidenza (la sovrapponibilità) come criterio di uguaglianza. Ad
un certo momento, l’epharmozein risultò
insufficiente per la dimostrazione di problemi matematici più complessi (come, ad esempio, quello della trasformazione delle aree,
affrontato nel Menone, 83a ss.), per i quali
era necessario un ragionamento.
Secondo Maurizio Migliori (“La filosofia
dei Sofisti: un pensiero post-eleatico”), uno
degli esiti del percorso aperto da Parmenide
e da Melisso può essere ravvisato nel pensiero dei Sofisti, in quanto contrapposizione
alla crisi dell’eleatismo. L’opera di Gorgia,
Del non ente o della natura, riprende visibilmente quello della maggiore opera eleatica;
il relativismo di Protagora può essere inteso
come una reazione, vestita con abiti eleatici,
alla scuola fisica. Anche per Platone il senso
filosofico della sofistica risiede nell’eleatismo. Platone individua sei definizioni del
sofista, delle quali è possibile determinare in
alcuni casi il riferimento individuale: di una
- il sofista cacciatore dei giovani ricchi: parla
della virtù ma pensa ai soldi - è Prodico; di
un’altra - le varie possibilità di commercio
per conquistare l’anima - Ippia e Protagora.
Protagora è considerato ancora da Platone un
filosofo; mentre Gorgia, che ha messo in
circolazione i peggiori argomenti, aprendo
la strada alla peggiore sofistica, va subito
confutato nei suoi argomenti.
Ha concluso il convegno Tomás Calvo
Martínez (“Il linguaggio dell’ontologia:
da Parmenide a Melisso”), osservando come
in Parmenide l’opposizione, entro la conoscenza, tra Aletheia (verità, che compare sempre al singolare: è un’ipostasi, una
divinità) e doxa (le opinioni della gente, in
rapporto a cosmologie e ontologia), non
corrisponde a quella tra ragione e sensi,
un’opposizione che non compare nel poema parmenideo. L’opposizione principale
è fra due tipi di linguaggio, quello discorsivo, logos, e quello narrativo, epos, che
sviluppando opinioni, le svolge in cosmogonie e cosmologie. In Melisso restano
espressioni parmenidee, ma si perde l’opposizione logos-epos, come anche quella
tra Aletheia e doxa. In più, in Parmenide il
verbo dokein ha sempre valore attivo, e ta
dokounta sono le opinioni, non le apparenze; in Melisso il verbo dokein è costruito in
forma passiva, e questo induce a pensare
che il dokein sia l’esperienza sensibile, il
“ci sembra” (neutro, esente da ogni attribuzione negativa o di falsità), che in rapporto
alla molteplicità deriva da quello che stiamo a vedere, in rapporto all’unità, dall’argomentazione razionale. S.N.P.
Melantone e il suo tempo
Su invito di Stefan Rhein, custode del
Melanchthonhaus di Bretten (RFT), città natale di Melantone, dal 20 al 22
febbraio 1994 un folto gruppo di studiosi ha preso parte al convegno: “MELANTONE E LE SCIENZE DELLA NATURA DEL
SUO TEMPO ”,
con l’intento di dare una
valutazione all’opera del riformatore e
filosofo alla luce delle più recenti indagini sul rapporto tra riforma e scienze
della natura.
Raramente si è dato pieno conto del fatto
che Melantone abbia svolto un ruolo di
primo piano nello stabilire il sostrato dal
quale ha poi preso avvio la rivoluzione
scientifica del Seicento. Assai numerose
sono state invece le analisi affrettate del
rifiuto - già chiaro, peraltro, negli anni tra il
1539 ed il 1541 - dell’ipotesi eliocentrica,
dapprima da parte di Lutero, che si oppose
a Copernico per motivi di natura strettamente teologica, e poco dopo da parte di
Melantone. Le più recenti ricerche hanno
chiarito che l’opposizione di Melantone
riguardava non solo e non tanto la portata
speculativa dell’ipotesi eliocentrica, quanto la possibilità di valutarla criticamente
rispetto alla sua fruibilità nell’ambito dell’insegnamento nelle università riformate
della Germania protestante.
Nella conferenza introduttiva, Wolfgang
E. Eckart ha riferito delle numerose declamazioni di argomento medico tenute da
Melantone a Wittenberg. Tra gli interventi
che hanno affrontato i rapporti tra teologia
e scienze della natura, Wolfgang Maaser
ha particolarmente insistito sull’uso fatto
da Lutero e da Melantone dell’enthymema
in quanto strumento euristico comune alla
teologia, alla logica ed alle scienze della
natura. Günter Frank ha sostenuto invece
che la scienza della natura melantoniana
sarebbe il risultato in primo luogo di una
disontologizzazione della scienza aristotelica e in secondo luogo di una teologizzazione della scienza profana. A Dino Bellucci è toccato misurarsi con una serie di
definizioni del concetto di mens, date da
Melantone, rispetto alle quali è difficile
non pensare al complesso di temi che nel
68
Seicento sarebbe poi stato trattato sotto il
titolo di theologia naturalis. Ralph Keen
ha infine messo in luce una serie di punti,
relativi, in particolare, alla teologia pastorale, che permettono di configurare l’intellettualismo di fondo dell’approccio melantoniano alle scienze della natura e dunque
anche la plausibilità, oggi, di una sua ripresa anche da parte dei cattolici.
Altri interventi si sono occupati di storia
della matematica e dell’astronomia. Con
riferimenti puntuali alla storia della matematica rinascimentale e con interessanti
accenni sulle città di Norimberga e Wittenberg come luoghi di stampa di libri di
innovazione e divulgazione scientifica, è
intervenuto Karin Reich; mentre il rapporto
tra Melantone e l’astrologia è stato trattato da
Wolf-Dieter Müller-Jahncke, rispetto alle
fonti mediche e astronomiche, e da Barbara
Bauer, che ha presentato un attento studio
dei carmina astrologica, individuando almeno quattro topoi attorno ai quali Melantone era solito articolare la materia.
Nell’ambito della storia della medicina,
Wolfgang E. Eckart è intervenuto di nuovo, mettendo in evidenza come le ricerche
mediche, sviluppatesi a Wittenberg, rivelino conoscenze molto dettagliate di anatomia vesaliana; mentre Theodor Koch ha
ricostruito la storia della facoltà medica di
Wittenberg tra il 1455 ed il 1750. Jürgen
Helm (Halle) si è infine occupato dell’elaborazione del concetto galenico di spiritus
da parte di Melantone.
Le scienze della terra sono state oggetto di
un altro gruppo di interventi. Uta Lindgren ha ricostruito il programma di politica
culturale delineato da Melantone a proposito dell’astronomia e della geofisica, mettendo in evidenza, tra l’altro, l’enorme valore didattico attribuito dal riformatore al
Liber de sphaera di Giovanni di Sacrobosco. Eberhard Knobloch si è soffermato
su Gerhard Mercator, con particolare riferimento all’interpretazione melantoniana dei concetti di simpatia, forza e armonia.
Su aspetti della storia dell’incidenza di
Melantone sono intervenuti infine Riccardo Burigana, che ha riferito sull’interpretazione estremamente difficile dei documenti contenuti nelle disputazioni melantoniane, e Riccardo Pozzo, che si è invece
occupato delle fonti, della struttura e della
ricezione degli Initia doctrinae physicae, il
manuale melantoniano di fisica, che, ben al
di là dei modelli aristotelici e platonici e pur
restando fedele all’ipotesi geocentrica, ha
posto le linee lungo le quali si sarebbe poi
sviluppata la filosofia della natura nelle università tedesche fino al Settecento inoltrato.
L’intervento conclusivo è stato tenuto da
Günther Mahal, che ha parlato del nesso
esistente al tempo di Melantone tra indagine scientifica e storia del territorio. Nella
discussione sono intervenuti Richard Toellner, Paul-Richard Blum e Heinz Scheible. Gli atti usciranno tra breve, a cura di
Stefan Rhein, per i tipi l’editore Jan Thorbeke di Sigmaringen. R.P.
CALENDARIO
Si è concluso il ciclo di conferenze
seminariali, organizzato dalla Casa
della Cultura di Milano nel mese di
novembre 1994 con il titolo: Il pen-
CALENDARIO
siero della natura. Filosofie dell’Ottocento e del Novecento. Tra i
relatori sono intervenuti: giovedì 3,
S. Natoli: “La natura nella filosofia di
Schopenhauer”; martedì 8, R. Massa:
“Foucault, la formazione di sé e il
sadomasochismo”; giovedì 10, Felice Mondella: “La filosofia della natura del positivismo”; giovedì 17, G.
Semerari: “Heidegger: tecnica e natura”; giovedì 24, C. Sini: “Galileo,
Husserl e l’immagine della natura”;
martedì 29, F. Cambi e A. Granese:
“Dalla ‘Paideia’ alla ‘Bildung’”.
● Informazioni: Casa della Cultura, via Borgogna 3, 20122 Milano,
tel. 02/795567
Presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli e con il patrocinio
dell’Ambasciata tedesca in Italia, si è
tenuto, dal 10 al 12 novembre 1994,
un convegno internazionale dal titolo: Max Stirner e l’individualismo
moderno. Questo il calendario degli
interventi: giovedì 10, C. Cesa: “Il
caso Stirner”; D. Mc Lellan: “The
influence of Der Einzige und sein
Eigentum on Karl Marx”; C. Menghi:
“La socieà civile da Hegel a Stirner”;
W. J. Brazill: “Max Stirner and the
Terrorism of Pure Theory”; F. Bazzani: “Stirner e Feurbach”; F. Andolfi:
“La posizione di Stirner nella storia
dell’individualismo”; E. Ferri: “La
rivolta stirneriana contro il moderno”; A. Punzi: “Fichte-Stirner: ordine della libertà ed egoismo proprietario”; T. Hünefeldt: “Beobachtungen
zu Ich und Nicht-Ich bei Stirner und
Fichte”. Venerdì 11, A. Negri: “Sirner e l’anarchismo borghese”; C.
RRoehrssen: “Stirner e l’anarchismo”; M. La Torre: “Stirner tra anarchismo e non cognitivismo”; M. Cossutta: “Ribellione e rivoluzione: note
su un possibile confronto tra Bakunin
e Stirner”: G. Berti: “Max Stirner
filosofo dell’anarchismo”; J. E. Bauer;
“Das Ende des Heiligen”; B. A.
Laska;”Katechon und anarch, Carl
Schmitts und Ernst Jüngers Reaktionen auf Stirner”; L. L. Rimbotti: “Max
Stirner visto da destra”; M. Milli:
“Stirner, Nietzsche e la critica dello
Stato: alcune considerazioni”; E. Castana: “Aspetti del pensiero liberale
in Stirner”. Sabato 12, G. Penzo: “Interpretazione esistenziale del pensiero di Stirner”; R. W. Paterson: “Der
Einzige and L’Etre et le Neant”; B.
Romano: “Stirner e l’esistenzialismo”; A. Signorini: “Decostruzione
e differenza in Max Stirner”; P. Vandrepote: “Max Stirner et la poétique
de la rupture”; G. Modica: “La dialettica della libertà in Stirner e in
Kierkegaard”; C. Scilironi: “Il sacro
in Dostoevskij e Stirner”.
Nei giorni 1, 2, 3 dicembre 1994,
l’Istituto ha organizzato, presso la
sua sede di Napoli, un convegno su:
Giambattista Vico. La Scienza
Nuova, a 250 anni dalla “Terza
impressione”, articolato in quattro
a cura di Luisa Santonocito
sessioni: “Interpretazioni recenti di
Vico”, “La ricezione di Vico nel primo Ottocento italiano ed europeo”,
“Vico nella tradizione della filosofia
pratica e della retorica”, “Vico nel
pensiero italiano ed europeo del suo
tempo”. Tra i relatori: M. Agrimi, A.
Battistini, J. Bermudo, F. Botturi, G.
Cacciatore, G. Cantelli, G. Costa, G.
Crifò, B. De Giovanni, T. De Mauro,
M. Fumaroli, E. Garin, A. Giuliani,
T. Gregory, M. Lilla, V. Mathieu, C.
Miller, M. Mooney, S. Oto, M. Papini, A. Pieretti, V. Placella, L. Pompa,
A. Pons, J. M. S., G. Tagliacozzo, M.
Torrrini, M. Veneziani, V. Vitiello.
● Informazioni: Istituto Suor Orsola Benincasa, Via Suor Orsola 10,
80135 Napoli, tel. 081 412908
Elias e Michel Foucault . Sono pre-
visti interventi di S. Tabboni, C. Ossola, A. Roversi, M. Vegetti, P. Pasquino, A. Ferrara, A. Honneth.
Il Centro Studi Religiosi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena
ha organizzato a partire dal mese di
ottobre 1994 una serie di incontri sul
tema: Le Voci della Preghiera. Forme della invocazione religiosa
nelle culture dell’Occidente. Que-
sta la serie degli interventi: giovedì 6
ottobre, A. Terrin: “La dimensione
antropologica della preghiera”; lunedì 14 novembre, G. Cova: “La Bibbia
e la preghiera”; giovedì 1 dicembre,
M. Cantilena: “Appunti sulla preghiera nella Grecia Antica”; giovedì 15
dicembre, E. Mazza: “Preghiera e ritualità”; giovedì 12 gennaio 1995, E.
Bartolini: “Il dinamismo della benedizione nello ‘Shema Israel’”; giovedì 2 febbraio, P. Stefani: “Il ‘Padre
Nostro’, le parole di Gesù e le parole
dei credenti”; giovedì 16 febbraio, A.
Scarabel: “I nomi più belli nella tradizione islamica”; giovedì 2 marzo, G.
Moretto: “Preghiera e Filosofia”;
marzo 1995 (data da definire), M.
Luzi: “Preghiera e Poesia” e S. Natoli: “Preghiera e Modernità”.
In continuità con il ciclo di lezioni su
“Il grande codice” e il successivo
convegno su “Le provocazioni di
Giobbe”, il Centro Studi Religiosi ha
anche organizzato, nei mesi di ottobre, novembre e dicembre 1994, un
seminario di studi dal titolo: Il viag-
Prosegue il ciclo di lezioni su Tecnica e Cultura. Come le tecnologie
fanno il mondo, organizzato dal
Centro Culturale della Fondazione
Collegio San Carlo di Modena a partire dal mese di ottobre 1994. Questo
il calendario delle lezioni: venerdì 28
ottobre, M. Nacci: “Immagini della
tecnica nella cultura contemporanea”;
venerdì 18 novembre, S. Latouche:
“La ‘megamacchina’, la ragione tecnico-scientifica e la crisi del legame
sociale”; venerdì 25 novembre, R.
Ceserani: “I rapporti tra tecnica e
letteratura. L’esempio della fotografia”; venerdì 16 dicembre, F. Bianco:
“La tecnica tra disincanto del mondo
e ritorno del mito”; venerdì 27 gennaio 1995, P. Bozzi: “La tecnica modifica la percezione? Sull’arte di inventare esperimenti”; venerdì 24 febbraio, P. Odifreddi: “Visioni letterarie e
miraggi tecnologici. Considerazioni
su intelligenza artificiale, realtà virtuale e altro”; venerdì 10 marzo, M.
Perniola: “Sentire naturale e sentire
artificiale. Verso una teoria del corpo
tecnologico”; venerdì 5 maggio , D.
Noble: “La questione tecnologica e le
differenze di classe, religione, genere”; venerdì 19 maggio, M. Augé: “E’
possibile un’antropologia del mondo
contemporaneo?”. Parallelamente alle
lezioni si terrà una serie di incontri di
lettura e discussione dei testi indicati
dai vari relatori.
Il Centro Culturale organizza anche
da gennaio ad aprile 1995 un seminario di studi su: Modelli per la teoria
gio di Giona, effetti di senso di
una figura biblica. Sono intervenu-
ti: lunedì 10 ottobre, P. Lombardini:
“Giona, ovvero la difficoltà di essere
ebreo. Per un primo approccio al testo”; lunedì 7 novembre, A. Bodrato:
“Parmenide e Giona”; mercoledì 23
novembre G. Limentani: “La lettura
ebraica di Giona”; lunedì 5 dicembre,
M. Gay: “Il compito di Giona. Una
lettura psicoanalitica”; lunedì 12 dicembre, M. E. Notari,: “Gli effetti
artistici del libro di Giona”.
● Informazioni: Fondazione Collegio San Carlo, Segreteria dei Centri, via San Carlo 5, 41100 Modena,
tel. 059 222315.
Mercoledì 19 ottobre1994, nella Sala
Crociera dell’Università degli Studi
di Milano si è si è tenuto un seminario
su: Linguaggio, Arte e Filosofia, a
e la storia delle culture. Norbert
69
cui hanno partecipato: M. Cacciari,
S. Givone, C. Sini e V. Vitiello. L’incontro è stato anche l’occasione per
presentare l’ultimo numero della rivista «Paradosso», di cui hanno parlato M. Donà, R. Gasparotti, M. Petranzan, F. Tomatis.
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Via Festa del Perdono 7,
20100 Milano, tel: 02 58307671.
Organizzato dalla Biblioteca Fardelliana di Trapani, con il patrocinio
della Provicia Regionale e del Comune di Trapani, il 22 ottobre 1994 si è
svolto un convegno di studi su: Giovanni Gentile, filosofo europeo?,
con la partecipazione di G. D’Aleo
(“Giovanni Gentile studente del Liceo Classico Ximenes di Trapani”), J.
Kelemen (“Il ruolo di Gentile nella
filsofia europea”), G. Nicolaci (“Gentile e il compimento dell’idealismo”),
A. Infranca (“Gentile dalla cultura
siciliana alla cultura nazionale”).
● Informazioni: Biblioteca Fardelliana, Largo S. Giacomo 18, Trapani.
Per il ciclo: “Libri in cerca di gloria”,
organizzato dall’Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici di Napoli, in collaborazione con il Centro Culturale
Polivalente di Cattolica, P. Bozzi ha
tenuto il 27, 28, 29 ottobre 1994,
presso la Biblioteca Comunale di
Cattolica, un seminario di lettura dedicato alle Osservazioni sulla filosofia della psicologia , di L.
Wittgenstein.
Il ciclo prosegue, in collaborazione
con l’Istituto di Scienze dell’Uomo “J.
Maritain” di Rimini, con una serie di
letture di testi delle religioni monoteiste e orientali dal titolo: Il libro e le
sue religioni. Questo il calendario
degli incontri: 23 novembre 1994: P.
Stefani: “Dalla Bibbia ebraica: Dio
parla la lingua degli uomini”; 24 novembre, D. Pazzini: “Dalla Bibbia cristiana: risurrezione e rivelazione”; 25
novembre, K. Fouad Allam: “Dal Corano: l’ermeneutica della verità”; 30
novembre, G. G. Pasqualotto: “Dhammapada: insostanzialità e impermanenza di tutte le realtà”; 1 dicembre, A.
N. Terrin: “Bhagavad-Gita: praticare
il vero yoga”; 2 dicembre, L. V. Arena: “Tao Te Ching: la via e i nomi,
l’essere e il non-essere”.
Concludono il ciclo tre seminari di
lettura che avranno il seguente svolgimento: 16-17 dicembre 1994, D.
Mainardi: Storia del Celacanto, di
K. S. Thomson; 18-20 gennaio 1995,
A. Caronia: La mostra delle atrocità, ovvero Crash, di James Ballard;
28 febbraio e 1-2 marzo, U. Cerroni:
De Monarchia, di Dante Alighieri.
● Informazioni: Centro Culturale
Polivalente di Cattolica, Piazza della
Repubblica 31, Cattolica (FO), 0541967802.
In occasione della pubblicazione del
volume di Vincenzo Vitiello Elogio
CALENDARIO
dello Spazio. Ermeneutica e topologia (Bompiani, Milano 1994), giovedì 20 ottobre 1994, presso la Sala
Incontri dell’Istituto per il Diritto allo
Studio Universitario (I.S.U.) dell’Università degli Studi di Milano, si è
tenuto un incontro sul tema: L’interpretazione filosofica dello spazio,
a cui hanno partecipato U. Galimberti, P. A. Rovatti, C. Sini e V. Vitiello.
● Informazioni: I.S.U., Ufficio Cultura, tel. 02 809431.
Promosso dall’Istituto Internazionale ‘Jacques Maritain’ di Roma, in
collaborazione con la Fondazione
Mondo Unito della Città del Vaticano
e la Fondazione Konrad Adenauer di
Bonn e con il patrocinio di Jacques
Delors, presidente della Commissione Europea, dal 20 al 22 ottobre 1994,
presso la sede dell’Istituto Filosofico
Aloisianum di Gallarate, si è svolto
un convegno sul tema: La pace etni-
e la questione delle arti figurative nell’ultimo Settecento”; F. Fanizza: “Vedere e toccare: Herder e le belle arti”.
Informazioni: Centro Internazionale
Studi di Estetica, Viale delle Scienze,
Palermo, tel. 091 6570187.
gennaio, J. Greisch: “Hermeneutique
et metaphisique”; giovedì 9 febbraio,
M. Henry: “Phenomenologie de la vie”;
giovedì 9 marzo, J. F. Courtine: “La
philosophie pratique des recherchez
philosophiques de Shelling; giovedì
30 marzo, P. J. Labarrière: “Hegel a
l’épreuve de la deconstruction”.
● Informazioni: Centre Culturel
Francais, tel. 011 5623313; oppure:
Segreteria del Dipartimento di Ermeneutica Filosofica, tel. 011 8125780.
Promosso dal Centre Culturel Francais di Torino, dal Dipartimento di
Ermeneutica Filosofica dell’Università degli Studi di Torino e dall’Assessorato per le Risorse Culturali e la
Comunicazione, venerdì 11 novembre 1994 si è aperto il ciclo: Incontri
Organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di
Lecce, il 15 e 16 dicembre 1994 si è
tenuto all’Università di Lecce un convegno dal titolo: Gentile e la filosofia dell’Occidente. Questa la serie
degli interventi: 15 dicembre, A. Negri: “L’attualismo o il destino dell’Io”; F. Fanizza: “Gentile e la filoso-
con la Filosofia Francese Contemporanea. Presso la sede del Centro, J.
L. Nancy ha tenuto una conferenza su:
“De l’existence et de la verité”. Per
giovedì 19 gennaio 1995 è previsto
invece un incontro con J. Derrida presso la Sala Congressi dell’Istituto Bancario S. Paolo. Seguiranno: lunedì 23
ca, politica, economia, cultura e
religione nei Balcani. Su “Le radici
2-5 gennaio 1995
Aldo Masullo
della conflittualità”, sono intervenuti: R. Petrovic, R. Lovrencic, A. Biagini, V. Dimitrijevic. M. Orsolic e G.
E. Rusconi sono intervenuti sul tema:
“Dalla conflittualità ad un ordine di
pace”. Infine, alla tavola rotonda su:
“Il costo della guerra e ipotesi di
ricostruzione: il ruolo della cooperazione internazionale e di quella regionale”, hanno partecipato B. Andreatta e G. Politakis.
● Informazioni: Istituto Internazionale Jacques Maritain, Via Quintino
Sella 33, 00187 Roma. Tel: 06
4874601; fax: 06 4825188.
Il fantasma della comunità
e lo scandalo politico
Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici
Via Monte di Dio 14, Napoli
La «comunità», o il modello antropologico del «primitivismo» - Il neocomunitarismo e la maturità etica della
teoria politica liberale - L’intersoggettività originaria tra dialettica e fenomelogia - Il «comunismo letterario»
dell’ermeneutica decostruzionistica Il fantasma della comunità: rassicurazione e terrore. La comunità paradossale e la «cura» emancipatrice.
Genova, 5-9 febbraio 1995
Xavier Tilliette
Bibbia e Filosofia
In collaborazione col Dipartimento
di Filosofia dell’Università di Genova
Genesi. I primi giorni della creazione. Creazione dell’uomo e della dona.
Peccato originale e paradiso terrestre
- Abramo. il sacrificio di Isacco, la
lotta di Giacobbe - Mosè. La rivelazione del roveto ardente. L’esodo - Il
lamento di Giobbe. La Sapienza. Il
servo sofferente - Bibbia e filosofia:
il Libro assoluto.
9-12 gennaio 1995
Alberto Burgio
Soggettività e coscienza nel
pensiero politico contemporaneo
L’Istituto di Filosofia della Facoltà
di Lettere e della Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Perugia hanno organizzato per il 14 e
15 novembre 1994, nella Sala Convegni Pro Civitate Christiana di Assisi, il XII Incontro del «Giornale di
Metafisica” sul tema: Metafisica e
logica del principio. Al convegno
sono intervenuti: N. Incardona, P.
Faggiotto, U. Perone, E. Mirri, Università di Perugia.
● Informazioni: Università degli
Studi di Perugia, tel: 075 5851.
In occasione della pubblicazione dei
Pensieri sull’Imitazione, di Winckelmann, della Lettera sulla Scultura, di
Hemsterhuis, e della Plastica, di Herder, nei giorni 9 e 10 dicembre 1994
il Centro Internazionale Studi di Estetica e l’Università degli Studi di Palermo, con il patrocinio del Ministero
dei Beni Culturali e dell’Assessorato
ai Beni Culturali della Regione Siciliana, hanno promosso un seminario
su: Il sogno di Pigmalione. La riscoperta della scultura in Winckelmann, Hemsterhuis, Herder.
All’incontro hanno partecipato, in
qualità di relatori: G. Cusatelli: “Winckelmann: le ombre bianche”; G.
Morpurgo Tagliabue: “Hemsterhuis
Coscienza servile e storia della libertà - La coscienza e la totalità: Lenin
lettore di Hegel - Coscienza, contradizione e dialettica: Gramsci lettore
di Hegel - Tra libertà e necessità: il
problema del senso della storia.
13-17 febbraio 1995
La costruzione dell’immagine
scientifica del mondo.
Mutamenti nella concezione
dell’uomo e del cosmo
dalla scoperta dell’America
alla meccannica quantistica
9-13 gennaio 1995
Giovanni Bonacina
In collaborazione col Dipartimento
di Matematica dell’Univ. di Perugia
U. Bartocci: “Dal mondo capovolto
di Cristoforo Colombo all’universo
senza centro di Galileo Galilei” - T.
Tonietti: “Verso la matematizzazione della scienza: armonia e matematica nei modelli del cosmo fra Seicento e Settecento” - G. Sermonti: “Il
posto dell’uomo nell’universo: da
Aristotele a Darwin a oggi” - M.
Mamone Capria: “La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e tempo:
l’avvento della relatività” - E. Caccese: “La dissoluzione della realtà: irrealismo e indeterminismo nella fisica
del microcosmo”.
Storia universale
e storia della filosofia in Hegel
La storia della filosofia come storia
del mondo in nucleo - La bella eticità
greca e la Repubblica platonica - La
solitudine del filosofo nel mondo romano infelice - La stagione degli scopritori e l’aurora della modernità - La
rivoluzione nella forma del pensiero.
16-20 gennaio 1995
Saverio Ricci
Filosofia e vita civile a Napoli
nella seconda metà del Settecento
Ultimi roghi, prime luci - Antonio
Genovesi: la filosofia «tutte cose» La scuola di Antonio Genovesi - Gaetano Filagieri - Francesco Mario Pagano e la generazione rivoluzionaria.
20-24 febbraio 1995
Romeo De Maio
Leonardo
e l’Umanesimo incompiuto
30 gennaio - 2 febbraio 1995
Girolamo Cotroneo
La caverna di Leonardo - Leonardo e la domanda umanistica - Leonardo e l’enigma della verità - Leonardo e lo Stato rinascimentale Leonardo religioso.
Gli ‘Scritti sulla Storia’ di I. Kant
La polemica con Herder - Le razze
umane e l’origine della storia - La
storia universale - L’illuminismo, il
progresso, la pace.
70
fia dell’arte: tentativi di dis-lettura”;
S. Giametta: “Gentile e Croce”; G. A.
Roggerone: “Gentile e l’oltrepassamento della democrazia nello stalinismo”; A. Signorini: “Il divenire in
Gentile e Stirner; G. Invitto: “La presenza di Gentile nel dibattito italiano
sull’esistenzialismo”; F. Fistetti: “La
secolarizzazione dello storicismo italiano: Guido Calogero”; 16 dicembre,
C. Vigna: “Attualismo, problematicismo, ontologia metafisica: una sequenza storico-speculativa”; M. Signore:
“Il ‘Kant’ di Gentile”; H. A: Cavallera: “Gentile e Spinoza”; N. Emery:”
L’attualismo come ‘terremoto metafisico’: l’ambivalente rapporto RensiGentile”; P. Birtolo: “Un appassionato interprete di Gentile: Vito A. Bellezza”; M. Simonetta: “Un inquieto
allievo di Gentile: Ernesto Grassi”.
● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Via V. M. Stampacchia, Lecce, tel. 0832 406624.
20-24 febbraio 1995
Ezequiel de Olaso
Leibniz y el escepticismo
La tradición escéptica y Leibniz. Problemas de interpretación: el escepticismo antiguo y el moderno. Escepticismo y platonismo - Los textos polémicos de Leibniz: el arte de disputar.
Leibniz y los escépticos de su tiempo
- Leibniz contra la concepcion biográfica de la razón humana:
Montaigne y Descartes. Conocimiento y juicio. La polémica con Foucher:
el conocimiento hipotético y la existencia del mundo exterior. Un texto
inédito de Leibniz contra Sexto Empirico. Las criticas a Enesidemo y a
Agrippa - Leibniz y el escepticismo
sobre los principios. Limitaciones de
la respuesta de Leibniz y las soluciones de Kant y Hegel.
13 ottobre 1994 - 10 febbraio 1995
Introduzione alla filosofia greca
Incontri di aggiornamento
per la scuola a cura di A. Gargano
Il termine «filosofia» - I problemi
della filosofia - La visione del mondo
dei poemi omerici e della tragedia Talete, Anassimandro, Anassimene Eraclito - Pitagora - Parmenide - I
sofisti - Socrate - Platone.
21 ottobre 1994 - 17 febbraio I995
Il pensiero italiano
del Quattrocento e Cinquecento
Incontri di aggiornamento
per la scuola a cura di A. Gargano
L’Umanesimo civile - Il neoplatonismo italiano: Marsilio Ficino e Pico
della Mirandola - Leonardo da Vinci Niccolò Machiavelli - Francesco Guicciardini - Bernardino Telesio - Giordano Bruno - Tommaso Campanella.
6 dicembre 1994 - 23 marzo 1995
Classici della filosofia
dell’età contemporanea
Incontri di aggiornamento
per la scuola a cura di A. Gargano
Immanuel Kant - Johan Gottlieb Fichte
- Georg Wilhelm Friedrich Hegel Karl Marx.
DIDATTICA
DIDATTICA
a cura di Riccardo Lazzari
La filosofia insegnata
L’insegnamento della filosofia nella
scuola è un problema complesso che
non può essere lasciato all’improvvisazione e allo spontaneismo, come è
avvenuto finora. Perdurando l’assenza di una soluzione istituzionale nella
formazione dei docenti, che chiama
in causa il ruolo strategico dell’università, Pietro Biancardi, Laura Bolognini, Lucia Marchetti e Giuseppe
Deiana in una recente pubblicazione: LA FILOSOFIA INSEGNATA. ESPERIENZE
E RIFLESSIONI TRA INSEGNANTI PER L ’ INNO VAZIONE E LA RICERCA (Pagus Edizioni,
Treviso 1994) hanno voluto proporre quattro percorsi individuali che,
pur nella diversità delle persone e
dei luoghi di realizzazione, si riconoscono in un’idea comune del fare
filosofia a scuola.
Nella sua “Introduzione” Giuseppe Deiana sottolinea come gli autori intendano presentare, in questo volume, un’ipotesi di modello di didattica della filosofia realistico, aperto e discutibile, integrabile e correggibile, ma con la valenza
di proposta complessiva unitaria. Il volume intende rispondere ad alcuni degli
interrogativi più ricorrenti fra i docenti
delle scuole secondarie superiori e raccoglie alcuni brevi saggi sul tema della
didattica della filosofia.
Perdurando lo stato di relativa arretratezza
in cui ancora si trova l’insegnamento della
filosofia, Pietro Biancardi, Laura Bolognini, Lucia Marchetti e Giuseppe Deiana hanno tentato, dall’interno del sistema scolastico, di aprire percorsi di innovazione per una didattica intesa come ricerca. La proposta è quella di far convergere,
in una nuova prospettiva progettuale, le
due istanze sottese ad un’azione didattica
razionale e produttiva: quella del lavoro
effettivo, organizzato e attuato a scuola e
in classe, e quella del dibattito teorico, che
si sviluppa attraverso i libri, le riviste e i
convegni. Si tratta di esperienze che obbediscono ai criteri di una programmazione
didattica creativa e critica, aperta alla problematizzazione e alla valutazione pubblica, ricca sotto l’aspetto epistemologico e
formativo e, come tale, trasferibile, pur
senza la pretesa di presentarsi come un
progetto completo, ma come un progetto
praticabile secondo condizioni scolastiche possibili e una chiara idea di ricercasperimentazione e di progettazione-programmazione della filosofia nel curricolo.
La proposta di questo itinerario nasce sulla
scorta delle trasformazioni sociali, culturali e politiche degli anni ’70 e ’80, maturate nella società e nella scuola italiana, e
nella consapevolezza della possibilità di
realizzare diverse strategie didattiche, che
si avventurano in quel tipo di ricerca e di
sperimentazione che procede sui binari
paralleli e strettamente connessi della teoria epistemologico-conoscitiva e dell’esperienza scolastico- lavorativa, coniugando
teoria e pratica didattica. Il compito che gli
autori si sono prefissi è determinare gli
obiettivi cognitivi e socio-relazionali, i
contenuti disciplinari e il metodo sotteso
all’organizzazione didattica in funzione,
da un lato, della specificità della disciplina, dall’altro dell’apprendimento dello studente, e fra questi, della mediazione dell’insegnante. La riflessione teorica e le
esperienze sono state di volta in volta
raccolte, sistemate e ripensate nel farsi del
lavoro, per dar conto dei processi di pensiero e dei procedimenti che sono stati
attivati nelle classi. Per questo gli autori
hanno deciso di raccogliere i risultati e di
ripresentarli nella forma originale.
Quattro sembrano i “guadagni” - come li
definisce Deiana - derivanti da tale dibattito. Il primo, relativo all’organizzazione
del lavoro scolastico, consiste nella convinzione che un buon insegnamento della
filosofia passa per una strutturazione didattica “forte”; il secondo, relativo agli
assetti disciplinari, consiste nell’affermazione della tesi estensiva, cioè della filosofia per tutti, a seguito del riconoscimento
delle sue potenzialità formative e trasversali; il terzo, presupposto dei primi due,
consiste nel riconoscimento della specificità della filosofia, cioè dello statuto epistemologico della disciplina; infine il quarto consiste nello spostamento della riflessione e della sperimentazione dalla filosofia insegnata alla filosofia appresa.
71
Filosofia per ragazzi
L’uso del gioco e di esemplificazioni
concrete e semplici da comprendere
sembra essere uno strumento didattico di felice riuscita. E‘ questa la struttura che regge due recenti pubblicazioni che intendono “divulgare” la
filosofia ad uso di ragazzi e adolescenti. Si tratta di RITRATTINO DI KANT AD
USO DI MIO FIGLIO (Mondadori, Milano
1994), di Massimo Piattelli Palmarini,
e de IL MONDO DI SOPHIE (trad. it. di ***,
Longanesi, Milano 1994), di Jostein
Gaarder.
Pensato come “storia” che fosse in grado
di spiegare, in termini semplici, ad un
ragazzo di tredici anni la filosofia di Kant,
il Ritrattino di Kant ad uso di mio figlio
costituisce uno strumento piacevole ed
efficace in grado di essere di aiuto anche ai
meno giovani. La caratteristica portante
del testo è data dall’uso frequente di esempi ispirati al mondo concreto delle cose e,
per questo, di facile comprensione. L’elemento didattico si realizza, allora, non
tanto nella sistematicità dell’esposizione
del pensiero kantiano, quanto nel continuo
richiamo ad aneddoti e a casi concreti che
illustrano al giovane lettore, spesso in
maniera ludica, la struttura del pensiero
kantiano. L’esposizione della vita dell’autore, realizzata in base ad episodi spesso
divertenti e accattivanti, accompagna l’illustrazione del pensiero kantiano,. Così,
vengono citati aneddoti, come quello che
vede gli abitanti di Königsberg regolare il
proprio orologio in funzione delle puntualissime passeggiate di Kant, o come quello
secondo cui Kant, alla morte del servitore
Lampe, avrebbe appeso davanti al tavolo
di lavoro un cartello con scritto “dimenticare Lampe”!
L’elemento intorno al quale ruota l’intero
volumetto, poco più di ottanta pagine, è
l’importanza decisiva che Kant attribuisce
alla ragione umana. Descritta come “il
colletto bianco inamidato del padre”, in
grado di insegnare al bambino a camminare da solo, la ragione kantiana e illuminista
è posta come quell’elemento in grado di
fornire all’uomo la capacità di trovare le
proprie possibilità e i propri limiti nel
DIDATTICA
campo della conoscenza, della morale e
della religione. Abbandonando la tipica
partizione del pensiero kantiano nelle tre
critiche, Massimo Piattelli Palmarini illustra il valore della ragione nei diversi
campi dell’attività umana. Così, sia la conoscenza sia la morale sono descritte come
quegli ambiti in cui la capacità autonoma
dell’individuo formula i giudizi sintetici a
priori e gli imperativi categorici, con cui
gestire razionalmente la scienza e l’etica.
Sempre attraverso esempi concreti e immediati Piattelli Palmarini sottolinea più
volte l’autonomia della critica razionale
con cui arginare il “pericolo” dell’ideologia (molto dura la critica al marxismo), e della religione che, oltrepassati i
limiti della ragione, diventa fanatismo e
idolatria.
L’apologia kantiana non è, comunque, priva di senso critico e di analisi. Nonostante
il fervore che accompagna Palmarini durante tutto il suo excursus, infatti, non
manca la consapevolezza da parte dell’autore di un limite nell’opera kantiana
e cioè della totale assenza dell’esplorazione, o anche solo della presa d’atto, di
quella zona della psiche, l’inconscio,
dove la ragione, strutturalmente, non è
in grado di arrivare.
Il mondo di Sophie racconta invece, attraverso il gioco e l’esemplificazione, la storia della filosofia nella forma di una fiaba
e di un romanzo epistolare. La protagonista, Sophie, riceve, ogni mattina, nella
cassetta delle lettere, messaggi con domande del tipo: “Chi sei tu?”; o “Da dove
viene il mondo?”, alle quali seguono le
risposte formulate in filosofia dai pensatori occidentali più noti, dai presocratici fino
a J. P. Sartre.
L’intento di Jostein Gaarder con quest’opera è quello di presentare la filosofia non tanto come insieme di concetti
seriosamente accademici, bensì come
continua interrogazione e stupore di fronte ai misteri della vita. Pensato per adulti
e scritto per ragazzi, il romanzo mette in
gioco la filosofia con i sentimenti e l’immaginazione all’interno di quel mondo
privilegiato che è l’infanzia. In questo
modo, rappresentando, ad esempio, l’atomismo di Democrito attraverso il gioco
del “Lego” e facendo sfilare Kant e
Hegel di fianco ai personaggi di Walt
Disney, Gaarder si pone due intenti realizzati entrambi attraverso l’aspetto ludico. In primo luogo riportare la filosofia in piazza; di fronte all’intellettualismo, a volte quasi esoterico, che pervade
le università, infatti, Il mondo di Sophie
costituisce uno strumento divertente ed
efficace in grado di divulgare le domande e le risposte più frequenti nella storia
dell’uomo. In secondo luogo, il romanzo
si propone anche come strumento didattico che, attraverso l’intreccio tra fantasia e immagine, può realizzare il primo
“assaggio” di filosofia anche per i più
giovani. A.S.
Charles Bell, Manikin Monkey (1972, particolare)
72
DIDATTICA
Per diventare cittadini
Il diritto di cittadinanza è un valore che
dobbiamo acquisire se vogliamo contribuire direttamente alla costruzione
di una società democratica e se vogliamo diventare soggetti politici a pieno
titolo: da questa convinzione Susanna
Creperio Verratti, in collaborazione con
Vanna Lora, Lino Rizzi e Tommaso
Arenare, ha tratto l’idea di organizzare
un corso di filosofia politica, rivolto a
un pubblico di giovani, che si articolerà in nove incontri a carattere seminariale sul tema: “LE FONTI DELLA LIBERALDEMOCRAZIA”. Scopo del corso, che si
svolgerà a Milano da febbraio a maggio 1995, presso l’Istituto G. Pascoli
(via C. Poerio 14, Milano) è di sollecitare i giovani a riflettere intorno ai grandi problemi di natura teorica della politica e a praticare nella realtà quotidiana i loro diritti di cittadini.
Il progetto è scaturito dalla convinzione
della necessità, nel mondo contemporaneo, di discutere temi etico-politici di
ampio respiro, che riguardano da un lato i
Paesi di più solida tradizione democratica
e dall’altro il passato e il presente del
nostro Paese, alla ricerca di quei momenti
nodali in cui il liberalismo si è aperto alle
istanze democratiche, intese sia come allargamento del suffragio sia come partecipazione alla politica della società civile.
Il corso è articolato in tre cicli di tre incontri ciascuno: una prima parte storico-conoscitiva, tesa a presentare i classici del pensiero liberal-democratico, quali De Tocqueville (nel contesto di un raffronto tra la
democrazia americana e la realtà della
Francia a lui contemporanea); e J. Stuart
Mill e la sua battaglia per difendere la
libertà come principio e come valore in
Inghilterra; quindi una seconda parte, dedicata al ‘900, dove saranno analizzati un
periodo particolarmente critico nella storia delle democrazie europee, la Repubblica di Weimar, e la risposta di Hans Kelsen,
filosofo e giurista, fatta di impegno politico inteso kantianamente come imperativo
categorico. Si procederà poi all’attualità
del dibattito sulla democrazia liberale con
lo sviluppo del tema del rapporto tra etica
e politica, ovvero, tra libertà individuale e
giustizia sociale, con riferimento a J.
Rawls. L’ultima parte del corso si sofferma sulla situazione italiana e pone la domanda fondamentale : perché in Italia non
è decollata la liberal-democrazia? Si cercherà nel passato della storia d’Italia e in
particolare nel periodo dell’Unità la presenza di una tradizione liberale e democratica, ravvisandone le fonti anche poco conosciute e individuando nel federalismo
una delle risposte più concrete per la realizzazione di una democrazia liberale. L’ultima parte del corso ha infatti lo scopo di
aprire il dibattito sul caso italiano; la Tavola rotonda conclusiva dovrebbe costituire
un momento di riflessione, ma anche di
apertura sulle prospettive, nel nostro Paese, di una teoria e di una pratica della
democrazia liberale.
Ogni incontro, in tutto nove, della durata
di due ore circa ciascuno, si articola in due
fasi: una prima fase espositiva, vede la
presenza di uno o più relatori che si alternano; una seconda fase, interattiva, è dedicata alla lettura delle pagine più significative degli autori proposti, al dialogo, alla
riflessione ed alla discussione democratica. Questa seconda fase, condotta con tecniche opportune, dovrebbe abituare il giovane corsista ad una pratica civile del confronto con gli altri: si tratta di educazione
civile o, per meglio dire, del cittadino.
Prima e dopo il corso, verrà messo a disposizione il materiale di lavoro: all’inizio di
ciascun ciclo verrà consegnata ad ogni
corsista la traccia degli argomenti che verranno sviluppati oralmente, corredata dai
passi più significativi degli autori citati;
questa sorta di guida conterrà la bibliografia essenziale come rimando necessario
alla lettura dei testi integrali. Alla fine del
corso gli argomenti, gli interventi e le
proposte più significativi verranno resi
pubblici come Atti.
Questo il calendario degli incontri: 1 febbraio, “Finalità, obiettivi e metodo”, presentazione dei docenti e degli argomenti
del corso; 8 febbraio, Lino Rizzi: “Liberalismo e democrazia in De Tocqueville”;
15 febbraio, Vanna Lora: “Libertà e individualità in John Stuart Mill”; 15 marzo,
Tommaso Arenare: “Libertà, mercato,
istituzioni”; 22 marzo, Vanna Lora: “Libertà, uguaglianza ed impegno politico in
Kelsen”; 29 marzo, Susanna Creperio
Verratti: “Libertà ed equità in Rawls”; 26
aprile, Lino Rizzi: “Le due vie dell’unità
politica italiana”; 3 maggio, Susanna Creperio Verratti, Tommaso Arenare: “Liberismo e tradizione liberaldemocratica in
Italia”; 10 maggio, Tavola rotonda: “Le
prospettive di una teoria e di una pratica
democratico-liberale in Italia” (per informazioni: Susanna Creperio Verratti, Istituto G. Pascoli, via Poerio 14, 20129 Milano, tel. 02/29518327). S.C.V.
Durata e finalità del Corso di laurea; art. 3
- Organizzazione degli studi; art. 4. - Norme generali e transitorie; art. 5 - Curriculum didattico; art. 6 - Ripartizioni disciplinari), presenta alcuni punti di novità
indubbiamente positivi, fra i quali: la divisione del quadriennio in due bienni, rispettivamente propedeutico e specialistico;
l’elevazione del numero complessivo degli
insegnamenti, previsti nel piano di studio,
dagli attuali 19 a 21, con l’inclusione tra
essi di un insegnamento di lingua straniera
e l’aggiunta d’una prova scritta su testi
filosofici; la previsione di esercitazioni di
pratica testuale coordinate dal Consiglio di
corso di laurea.
Altri punti suscitano invece, secondo Enrico Berti, alcune perplessità. In particolare l’individuazione del «secondo nucleo di
discipline» del primo biennio tra quelle
«appartenenti ad altri settori umanistici,
che consentano ... il mantenimento dell’intersettorialità con gli altri corsi di laurea
incardinati nelle facoltà di Lettere» (art. 2)
appare ingiustificata alla luce del fatto che
anche in Italia gli studi filosofici hanno
sempre più sostituito il rapporto intrattenuto in passato con gli studi storico-letterari
con un’attenzione rivolta in egual misura a
tutti gli ambiti culturali. Ma ciò che più
sconcerta, secondo Berti, è il fatto che il
numero degli insegnamenti filosofici obbligatori per la laurea in Filosofia verrebbe
ad essere, secondo la proposta del C.U.N.,
complessivamente di 10 su 21, cioè meno
della metà, per via dell’inclusione, nel secondo biennio, di ben 5 insegnamenti a
scelta in un area non filosofica, individuati
soprattutto nell’ambito delle Scienze umane, della Storia o delle Scienze del linguaggio e della comunicazione e da aggiungersi
a quelli già previsti per il primo biennio. E’
invece auspicabile, secondo Berti, che tale
gruppo di insegnamenti venga ridotto, nel
secondo biennio, da 5 a 3, individuabili
indifferentemente in qualsiasi altra area
non filosofica, compresa dunque quella
delle scienze matematiche, fisiche e naturali, che finora, stante la proposta in discussione, sarebbero eleggibili solo con l’approvazione del Consiglio di corso di laurea. Altre perplessità sono poi suscitate, per
Berti, dalle restrizioni che rendono estremamente rigido e poco duttile il curriculum
del corso di laurea in Filosofia.
Interventi, proposte, ricerche
Sul «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 152, maggio-agosto
1994) viene pubblicata una Proposta
di riordino del Corso di laurea in Filosofia, elaborata dal C.U.N. e inviata al
Comitato consultivo. Alcune osservazioni sul merito di questa proposta
sono avanzate, sullo stesso «Bollettino», da Enrico Berti, del Consiglio
Direttivo della S.F.I.
La proposta, che si divide in cinque articoli
(art. 1 - Istituzione ed accesso; art. 2 73
Fra i recenti interventi sull’insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie superiori si segnalano i contributi di Mario Pinotti e di Mario Trombino sul «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 152, maggio-agosto 1994) e, su «Paradigmi» (n. 35,
maggio-agosto 1994), una nota di
Maria De Rose sul Convegno di didattica della filosofia del 1993, organizzato dalla S.F.I., e le risposte date da
Giuseppe Semerari a quattro domande poste da Franca Pinto Minerva.
DIDATTICA
Nell’articolo: La filosofia tra senso comune ed argomentazione, Mario Pinotti cerca di affrontare la questione del notevole
numero di studenti che «prima o poi nel
corso del triennio rinunciano alla frequentazione (sia pure scolastica) della filosofia, come se ne fossero o impermeabili o
rassegnati, davanti alle difficoltà che essa
presenta». Questa rinuncia dipende, secondo l’autore, dalla «diffusa incomprensione del legame che intercorre tra le sue
problematiche, il suo linguaggio, la sua
sintassi e le problematiche, il linguaggio,
la sintassi del senso comune». Partendo da
questa «intuizione generale», l’autore cerca di delineare una credibile strategia didattica capace di stabilire un nesso di circolarità tra presente e passato nell’apprendimento della filosofia. In particolare l’insegnante «deve presentare la filosofia come
un punto di riferimento, dal quale attingere
le risposte a quelle domande che la prospettiva interna al senso comune ha necessariamente deluso». Di particolare interesse sono due esempi di materiale elaborato da studenti, come esito finale di un
lavoro condotto sul Fedone di Platone.
L’articolo di Mario Trombino, dal titolo:
A proposito di una nuova idea per insegnare filosofia a scuola, si presenta come
un’accurata recensione del libro di Mario
De Pasquale, Didattica della filosofia. La
funzione egoica del filosofare (Franco
Angeli, Milano 1994; cfr. «Informazione
Filosofica», n. 17/18, febbraio/aprile 1994).
Elemento saliente della recensione di
Trombino è il rilievo secondo cui «il modello proposto da De Pasquale non è compatibile con la nostra scuola, così com’è».
Esso infatti, per essere attuato, esige un’organizzazione del tempo e dello spazio
molto diversa da quella attualmente in
vigore nella scuola. Quanto poi al problema della valutazione, osserva Trombino,
tale modello «è forse troppo radicale anche per una scuola riformata, che consenta
tempi e modi diversi». Per quanto riguarda
poi la praticabilità complessiva del modello proposto da De Pasquale, Trombino
sostiene che «se insegnare filosofia significa creare una comunità di ricerca, aderirvi o meno deve essere in ogni momento
frutto di un atto di libertà. Si può fare, ma
la riforma della scuola... deve recepire
questo principio. Nella scuola oggi questo
non è possibile».
Nel suo intervento su «Paradigmi», dal
titolo Un convegno nazionale sulla didattica della filosofia, Maria de Rose, oltre a
svolgere alcune considerazioni iniziali, offre un bilancio del convegno “La didattica
della filosofia nell’università e nella scuola secondaria superiore”, tenutosi a Treviso dal 25 al 27 novembre 1993 a cura della
Società Filosofia Italiana (cfr. «Informazione Filosofica», n. 16, dicembre 1993).
Secondo De Rose è nella prospettiva di
realizzazione di una sempre più proficua
«convergenza tra didattica ed epistemologia disciplinare» che va rivolto lo sguardo
innovatore dei docenti di filosofia. Vale a
dire: la didattica non si connota come mera
tecnica, ma come «ambito problematico
complesso», che coinvolge, oltre ai problemi legati allo «specifico statuto epistemologico delle diverse discipline», molteplici questioni d’ordine psicologico-cognitivo, docimologico, interdisciplinare.
Secondo De Rose il convegno organizzato
dalla S.F.I. non è stato capace di rispondere in modo adeguato ai temi di ampio
respiro e alle questioni che erano state
annunciate. Nonostante alcuni interventi
particolarmente stimolanti, i lavori del
Convegno «sono stati rivolti o all’evidenziazione di problemi o all’esposizione di
programmi, aspetti entrambi già noti alla
maggior parte dei docenti di scuola superiore coinvolti in prima persona nel processo di rinnovamento già in atto».
Ancora sullo stesso fascicolo di «Paradigmi», Giuseppe Semerari risponde ad alcune domande di Franca Pinto Minerva
sullo “stato di salute” della filosofia, sulla
possibile metodologia (unica e neutrale o,
viceversa, pluralistica) della ricerca filosofica, sul significato dell’allargamento
dell’insegnamento filosofico agli istituti
tecnici, sulla possibilità di insegnare alcuni elementi del pensiero filosofico sin dalla scuola di base.
Si segnala infine un contributo di Maria
Giovanna Delfino, apparso su «Sensate
esperienze» (n. 23, giugno 1994), relativamente al tema: Fra Scienza e Filosofia:
organizzazione e svolgimento di un progetto didattico fondato sulla Bioetica. Il
progetto, articolato in senso logico-cronologico e corredato dagli itinerari di Scienza, Filosofia e Religione Cattolica, è stato
introdotto nel Liceo «Pacinotti» della Spezia allo scopo di innovare il curricolo tradizionale di Scienze e Filosofia, di avviare
una modularità avente come perno discipline aferenti aree diverse, di “rompere” lo
schema rigido della partizione per anno
dei contenuti disciplinari.
Già da alcuni anni, la Società Filosofica Italiana ha condotto, con il patrocinio del Ministero della Pubblica
Istruzione, un’inchiesta sull’insegnamento della filosofia nelle scuole
sperimentali. Questa inchiesta, di
cui abbiamo già anticipato i contenuti (cfr. «Informazione Filosofica»,
n. 15, settembre/ottobre 1993), è
ora apparsa nelle librerie con il volume: L’ INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA
NELLE SCUOLE SPERIMENTALI. RAPPORTO
DELLA SOCIETÀ FILOSOFICA ITALIANA (a
cura di C. Lanzetti e C. Quarenghi,
Laterza, Roma-Bari 1994).
La ricerca su L’insegnamento della filosofia nelle scuole sperimentali, condotta
Clemente Lanzetti e Cesare Quarenghi,
si inserisce in un programma di lavoro
promosso dalla S.F.I. alla metà degli anni
74
Ottanta, che prevedeva due studi di carattere empirico sull’insegnamento della filosofia in Italia: uno nei licei a ordinamento normale e uno nelle scuole secondarie
superiori di tipo sperimentale. Il primo è
stato effettuato negli anni 1985-86 e i
risultati sono stati raccolti nel volume:
L’insegnamento della filosofia. Rapporto
della Società filosofica italiana (a cura di
L. Vigone e C. Lanzetti, Laterza, RomaBari 1987); il secondo è stato realizzato tra
il 1990 e il 1992 e viene presentato nel
volume in questione.
Lo scopo che accomuna i due lavori, come
specificano i curatori del secondo rapporto, è quello di fornire dati oggettivi su
come nella pratica didattica i docenti di
filosofia esercitano la loro professione, sui
problemi e le difficoltà che incontrano nel
loro effettivo contesto di lavoro, sulle attese che hanno e i suggerimenti che propongono in ordine sia alla didattica che alla
loro formazione. In particolare, per la ricerca relativa alle scuole sperimentali sono
state adottate due strategie diverse di rilevazione dei dati: l’una prevalentemente
qualitativa, che si rifà ai metodi dell’analisi socio-organizzativa e alla tecnica del
case-study, e l’altra di tipo quantitativo
che si basa sull’uso del questionario.
Con la prima, che prevede un’analisi
globale e longitudinale dell’esperienza,
utilizzando interviste in profondità a testimoni privilegiati, è stata fatta un’analisi dettagliata di quattro esperienze
esemplari di sperimentazione, realizzate
in modo di avere contesti differenziati e
il più possibili significativi.
Le scuole prese in considerazioni sono
state l’ITIS Cobianchi di Verbania, l’Ist.
tecnico commerciale a indirizzo linguistico di Paderno Dugnano, l’Ist. magistrale
di Mestre (a indirizzo biologico, giuridico,
sociale e letterario), l’ITIS di Bollate, che
prevede l’insegnamento della filosofia nell’area comune. Sulla base dell’analisi
condotta in questi quattro istituti, il gruppo di ricerca ha selezionato gli aspetti
che meritavano d’essere poi indagati su
vasta scala, mediante l’approntamento
di un questionario inviato ai docenti di
filosofia e ai presidi delle scuole sperimentali di tutta Italia.
Il volume riporta anche una tavola rotonda, sui risultati dell’indagine, con interventi di Enrico Berti, Carlo Lazzerini,
Virgilio Melchiorre, Pietro Rossi e Carlo Sini, ed è corredato da una “Prefazione”
di Girolamo Cotroneo, da una “Introduzione” di Luciana Vigone, e da una “Nota
finale” di Cesare Quarenghi.
STUDIO
STUDIO
Filosofia anglo-sassone
LA PHILOSOPHIE ANGLO -SAXONNE (La filosofia anglosassone, Puf, Parigi 1994),
opera collettiva diretta da Michel
Meyer, filosofo belga allievo e successore di Perelman all’Université Libre
de Bruxelles, nonché direttore della
«Revue Internationale de philosophie»,
è la prima opera di lingua francese a
render conto in maniera sistematica
dell’insieme di problematiche, temi,
autori, correnti e ambiti di ricerca che
«da Locke a Rorty, da Bacone a Rawls,
da Hobbes a Popper e Feyerabend,
hanno consacrato l’originalità e la sostanza del pensiero anglosassone»,
mettendo fine al rigetto che il pensiero francofono ha a lungo dimostrato
nei confronti della filosofia analitica.
Per la sua struttura, quest’opera si pone
come strumento di lavoro e di riferimento
anche per gli anni a venire: in seicento
pagine, viene offerto il panorama di quattro
secoli di filosofia inglese; ciascun saggio,
redatto da un noto specialista, è seguito da
una bibliografia aggiornata; note e indici
sono molto ricchi. Viene così messa a disposizione del lettore una somma di conoscenze indispensabili alla comprensione di
autori ancora frequentemente ignorati in
area francese, malgrado il recente moltiplicarsi delle traduzioni.
Il pensiero anglosassone - il cui ambito non
coincide puramente e semplicemente con
quello della filosofia analitica - viene definito in base a criteri “patriottici”, geografici, metodologici, addirittura stilistici. La
“patria” teorica è rappresentata dall’empirismo, che trova la propria fonte remota
nell’idea che «non vi è nulla nell’intelletto
che prima non sia stato nei sensi», e, a
partire dalla critica di Locke alla nozione
cartesiana di idea innata, attraversa il pensiero di Berkeley per arrivare allo scetticismo radicale di Hume. La “regione” d’origine è la Polonia, vengono poi i paesi
scandinavi, gli Stati Uniti, l’Austria e naturalmente la Gran Bretagna, terra degli «esuli
delle persecuzioni tedesche, che preferirono vivere nel paese di Locke piuttosto che
morire in quello di Heidegger». Ma è un
certo “stile” a permettere di radunare sotto
un’unica denominazione correnti speculative abbastanza differenti tra loro: la maniera di considerare la ricerca filosofica come
un’indagine di tipo scientifico; la propensione a un minuzioso lavoro di chiarificazione;
la priorità accordata ai “fatti” e all’ “argomentazione”; la volontà di porre i problemi
teorici nel modo più “obbiettivo” possibile;
il privilegiamento della logica e delle analisi
linguistiche, sia del linguaggio formalizzato
delle scienze, che di quello comune.
Gli ambiti presi in esame da Michel Meyer
e dai suoi collaboratori sono quelli tradizionali: filosofia morale e politica, filosofia del linguaggio, filosofia della logica,
filosofia dell’azione, filosofia della scienza. Il volume si apre con un saggio sulla
Nascita dell’empirismo, redatto dallo stesso Meyer e si chiude con un saggio consacrato alla Filosofia dello Spirito, a firma
dello studioso e traduttore di Davidson
Pascal Engel, e uno ai più recenti sviluppi
di Intelligenza artificiale e scienze cognitive, illustrati da Jacques Riche. Manuel
Maria Carrilho fa il quadro della filosofia
della scienza (da non confondere con l’epistemologia, dato che epistemology in inglese designa piuttosto quella che sul continente viene chiamata teoria della conoscenza) da Bacone e Mill, dal Circolo di
Vienna fino a Popper, Kuhn, Lakatos e
Feyerabend. Jean Pierre Cometti risale
alle origini del pragmatismo americano
(Peirce, Dewey) per meglio mettere in luce
gli apporti di Putnam e di Rorty, di cui
peraltro ha da poco tradotto in francese
Obbiettivismo, relativismo e verità. Simone Goyard-Fabre fornisce una visione
panottica delle grandi tematiche morali e
politiche elaborate in ambito anglosassone. Inizia dall’ “orribile Hobbes” - come lo
chiamava Rousseau - e da Locke, passando
alle filosofie che “valorizzano i percorsi
della tradizione e della storia (Hume e
Burke), prima di delineare i tratti della
corrente utilitarista (Bentham, Mill, Sidgwick) in polemica con la quale si è formato il neocontrattualismo di Rawls, all’origine di quasi tutti i dibattiti che animano l’attuale filosofia morale e politica (Nozick, Hart, Buchanan, Nagel, Larmore,
Taylor, Walzer, MacIntyre, Williams...)
nonché quella del diritto.
Ma, naturalmente, è la filosofia del lin75
guaggio a fare la parte del leone all’interno
del volume. Che la filosofia debba consacrarsi all’analisi logica del linguaggio e
abbia come compito essenziale la chiarificazione del suo senso: è questo il programma della filosofia analitica. Ma cosa significa analizzare il linguaggio? Tradurne gli
enunciati in una lingua formale? Studiare il
modo in cui le proposizioni hanno senso?
Vedere a quali condizioni “dire è fare”? Le
indagini si sviluppano in tutte le direzioni:
logica, sintattica, semantica, pragmatica.
François Rivenc inizia dalla teoria delle
“descrizioni definite” di Russel per arrivare
a Carnap; il pensiero di Wittgenstein è esposto da Jacques Bouveresse, massimo specialista francese di questo autore; Paul Gochet analizza la riflessione di Quine in un
capitolo che è stato rivisto da Quine medesimo; Pascal Engel si occupa dei successori di
Quine (Smart, Armstrong, Lewis, Kripke,
Davidson, Dummet); Carrilho espone la
teoria degli atti linguistici di Searle e Austin.
A quasi un secolo dai Principia Mathematica di Russell, considerati gli importanti
cambiamenti che la filosofia anglosassone
ha introdotto nella speculazione, anche in
ambito francese il dibattito filosofico si sposta dal tradizionale asse franco-tedesco e ci si
rende conto finalmente di quanto fosse un
vano sarcasmo l’affermazione comune riportata da Bouveresse: «se le questioni filosofiche fossero, come crede Wittgenstein,
essenzialmente questioni linguistiche, non
potrebbero che essere superficiali, prive di
interesse e di conseguenze». D.F.
Felicità e piacere nei greci
(a cura
di P. Cosenza e R. Laurenti, Loffredo
Editore, Napoli 1993) è il titolo di
un’ampia antologia che racchiude, in
uno spazio compatto e fruibile, un
ambito vastissimo di posizioni, di idee,
di analisi teoriche sul problema della
felicità, in particolare nella sua connessione con il piacere.
IL PIACERE NELLA FILOSOFIA GRECA
Sin dalle sue origini, la filosofia greca ha
usato moltissimo il termine hedoné, tanto
STUDIO
che sono state classificate come edonistiche filosofie che pur riponendo il télos
della vita nell’hedoné, intendono per essa
concetti molto diversi tra loro, sia per quanto riguarda la genesi e la natura fisica del
fenomeno, sia per ciò che ne concerne il
valore morale. E’ questo il caso dell’indirizzo cirenaico e del Giardino epicureo.
Del resto, questo risponde pienamente ad
uno degli scopi dichiarati dai curatori dell’antologia, Paolo Cosenza e Renato Laurenti: «Sarebbe segno di scarsa cautela
critica credere che [formazioni concettuali] che hanno origine in correnti filosofiche
caratterizzate, in linea di massima, da orientamenti diversi, siano in ogni caso, per tale
loro origine, da classificare come filosoficamente incompatibili. Come l’esperienza
largamente insegna, scuole diverse [...] talvolta danno luogo, a dispetto delle più
accreditate etichette, a conclusioni convergenti o almeno non contrastanti».
L’antologia è strutturata in modo da facilitare il più possibile il compito di reperire le
necessarie fonti bibliografiche mediante
indice bibliografico, nel quale compaiono
le abbreviazioni con cui nelle note vengono
menzionate le opere più frequentemente
citate. Le traduzioni (tutte opera dei due
curatori) delle testimonianze dei vari filosofi sono precise e rimandano molto spesso, in nota, alla scelta di lezioni particolari
riguardo ad alcuni passi, spiegandone sempre le motivazioni; compaiono poi, sempre
in nota, quando si tratta di passi di particolare importanza teoretica, le citazioni dal
testo greco, e i ternini più filosoficamente
significativi vengono riportati con spiegazioni etimologiche e storiche.
L’antologia è articolata in dieci capitoli.
Nel I si analizza la tematica del piacere da
Omero ai Presocratici; si passa poi ai Sofisti, a Socrate e alle scuole socratiche minori (capp. II-III-IV); seguono Platone e i
suoi successori accademici Speusippo e
Eudosso, poi Aristotele, del quale si esaminano i luoghi concernenti il piacere delle
due Etiche (capp. V-VI). La trattazione
dell’argomento prosegue con le tre grandi
scuole dell’Ellenismo: Epicuro, Stoici e
Scettici, comprendendo nell’esame di questi ultimi anche gli sviluppi scettici dell’Accademia (capp. VII-VIII-IX); l’ultimo
capitolo è interamente occupato dall’esposizione del tema del piacere nelle Enneadi
plotiniane. Il tutto copre un arco cronologico che va dalle origini del pensiero greco al
III secolo d.C.
Accurate sono, all’inizio dei suddetti capitoli, le introduzioni, nelle quali, prima di
riportare le testimonianze, si discutono e si
puntualizzano i principali problemi su cui
si sono soffermati, nell’ambito del tema del
piacere, una certa scuola o un certo pensatore e le più importanti conclusioni a cui
sono giunti. Ovviamente lo spazio più vasto viene offerto, da questo punto di vista, a
Platone e al suo Filebo, che rappresenta la
più ampia trattazione sul piacere a noi integralmente giunta dal pensiero greco. A.E.
Atene. Kore 682 (particolare)
76
RASSEGNA DELLE RIVISTE
RASSEGNA DELLE RIVISTE
a cura di Silvia Cecchi
VERIFICHE
Anno XXIII, n. 1-2, gennaio-giugno 1994
Verifiche, Trento
Bonum e Summum Bonum nell’Etica di
Spinoza, di F. Biasutti: la critica al finalismo in Spinoza si inscrive all’interno
di una posizione epistemologica propria
del pensiero moderno, ma se ne distingue per la radicalità delle posizioni.
Tempo e storia in Hegel, di F. Chiereghin: nel sistema hegeliano il tempo raffigura, in modo emblematico, la funzione che il filosofo assegna alla natura,
l’essere altro dell’idea, ma anche il presupposto per il pieno dispiegarsi dello
spirito. Esso viene ad avere una funzione
mediatrice tra divenire e storia.
Diritto ed eticità della famiglia nella ‘Rechtsphilosophie’ di Hegel, di M. Tomba.
La mimesis nell’antichità, di H. Koller:
l’articolo è un’antologia tratta dal fondamentale saggio di Koller del 1954, Die
Mimesis in der Antike, in cui si sostiene che
il centro della mimesis si trova nella danza
e che questo concetto non coincide con la
passiva imitazione.
Filosofia e Mimesis, di J. Bompaire:
vengono qui presentate le quattro diverse accezioni di mimesis: in senso generale, come riproduzione dei caratteri di
qualcuno o qualcosa; in senso filosofico,
come imitazione della realtà da parte di
uno scrittore; in senso retorico e letterario, come reazione da parte del pubblico,
quando l’oggetto dell’imitazione del letterato è la “cosa letteraria”.
Naturalità del diritto e universali giuridici,
di G. Cosi: l’indagine sull’esistenza di universali del diritto attraverso il rilevamento
di tempo, spazio e costanti del diritto.
Montesquieu e il problema della diversité,
di C. P. Courtney: l’analisi di Montesquieu
della diversité anche attraverso l’illustrazione della posizione dei predecessori:
Grozio, Pufendorf, Barbeyrac.
Una conversione della teoria critica? Sulla teoria del diritto e dello Stato di
Habermas, di O. Hoffe.
Dimensione transculturale dei fenomeni
giuridici nella ricerca antropologica, di L.
Scillitani.
Interpretatio, imitatio, aemulatio, di A.
Reiff: l’imitatio latina e lo sforzo terminologico compiuto dai Romani.
IDEE
Il mondo di Galileo: l’oggetto del suo
sapere fisico-matematico. Diffalcare gli
impedimenti della materia (parte II) di L.
Congiunti: la matematizzazione del mondo naturale; il ruolo dell’esperimento; il
progetto scientifico e filosofico di Galileo.
Bios politikos e bios theoretikos secondo Hannah Arendt, di J. Taminiaux.
Linee interpretative per una storia del
neotomismo e della neoscolastica di A.
La Russa: recensione di L. Malusa: Neotomismo e intransigentismo cattolico
(Milano 1986-1989).
La teoria classicistica della mimesis, di H.
Flashar: una storia della nozione antica di
mimesis.
Anno VIII, n. 24/1993
Milella, Lecce
Laudatio per F. Tenbruk, di M. Signore.
La mimesis nella teoria contemporanea,
di M. Spariosu: nel dibattito contemporaneo questo concetto compare nelle dimensioni onto-epistemologico, bio-antropologico, psicologico, linguistico, letterario.
Intertestualità e retorica delle citazioni, di
V. Kapp.
La mimesis in Auerbach, di G. Gebauer e
C. Wulf.
Edith Stein e la rielaborazione del pensiero scolastico di G. A. Roggerone: pur
avendo grandemente contribuito al movimento femminile, la filosofia della
Stein non ha un contenuto diverso dalle
filosofie in genere.
Amore, comunità umana e giustizia nel
pensiero di Paul Ricoeur, di E. Pucci.
Una ricerca giuridico-politica in prospettiva fenomenologica di A. Rizzacasa: osservazioni su Una ricerca sullo
Stato di E. Stein.
STUDI DI ESTETICA
Anno XXI, n. 7-8, 1993
Clueb, Bologna
Il presente fascicolo ha carattere monografico ed è dedicato al tema: “Mimesis”. A completamento del tema, nel corso del 1994 usciranno altri due fascicoli
dal titolo: “Ragioni della mimesis” e
“Poetiche della mimesis”.
RIVISTA INTERNAZIONALE
DI FILOSOFIA DEL DIRITTO
Anno LXXI, n. 2, 1994
Giuffré, Milano
Uberto Scarpelli, giurista e filosofo, di
M. Jori.
Il significato del cuore nella filosofia giuridica di S. Agostino e di Marsilio da
Padova, di E. Ancona.
77
Bernhard Welte - Sören Kierkegaard, di
O. Tolone: l’interesse, comune ai due
pensatori, circa la costituzione ontologica dell’uomo.
RASSEGNA DELLE RIVISTE
RIVISTA DI FILOSOFIA
NEOSCOLASTICA
Anno LXXXVI, n. 2, aprile-giugno 1994
Vita e Pensiero, Milano
Potere e ragione nel ‘Dialogus’ di Pietro Alfonsi (Mosè Sefardi), di M. L. Arduini: il profilo “bifronte” di Piero Alfonsi nella sua dimensione storica, biografica e geografica.
L’analogia dell’ente in Domenico di Fiandra, di F. Riva: la figura di Domenico Fiandra, possibile mediatore tra il dibattito inglese e francese e il mondo universitario italiano
tra XIV e XV secolo, è interessante in rapporto all’evoluzione del concetto di analogia
nelle scuole post-tomistiche e post-scotistiche.
Finito e infinito e l’idealismo della filosofia. La logica hegeliana dell’essere determinato (II), di G. Movia.
Il predicato di dimostrabilità e la nozione
di consistenza: alternative alla formulazione classica, di A. Ballarino.
IRIDE
RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA
Anno VII, n. 11, aprile 1994
Il Mulino, Bologna
Anno XLIX, n. 2/1994
Franco Angeli, Milano
Postmoderno letterario. Sguardo epocale
retrospettivo su una controversa “soglia
epocale”, di H. R. Jauss.
Confutazione di Spinoza e pirronismo. La
via al senso comune di A. M. Ramsey, di M.
Baldi: la posizione di Ramsey (1686-1743)
rispetto al pirronismo, posizione debitrice
in parte alla reazione anticartesiana e antispinoziana nell’Inghilterra della seconda
metà del Seicento.
Razionalità deliberativa e modelli di legittimità democratica, di S. Benhabib: in linea con il “costruttivismo kantiano” di
Rawls e l’idea di “ricostruzione” di
Habermas, viene esaminata la relazione
esistente tra i presupposti normativi della
deliberazione democratica e il contenuto
idealizzato della razionalità classica.
L’amore di sè in Adam Smith: verso una
teoria pluralistica della motivazione, di E.
Lecaldano: la nozione di amore di sé è
presente nella riflessione etica del XVII e
XVIII secolo e la trattazione che ne fa
Smith nella Teoria dei sentimenti morali,
da un lato, porta a compimento le analisi
precedenti, dall’altro le trasforma.
L’io contro se stesso. Il soggetto moderno
e l’amore di sé, di E. Pulcini.
STUDI KANTIANI
Anno VII, 1994
Giardini Editori e Stampatori, Pisa
Analogia, bellezza e moralità nel 59 della
‘Critica del Giudizio’, di S. Marcucci: per
comprendere pienamente il tema del rapporto kantiano tra bellezza e moralità, per
cogliere la vera natura del concetto di analogia anche relativo al giudizio riflettente
ed al giudizio determinante, vengono analizzati i primi quattro capoversi del 59,
attraverso cui Kant arriva ad affermare che
“il bello è il simbolo del bene morale”.
Kant e le lezioni di psicologia, ovvero la
scienza dell’anima, di M. Paschi: le Lezioni di psicologia, anteriori alla pubblicazione della Critica della ragion pura,
rivelano non solo il rapporto tra didattica e ricerca filosofica, ma ci sono utili
per capire l’origine e l’impostazione dei
problemi kantiani relativi all’analisi della
conoscenza umana.
Canguilhem, Kant e la filosofia trascendentale, di M. Marianetti.
Il Kant teoretico in Cesare Luporini, di R.
Torzini.
Alcune osservazioni storico-critiche sul rapporto morale felicità-religione in Kant, di S.
Marcucci: una lettura delle prime tre pagine
de La religione nei limiti della semplice
ragione sul legame tra moralità e religione.
Biologia ed etica dell’amor proprio, di
F. Savater.
Egoismo, utilitarismo, Moore, di M. Vacatello: il ruolo, nell’utilitarismo, dei principi
di prudenza e benevolenza.
“Il Machiavelli del proletariato”. Violenza e solidarietà nella tradizione del marxismo, di R. Bodei: il realismo politico in
Marx ed alcune interpretazioni di Marx da
parte di Lenin, Brecht e del giovane Croce.
Liberalismo e marxismo nella cultura anglosassone, di F. S. Trincia: antiprogressismo e socialismo in Wallerstein; pluralismo e individualismo in Berlin e Elster;
libertà marxiana e libertà individuale secondo la tesi di J. Gray.
Dal liberalismo al nazionalismo, di J. Haldane: la filosofia politica e il dibattito sul
liberalismo in rapporto ad un nazionalismo
moderato, a partire da Rawls.
Crisi nazionale e consolidamento dell’ordine politico, di J. R. Recalde.
Identità e interculturalità, di S. Moravia: il
problema dei cosiddetti extracomunitari e
della convivenza culturale a partire dalla
sostituzione dell’immagine dell’uomo
come identità singola all’immagine dell’uomo come identità plurima.
Cattiveria come esercizio spirituale, di
P. Virno.
La Cassirer Renaissance in Europa di M .
Ferrari.
78
De communi vinculo: body, mind and other
scottish concordances, di C. Stewart-Robertson.
Il tema della crisi dell’arte nel pensiero di
A. Banfi, di G. Scaramuzza: il tema della
crisi dell’arte in Banfi come riflessione su
aspetti di un ampio processo culturale e
come presa di posizione rispetto all’arte a
lui contemporanea.
Una lettera ritrovata: Campanella a Peiresc, 19 giugno 1636, a cura di G. Ernst e E.
Canone: nella lettera Campanella rievoca i
suoi trascorsi telesiani.
Due lettere di Walter Benjamin a Alexander Pfänder, a cura di G. Scaramuzza.
PARADIGMI
Anno XII, n. 35, maggio-agosto 1994
Schena, Brindisi
Nichilisno e oltre..., di P. Miccoli.
La filosofia contemporanea in Brasile,
di A. Paim: le due tradizioni più solide,
su cui si innesta il pensiero brasiliano
contemporaneo, sono il tradizionalismo
e lo scientismo.
Persona e natura: il limite dell’etica, di
M. A. La Torre: il problema del limite e
l’azione di “demarcazione” all’interno
della vita morale.
Eredità europee: la memoria del plurale,
di F. Merlini: l’articolo intende analizzare
se la cultura europea disponga di una tradizione in grado di attribuire un contenuto
produttivo all’esperienza della diversificazione e della pluralizzazione delle identità
sociali all’interno di un’unica comunità.
L’estetica del primo Wittgenstein, di M.
Rinaldi.
Lo schema estatico-orizzontale dell’avvenire e la ricerca di Heidegger sulla temporalità, di G. Biondi: attraverso i testi delle
lezioni è possibile ripensare la nozione
heideggeriana di tempo anche in relazione
al senso della “svolta”.
RASSEGNA DELLE RIVISTE
MAN AND WORLD
NOUS
Vol. 27, n. 2, aprile 1994
Kluwer Academic Publ., Dordrecht
Vol. XXVII, n. 4, dicembre 1993
Blackwell Publ., Oxford-Cambridge
Silence, being and the between: Picard,
Heidegger and Buber, di R. E. Wood: i tre
concetti di silence, being e between, pur
non coincidendo perfettamente, hanno origine dalla stessa regione di esperienza.
Motive and obligation in Hume’s ethics, di
S. Darwall: l’articolo intende collocare
Hume all’interno del dibattito relativo alla
normatività della morale che si è sviluppato tra Seicento e Settecento.
Who owns the lie? The problem of presentation in Troilus and Cressida, di D. Price.
Empty names, di D. Braun.
Re-thinking ethical naturalism. Nietzsche’s
open question argument, di L. F. Kerckhove: un confronto tra Nietzsche e MacIntyre
sul problema etico.
Space perception and the fourth dimension, di S. H. Kellert.
The improvisational problem, di R. P.
Crease: filosofia dell’improvvisazione e
rappresentazioni artistiche.
The philosophical curriculum and literature culture: a response to Rorty, di J. Stewart.
Logic purified, di T. Yagisawa: nell’articolo si prende posizione contro l’ortodossia
logica corrente relativa alla definizione della
verità come proposizioni definite.
Numbers can be just what they have to, di
C. Mc Larty.
Partial denotations of theoretical terms, di
K. Bedard: i limiti teretici secondo Lewis.
Vol. 25, n. 2, maggio 1994
University of Manchester, Manchester
Tema della rivista: “Gadamer, Sartre e
Deleuze”.
Phenomenology, hermeneutics, metaphysics, di H. G. Gadamer.
n. 1, gennaio- marzo 1994
PUF, Parigi
Tema della rivista: “Spinoza, la quinta parte dell’Ethica”.
Remarques sur la I proposition de la V
partie de l’ ‘Éthique’ di W. Bartuschat.
Sur le mode infini médiat dans l’attribut de
la pensée, di J. M. Beyssade: il problema
classico, nella lettera 64, di che cosa sia,
all’interno dell’attributo del pensiero, il
modo infinito indiretto e la soluzione proposta in Ethica V, 36.
La vie éternelle et les corps selon Spinoza,
di A. Matheron: analisi della proposizione
39 in Ethica V.
Sub specie aeternitatis. Notes sur ‘Éthique’
V, 22-23, 29-31, di F. Mignini.
REVUE INTERNATIONALE
DE PHILOSOPHIE
Vol. 48, n. 2, 1994
Universa, Wetteren
J. B. S. P.
REVUE PHILOSOPHIQUE
DE LA FRANCE ET DE L’ETRANGER
Tema della rivista: “Leibniz”. Il fascicolo
si occupa della riflessione epistemologica
del pensatore tedesco, pur collocando tale
riflessione all’interno dell’originale meditazione metafisica.
Métaphysique de la gloire. Le scolie de la
proposition 36 et le “tournant” du livre V,
di P. F. Moreau.
Acquiescentia dans la cinquième partie de
l’ ‘Éthique’ de Spinoza, di G. Totaro: uno
studio del campo semantico del termine
acquiescenza.
Le texte de la cinquième partie de l’ ‘Éthique’, di P Steenbakkers.
Leibniz et le problème de la “science moyenne”, di J. Bouveresse: le critiche di Leibniz
all’idea di una scienza mediana.
ARCHIVES DE PHILOSOPHIE
Yorck Von Wartenburg and the problem of
historical existence, di H. Ruin: la figura
di Yorck Von Wartenburg viene qui tratteggiata dal punto di vista biografico, mettendo in luce anche la sua riflessione sui
problemi della comprensione storica, soprattutto in rapporto a Dilthey, e la ricezione postuma.
Heidegger, Caputo and the ethical question re-visited, di R. M. Capobianco: la
critica rivolta ad Heidegger da Caputo
circa la povertà della sua riflessione etica.
Sartre, reciprocity, sexuality and solipsism, di A. Mirvish: l’analisi sartreana
dell’autentico desiderio sessuale in Essere e nulla.
Metamorphic-logic: bodies and powers in
a Thousand Plateaus, di P. Patton.
Before the other; genesis, structure and
development in Piaget, di J. Joffer.
Die mathematisch-physikalische Schönheit
bei Leibniz, di H. Breger.
Vol. 57, n. 2, aprile-giugno 1994
Beauchesne, Parigi
Leibniz on the principle of continuity, di F.
Duchesneau: il principio di continuità come
strumento di analisi dei fenomeni.
Les intuitionnistes d’Oxford, di D. D.
Raphael: gli intuizionisti di Oxford hanno
sostenuto una teoria etica vicina, per alcuni
aspetti, a quella di Kant.
From Galileo to Leibniz: motion, qualities
and experience at the foundation of natural
science, di A. G. Ranea: dalla scienza del
moto di Galileo alla giustificazione leibniziana dei principi della dinamica.
Les axiomes de l’identité et la démonstration des formules arithmétiques: 2+2 = 4,
di M. Fichant.
Leibniz’s Konzeption der characteristica
universalis zwischen 1677 und 1690, di M.
Schneider.
Leibniz and the logic of life, di C. Wilson:
il ruolo del pensatore tedesco nella nascita
della biologia.
79
Sur l’universalité de la logique, di J. Largeault: la pluralità della teorie logiche dal
1930 ad oggi.
Du champ du sol d’une “esthétique transcendentale”, di J. Benoist: l’autore dimostra come l’avvento di un’estetica trascendentale comporti un cambiamento di senso
della stessa ontologia; ciò pone anche il
problema del ruolo della logica all’interno
di questa nuova configurazione.
Le réalisme scientifique: une métaphysique tronquée, di M. Espinoza: il solo realismo coerente è il realismo metafisico, estensione razionale del senso comune e della
scienza. Il realismo scientifico è quindi una
metafisica “troncata”, che conduce al realismo metafisico.
RASSEGNA DELLE RIVISTE
REVUE DE METAPHYSIQUE
ET DE MORALE
Anno 99, n. 2, aprile-giugno 1994
A. Colin, Parigi
Tema della rivista: “La filosofia morale in
lingua inglese”.
La valeur de l’inviolabilité di T. Nagel:
sulla questione dell’inviolabilità, che si pone
al centro delle recenti teorie morali, relative allo statuto dei diritti dell’uomo.
Philosophie et conflit, di R. Hare: la funzione comunicativa della “buona filosofia”
al fine di risolvere i conflitti umani più
radicali.
La fortune morale, di B. Williams: una
riflessione sull’idea di giustificazione razionale della morale.
Les multiples visages de la moralité, di A.
Oksenberg Rorty.
Conséquentialisme et psychologie morale,
di P. Petit: sulle principali tesi psicologiche
adottate contro il consequenzialismo in
campo morale, ammettendo le quali questa
teoria diventa moralmente verosimile.
La valeur intrinsèque, di G. Harman: il
concetto di valore intrinseco fondamentale, con particolare riferimento alla teoria
del valore, propria dell’edonismo attuale,
nell’odierno dibattito filosofico.
Éthique et médiation, di M Hunyadi.
PHILOSOPHISCHES JAHRBUCH
VERIFICHE (Anno XIX, n. 2, giugno 1994,
1/1994
Karl Alber, Friburgo-Monaco di Baviera
Glossa, Milano) presenta un articolo di M.
Vergottini: Un caso estremo dei rapporti
filosofia/teologia in epoca contemporanea:
il dibattito H. Gollwitzer-W. Weischedel.
Die Einheit der aristotelischen Metaphysik, di F. Inciarte: l’unità dell’ontologia
aristotelica sulla base dell’ontologia della
sostanza.
Abstraktion und Universalien bei Thomas
von Aquin, di U. Meixner.
IDEE (Anno VIII, n. 22, e n. 23 , Milella,
Lecce) presenta due fascicoli a carattere
monografico sul tema: “Filosofia e politica” (n. 22) e “Filosofia e scienza” (n. 23).
PROSPETTIVA PERSONA (Anno III, n. 8,
Göttliches Gebot und Gutheit Gottes nach
Wilhelm von Ockham, di R. Wood: la moralità in Ockham: il comando divino, e la
rappresentazione di Adamo.
Der Begriff der causa sui bei Spinoza und
Whitehead, di R. Kather.
aprile-giugno 1994, Demian Edizioni, Teramo) presenta due interventi su P. Ricoeur:
Ermeneutica e liberazione. Il dialogo di
Dussel con Ricoeur, di A. Savignano, e Il
Kerigma della speranza in Paul Ricoeur,
di P. Cugini.
FEERIA (Anno II, n. 4/5, giugno 1994,
Die paradoxale Struktur der Absoluten in
Schellings Identitätssystem, di M. Bachmann: aspetti ontologici, epistemici, funzionali e strutturali dello sviluppo concettuale dell’Assoluto in Schelling.
Cultura nuova editrice, Firenze) presenta
un intervento di S. Givone dal titolo: La
bellezza salverà il mondo?, in cui viene
indicata una possibile via estetica per la
riscoperta del sacro attraverso la bellezza.
Die Transzendentale Phänomenologie und
die philosophische Mystik, di E. WolzGottwald: la mistica come apertura di una
nuova sfera di pensiero nella tarda filosofia
di Husserl.
TELLUS (n. 12, Morbegno-SO) presenta il
Philosophisches Sprechen über Kunst in
Traditionen des Bilderverbots und der negativen Theologie, di W. Oelmüller: il dibattito sui libri di G. Steiner: Von realer
Gegenwart (München 1990) e H. Belting:
Bild und Kult (München 1990).
tema: “Identità d’Europa”, con saggi di G.
Simmel, L’idea di Europa, e di M.
Heidegger, L’Europa e la filosofia tedesca.
Il n. 13 è invece dedicato al tema “Immagini della Natura. Oriente e Occidente”.
FILOSOFIA (Anno XLV, n. 1, gennaio-
aprile 1994, Mursia, Milano) presenta gli
interventi al convegno: “Augusto Guzzo a
cent’anni dalla nascita”, tenutosi all’Università di Torino il 12-13 aprile 1994.
LES ÉTUDES PHILOSOPHIQUES (genna-
io-giugno 1994, PUF, Paris) presenta un
fascicolo monografico su Marin Marsenne.
REVUE PHILOSOPHIQUE DE LOUVAIN
Tomo 92, n. 1, febbraio 1994
Institut supérieur de philosophie
Louvain La Neuve
D’un style de la pensée, di P. J. Labarrière:
la prima di una serie di dodici lezioni, in cui
il proprio progetto viene posto sotto il segno di Dante, Eckhart e Hegel.
L’appel infini à l’interprétation, di F. Ciaramelli: riflessioni sull’arte e sulla poesia
in Levinas.
Heidegger, lecteur de Husserl, di P. Kontos: l’analisi dell’opera heideggeriana
Interpretazione fenomenologica della
‘Critica della ragion’ pura di Kant contribuisce a chiarire la natura del rapporto
con Husserl, in quanto vengono qui seguite le medesime tappe, individuabili
nel percorso dell’husserliana Logica formale e logica trascendentale.
Penser l’Autre. Psychanalyse lacanienne et philosophie, di S. Lofts e P. W.
Rosemann.
ZEITSCHRIFT
FÜR PHILOSOPHISCHE FORSCHUNG
Vol. 48, n. 3, luglio-settembre 1994
Vittorio Klostermann, Frankfurt a/M
Spontaneität, di W. Vossenkuhl: indipendenza genetica, logica, cognitiva.
Probleme der Wirtschaftsethik, di W.
Kersting.
Skepsis und Praxis, di B. Sitter-Liver: il
primato della prassi nello scetticismo.
Malancholie. Skizze zur epistemologischen
Deutung eines Topos, di S. Krämer: il concetto di malinconia in filosofia da Aristotele a Marsilio Ficino e all’Illuminismo e in
rapporto alle scienze.
Was leistet die semantische Interpretation
der Wahrheit, di J. Padilla-Galvez.
Parfit und die Theorie C, di C. Nimtz:
recensione di D. Parfit, Reasons and persons (Oxford 1989).
80
NOVITÀ IN LIBRERIA
AA.VV
Metzler Philosophen Lexikon.
Dreihundert
biographisch-werkegeschichtliche
Porträts von den Vorsokratikern
bis zu den neuen Philosophen
Metzler, agosto-settembre 1994
pp. 858, DM 39,80
AA.VV.
Non-verbal Communication
in Science prior to 1900
Leo S. Olschki, ottobre 1994
pp. 622, L. 98.000
I numerosi contributi che il libro
raccoglie ruotano intorno a un tema
innovativo: il ruolo giocato, nella
costruzione della scienza moderna,
da una serie di mezzi comunicativi
non verbali.
AA.VV.
Zum Naturbegriff der Gegenwart.
Kongreßdokumentation zum Projekt
’Natur im Kopf’, Stuttgart,
Juni 1993
Frommann-Holzboog
agosto-settembre 1994
pp. 812, DM 48
La documentazione di questo congresso, tenutosi a Stoccarda nel giugno del ’93 e relativo al progetto
Natur im Kopf, è suddivisa in due
volumi. Nel volume I, figurano i seguenti temi: “la natura come oggetto
delle scienze naturali”; “la natura
come materia prima”; “la natura come
paesaggio e giardino”; nel secondo
volume: “la natura come avvenimento estetico”; “la natura come costruzione sociale e tecnica”.
Adinolfi, Massimo
La deduzione trascendentale
e il problema della finitezza
in Kant
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 190, L. 28.000
Pensata come risposta alla questione
capitale della Critica della ragion
pura, la deduzione trascendentale dei
concetti puri dell’intelletto è in realtà
uno dei luoghi più tormentati dell’opera. Le tensioni che l’attraversano non vengono qui comprese e risolte a partire dall’esito gnoseologico ed
epistemologico del criticismo, ma ricondotte piuttosto alla loro radice.
Albert, Hans
Kritik der reinen Hermeneutik.
Der Antirealismus und das Problem
des Verstehens
Mohr, agosto-settembre 1994
pp. 272, DM 54
Hans Albert difende il realismo critico contro l’ermeneutica che risale a
Heidegger e Gadamer.
Alberti, Antonina (a cura di)
Realtà e ragione
Leo S. Olschki, ottobre 1994
pp. 222, L. 44.000
Studi di autori vari sul problema della
realtà esterna (ontologia e fisica) e
della razionalità nel pensiero antico
(in Platone, Aristotele, Epicuro e nello scetticismo antico).
NOVITÀ IN LIBRERIA
una condizione di valore per le risoluzioni. I lavori che compaiono in questa raccolta devono essere considerati nella prospettiva di ricerca orientata alla riflessione.
Bloch, Ernst
La Philosophie de la Renaissance
Payot, settembre 1994
pp. 196, F 48
Nel Rinascimento, il filosofo tedesco
non vede solamente il rinascimento
dell’Antichità, ma anche la nascita di
un uomo nuovo e di una società nuova: la società borghese. Egli illustra
questo aspetto tramite la storia della
filosofia del Rinascimento, gli inizi
delle scienze matematiche, la filosofia del diritto e dello Stato.
Andersson, Gunnar
Criticism and the History
of Science. Kuhn’s, Lakato’s
and Feyerabend’s Criticism
of Critical Rationalism
Brill, agosto-settembre 1994
pp. 160, FOL 110
Bartling, Heinz-M.
Theorie der Lebenskunst
Junghans, agosto-settembre 1994
pp. 100, DM 28
Battaglia, Luisella
Il dilemma della modernità
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 212, L. 28.000
Il dilemma della modernità nasce dal
fatto che la libertà individuale è un
prodotto sociale. La cultura italiana
costituisce un caso paradigmatico di
tale dilemma: dai positivi, ai portatori
della protesta individualista, come
D’Annunzio.
Bachelard, Gaston
L’Intuition de l’instant
LGF, settembre 1994
pp. 154, F 32
Secondo Bachelard, il tempo è una
realtà che corrisponde all’istante e si
trova sospesa tra due néants, due non
essere. Il pensiero del filosofo si concentra intorno a tre idee: l’istante, il
tempo discontinuo e la questione dell’abitudine; l’idea del progresso; l’intuizione del tempo discontinuo.
Baumgartner, H.M. - Becker, W.
(a cura di)
Grenzen der Ethik
Fink/Schöningh
agosto-settembre 1994
DM 29,80
Bacone, Francesco
Saggi
Tea, agosto 1994
pp. 206, L. 25.000
I cinquantotto saggi trattano i più
disparati aspetti della morale comune
e individuale, tra gli altri: l’arte del
governo, le virtù e i vizi, la ricchezza,
la verità, il matrimonio, l’invidia,
l’amore e la morte.
Becchi, Paolo
Il tutto e le parti
Organicismo e liberalismo in Hegel
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 206, L. 30.000
La tesi che provocatoriamente si
intende qui sostenere è che la contrapposizione tra individualismo e
organicismo sia, tutto sommato, di
scarsa utilità. L’organicismo moderno non comporta un puro e semplice ritorno a concezioni premoderne; al contrario, come mostra
l’applicazione al campo politico
che ne fa Hegel, la distanza che
separa l’organicismo dal liberalismo è tutt’altro che incolmabile.
Balducci, Ernesto
L’uomo planetario
ECP, ottobre 1994
pp. 176, L. 20.000
Nuova edizione di un saggio di successo che esprime la tesi secondo cui
o l’uomo riuscirà a farsi planetario
oppure sarà destinato all’estinzione,
il volume di Balducci si basa su una
rassegna puntuale e aggiornata delle
grandi religioni per dimostrare che si
è definitivamente chiusa una fase
antropologica.
Beelmann, Axel
Heimat als Daseinsmetapher.
Weltanschauliche Elemente im
Denken
des Theologiestudenten
Martin Heidegger
Passagen, agosto-settembre 1994
pp. 80, ÖS 140
Balibar, E. (a cura di)
Freiheit und Notwendigkeit.
Ethische und politische Aspekte
bei Spinoza und in der Geschichte
des (Anti-)Spinozismus
Königshausen & Neumann
agosto-settembre 1994
pp. 262, DM 48
Benseler, F. - Blanck, B. et al.
Alternativer Umgang
mit Alternativen. Aufsätze
zu Philosophie
und Sozialwissenschaften
Westdeutscher, agosto-sett.1994
pp. 287, DM 49
Fino ad ora non esistono tradizioni di
ricerca che considerino l’importanza
delle alternative non solo rispetto alla
genesi delle soluzioni, ma anche come
Baltzer, Ulrich
Erkenntinis als Relationengeflecht.
Kategorien bei Charles S. Peirce
Schöningh, agosto-settembre 1994
pp. 300, DM 78
81
Boezio, Severino
La consolazione della filosofia
a cura di Claudio Moreschini
Laterza, ottobre 1994
pp.366, L. 60.000
Il tema del rovesciamento dell’umana fortuna (nel caso di Boezio, console e legato alla corte del re Teodorico,
si tratta della più rovinosa caduta di
un potente), è lo spunto per un itinerario alla ricerca del vero bene, cui
solo la filosofia può condurre.
Bösch, Michael
Soeren Kierkegaard. Schicksal
Angst - Freiheit
Schöningh, agosto-settembre 1994
pp. 424, DM 48
Boss, Gilbert (a cura di)
Esquisses de dialogues
philosophiques
Grand-Midi, settembre 1994
pp. 274, FS 28,50
Nel volume ci si propone di addolcire
qualche brusco confronto tra il pensiero di Hobbes, di Cartesio e di altri
filosofi e quello di Nietzsche e Austin, di accostarsi a questi autori secondo delle prospettive nuove e di
riflettere sulla natura della filosofia.
Boss, Gilbert (a cura di)
La Philosophie et son histoire
Grand-Midi, settembre 1994
pp. 356, FS 45
L’argomento di questo volume, nel
quale sono contenuti contributi di
Pierre Macherey, Yvon Lafrance,
Michel Malherbe ed altri, viene affrontato attraverso alcune domande,
come: in quale pratica viene generata
la storia della filosofia? Oppure: la
diversità delle filosofie porta con sé
una forma di scetticismo?
Bouinois, Olivier (a cura di)
La Puissance et son ombre:
de Pierre Lombard à Luther
Aubier, settembre 1994
pp. 432, F 150
I testi qui riuniti sono in rapporto con
la figura di Perre Lombard, vescovo
di Parigi dal 1150 al 1160, autore
delle Sentences, un libro che fece
epoca e che diede luogo a più di 1400
commenti e che fu alla base di tutta
la riflessione teologica nel corso di
oltre tre secoli. Il volume costituisce
anche un’introduzione alla filosofia
medioevale.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Brianese, Giorgio (a cura di)
Meditazioni sulla filosofia prima
di René Descartes
Mursia, settembre 1994
pp. 264, L. 13.000
Quest’opera scritta in latino fra il
1628 e il 1629, pubblicata nel 1641 e
tradotta in francese nel 1647, è l’esposizione più ampia e complessa della
dottrina di Descartes; è dedicata alla
Facoltà di Teologia dell’Università di
Parigi da cui sperava di ricevere l’approvazione ufficiale alla sua filosofia.
Brogi, Stefano
Il cerchio dell’universo
Libertinismo, spinozismo,
e filosofia della natura
in Boulainvillers
Leo S. Olschki, ottobre 1994
pp. 322, L. 55.000
Uno spaccato dell’età della crisi
della coscienza europea attraverso
il pensiero di uno dei suoi inquietanti protagonisti.
Cohen, Hermann
Etica della volontà pura
Esi, ottobre 1994
pp.462, L. 70.000
Saggio di filosofia neokantiana sui
temi etico-sociali.
Dämmerich, Heinz P.
Prekäres Selbstbewußtsein.
Studien zu Kant, Fichte und Dilthey
Haag & Herchen
agosto-settembre 1994
pp. 156, DM 34
Confucio
Entretiens avec ses disciples
tr. dal cinese e a cura
di André Lévy
Flammarion, settembre 1994
pp. 258, F 31
Si tratta di una raccolta di aforismi
che riflettono l’insegnamento di
Confucio.
Dastur, Françoise
La Mort: essai sur la finitude
Hatier, settembre 1994
pp. 79, F 27
La coscienza di essere mortali è alla
base dell’esperienza che l’uomo ha di
se stesso. Ma la morte non è oggetto
di esperienza... Come è possibile concepire questo paradosso, questo limite che la realtà della morte impone
alla ragione?
Brunet, Philippe
Cagliostro
Rusconi, ottobre 1994
pp. 400, L. 39.000
Conte, Domenico
Catene di civiltà
Studi su Spengler
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 388, L. 58.000
Mai prima di oggi si era tentato di
collegare Il tramonto dell’Occidente con il resto della produzione
spengleriana, soprattutto con le
grandi opere postume pubblicate
negli anni sessanta. Il libro colma
questa lacuna, offrendo di Spengler un’immagine inedita.
Buchheim, Thomas
Die Vorsokratiker.
Ein philosophisches Porträt
C.H. Beck, agosto-settembre 1994
pp. 260, DM 48
Il pensiero filosofico precedente a
Socrate ha una sua forma filosofica,
anche se essa non è sempre facilmente comprensibile. Chi intende spiegare questo pensiero filosofico come
una precomprensione filosofica dell’epoca moderna, non può che andare
incontro a dei malintesi.
Coppieters, Bruno
Kritik einer reinen Empirie.
Hegels Jenaer Kommentar
zu Montesquieus Theorie
des Politischen
Akademie, agosto-settembre 1994
pp. 254, DM 98
L’argomentazione e la ricerca di
Coppieters si riferiscono all’interpretazione ed alla verifica del giudizio, dato da Hegel in Vom Geist
der Gesetze, sul metodo empirico
di Montesquieu.
Casati, R. (a cura di)
Philosphy and the Cognitive
Sciences. Proceedings of the 16th
International Wittgenstein
Symposium, August 1993,
Kirchberg am Wechsel (Austria)
Hölder-Pichler-Tempsky
agosto-settembre 1994
pp. 472, ÖS 890
Si tratta di una raccolta degli interventi tenuti durante il sedicesimo International Wittgenstein Symposium,
tenutosi in Austria, a Kirchberg am
Wechsel, nell’agosto del ’93.
Cormier, Philippe
Généalogie de personne
pr. di Jean-Luc Marion
Critérion, settembre 1994
pp. 220, F 119
Da filosofo, l’autore riflette sulla nozione di persona. Esplorando l’epopea di Omero, la tragedia greca, i testi
di Sofocle e di Cicerone ed anche
quelli dei Padri della Chiesa, Cormier
decifra, analizza e racconta come si è
arricchita di significati la parola greca outis, “persona”.
Casati, Roberto - Dokic Jérôme
La Philosophie du son
J. Chambon, settembre 1994
pp. 212, F 160
Il volume sviluppa una teoria originale della natura del suono e dell’orientamento del campo percettivo. Mostra anche l’interesse filosofico ad
uno studio della percezione uditiva,
troppo sovente trascurata dalla tradizione filosofica.
Cayley, David
Conversazioni con Ivan Illich
Un profeta contro la modernità
Eleuthera, settembre 1994
pp. 220, L. 28.000
Una biografia sulla vita “eretica” del
vicerettore dell’università di Puerto Rico
e fondatore del Centro di Documentazione Interculturale du Guernavaca.
De Deyn, P.P. (a cura di)
Ethics of Animal and Human
Experimentation. Proceedings
of the Symposium on Ethical
Considerations Concerning
Biomedical Experimental Methods
and Techniques
John Libbey, agosto sett. 1994
pp. 300, £ 40
Si tratta degli atti del convegno Ethical Considerations Concerning Biomedical Experimental Methods and
Techniques, tenutosi ad Anversa il 10
e l’11 settembre del ’93.
De Maria, Amalia
Propedeutica filosofica
Utet, ottobre 1994
pp. 190, L. 24.000
Che cos’è la filosofia? A questa e
altra domande di fondo risponde il
saggio in analisi che completa la trattazione con uno studio storico sullo
sviluppo della filosofia occidentale.
Dell’Io, Salvatore
Jacques Lacan
Istruzioni per l’uso
Raffaello Cortina, ottobre 1994
pp. 220, L. 16.000
Derrida, Jacques
Otobiographies
L’insegnamento di Nietzsche
e la politica del nome proprio
Il poligrafo, ottobre 1994
pp. 96, L. 22.000
Questa conferenza fu tenuta da Derrida nel 1976 a Charlottesville, presso
l’università della Virginia negli USA.
L’occasione era data dal bicentenario
della Dichiarazione d’Indipendenza,
ma da questa Derrida procedeva con
un commento sull’incipit di Ecce
homo fino alle conferenze nietzscheane Sull’avvenire delle nostre scuole,
per terminare poi sul problema della
libertà accademica. Un testo che può
dunque apparire stravagante nella sua
eterogeneità, e pur tuttavia reso coerente da un unico filo conduttore: il
rapporto tra nome e istituzione che
Derrida sintetizza nel problema della
firma.
Cotroneo, Girolamo
Questioni crociane e post-crociane
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 220, L. 33.000
Il volume affronta alcuni aspetti del
pensiero di Benedetto Croce di natura
teoretica (le caratteristiche del suo
“idealismo”), metodologia (il problema della storia della filosofia) ed etica (il primato di quest’ultima sulla
politica) e illustra alcuni problemi di
analoga natura posti dal pensiero contemporaneo e letti dall’autoe alla luce
delle conclusioni a suo tempo raggiunte dal filosofo napoletano.
Descartes, René
Opere filosofiche
a cura di Lojacono Ettore
Utet, ottobre 1994
pp. 1712, L. 235.000
Raccolta dei testi più importanti del
filosofo e, nel secondo volume, gli
Dami, Roberto
I tropi della storia
La narrazione nella teoria
della storiografia di H. White
FrancoAngeli, ottobre 1994
pp. 192, L, 26.000
82
scritti che ruotano intorno ai temi
centrali del cosmo e dell’uomo.
Desttut de Tracy, Antoine L.
Traité de la volonté
et de ses effets
Fayard, settembre 1994
s.p., F 240
Il volume costituisce la quarta e la
quinta parte degli Eléments d’idéologie, un’opera che si situa tra la fisiocrazia del XVIII secolo ed il liberalismo del XIX secolo.
Diderot, Denis
Lettre sur les aveugles
à l’usage de ceux qui voient
Corps 16, agosto 1994
pp. 120, F 80
Questa lettera, che si situa nel punto
di confluenza tra filosofia, letteratura
e scienza, occupa un posto centrale
all’interno dell’opera dell’autore.
Nella sua analisi del comportamento
di due ciechi dalla nascita, Diderot
conferma la sua posizione di convinto materialista.
Diprose, Rosalyn
The Bodies of Women. Ethics,
Embodiment and Sexual Differences
Routledge, agosto-settembre 1994
pp. 176, £ 12
L’autrice analizza criticamente sia i
tentativi, da parte dell’etica femminista ed anche non femminista, di riconoscere il ruolo della differenza sessuale che le argomentazioni biomediche, le cui descrizioni mascherano
una costituzione ed una regolazione
del “corpo”.
Dogbe, Yves-Emmanuel
Réflexions sur le bien-être:
essais philosophiques
Akpagnon, settembre 1994
pp. 68, F 40
Il libro raccoglie quattro saggi sul
senso della vita, l’essere interiore, il
benessere e la morte.
Eckhardt, Wolfgang
Michail A. Bakunin (1814-1876).
Bibliographie der Primärund Sekundärliteratur
in deutscher Sprache
Libertad, agosto-settembre 1994
DM 28
Elsässer, Michael
Friedrich Schlegels Kritik am Ding
Felix Meiner, agosto-sett. 1994
DM 68
Epitteto
Le Manuel
tr. dal greco Marcel Caster
pref. Giacomo Leopardi
Rivages, agosto 1993
Il filosofo latino di lingua greca non
ha mai scritto. E’ stato il suo discepolo, Arriano di Nicomedia, che ci ha
trasmesso il suo insegnamento sulla
base degli appunti da lui presi assistendo alle sue lezioni o in seguito a
conversazioni con Epitteto. Il risultato è quindi lo stile naturale del Manuale, ciò che è stato chiamato il
“parlare franco” di Epitteto.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Fimiani, Filippo
La sovranità dell’evento
Saggio su Charles Péguy
Guerini, ottobre 1994
pp. 144, L. 22.000
Saggio su uno dei rappresentanti
del pensiero francese dei primi anni
del Novecento, sulla centralità dell’evento nella nascita e nella vita
dell’opera d’arte.
Flach, Werner
Grundzüge der Erkenntnislehre.
Erkenntniskritik, Logik,
Methodologie
Königshausen & Neumann
agosto-settembre 1994
pp. 780, DM 186
Frederking, Volker
Durchbruch von Haben zum Sein.
Erich Fromm und die Mystik
Meister Eckharts
Schöningh, agosto-settembre 1994
pp. 350, DM 78
Fruchon, Pierre
L’Herméneutique de Gadamer:
platonisme et modernité,
tradition et interprétation
Cerf, agosto 1994
pp. 534, F 245
L’autore di questo volume, colloca
deliberatamente nell’insieme del progetto filosofico di Gadamer l’ermeneutica propriamente detta. In effetti Gadamer comincia praticando
l’interpretazione prima di formularne concettualmente la teoria nella sua opera fondamentale, Verità
e metodo (1960).
Gadamer, Hans-Georg
Il movimento fenomenologico
Laterza, ottobre 1994
pp. 144, L. 18.000
Sintesi della parabola del movimento
fenomenologico: precursori, origini,
storia e dibattiti.
Gadamer, Hans-Georg
Dove si nasconde la salute
Raffaello Cortina, ottobre 1994
pp. 200, L. 32.000
La cura della salute è per l’uomo
un “fenomeno originario”. Ma cosa
comporta questo richiamo alle origini? Che cosa significa guarire e
quali sono i presupposti dell’arte
medica? Gadamer indaga il luogo
in cui si “nasconde” la salute, condizione particolare di equilibrio e
armonia, a partire dal mondo greco
fino a toccare le problematiche
della medicina moderna.
Galimberti, Umberto
Parole nomadi
Feltrinelli, ottobre 1994
pp. 352, L. 35.000
Galimberti rielabora in questo volume i suoi articoli originariamente
apparsi sul supplemento domenicale
de “Il Sole 24 Ore”, ordinati alfabeticamente per argomenti. Spaziando
dalla religione alla politica, dai sentimenti alla filosofia, dall’estetica alla
psicologia, ci offre un modello dinamico di interpretazione della realtà.
Garcia, Joseph
Theologie für Atheisten.
Die Überwindung des Gegensatzes
zwischen Naturwissenschaft
und Glauben
intr. di Raimon Panikkar
Lit, agosto-settembre 1994
pp. 80, DM 19,80
Gardner, Howard
Intelligenze creative
Feltrinelli, ottobre 1994
pp. 576, L. 65.000
Con Formae mentis Gardner ha dimostrato che esiste una molteplicità
di intelligenze e che la fisionomina
cognitiva degli individui è unica e
irripetibile come la combinazione
delle intelligenze che possiedono. Con
Intelligenze creative argomenta la tesi
che a ogni intelligenza corrisponde
una forma particolare di creatività.
Garin, Eugenio
L’umanesimo italiano
Laterza, ottobre 1994
pp. 288, L. 13.000
Saggio sul pensiero filosofico italiano tra il 1440 e il 1500.
Il volume presenta più di cinquecentoquaranta filosofi antichi o testimoni importanti del movimento filosofico nell’Antichità. Si tratta del secondo volume di un’opera che consterà
di sei tomi e di due o tre volumi di
supplementi.
Heinz, Marion
Sensualistischer Idealismus.
Untersuchungen
zur Erkenntnistheorie
des jungen Herder (1763-1778)
Meiner; agosto-settembre 1994
pp. 204, DM 88
Greisch, Jean
Ontologie et temporalité:
esquisse d’une interprétation
intégrale de ‘Sein und Zeit’
PUF, settembre 1994
pp. 528, F 288
La pubblicazione degli insegnamenti impartiti tra il 1919 e il 1928,
il decennio fenomenologico di
Heidegger , per mette di f ar si
un’idea precisa della genesi delle
sue concezioni in quel periodo e
del libro Essere e tempo. Vengono
anche forniti nuovi criteri per un
moderno lavoro interpretativo.
Held, Klaus
Guida filosofica del Mediterraneo
Guanda, ottobre 1994
pp. 350, L. 35.000
Viaggio attraverso il pensiero antico: la storia della filosofia antica,
da Talete fino agli autori cristiani
del IV-V secolo, collegata ai luoghi, alle esperienze dei singoli pensatori, alle relazioni, agli scambi,
agli incroci tra diverse scuole e
centri di sapere collocati nell’area
del Mediterraneo.
Haarscher, Guy (a cura di)
Chaïm Perelman
et la pensée contemporaine
Bruylant, agosto 1994
pp. 491, F 487
A trentacinque anni di distanza
dalla pubblicazione del Traité de
l’argumentation, specialisti di tutti i continenti verificano le tesi di
Perelman adottando il punto di vista della filosofia, del diritto e delle scienze umane in generale. Questo avviene all’alba degli anni ’90,
nello spirito di un’apertura critica
e del libero esame. Il volume contiene contributi in lingua francese
e inglese.
Geyer, Carl-Friedrich
Einführung in die Philosophie
der Kultur
Wiss. Buchvlg.
agosto-settembre 1994
pp. 214, DM 39,80
Questa introduzione informa sullo
sviluppo della filosofia della cultura partendo dal XIX secolo e discute criticamente l’attuale tesi che
vede la filosofia della cultura come
l’unica possibilità rimasta di discorso filosofico.
Hansen, Frank-Peter
Hegels ‘Phänomenologie
des Geistes’.
’Erster Teil’ des ‘Systems
der Wissenschaft’. Dargestellt
an Hand der ‘System-Vorrede’
von 1807
Königshausen & Neumann
agosto-settembre 1994
pp. 360, DM 86
Gillies, Donald - Giorello, Giulio
La filosofia della scienza
nel XX secolo
Laterza, settembre 1994
pp. 432
Nel delineare il percorso della filosofia della scienza nel Novecento, Gilles articola la trattazione attorno ad
argomenti-chiave mentre Giorello
presenta le concezioni dei maggiori
filosofi della scienza dopo Popper.
Hastedt, Heiner
Aufklärung und Technik.
Grundprobleme einer Ethik
der Technik
Suhrkamp, agosto-settembre 1994
pp. 336, DM 24,80
Goth, Christian
Initation aux sciences humaines:
philosophie, psychologie,
psychanayse, sociologie, ethnologie
C. Goth, settembre 1994
pp. 128, F 240
Ogni disciplina viene presentata in un
capitolo del volume. Christian Gott,
laureato in psicologia ha effettuato
degli studi completi nel campo delle
scienze umane, soprattutto in quello
della sociologia, dell’etnologia e della criminologia. Egli è stato influenzato dalle teorie di Palo Alto ed è
stimato per i suoi studi sulla scrittura
e sulla comunicazione.
Heaton, John - Groves, Judy
Wittgenstein. Per cominciare
Feltrinelli, ottobre 1994
pp. 176, L. 12.000
Una guida chiara e accessibile sia al
lavoro principale di Wittgenstein, il
Tractatus logico-philosophicus che al
suo successivo Ricerche filosofiche.
Heideggere, Martin
Nietzsche
Adelphi, ottobre 1994
pp. 1100, L. 120.000
Un vasto e serrato confronto che
Heidegger ingaggia con Nietzsche,
interrogandone insistemente i testi al
fine di scoprire il filo conduttore che
lega in una trama unitaria le sue dottrine fondamentali.
Goulet, Richard (a cura di)
Dictionnaire des philosophes
antiques
vol. 2: Babelyca d’Argos
à Dyscolius
pref. Pierre Hadot
CNRS-Editions, agosto 1994
pp. 1024, F 525
83
Hobbes, Thomas
Léviathan: traité de la matière,
de la forme et du pouvoir
de la république ecclesiastique
et civile
trad. dall’inglese e a cura
di François Tricaud
Sirey, settembre 1994
pp. 780, F 220
Si tratta della ristampa di questa edizione ampiamente commentata, nella
quale il testo inglese viene anche paragonato al testo latino.
Hofmann, Johann Nepomuk
Wahrheit, Perspektive,
Interpretation. Nietzsche
und die philosophische Hermeneutik
de Gruyter, agosto-settembre 1994
pp. 456, DM 242
Alla base di questo studio sistematico-comparativo sulla filosofia
dell’interpretazione di Nietzsche
c’è la tesi tenuta da Hofmann a
Tubinga nel ’93.
Holz, Harald
Geist in Geschichte.
Idealismus-Studien
Königshausen & Neumann
agosto-settembre 1994
pp. 354, DM 68
Il volume contiene, nella prima
parte: “Immanuel Kant, l’idea centrale sistematica nella storia”; nella seconda: “Fichte, Schelling,
Hegel, la forza delle idee nel monologo consistematico.”
Honnefelder, L. (a cura di)
Die Einheit des Menschen.
Zur Grundfrage
der philosophischen Anthropologie
Schöningh, agosto-settembre 1994
pp. 181, DM 36
Horn, Hans-Jürgen
Studien zum Dritten Buch
der aristotelischen Schriften
’De anima’
Vandenhoeck & Ruprecht
agosto-settembre 1994
pp. 200, DM 58
NOVITÀ IN LIBRERIA
Huisman, Bruno - Ribes, François
(a cura di)
Les Philosophes et le pouvoir
Dunod, settembre 1994
pp. 368, F 168
Il volume si rivolge agli allievi delle
classi preparatorie della HEC, la Haute Ecole Commerciale.
Hull, R.T. (a cura di)
A Quarter Century of Value
Inquiry. Presidential Addresses
before the American Society
for Value Inquiry
Editions Rodopi
agosto-settembre 1994
pp. 400, FOL 200
Questo volume contiene tutti i discorsi presidenziali tenuti alla American Society for Value Inquiry, dalla
sua prima riunione, nel 1970. Si tratta
di una testimonianza unica di indagine sui valori nel corso degli ultimi
venticinque anni.
Jäger, Christian
Michel Foucault, das Ungedachte
denken. Eine Untersuchung
der Entwicklung und Struktur
des kategorischen Zusammenhangs
in Foucaults Schriften
Fink, agosto-settembre 1994
pp. 206, DM 48
James, William
Das pluralistische Universum.
Vorlesungen über die gegenwärtige
Lage der Philosophie
Wiss. Buchvlg., agosto-sett. 1994
pp. 263, DM 49,80
Con la riedizione di questo lavoro
riassuntivo di William James, il più
importante filosofo del pluralismo,
uno dei principali fondatori del pragmatismo, si può accedere ad un classico del pensiero filosofico, che colpisce per la sua lingua chiara ed estremamente viva.
James, William
Der Pragmatismus. Ein neuer Name
für alte Denkmethoden
intr. a cura di Kl. Oehler
Meiner, agosto-settembre 1994
pp. 200, DM 32
Si tratta della seconda edizione di
quest’opera, con nuove indicazioni
bibliografiche.
Jean, Paul
Il comico, l’umorismo e l’arguzia
Arte e artificio del riso
in una “Propedeutica dell’estetica”
del primo Ottocento
a cura di Eugenio Spedicato
Il poligrafo, ottobre 1994
pp. 222, L. 30.000
L’estetica del riso viene affrontata da
Jean Paul (pseudonimo di Johann Paul
Friedrich Richter, 1763-1825) in quattro capitoli della Propedeutica dell’estetica, un’opera di vasto respiro,
frutto di un’attrezzatissima officina
filosofica e letteraria, una summa del
pensiero del suo autore, ma anche un
documento essenziale della storia
dell’estetica e più in generale della
storia della cultura tedesca tra Sette e
Ottocento.
Jolivet, Pierre (a cura di)
Abélard ou la Philosophie
dans le langage
Cerf Ed. univers. de Fribourg
agosto 1994
pp. 214, F 139
Il volume presenta Abélard (10791142) ed il suo pensiero, la sua biografia e le sue principali dottrine filosofiche e teologiche, nella prima parte;
mentre, nella seconda, figurano delle
traduzioni di testi tratti dalle sue opere.
Lamarra, Antonio
Pimpinella, Pietro
Metitationes philosophicae
Leo S. Olschki, ottobre 1994
pp. 228, L. 59.000
Pubblicata nel 1734, questa breve
dissertazione contiene la prima
menzione del termine “estetica” e
costituisce il primo tentativo di
inserire organicamente nella riflessione filosofica la disciplina che
ancor oggi porta quel nome.
Kämpf, H. - Schott, R. (a cura di)
Der Mensch als homo pictor?
Die Kunst traditioneller Kulturen
aus der Sicht von Philosophie
und Ethnologie
Bouvier, agosto-settembre 1994
pp. 256, DM 58
Questo volume, che raccoglie i contributi ad un simposio, tenutosi a Münster nel ’92, dimostra che il dialogo
finora interrotto tra filosofi ed antropologi può essere ripreso, nella prospettiva della domanda di tipo antropologico, posta da Hans Jonas, riguardo all’essere umano come homo pictor.
Larroque, Michel
Volonté et involonté
dans la pensée occidentale
et orientale
L’Harmattan, settembre 1994
pp. 199, F 110
Nel pensiero occidentale, l’esistenza
morale realizza la volontà. Lo spirito
acquista la propria autonomia imponendo la sua legge alla natura. Il pensiero orientale, invece, propone una
definizione completamente diversa
della vita spirituale, con la condanna
della riflessione, il rifiuto di usare il
pensiero per diventare padroni del
corso del tempo, l’abolizione dell’io
cosciente e proponendo quindi la involonté, la “non volontà”.
Kant, Immanuel
Théorie et pratique;
D’un pretendu droit de mentir
par l’humanité;
la Fin de toute chose
trad. dal tedesco e a cura
di Françoise Proust
Flammarion, settembre 1994
pp. 196, F 28
I primi due testi sono le risposte di
Kant ai detrattori della sua teoria
morale. Come è noto, egli rispose
ai suoi detrattori: “Può essere che
ciò sia giusto dal punto di vista
teorico, ma in pratica non vale niente.” Il terzo testo tratta del rapporto
tra la verità e l’eternità.
Leibniz, Gottfried Wilhelm
Le Droit de la raison
a cura di René Sève
Vrin, settembre 1994
pp. 256, F 60
L’autonomia degli individui, dei popoli e dei sovrani si basa non tanto
sulla libertà nazionale o convenzionale, quanto sull’incapacità pratica
della ragione di determinare ogni cosa.
Tutte queste idee, compresa anche la
loro espressione critica rispetto al diritto naturale, fanno di Leibniz un
teorico fedele ai principi della politica classica.
Kant, Immanuel
La religione nei limiti
della ragione
Rusconi, ottobre 1994
pp. 450, L. 16.000
Saggio sull’interpretazione della teologia cattolica e luterana da parte dell’idealismo.
Leibniz, Gottfried Wilhelm
Philosophische Schriften
und Briefe 1663-1676
a cura di U. Goldenbaum
Akademie, agosto-settembre 1994
pp. 480, DM 86
Kersting, Wolfgang
Die politische Philosophie
des Gesellschaftsvertrags.
Von Hobbes bis zur Gegenwart
Wiss. Buchvlg., agosto-sett. 1994
pp. 380, DM 58
Lo scopo del libro è di mostrare la
varietà storica e concettuale e la differenziazione sistematica della filosofia politica del contratto sociale,
inquadrandole all’interno della prima presentazione completa della storia del contrattualismo moderno.
Lescourret, Marie-Anne
Emmanuel Levinas
Flammarion, settembre 1994
pp. 414, F 150
Il volume ripercorre il cammino
del filosofo e della sua opera. Emmanuel Levinas, che si situa all’incrocio tra quattro culture (ebraica,
russa, tedesca, e francese), è rimasto sempre lontano dai percorsi battuti, che passano attraverso l’ENS e
l’insegnamento universitario. La sua
opera è composta da una parte confessionale che è distinta da quella
puramente filosofica.
Kofman, Sarah
Le Mépris des juifs: Nietzsche,
les juifs, l’antisémitisme
Galilée, settembre 1994
pp. 95, F 82
Nietzsche era antisemita? Oppure il
suo supposto antisemitismo non sarebbe stato altro che un errore di gioventù, trasmesso dal suo ambiente, dai
suoi maestri e modelli, e di cui doveva
liberarsi per diventare se stesso?
Lévi-Strauss, Claude
Guardare ascoltare leggere
Il Saggiatore, settembre 1994
pp. 176, L. 29.000
Scritto in tono colloquiale, questo
libro apre nella pittura, nella musica, nella letteratura prospettive che
si intersecano giungendo a conclusioni inaspettate.
84
Locke, John
Lettera sulla tolleranza
Laterza, ottobre 1994
pp. 128, L. 9.000
Uno dei primi scritti sulla tolleranza e
la libertà di pensiero, alla base della
moderna cultura europea.
Loegstrup, Knud Ejler
Methaphysik
Vol. 3: Ursprung und Umgebung.
Betrachtungen über Geschichte
und Natur
Mohr, agosto-settembre 1994
pp. 328, DM 98
Lorenz, Ulrich
Das Projekt der Ideologie.
Studien zu einer
’Ersten Philosophie’
bei Destutt de Tracy
Frommann-Holzboog
agosto-settembre 1994
pp. 263, DM 82
La “Filosofia prima” è in realtà un
insieme di questioni e di domande
che aprono l’orizzonte a temi che
possono essere trattati dal punto di
vista scientifico. In questo contesto,
l’ideologia risulta essere una filosofia della coscienza orientata in senso
antropologico.
Lüdeking, Karl-Heinz
Einführung in die analytische
Kunstphilosophie
UTB (W. Fink)
agosto-settembre 1994
pp. 230, DM 24,80
Il volume propone una pianta del labirinto argomentativo, in cui rimane
intrappolato chiunque si chieda come
sia possibile capire e motivare il fatto
che alcune cose vengano chiamate
opere d’arte e che vengano loro ascritte delle qualità estetiche.
Lyotard, Jean-François
Dérive à partir de Marx et Freud
Galilée, settembre 1994
pp. 200, F 180
A distanza di ventidue anni, viene
ripubblicato il diario di bordo di un
veterano, come testimonianza e memoria e con una prefazione inedita
dell’autore. I giovani manifestavano allora contro il lavoro, adesso
manifestano in favore dell’occupazione. Allora si gridava: Liberation! Adesso noi mormoriamo “resistenza”. Il volume indaga su che
cosa significhino una cosa ed il suo
contrario. Marx insegnava questa
contraddizione, Freud questa ambivalenza. Adesso più che mai,
questi due autori la insegnano.
Marchianò, Grazia
Sugli orienti del pensiero
La natura illuminata
e la sua estetica
Rubbettino, ottobre 1994
pp. 160, L. 15.000
Saggio sull’estetica che si apre alle
tradizioni filosofiche e religiose orientali, a partire dal mondo indù, comprendendo la Cina e il Giappone.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Masullo, Aldo
Struttura soggetto prassi
Esi, ottobre 1994
pp. 330, L. 28.000
Mathisen, Steinar
Transzendentalphilosophie
und System. Zum Problem
der Geltungsgliederung
Bouvier, agosto-settembre 1994
pp. 211, DM 68
Il volume si occupa delle differenze tra principi scientifici, pratici ed
estetici nella recente filosofia trascendentale.
Meier, Heinrich
Die Lehre Carl Schmitts.
Vier Kapitel zur Unterscheidung
Politischer Theologie
und Politischer Philosophie
J.B. Metzler, agosto-sett. 1994
pp. 263, DM 38
Minnigerode, Bernhard
Reflexionen eines Zuschauers
zum Thema ‘evolutionäre
Erkenntnistheorie’
Kramer, agosto-settembre 1994
pp. 85, DM 20
Misrahi, Robert
Le Bonheur: essai sur la joie
Hatier, settembre 1994
pp. 79, F 27
I filosofi giudicarono spesso la felicità come qualcosa di impensabile.
Questo significava dimenticare un
filone che attraversa tutto il pensiero,
da Aristotele a Ernst Bloch, passando
per Spinoza, per il quale la felicità
deve essere realizzata partendo dalla
vita terrena. Sulla base del loro esempio, è agli atti concreti della gioia che
bisogna pensare, al fine di eliminare
molti sofismi.
Monde, Le (Paris) (a cura di)
Les Grands entretiens du Monde
vol. 1: Penser la philosophie,
les sciences, les religions
pref. di Thomas Ferenczi
Le Monde éditions, settembre 1994
pp. 208, F 85
In questa raccolta, diversi intellettuali, invitati ad esprimersi sul quotidiano Le Monde dall’autunno del 1991,
filosofi, storici, studiosi, teologi si
sforzano di ricostruire un discorso
che si rivolga a tutti e che, nelle differenze delle discipline e degli argomenti, cerchi di ridare un senso all’esistenza individuale e collettiva.
Morin, Edgar
Il paradigma perduto
Feltrinelli, ottobre 1994
pp. 224, L. 20.000
Ormai da molti anni introvabile in
italiano, questo volume è una appassionata resa dei conti con il preteso
valore conoscitivo delle scienze umane. Morin si propone di capire e di
spiegare l’articolazione tra biologia e
antropologia. Contro l’opposizione
di Natura e Cultura, mostra che le
chiavi della nostra cultura sono nella
nostra natura e viceversa.
Müller, Max
Auseinandersetzung als Versöhnung.
Gespräche über ein Leben
mit der Philosophie
a cura di Wilhelm Vossenkuhl
Akademie, agosto-settembre 1994
pp. 400, DM 68
Max Müller racconta e descrive la
sua storia nel corso delle conversazioni con il suo allievo Wilhelm Vossenkuhl, che attualmente è il suo successore alla cattedra di Filosofia dell’Università di Monaco. In queste
conversazioni, Müller rende conto
della continuità e delle interruzioni
nella tradizione filosofica tedesca.
Negri, Antonio
Spinoza subversif:
variations (in)actuelles
Kimé, agosto 1994
pp. 160, F 130
In questo saggio, A. Negri approfondisce la sua interpretazione del concetto di potenza di Spinoza e la confronta con le letture di Spinoza da
parte di Deleuze, Matheron, Macherey o Balibar, soffermandosi anche
sul concetto di democrazia.
Nicolescu, Basarab
L’Homme, la science et la nature:
regards transdisciplinaires
a cura di Michel Cazenave
Mail, settembre 1994
pp. 280, F 148
Non ci possono essere, per definizione, degli esperti transdisciplinari, ma
solamente dei ricercatori animati da
uno spirito di transdisciplinarietà. Le
ricerche qui condotte non possono far
altro che poggiare sulle diverse attività dell’arte, della poesia, della filosofia e possono dar luogo ad una rinnovata visione della natura.
Müller-Tuckfeld, J. Chr. et al.
(a cura di)
Interventionen im Anschluß
an Althusser
Argument, agosto-settembre 1994
pp. 240, DM 29
Si tratta di una rivalutazione complessiva di Althusser. Senza la ricezione critica di questo teoreta, molti
discorsi portati avanti nel segno del
post-moderno restano incompresi.
Nietzsche, Friedrich
Le Monde te prend tel que
tu te donnes: écrits de jeunesse
trad. dal tedesco e a cura
di Jean-Louis Backes
Cherche-Midi, settembre 1994
pp. 216, F 110
Il volume contiene i principali scritti
giovanili, in particolare degli importanti testi autobiografici scritti tra il
1854 ed il 1864, nel periodo che va
quindi dal quattordicesimo al ventesimo anno di età di Nietzsche.
Munster, Arno
La Pensée de Franz Rosenzweig:
actes/colloque parisien organisé
à l’occasion du centenaire
de la naissance du philosophe
PUF, agosto 1994
pp. 240, F 148
Il volume contiene gli atti del convegno tenutosi in occasione del centenario della nascita di Franz Rosenzweig, nel corso del quale sono stati
analizzati il legame tra il filosofo e
Hegel ed i suoi rapporti con altre
grandi figure del pensiero contemporaneo. Nel volume vengono mostrate
le ripercussioni di questo pensieroguida sull’etica e la religione, la politica e l’estetica.
Nietzsche, Friedrich
L’Antéchrist
trad. dal tedesco e a cura
di Eric Blondel
Flammarion, settembre 1994
pp. 232, F 31
Per Nietzsche, l’Anticristo designa
l’anticristiano. In questo saggio polemico, egli denuncia il peso che nel
cristianesimo viene attribuito al credere ciecamente, andando contro alla
verità. Qualche mese dopo la redazione di quest’opera (1888), Nietzsche non esiterà a firmare i suoi testi
con il proprio nome.
Nagl-Docekal, H. (a cura di)
Feministiche Philosophie
Oldenburg, agosto-settembre 1994
pp. 284, DM 48
Il volume mette in evidenza i tratti
patriarcali della storia della filosofia
e rivela la necessità di una trasformazione delle singole discipline, dalla
teoria della scienza fino all’etica.
Nancy, Jean-Luc
La partizione delle voci
verso una comunità
senza fondamenti
a cura di Alberto Folin
Il poligrafo, ottobre 1994
pp. 118, L. 20.000
Questo breve saggio risale al 1982:
quattro anni prima che uscisse La
comunità inoperosa, opera tradotta
in moltissime lingue, e alla quale rispose Maurice Blanchot con la La
communauté inavouable. La tesi che
vi veniva sostenuta, destinata a rivelare Nancy come uno dei più originali
pensatori della generazione succesiva a Derrida, Faucault, Lacan, Deleuze, trova le sue radici nel testo che qui
si presenta, nato per circostanze fortuite.
Nietzsche, Friedrich
Introductions aux leçons
sur l’Oedipe-roi de Sophocle:
été 1870, trois heures par semaine
Introduction aux études
de philologie classique:
été 1871, trois heures par semaine
pres. Michel Haar
trad. dal tedesco
di Françoise Dastur e Michel Haar
Encre marine, settembre 1994
pp. 133, F 100
All’interno dei corsi che Nietzsche
tenne a Bâle tra il 1869 ed il 1875,
quello sull’Edipo re di Sofocle preannuncia in modo addirittura folgorante, e con quasi due anni di anticipo, la
maggior parte dei temi che verranno
sviluppati nella Nascita della tragedia greca. Nel secondo testo, Nietzsche traccia una sua lettura critica
della modernità.
85
Oelmüller, Willi
Philosophische Aufklärung.
Ein Orientierungsversuch
Fink, agosto-settembre 1994
pp. 172, DM 38
Owen, David
Maturity and Modernity.
Nietzsche, Weber, Foucault
and the Ambivalence of Reason
Routledge, agosto-settembre 1994
pp. 272, DM 40
Si tratta del primo libro che analizza
Nietzsche, Weber e Foucault rintracciando in essi tradizione di teorizzazione. Inoltre il volume evidenzia lo
sviluppo della genealogia come parametro critico.
Paul, Jean-Marie
Dieu est mort en Allemagne:
des Lumières a Nietzsche
Payot, settembre 1994
pp. 190, F 190
Il pensiero tedesco mette in campo,
nella battaglia contro Dio, le armi
della filosofia e della teologia. La sua
violenza è distruttrice e non superficialmente polemica o anticlericale. I
grandi sistemi idealisti, le correnti
pessimiste e i loro sviluppi nella teoria nietzschiana sono i tre momenti in
cui si delinea la morte di Dio.
Penco, Carlo
Le vie della scrittura
FrancoAngeli, ottobre 1994
pp. 340, L. 40.000
Il volume si propone di dare una ricostruzione della filosofia del linguaggio di Frege letta in relazione alla
tradizione filosofica e agli sviluppi
contemporanei. Si hanno così gli elementi essenziali per capire dove e
come i nostri strumenti concettuali
sono effettivamente cambiati.
Perec, Georges
L’infra-ordinario
Bollati Boringh., ottobre 1994
pp. 112, L. 15.000
L’arte di sorprendere parlando delle
cose comuni e del quotidiano.
Pfohl, Gerhard
Medicina perennis. Philosophie
der Medizin und Medizin
der Philosophie.
Mit der Abschiedtsvorlesung
Charles Lichtenthaelers
Ecomed, agosto-settembre 1994
pp. 180, DM 48
Philonenko, Alexis
Relire Descartes:
le génie de la pensée française
Grancher, settembre 1994
pp. 472, F 119
In questo saggio, l’autore si prefigge
di ricostruire la figura di Cartesio,
filosofo ed erudito, ma anche uomo
che spera ardentemente di poter
prolungare la vita. Gradualmente
Cartesio vide questa speranza crollare, fino al punto di scrivere a Chanut che invece di vincere la morte
egli aveva trovato, nella sua morale,
il modo di non temerla.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Platone
Phédon
tr. dal greco antico e a cura
di Mario Meunier
pref. Agnès Nordman
Pocket, agosto 1994
F 33
L’opera appartiene al gruppo di dialoghi in cui Platone sviluppa la sua dottrina per bocca di Socrate. Qui, Socrate, condannato a morte, si interroga
sull’immortalità dell’anima e sulla sua
destinazione dopo la morte del corpo.
Popper, Karl
Poscritto alla logica
della scoperta scientifica
Il Saggiatore, settembre 1994
pp. 448, L. 16.000
Con il saggio Logica della scoperta
scientifica Popper muove contro le
tesi principali del Circolo di Vienna,
del quale egli stesso era membro: al
principio di “verificabilità” oppone
quello di “falsificabilità” contestando così ogni possibilità di verifica di
una proposizione scientifica che sussiste perciò soltanto come ipotesi sempre confutabile da altri controlli.
Popper, Karl R.
Alles Leben ist Problemlösen.
Über Erkenntnis, Geschichte
und Politik
Piper, agosto-settembre 1994
pp. 256, DM 38,90
In questo volume, Popper raccoglie
avvenimenti e saggi che coprono un
arco di più di quarant’anni, molti di
questi scritti sono disponibili per la
prima volta in una raccolta.
Popper, Karl R.
Ausgangspunkte.
Meine intellektuelle Entwicklung
Campe, agosto-settembre 1994
pp. 384, DM 28
Il “padre del razionalismo critico” ha
compiuto novantadue anni nel luglio
scorso. Nella sua “autobiografia intellettuale”, Popper ha illustrato il lungo
percorso da apprendista falegname a
Vienna, a maestro di scuola elementare a marxista nobile, fino a diventare il
più grande pensatore del nostro secolo.
Portales, Gonzalo
Hegels frühe Idee
der Philosophie
Fromann-Holzboog
agosto-settembre 1994
pp. 220, DM 88
Questo lavoro apre delle nuove prospettive per l’interpretazione filosofica, dal punto di vista storico e del
suo sviluppo. Nel volume si indaga
sul particolare interesse filosofico che
guidò Hegel, fin dall’inizio, ad unificare religione e politica.
Probst, Peter
Kant - bestirnter Himmel
und moralisches Gestz.
Zum geschichtlichen Horizont
einer These Immanuel Kants
Königshause & Neumann
agosto-settembre 1994
pp. 160, DM 38
Si tratta della tesi di abilitazione alla
docenza, tenuta da Peter Probst presso l’Università di Gießen nel ’93.
Puig, Jaume de
Les sources de la pensée
philosophique de Raimond Sebond
(Ramon Sibiuda)
Champon, settembre 1994
pp. 324, F 270
L’autore, partendo da numerosi documenti d’archivio, presenta qui uno
studio che esamina l’opera di questo
teologo e filosofo umanista, le sue
origini, i suoi fondamenti e la sua
specificità.
Rousseau, Jean-Jacques
Sull’origine dell’ineguaglianza
a cura di Gerratana Valentino
Ed. Riuniti, ottobre 1994
pp. 232, L. 22.000
Un’appassionata condanna della proprietà privata all’origine di tutte le
successive teorie socialiste e comuniste, ma anche una delle fonti maggiori della riflessione antropologica.
Un’anticipazione delle più recenti
suggestioni dell’ecologia.
Quillen, Jean (a cura di)
La Réception de la philosophie
allemande en France aux XIXe
et XXe siècles
Presses universitaires de Lille
agosto 1994
pp. 302, F 105
Gli scambi, dal punto di vista culturale, tra la Germania e la Francia
sono stati costanti. In ogni caso,
l’influenza della filosofia tedesca
sul pensiero francese è stata diversa a seconda delle epoche ed è stata
esercitata con differenze e salti più
o meno grandi. Questi studi, che
sono i risultati di un convegno tenutosi a Lille nel ’91, hanno lo
scopo di approfondire le diverse
sfaccettature di questa ricezione.
Rovatti, Pier Aldo
Trasformazioni del soggetto
Un itinerario filosofico
Il poligrafo, ottobre 1994
pp. 144, L. 26.000
Il testo consente l’approfondimento di alcune delle tematiche più
preganti della filosofia contemporanea. I saggi che compongono il
volume hanno al loro centro la discussa proposta di un “pensiero
debole”. Questa proposta, formulata nel 1983, si articolava intorno
al nome di Nietzsche; ma accanto a
questo nome era sottinteso quello
di Husserl: si trattava del problema
di un luogo diverso da dare alla
soggettività, dinanzi a una modificata descrizione del potere.
Rancière, Jacques
Le parole della storia
Il Saggiatore, settembre 1994
pp. 160, L. 18.000
Il rapporto tra scienza storica e narrazione e ciascuno di questi due aspetti
del sapere storico e le forme della
politica, sono al centro del libro di
Rancière.
Schart, Franz-Friedrich
Friedrich Nietzsche
Das Subversive als Denkansatz
in seiner Philosophie.
Ein Beitrag zur Interpretation
Gardez, agosto-settembre 1994
pp. 240, DM 49,80
Si tratta della tesi di laurea, tenuta
da Schart presso l’Università di
Bochum nel ’93.
Robinet, André
G.W. Leibniz: le meilleur
des mondes par la balance
de l’Europe
PUF, settembre 1994
pp. 352, F 198
Nel volume l’autore analizza le implicazioni giuridico-politiche delle posizioni metafisiche di Leibniz, mostrando come egli inaugurò un cammino
teorico che portò poi al dispotismo
illuminato del XVIII secolo.
Schmidinger, Heinrich
Der Mensch ist Person.
Ein christliches Prinzip
in theologischer
und philosophischer Sicht
Tyrolia, agosto-settembre 1994
pp. 152, ÖS 248
Schmidt, Hermann Joseph
Nietzsches absonditus
oder Spurensuche bei Nietzsche
IBDK, agosto-settembre 1994
pp. 2515, DM 275
Quest’opera, che viene ora pubblicata interamente in quattro volumi, è la
prima monografia sul giovane Nietzsche e sulle sue prime opere, la cui
conoscenza è imprescindibile se si
desidera comprendere adeguatamente anche le opere successive.
Rohnheimer, Martin
Praktische Vernunft
und Vernünftigkeit der Praxis.
Handlungstheorien
bei Thomas von Aquin
in ihrer Entstehung
aus dem Problemkontext
der aristotelischen Ethik
Akademie, agosto-settembre 1994
pp. 611, DM 120
L’autore argomenta come segue: l’etica aristotelica si limita alla condizione affettiva dell’agire ragionevole.
Tommaso d’Aquino fornisce una risposta ai problemi rimasti insoluti
nella teoria delle azioni di Aristotele.
Searle R., John
La riscoperta della mente
Bollati Boring., settembre 1994
pp. 272, L. 40.000
Contro gli eccessi del materialismo,
dell’odierna “filosofia della mente” e
del cognitivismo, l’autore invita a
riscoprire l’esperienza irriducibile
della coscienza.
Rossi, Pietro
Lo storicismo tedesco
contemporaneo
Comunità, ottobre 1994
pp. 500, L. 58.000
Mappa delle idee centrali dello storicismo tedesco, dei problemi che hanno
portato alla nascita delle scienze sociali.
Severino, Emanuele
Sortite. Contributi
e interventi sul pensiero
e la letteratura
Rizzoli, ottobre 1994
pp. 350, L. 38.000
86
Raccolta di brevi saggi e articoli
sulle forme del pensiero e sulle sue
espressioni.
Shea, William R.
La magia dei numeri e del moto
René Descartes e la scienza
del Seicento
Bollati Boringhieri, ottobre 1994
pp. 432, L. 75.000
Nel libro di Shea seguiamo Descartes
dalla prima formazione, presso i gesuiti, fino al viaggio in Olanda, dove
conobbe quell’Isaac Beechman che
suscitò il suo interesse per la matematica, la musica, la caduta dei gravi e i
problemi dell’idrostatica.
Sladek, M. (a cura di)
Östliches - Westliches.
Studien zur vergleichenden Religions
und Geistesgeschichte
Manutius, agosto-settembre 1994
pp. 320, DM 68
Steinvorth, Ulrich
Warum überhaupt etwas ist.
Kleine demiurgische Metaphysik
Rowohlt, agosto-settembre 1994
DM 18,90
Hanno un senso le domande sul significato della vita e del mondo? E’
possibile rispondere a queste domande? Anche la filosofia contemporanea spera di poter contribuire a far
luce su queste questioni.
Thurnherr, Urs
Die Ästhetik der Existenz.
Über den Begriff der Maxime
und die Bildung von Maximen
bei Kant
Francke, agosto-settembre 1994
pp. 182, DM 58
Si tratta della tesi di laurea tenuta da
Thurnherr presso l’Università di Basilea nel ’93.
Titze, Hans
Das philosophische Gesamtwerk
vol. 7: Zur Grundlegung der Ethik
Schäuble, agosto-settembre 1994
pp. 160, DM 64
Tommaso d’Aquino
Contre Averroès
trad. dal latino e a cura
di Alain de Libera
Flammarion, settembre 1994
pp. 384, F 48
Si tratta di un’opera che scatenerà
una battaglia di cui il Medioevo non
vedrà la fine: la lotta contro l’averroismo che invase l’università parigina
e che minacciò l’egemonia del cristianesimo. Dal punto di vista filosofico, l’averroismo rimanda alla tesi
della “unità dell’intelletto”.
Vattuone, Giuseppe
Libero pensiero
e servo arbitrio
Esi, ottobre 1994
pp. 132, L. 18.000
Il tentativo di spiegare il perché della
propria esistenza e delle proprie azioni nei secoli.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Vieillard-Baron, Jean-Louis
(a cura di)
De saint Thomas à Hegel/journée
organisée par le Centre de recherche
de documentation sur Hegel et Marx
PUF, agosto 1994
pp. 160, F 58
E’ Dio il filo conduttore delle analisi contenute in questo libro: l’essere, la fede in San Tommaso, il
confronto di Hegel con Kant e Fichte su Dio, l’anima e la volontà
libera, le prove dell’esistenza di
Dio in Hegel, sono alcuni degli argomenti trattati nella giornata organizzata dal Centre de recherche de documentation sur Hegel et Marx.
Vigna, Carmelo (a cura di)
L’etica e il suo altro
FrancoAngeli, ottobre 1994
pp. 272, L. 38.000
L’etica sembra un’esigenza assoluta
del nostro tempo. Ad essa si affida un
compito che gli uomini ormai dubita-
no di poter eseguire: il compito di
convivere intorno ad alcunché di comune. In ogni caso, la condizione
generale da rispettare prima di ogni
altra è che l’etica resti fermamente
rapportata al proprio “altro”, ossia
che non sia isolata astrattamente dalla
contestualità che le compete.
Voltaire
Zadig e altri racconti
a cura di Lorenzo Bianchi
Feltrinelli, settembre 1994
pp. 176, L. 10.000
Particolare attenzione viene data alla
particolarità del linguaggio filosofico di Voltaire, ammantato da uno
stile letterario degno di un grandissimo scrittore.
Vollmer, Gerhard
Evolutionäre Erkenntnistheorie.
Angeborene Erkenntnisstrukture
im Kontext von Biologie,
Psychologie, Linguistik,
Philosophie
und Wissenschaftstheorie
S. Hirzel, agosto-settembre 1994
pp. 226, DM 29
Vollmer ha contribuito notevolmente
allo sviluppo della teoria della conoscenza evoluzionistica. In questa sua
opera classica, Vollmer spiega le prestazioni e le mancanze del nostro apparato conoscitivo.
Wilhelm, Karl Werner
Zwischen Allwissenheitslehre
und Verzweiflung. Der Ort
der Religion in der Philosophie
Schopenhauers
Olms, agosto-settembre 1994
pp. 184, DM 39,80
Wils, Jean-Pierre
Die große Erschöpfung.
Kulturethische Probleme
vor der Jahrhundertwende
Schönigh, agosto-settembre 1994
pp. 180, DM 38
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Wilson, Colin
Rudolf Steiner
Tea, ottobre 1994
pp. 182, L. 13.000
Saggio divulgativo sull’opera di
Steiner, uno dei fondatori dell’antroposofia.
Wittgenstein, Ludwig
Remarques sur la philosophie
de la psychologie
a cura di G.E.M. Anscombe
tr. dal tedesco Gérard Granel
TER, agosto 1994
pp. 142, F 129
Questo testo del ’48 (presentato qui
in edizione bilingue francese-tedesca) permette di capire l’asserzione
dell’ultimo capitolo delle Investigazioni, secondo cui le ricerche di Wittgenstein sulla psicologia non sono
più psicologiche di quanto le sue ricerche sulla matematica non siano
matematiche.
NOVITÀ IN LIBRERIA
Yakira, Ethanam
La Causalité de Galilée à Kant
PUF, settembre 1994
pp. 128, F 45
Il volume traccia la storia della nozione di causalità, come essa venne problematizzata nel momento in cui
scienza e filosofia erano unite, nel
XVII e nel XVIII secolo.
Young-Bruehl, Elisabeth
Hanna Arendt
Bollati Boringhieri, ottobre 1994
pp. 639, L. 40.000
La vita di Hanna Arendt, che si intreccia con quelle di Heidegger, Jaspers,
Anders, Benjamin e altri ancora, esigeva una “biografia filosofica” come
questa, documentata e sensibile, attenta a situare il pensiero della protagonista sullo sfondo delle vicende storiche,
ma anche dei rapporti personali.
Zahrnt, Heinz
Mutmaßungen über Gott.
Die theologische Summe
meines Lebens
Piper, agosto-settembre 1994
pp. 288, DM 39,80
L’autore dichiara: “in questo libro
cerco di riprodurre il mio percorso di
pensiero teologico, come fede e comprensione, esperienza religiosa e riflessione teologica abbiano fatto riferimento una all’altra e si siano corrette reciprocamente per me, con
molte tensioni e spesso in maniera
recalcitrante.”
Zarone, Giuseppe (a cura di)
La città come destino dell’uomo
Ed. Scientifiche, ottobre 1994
pp. 166, L. 22.000
Nel volume si affronta la questione
dal compimento nihilistico della modernità. Attraverso un’analisi del fenomeno più vistoso del mondo storico del nostro tempo, la “grande città”
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appunto, si cerca di interpretare il
destino esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Duncker und Humblot
agosto-settembre 1994
pp. 287, DM 118
Zeidler, Kurt W.
Kritische Dialektik
und Tanszendentalontologie.
Das Ende des Neukantismus
und die post-neukantianische
Systematik
Bouvier, agosto-settembre 1994
pp. 380, DM 98
Il volume presenta una discussione
critica delle forme di sistema postneokantiane, all’interno degli studi di
R. Hönigswald, W. Cramer, B. Bauch,
H. Wagner, R. Reininger, E. Heintel.
Zinov’ev, Aleksandr
L’impero del male
Bollati Boringhieri, ottobre 1994
pp. 160, L. 20.000
E’ un phamphlet sulla fine dell’Unione Sovietica, dell’ “impero del male”;
ma è anche un’occasione per lo spietato e sarcastico autore di Cime abissali di ripensare in modo originale il
tema perenne del rapporto tra Occidente e Russia, tra efficenza mercantile e tecnologia e “anima” millenaria
di un popolo.
Ziemke, Alex
Was ist Wahrnehmung?
Versuch einer Operationalisierung
von Denkformen der Hegelschen
’Phänomenologie’
für kognitionswissenschaftliche
Forschung
(a cura di A.M.; trad. it. di L.T.)