SOMMARIO Da un convego, a lui dedicato, tenutosi all’Università di Firenze il 13 e il 14 maggio 1994, cogliamo l’occasione per ricordare in questo numero l’opera e l’insegnamento di vita di uno dei più importanti rappresentanti della filosofia italiana del ‘900, Cesare Luporini, scomparso il 25 aprile del 1993. Ad aprire il ricordo vorremmo chiamare un preciso momento della biografia intellettuale di Luporini; un momento a cui egli stesso era tornato poco prima della sua scomparsa, con l’intenzione di ripubblicare in versione originale gli scritti contenuti in Situazione e libertà nell’esistenza umana, opera di concezione esistenzialistica, apparsa nel 1942, che raccoglieva un decennio di studi e confronti di Luporini su Heidegger. A prepararne l’uscita avevano provveduto, nel 1941, tre significativi interventi di Luporini sulla rivista «Argomenti», prima che questa fosse soppressa dal regime fascista: Esistenza I, II e III. A testimonianza dell’impegno filosofico di Luporini in quegli anni presentiamo qui di seguito l’ “Avvertenza” del 1941 a Situazione e libertà nell’esistenza umana, di cui nel 1993 è stata pubblicata, com’era peraltro desiderio di Luporini, una nuova edizione presso gli Editori Riuniti di Roma. assoluta, libera iniziativa. L’assolutezza dell’iniziativa è il realizzarsi della “persona”. Per questa ragione, per questa pregiudiziale irriducibile dell’iniziativa personale, se la sostanza e la spinta del presente lavoro - e non poteva esser altrimenti, per l’ambiente storico in cui sorge, per le domande a cui particolarmente risponde - è nel pensiero italiano contemporaneo, tuttavia il suo accento batte sulla componente «esistenziale». Non si tratta di un innaturale (antistorico) trapiantamento fra noi di un pensiero nato sotto altri climi, a risolvere altre esigenze e a rispondere ad altre domande, ma dell’urgere, nel modo e nel dramma stesso dei nostri problemi, di un’esigenza speculativa che crediamo comune a tutta la coscienza occidentale e il cui imporsi non è che l’espressione e il frutto, come sempre, di un particolare travaglio morale. In questo senso l’esistenzialismo si oppone ad ogni sorta di provvidenzialismo, storicismo ed automatismo spirituale e materiale, e si presenta come rivendicazione dell’incarnato individuo e nell’individuo della persona come incondizionata iniziativa. Nell’unificazione teoretica che esso costituisce e che, come tutte le unificazioni teoretiche, come tutte le filosofie, è provvisoria e storicamente condizionata, esso esprime una precisa “volontà speculativa”: porsi sul limite della finitezza e quivi mantenersi e di qui far parlare la realtà e i valori. Ma porsi e mantenersi sul limite della finitezza significa nello stesso tempo trascenderlo e con ciò ritrovare “in concreto” l’essenza stessa dell’esistente che non solo e non tanto è limite quanto trascendenza del limite, non solo e non tanto è “essere”, quanto cointeressamento all’essere, e quindi, innanzi tutto, essere il proprio essere come dischiusa possibilità. La così determinantesi possibilità è, vedremo, nell’esistente umano, la libertà, identica quindi alla sua trascendenza; la dischiusura di essa il suo imporsi come assoluto valore. L’autovalere dell’assoluto valore non ha dunque la sua realtà in un sopramondo «eterno», sia esso di «forme» o di categorie, comunque intese, o di determinati, o determinabili contenuti assiologici, ma si radica nell’autointeressamento esistenziale dell’esistente come pensante. Il dischiudersi della possibilità umana come imporsi assoluto del valore presenta l’uomo come “compito”. Tale la sua essenza: il compito dell’uomo è, vedremo, la persona stessa. Ma questo compito ha non solo una «dignità», ma una realtà e una funzione - e quindi anche una responsabilità - “cosmica”. Ritroviamo qui, ma libero dagli impacci e dalle antinomie del deteriore razionalismo, l’immortale primato della ragione pratica. In questo senso l’esistenzialismo che presentiamo è, consapevolmente, un momento dell’odierno «ritorno a Kant», a quel Kant che tenacemente si mantenne sul limite della finitezza. Se il mantenersi ostinatamente sul limite della finitezza è il vero e unico modo di trascenderlo, se questa trascendenza, come trascendenza umana, è libertà, ogni filosofia che sia fedele a quel limite e quindi all’uomo e quindi al proprio compito, e non tradimento e svisamento di esso, è realizzazione di libertà. Come tale essa impegna l’uomo e in questo impegnarlo - al di là della sua contingente formulazione - sta l’assolutezza della sua verità. Non dunque nel suo sempre provvisorio contenuto teoretico, ma nella illuminata fede con cui questo contenuto vien accolto nell’animo e vi si fa operante valore. Questa filosofia nasce alla confluenza dei tre più vivi movimenti del pensiero contemporaneo: l’idealismo italiano, la «filosofia della vita» e la filosofia esistenziale. In questo libro non si presume propriamente di dir nulla di nuovo: chi dica la parola “nuova”, ossia il rivelatore di nuovi valori, è apparizione tanto rara quanto fondamentale nella storia umana. Ma il suo apparire e il suo esser-apparso è sempre condizionato dalla possibilità storica di accogliere la sua parola e quindi, in un’opera comune, da un indefesso travagliarsi, maturarsi e rinnovarsi della coscienza di tutti. In questo travaglio le parole già dette continuamente si rinnovano e si rinnovano per non perire, per non perdere cioè la loro pregnanza vitale e assiologica. Ma questo loro perenne rinnovarsi non è svolgimento automatico della coscienza o, come da taluni si dice, dello «spirito» - fatale e provvidenziale storia - bensì compito di tutti e di ognuno, opera singola in quanto opera comune, ma opera comune come perenne chiarificazione da parte del singolo della sempre e soltanto “propria” esperienza. In questo senso dunque iniziativa singolare e non cedibile responsabilità. Nella detta opera il filosofare s’impone come l’imporsi stesso del valore della libertà. L’esigenza sua è l’esigenza della perenne chiarificazione della situazione storica in cui ci troviamo, ed è, come tale, esigenza della ragione in quanto esigenza insieme della libertà e di libertà. La situazione storica non è meno speculativa (metafisica) che etica, non è meno politica ed economica che estetica: nella sua fattuosità sempre da superarsi, nella “naturalità” in cui, di punto in punto, la storia si rapprende e s’irrigidisce, sono implicati e coinvolti tutti i momenti umani, e da essa vanno di volta in volta sempre nuovamente liberati. Questa liberazione, il cui atto parte dall’intimo e nell’intimo rifluisce, è appunto quel compito comune come compito singolare. La situazione ci diventa, di momento in momento, “destino”, ma nell’imporsi in essa del valore la situazione stessa si scioglie e si fonde nel nostro atto: e il destino diventa 2 SOMMARIO 5 PROFILO 45 Detti e scritti da Foucault 5 In ricordo di Cesare Luporini 46 Razionalità e religione in Kant 15 SCHEDA 47 L’essenza del cristianesimo in Feuerbach 15 L’Istitutodi Filosofia di Palermo 48 Lettere di Epicuro 48 Biografie nietzscheane 17 AUTORI E IDEE 49 NOTIZIARIO 17 Le ‘letture’ di Ricoeur 17 Le prove dell’esistenza di Dio 18 Budda e il buddismo 51 CONVEGNI E SEMINARI 19 Il pensiero politico di Oakeshott 51 Augusto Guzzo nel centenario della nascita 20 Dilettanti e viandanti nel romanticismo 53 Rivoluzioni concettuali 21 Terra-Patria invece di non-luoghi 54 Il confronto tra le culture 22 Herzen e la sua filosofia 56 Scritture del pensiero 22 In onore di Hermann Schmitz 56 Individuo e tradizione in Popper 23 Rivoluzioni in geometria 57 Su nazione e nazionalismo 23 L’etica nell’età della tecnica 58 Le frontiere dell’antropologia 25 La teoria della scelta razionale in Nozick 60 ‘Philosophia naturalis’ 26 Bergson, o la filosofia come scienza rigorosa 61 La riforma di Lutero 26 Linguaggio ed evoluzione naturale 64 Viaggio come esperienza religiosa 27 Frank: lo stile della filosofia e la questione del mito 65 Avventure della verità: da Hegel a Goodman 66 Parmenide e dopo Parmenide 68 Melantone e il suo tempo 29 TENDENZE E DIBATTITI 29 Su Foucault 69 CALENDARIO 30 La filosofia del linguaggio di Davidson 32 Geofilosofia 33 Su Nietzsche 71 DIDATTICA 36 Hobbes, e oltre 71 La filosofia insegnata 37 Su Marx e il marxismo 71 Filosofia per ragazzi 38 Sul pregiudizio morale e il diritto alla vita 73 Per diventare cittadini 39 PROSPETTIVE DI RICERCA 75 STUDIO 39 Spet: ermeneutica ed estetica 75 Filosofia anglo-sassone 41 Etica e diritto in Fichte 75 Felicità e piacere nei greci 42 Heidegger di fronte a Hegel 77 RASSEGNA DELLE RIVISTE 42 Heidegger nella biografia di Safranski 43 Leibniz e la teodicea 81 NOVITÀ IN LIBRERIA 44 Epistemologia ed empirismo logico 45 Per una storia filosofica dell’infinito 3 PROFILO Cesare Luporini (foto di G. Giovannetti) 4 PROFILO Nei giorni 13 e bandono dell’orizzonte del comunismo né 14 maggio il disimpegno politico) ed il ritorno agli 1994, nell’Au- studi leopardiani. Si tratta, verrebbe da la Magna del- scrivere, di scansioni politico-esistenziali l’Università di della stessa ricerca teorica di Luporini. Un Firenze e in Pa- altro allievo di Luporini, Aldo Zanardo, lazzo Medici- ha preso le mosse da un’espressione gramRiccardi, si è sciana in cui la domanda su cosa sia l’uomo tenuto un con- si trasforma in quella su cosa l’uomo possa vegno su “Il diventare; un tema in cui si saldano idealdi Luca Fonnesu pensiero di Ce- mente le riflessioni di filosofia esistenziale sare Luporini”, a circa un anno dalla sua del giovane Luporini con il successivo inscomparsa. Dei due ambiti in cui Cesare serimento del problema dell’uomo - e della Luporini fu attivo protagonista - la filoso- sua emancipazione - nella prospettiva della fia e la politica - il convegno, organizzato trasformazione della società. dal Dipartimento di Filosofia, si è soffer- Nel suo intervento Stefano Poggi ha preso mato prevalentemente sul primo, anche se in esame lo scritto della fine del 1941, numerosi - e con ragione - sono stati i Situazione e libertà nell’esistenza umana. riferimenti a quell’attività politica che Lu- Si tratta di un testo, nelle parole di Poggi, porini non abbandonò mai, nelle diverse che costituisce «il documento più denso e forme e sui diversi piani che ciò ha com- ricco del dibattito intorno alla filosofia portato per la sua generazione. Al binomio filosofia-politica ha fatto riferimento Norberto Bobbio, in una testimonianza che è stata letta in apertura, nonostante la sua assenza (assente, per motivi di salute, anche l’altro illustre coetaneo di Luporini, Eugenio Garin). A Bobbio e Luporini, che successivamente scelsero strade filosofiche e politiche diverse, è stata comune in origine, sotto la dittatura, l’adesione all’esistenzialismo come filosofia intervengono della libertà e, parallelamente, Stefano Poggi e Sergio Landucci l’adesione al gruppo liberalsocialista insieme con Guido Calogero e Aldo Capitini. E’ il Luporini filosofo, dunque, che è stato al centro dell’interesse di questo convegno, nei diversi aspetti della sua riflessione: la filosofia esistenziale, gli studi a cura di Riccardo Ruschi di storia della filosofia, l’interpretazione di Marx e, certo non meno importanti, gli studi su Leopardi, ai dell’esistenza nel nostro paese». Libertà, quali Luporini era tornato negli ultimi anni, temporalità, finitezza sono i concetti cendopo l’importante saggio del 1947, con trali del libro di Luporini, consapevolmenrinnovata intensità. te presentato come elemento di un “ritorno La relazione di Sergio Landucci, che ha a Kant”, e Kant è ben presente nell’interaperto i veri e propri lavori, ha mantenuto vento di Poggi. Ma non solo. Poggi ha unite filosofia e politica, mostrandone le sottolineato più volte l’originalità della reciproche relazioni in un percorso intel- posizione luporiniana anche in relazione a lettuale segnato da questa “duplice fedel- quello Heidegger che dieci anni prima tà”. L’itinerario che ne è emerso non ha dell’uscita di Situazione e libertà Luporini offerto però un’immagine conciliatoria, aveva ascoltato direttamente a Friburgo, un percorso non tormentato; al contrario. poco prima dello sciagurato discorso retDalla relazione tra filosofia e politica in torale del 1933. Ancora più netto, il confiLuporini si mostra una continua tensione ne tracciato da Poggi, lo è stato rispetto a che è stimolo intellettuale, e che segna la Bergson, che pure su altro esistenzialismo periodizzazione proposta da Landucci, mo- - quello di Sartre - eserciterà un’influenza tivandone le datazioni. Le “svolte” della decisiva; e vale la pena di ricordare, a biografia di Luporini sono al tempo stesso questo proposito, il giudizio negativo sulla svolte dell’uomo - anche politicus - e del filosofia di Sartre, espresso e ribadito più filosofo: il 1943-45, il 1966, con l’immer- volte da Luporini, da ultimo nel testo edito sione “dentro Marx”, il 1977, con il pro- di recente nel fascicolo dedicato a Luporigressivo abbandono di questa prospettiva ni in «Critica marxista» della fine del 1993. (che non comportò, com’è noto, né l’ab- Intervenendo su “Le radici del marxismo Il pensiero di Cesare Luporini In ricordo di Cesare Luporini 5 di Cesare Luporini”, Nicola Badaloni ha cercato di ricostruire l’unità della ricerca filosofica di Luporini attraverso i diversi momenti della sua riflessione, dall’interpretazione dello Hegel di Libertà e destino, attraverso la lettura di Leopardi, fino all’esegesi dei testi di Marx e quindi alla polemica sullo storicismo - di cui Luporini fu protagonista - che caratterizzò il dibattito teorico del marxismo italiano negli anni Sessanta. Antonio Prete, che ha affrontato il rapporto, o il confronto, di Luporini con Leopardi, ha preferito non soffermarsi troppo sul classico saggio del 1947 - uno studio che contribuì ad inaugurare una nuova stagione di studi leopardiani - per prendere invece in esame il ritorno a Leopardi del Luporini degli ultimi anni, un ritorno in cui il filosofo italiano, ha detto Prete, ci ha offerto una mappa delle questioni centrali del pensiero di Leopardi: una topica del sentire, il concetto di “virtù”, il peculiare nichilismo leopardiano, l’esperienza della rappresentazione dell’infinito. La seconda patria di Luporini, almeno dal punto di vista intellettuale, fu certamente la Germania; egli fu lettore di tedesco alla Scuola Normale di Pisa, ma, ancor più, tedesco fu il suo humus intellettuale: in Germania egli fece l’importante esperienza degli anni ’30, con Heidegger e Hartmann, e tedeschi sono i filosofi i cui testi egli sottopose ad analisi e nelle lezioni e negli scritti, fin da quel volume sui Filosofi vecchi e nuovi (1947), in cui mentre proponeva un Leopardi “progressivo”, leggeva e commentava Kant, Fichte, Scheler, e presentava un testo suggestivo come il già ricordato Libertà e destino di Hegel. Uno specialista come Claudio Cesa si è assunto il non facile compito di “ricomporre” il confronto di Luporini con la filosofia classica tedesca, alternando le esegesi luporiniane alle ascendenze italiane e tedesche presenti nel bagaglio concettuale di Luporini. Al materialismo di Luporini, che fu il materialismo di Marx, ma anche quello di Leopardi, ha dedicato una puntuale analisi Sandro Nannini, che ha rilevato innanzitutto la polivalenza semantica della nozione di materialismo e in generale nei diversi contesti storici e in particolare nell’uso fattone da Luporini. Tralasciando qualche indulgenza eccessiva per il materialismo “dialettico”, al significato di “realismo” il riconoscimento di una realtà fisica indipendente - si affianca in Luporini il significato di un “naturalismo” che però - da Situazione e libertà fino agli scritti su Marx - non è mai riduzionistico: l’uomo è sì natura, ma è anche libertà (ed anche a questo riguardo sia lecito menzionare Kant). PROFILO L’ultima relazione del convegno è stata tenuta da Furio Cerutti, che ha preso in esame il pensiero politico di Luporini, visto da Cerutti come una «sovradeterminazione della politica da parte della filosofia». Parallelamente ad una concezione standard, classicamente marxista, dei rapporti politici, Cerutti ritiene di poter rintracciare in Luporini alcuni “scarti” rispet- to ad essa: il rifiuto della necessità della “transizione” e lo spazio della soggettività, il riconoscimento del problema dell’autodistruzione del genere umano, il rilievo dato al mutamento culturale. Tra i numerosi interventi, ne menzioniamo soltanto uno per il garbo con cui è stato proposto dal poeta Mario Luzi. Luzi ha ricordato un incontro con Luporini in cui i due, alla richiesta di menzionare un passo che essi considerassero rappresentativo della loro biografia intellettuale, avessero l’uno, Luzi, pensato ad un passo delle lettere paoline, e l’altro, Luporini, ad un passo del Kant morale. Si sono così accomiatati, ciascuno compiaciuto della propria scelta e della propria specifica identità. Bibliografia delle opere in volume di Cesare Luporini Situazione e libertà nell’esistenza umana, Le Monnier, Firenze 1942 (2a ediz. Sansoni, Firenze 1945; poi col titolo Situazione e libertà nell’esistenza umana e altri scritti, Editori Riuniti, Roma 1993). Filosofi vecchi e nuovi: Scheler-HegelKant-Fichte-Leopardi, Sansoni, Firenze 1947 (2a ediz. Editori Riuniti, Roma 1981 senza il saggio Leopardi progressivo ,ripubblicato separatamente presso lo stesso editore nel 1980, del quale si veda ora la Nuova ed. accresciuta 1993). La mente di Leonardo, Sansoni, Firenze 1953. Voltaire e le “Lettres philosophiques”, Sansoni, Firenze 1955 (2a ediz. Einaudi, Torino 1977). Tra gli interventi al convegno di Firenze su Cesare Luporini, riportiamo qui di seguito la relazione di Stefano Poggi e parte di quella di Sergio Landucci. Spazio e materia in Kant. Con una introduzione al problema del criticismo, Sansoni, Firenze 1961. Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma 1974. Marx et sa critique de la politique (con E, Balibar e A. Tosel), Maspero, Paris 1979. tamente spontanea di quella che potremmo dire con termine fichtiano una «autoattività» - «gratuità», avrebbe detto Luporini - che muove dal nostro interno e che da esso, come da un nucleo non scindibile, si irraggia. L’esame del “qualunque esistere”, con cui si avviano le indagini di Situazione e libertà nell’esistenza umana, muove dal dato di fatto di una coscienza individuale che ci si presenta con i caratteri di una «centralità implicita, originaria e indistinta», nella cui «preminenza» consiste appunto il carattere dell’individuo3. Carattere che è peraltro afflitto da una costituzionale paradossalità, dato che l’individuo - di cui connotato fondamentale mostra l’essere atto, l’agire - è in realtà possibile nel suo nascere, nel suo cominciare ad essere tale solo a condizione di essere già un “fatto” in quanto appartenente ad una specie e da tale appartenenza stessa reso possibile : «il nostro esser di fatto (nati) s’identifica col nostro appartenere ad una specie. Questa déutera ousía è alla nostra origine e la portiamo in noi, irrimediabilmente. Siamo sintesi “a priori” di noi stessi e di specie, di spontaneità e di esser di fatto»4. L’esperienza dell’individualità - gravata da un’impronta di “naturalità” sulla quale bisognerà tornare - deve essere vista nella sua intima connessione con quella della soggettività - «chiave del nostro mondo»5. Se l’individuazione, la «preminenza del centro» e la priorità della soggettività sono inseparabili dal punto di vista del problema ontologico che esse pongono, è anche chiaro che il tratto costitutivo dinamico e produttivo (la «attuosità» del darsi, dell’esserci dell’individualità) non può ricevere una specifica accentuazione dal prendere rilievo delle operazioni della soggettività6. Nessuna confusione tra «attuosità» e soggettività, che altro non sarebbe che «un impacciante residuo di vecchio gnoseologismo»7; ma, in ogni caso, ciò che va sottolineato è che la vita dell’individuo uomo è un esistere come «autorelazione» o «interna relazione»8 che solo con la cosciente assunzione del punto di vista della centralità (e dunque della soggettività coscienziale) può essere esaminato e compreso nella sua capacità di avvertire e nel contempo trascendere - come persona - i limiti in cui è ristretto in quanto «individuo naturale»9, destinato a soccombere alla «detrazione temporale». È stato in uno dei suoi ultimissimi scritti1 che Cesare Luporini ha parlato - e, in forma pubblica, non era fino ad allora mai avvenuto - del suo incontro con la filosofia dell’esistenza, anzi con la filosofia dell’esserci, del Dasein nella sua prima e fondamendi Stefano Poggi tale forma, e cioè con la filosofia di Heidegger, dello Heidegger di Sein und Zeit e del Kant und das Problem der Metaphysik. E sono pagine che tutti noi - o, almeno, credo che così sia stato per tutti coloro che appartengono alla mia generazione - abbiamo letto con estremo interesse: l’autore di quello che molti di noi hanno sempre pensato essere il documento più denso e ricco del dibattito intorno alla filosofia dell’esistenza nel nostro paese ci ha voluto fornire di alcune coordinate essenziali per dare collocazione e forma a quelle impressioni, a quelle suggestioni, a quelle supposizioni che erano nate in chi aveva affrontato le analisi di Situazione e libertà nell’esistenza umana e aveva immediatamente percepito quanto fosse difficile collocare quel libro in una costellazione filosofica solo italiana, ancorché fosse ovvio che in esso si cercava di dare risposta a molti dei più gravi nodi problematici in cui il neoidealismo italiano aveva finito con l’avvilupparsi, dando prova di una impotenza che, anche di recente, si è troppo spesso voluto presentare come specifica e originale «via nazionale alla filosofia». Di tali nodi - a un tempo stimolo e oggetto delle analisi di Situazione e libertà nell’esistenza umana - quello forse più immediatamente importante ed urgente nello svolgimento di queste ultime è il problema che - così Luporini a mezzo secolo di distanza - «un po’ semplicisticamente chiamavamo la irriducibilità dell’individuo» 2. Problema dunque di ovvia e fortissima valenza anti-neoidealistica, e che è appunto posto dall’esperienza immediata, assoluLa filosofia dell’esistenza e della finitezza 6 PROFILO M uovendo dal dato di fatto del nostro esserci nel mondo, del nostro «nascere al mondo» come individui appartenenti ad una specie e contemporaneamente in grado di «farsi persona», occorre dunque ricercare e indagare i modi in cui tale condizione di finitezza non è di ostacolo al manifestarsi e all’operare della libertà. Questa era la strada da percorrere, e per farlo il giovane Luporini prendeva a confrontarsi con l’analisi dei modi in cui viene a compiersi l’esperienza della finitezza, allorché - dopo l’impatto con il «qualunque esistere» che l’individuo subisce nel suo «nascere al mondo» - è proprio l’«attuosità» dell’individuo a porsi come condizione del primo dilatarsi, nella coscienza, dell’iniziale, fondamentale istantaneità - lo hic et nunc del proprio sentirsi esistere. Di tali modi, quello della temporalità è ovviamente il primo e fondamentale, dato che ad essa - ad una temporalità di cui Luporini teneva a sottolineare l’intreccio profondo con la spazialità, ma non certo la riduzione a quest’ultima - vanno ricondotte tutte le altre manifestazioni della finitezza. «Privazione assoluta» nella quale la percezione dell’istante è accompagnata dal delinearsi di un «orizzonte spaziale», la temporalità non può essere «trascorrimento puro». Come «privazione assoluta», come negazione, essa ci fa avvertiti che sì l’«originario essere-di-fatto mi chiude nell’istante», ma insieme «ci fa lottare con esso» : l’istante è «centro reale di un dato orizzonte spaziale», ma al suo centro sta «il mio attuale istante», l’io10. Inutile soffermarsi in questa sede sulla indubbia - e impegnativa - metaforicità dell’«orizzonte spaziale», la cui esperienza ha un ruolo fondamentale in quella che altrettanto metaforicamente - potrebbe essere detta la «dilatazione» dello hic et nunc del nostro esistere. Luporini riteneva opportuno diffondersi in proposito in una appendice dedicata al problema del nesso spazio-tempo in Gentile e Kant11, ma ciò che corre l’obbligo di sottolineare è soprattutto l’energia con cui egli respingeva gli esiti - opposti, ma simmetrici - cui la presa d’atto della temporalità come fattore costitutivo dell’essere e dell’operare umano aveva mostrato di condurre. Da una parte dunque la razionalizzazione - tipica di un certo hegelismo di scuola, e quindi forse anche di Croce - della temporalità sulla base della vera e propria «ontologizzazione di un determinato schema logico», quello nei cui termini si presenta la «spiegazione dialettica»12; dall’altra, la convinzione che al carattere astratto di siffatta spiegazione si desse la possibilità di sfuggire grazie alla stessa «positività della vita», «positività» identificata con la «concreta temporalità» e in grado quindi di «riassorbire in sé tutto l’essere»13. Convinzione - bisogna aggiungere - che era stata tipica del positivismo evoluzionistico ottocentesco e quindi anche dello stesso Bergson. Ma su ciò torneremo fra un momento. La via che Luporini riteneva dovesse essere percorsa - ed è questa prova chiarissima di come egli avesse colto in profondità, aderendovi appieno, il rifiuto del carattere speculativo di tali prospettive maturato nella filosofia tedesca dei primi decenni del nuovo secolo - era invece una via che si presentava più concreta, più fenomenologicamente vicina «alle cose stesse». Era - doveva essere - la via del lavoro da compiere per giungere alla «comprensione del limite» prendendo atto della finitezza. La vita ha da essere colta come «affermazione di sé nel tempo», come una «successione infinita di momenti finiti»14. Forse, su Luporini agiva anche la suggestione di alcuni dei temi più tipici della «filosofia della vita», ma sembra proprio di potere affermare che tale suggestione era da lui accolta nella sua pars destruens, e non certo nella parte non indifferente che in essa aveva avuto e continuava ad avere la esaltazione di una sorta di irrazionalistico farsi trasportare dal flusso, dallo «slancio» della vita. A ppunto, la filosofia di Bergson o, se si vuole, il bergsonismo come «figura dello spirito», forma di pensiero indispensabile per comprendere - al di là della adesione o del rifiuto della «visione del mondo» che indubbiamente essa esprime - tanta parte della filosofia europea del nostro secolo. Le poche, ma densissime pagine della Appendice dedicata al problema del nesso spazio-tempo in Gentile e in Kant sono, in proposito, illuminanti. Sia chiaro: non intendiamo sostenere in alcun modo che Luporini, il giovane Luporini mostri una qualche propensione per la filosofia di Bergson o per una qualche forma di «bergsonismo», come invece accade - e in quale ampia misura! - con Sartre. Ma è vero anche che era stato Bergson ad affrontare il problema della libertà muovendo da quella dimensione che la scienza ottocentesca - sia della natura che dello spirito - aveva voluto tornare a sondare da ogni lato: la dimensione temporale. Ed è anche vero che la proposta bergsoniana aveva segnato e avviato una discussione, postasi poi con chiarezza e drammaticità al centro non solo della filosofia, ma di tutto il movimento delle idee nel nuovo secolo. È quindi proprio tenendo conto di quanto i temi che sono al centro della riflessione dell’autore di Situazione e libertà sono temi del tempo - e, certo, sono tornati ad essere anche temi del “nostro tempo”, con tutte le sue rinascite bergsoniane e le sue incessanti «parate filosofiche» - e sono quindi temi di un’epoca segnata nel profondo dalla filosofia di Bergson, antecedente diretta della filosofia dell’esistenza made in France, che è possibile comprendere la specificità e la vigoria della linea di analisi che veniva tracciata e percorsa in quel libro di più di cinquanta anni or sono. Abbiamo già richiamato il legame che Luporini teneva a istituire tra la percezione dell’ istante e il definirsi di un «orizzonte spaziale»: nel farlo, egli aveva palesemente presenti alcune delle tesi della gentiliana Teoria generale dello spirito come atto puro, ma è anche - ci pare altamente sintomatico il fatto che egli, tornando sulla questione nella prima delle appendici a Situazione e libertà, avesse cura di manifestare le sue perplessità circa quella che, in sostanza, emergeva come la tendenza di Gentile verso una spazializzazione del tempo. Non v’è qui modo di diffondersi con la dovuta ampiezza sulle argomentazioni di Luporini, serrate nel loro sottolineare che Gentile «non si accorge [...] che puro spazio e puro tempo si riducono alla negatività in quanto astratto l’uno dall’altro» e che quindi trascura di tenere conto di quella che è la realtà del loro «concreto incontro», la cui concre7 PROFILO tezza è data dal fatto che «concreto non è né lo hic né il nunc, ma solo lo hic et nunc» e che quindi è «facile [...] vincerli uno per volta, avendoli separati, ma impossibile trionfarne in quella sintesi a priori che essi costituiscono»15. Ma, in ogni caso, quel che deve essere sottolineato con molta chiarezza è che la posizione critica da lui assunta nei confronti della riduzione del tempo a spazialità operata da Gentile non conduceva peraltro Luporini ad abbracciare quella teoria che nella critica ad ogni spazializzazione del tempo aveva il suo nodo argomentativo centrale: appunto la concezione bergsoniana del tempo come durata. Con una attenzione tutta concentrata sul tempo come concreto, come «concreta temporalità» ovvero «istante come presenza di compresenze», Luporini, piuttosto, era incline a sottolineare tutti gli aspetti problematici della posizione bergsoniana, che a suo avviso - proprio nel momento in cui si configurava come interpretazione della concreta realtà del tempo - non riusciva in realtà a rendere conto di quest’ultima come «assoluta implicazione che si oppone, risolvendola in sé, alla spazialità come reciproca esclusione degli elementi dell’esperienza»16. Il tempo concreto deve essere qualcosa di più della semplice durata, che non si renderebbe nota altro che nella nostra interiorità: non ha senso parlare della esistenza di un «tempo interiore», posto in una posizione di assoluto primato nei confronti di un «tempo esteriore» o, comunque, con quest’ultimo assolutamente non paragonabile. Non è possibile pensare ad un rapporto di reciproca «trascendenza» tra questi due generi di tempo, «se continuava Luporini - tempo non è che l’interiorità dell’esteriore, ossia non è concreto se non come rapporto di interiore-esteriore: la immisurabilità del tempo interiore, e quindi la sua incommensurabilità col tempo esteriore, non è che il suo continuo e immediato “commisurarsi” (lotta) con esso, che fonda anche la possibilità della misura del tempo esteriore, possibilità che, naturalmente, come ogni misura, si riferisce alla spazialità, in quanto elemento della positiva temporalità»17. Discendeva da ciò il riconoscimento della fondatezza delle riserve espresse da Gentile circa l’interpretazione del «tempo concreto» come durata ( durata, aveva detto Gentile, è «stato fantasticamente definito il tempo depurato dalla spazialità»). A Luporini, quindi, pareva molto più ragionevole pensare al «tempo concreto» come alla eternità, come al «principio del tempo», a patto però - e allora tornava a manifestarsi il dissenso nei confronti di Gentile - che siffatta «eternità» fosse intesa come «sovratemporalità del tempo»: il tempo non è «qualcosa nel tempo», ed in tale sua «sovratemporalità» esso «si rivela identico alla vita come autoaffermazione e nascita». La concreta esperienza della realtà del tempo non può quindi darsi altro che nei termini di una compresenza - e, ancora, Luporini riconosceva il suo debito nei confronti di Gentile18 - dei vari momenti del tempo che si trovano a convergere verso il presente, un presente sul quale si appuntava tutta la sua attenzione perché - è chiaro - è proprio la concrezione, nella istantaneità del presente, dei vari modi di esperire il tempo che costituisce la eccezionalità del presente medesimo, che è infatti momento in cui la coscienza che l’individuo ha della propria limita- tezza si unisce, nell’istante, a quella del non essere più vincolato dal passato in quanto proteso al futuro, sì che in tal modo si manifesta all’opera la dimensione della libertà. È, questo, un punto di molta importanza, assolutamente centrale per comprendere le posizioni di Luporini e per scandagliarne l’itinerario di pensiero. La concezione che veniva così sviluppando era infatti quella di un presente che - diversamente da Gentile - non era concepito come «collocato tra passato e futuro», ma come un presente che, nella consapevolezza della propria istantaneità, si impone come un atto, non come un esistere, un darsi, ma un vero e proprio attivo collocarsi tra il passato e il futuro: e, «in questo collocarsi», esso «si libera dell’immediata e indistinta pressione loro [del passato e del futuro], facendosi storia (storiografia) e deliberazione»19. È di fronte quindi al dispiegarsi della attività della riflessione autocosciente che ci veniamo a trovare; ci veniamo cioè a trovare dinanzi a quella riflessione per la quale l’esperienza di ciò che è trascorso di niente altro è fonte se non di un approfondirsi del proprio conoscersi, mentre essa si trova dinanzi ad un futuro che ancora non si è compiuto. Se si volesse cedere all’erudizione, si potrebbe addirittura ravvisare, nella posizione di Luporini, finanche l’eco dei modi in cui Bergson - il giovane Bergson del 1889 e del 1896, il Bergson al quale era andata l’attenzione di alcune delle figure di spicco del neokantismo del tempo, e poi di Scheler - aveva prospettato sì la centralità della nozione di durata, ma nel contempo si era preoccupato di mettere in luce come l’azione (corporea) è una azione che si configura come libera nel momento in cui mostra di essere interpretabile nei termini di una «percezione pura» che, ponendosi per così dire «fuori del tempo», ci si presenta del tutto ricca di passato (ma da esso non precostituita nel suo operare) e gravida nello stesso momento - anzi, istante - di tutte le possibili opzioni di un futuro cui si appresta a porre mano. Ovviamente, non è questo il punto, ancorché fosse senza dubbio presente a Luporini che era proprio la filosofia bergsoniana a ispirare molte delle prese di posizione del dibattito dei primi decenni del secolo intorno alla individualità e alla libertà. Nelle pagine di Luporini non era dato cogliere nessun segno di simpatia - e tantomeno di convergenza - con le tesi di un qualche spiritualismo apparentato a forme più o meno spurie di «filosofia della vita». Luporini20 poteva così affermare certo che il tempo «si rivela identico alla vita come autoaffermazione e nascita», ma nondimeno una affermazione del genere non nasceva nel contesto di una concezione propensa ad esaltazioni del «fluire della vita», o addirittura pronta a cedere allo spiritualismo, neanche poi troppo dissimulato, di una «evoluzione creatrice». Dall’analisi dell’esperienza del tempo nella sua concretezza di forma fondamentale dell’esistere - forma che d’altronde non va considerata pura e semplice datità, «qualunque esistere», ma come dinamicità, come operare, come «attuosità» -, Luporini era condotto ad una posizione che solo apparentemente può apparire volontaristica, intrisa di un certo qual «eroismo» della «gratuità» dell’agire. Per Luporini, la possibilità di «impadronirsi del tempo, e quindi sottrarsi alla fattuosità e al meccanismo» nasceva in modo diretto dalla presa d’atto della finitezza costituzionale 8 PROFILO dell’individuo. Era cioè una possibilità che poteva realizzarsi mettendo mano allo «strumento» del «pensiero come organo della libertà». E tale possibilità «non si compie se non come effettiva attuazione della libertà, ossia come pienezza assiologica che sovratemporalizza l’istante, contrapponendo l’assolutezza della persona alla detrazione temporale cui fatalmente (nel suo essenziale rapporto col “tutto”, in cui il tutto, realizzandosi, nega la singolarità individuale) il “naturale” individuo soccombe; onde, nella lotta col tempo, intrinseca all’individuazione, l’attuarsi della persona apparirà come effettiva vittoria sulla morte»21. co - incompatibile con quella che invece si presenta come la effettiva dinamicità, autoattività, spontaneità - «gratuità» - della libertà dell’uomo come libertà che, a quest’ultimo, assicura la possibilità di trascendere la propria costituzionale finitezza. La concezione della temporalità cui Luporini si veniva a sentire più vicino era - per sua stessa ammissione - la concezione di Kant, quella concezione cioè per la quale - essendo tutto ciò che è dato al senso esterno dato anche al senso interno ed essendo la forma di quest’ultimo costituita dal tempo - il tempo si configura come «il modo del nostro essere dati empiricamente a noi stessi»25. «Forma permanente dell’intuizione interna» - puntualizzava Luporini richiamandosi alla “Prima analogia” della Critica della ragion pura -, il tempo implica poi «intrinsecamente nella sua realtà la realtà dello spazio, ed è anzi, possiam dire, identico a quest’ultima, in quanto quest’ultima è condizione della possibilità della percezione del permanente che lo “esprime” e “rappresenta”»26. Ovviamente, la strada maestra che veniva percorsa dalle analisi di Situazione e libertà non era certo quella lungo la quale Luporini poteva essere condotto a dedicare una attenzione specifica al Kant filosofo della fisica, e di una filosofia della fisica nella cui costituzione avevano avuto ugual parte e Newton e Leibniz. In prima e fondamentale istanza, il confronto con la filosofia kantiana avveniva direttamente sul terreno della riflessione sulla questione della libertà e del suo rapporto con la natura umana. Tra la «natura dell’uomo e la sua libertà» intercorre in Kant - ci ricordava Luporini - un «segreto rapporto», un vincolo che egli riteneva coincidente con quello che egli ravvisava all’interno dell’«essere di fatto» del pensiero e della libertà come «essere di fatto» che racchiude in sé la «positività della propria negazione e quindi anche l’assolutezza della propria affermazione, non più come fatto ma atto»27. Tale «segreto rapporto», in Kant - e Luporini citava e traduceva una pagina dalla Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft28 - è quindi quello che si incardina nella «natura dell’uomo», da intendersi solo come «il fondamento soggettivo dell’uso della sua libertà in generale (sotto leggi morali oggettive), che precede qualsiasi azione che appare ai sensi, ovunque poi questo principio possa trovarsi». E tale «fondamento soggettivo» - ancora Kant - «dev’esser poi a sua volta un atto della libertà», dato che altrimenti l’uomo non potrebbe essere ritenuto responsabile delle scelte da lui medesimo compiute. Se Kant dichiarava «imperscrutabile» tale fondamento proprio in quanto atto di libertà, Luporini teneva per parte sua a manifestare la convinzione che esso potesse invece essere trovato nel rapporto tra «atto e valore», in sostanza in quella «pienezza assiologica che sovratemporalizza l’istante» di cui aveva affermato l’operare, all’aprirsi dello spazio deliberativo. Nondimeno, Luporini aveva anche cura che in tal modo la «imperscrutabilità» permaneva, ancorché spostatasi ad investire «l’intensità stessa dell’operare del valore». Anche se con non poche cautele, Luporini mostrava così di inclinare per la soluzione - soluzione apparsa più concreta e meno metafisicamente impegnata - che una parte della interpretazione neokantiana di alcuni dei nodi fondamentali della I l passo che abbiamo appena letto è denso di molte implicazioni e apre molte prospettive, sulle quali - e ciò vale in primo luogo per quanto concerne per un verso il modo in cui ha da essere intesa l’opera di mediazione svolta dal pensiero, per un altro i termini del darsi della «pienezza assiologica» in grado di assicurare la «sovratemporalizzazione» dell’istante22 - non vi è in questa sede di soffermarsi, ancorché si tratti di questioni di importanza essenziale per la esatta comprensione dei termini in cui la riflessione del giovane Luporini si inquadrava in quella della «filosofia dell’esistenza» dell’epoca. Possiamo tuttavia ritenere di avere stabilito un punto fermo, che vale a sgombrare il campo da ogni eventuale equivoco. Il concetto di «presente» cui Luporini perviene - egli ne parla infatti come della «concretezza e positività dell’istante (hic-nunc)»23 - vale infatti a mettere definitivamente in chiaro qual’è l’autentico carattere della tensione che ispira l’impegno posto da Luporini nel sondaggio dei modi di fare esperienza della individualità nel suo presentarsi come atto - «attuosità». Sulla linea di tale tensione, Luporini infatti muove innanzitutto dal riconoscimento della vita come privazione - e privazione, o meglio, senso di privazione, è anche la conoscenza, come ci viene ripetutamente ricordato -, della vita come deficienza24, della vita come gravata da un segreto, da un mistero fondamentale: quello dell’individualità, che ci investe con il suo carattere paradossale. Ma è vero anche che il riconoscimento della fondamentalità, della ineliminabilità di tale esperienza dell’individualità come tratto costitutivo di un individuo «naturale» si accompagna al nettissimo rifiuto di ogni forma di biologismo, rifiuto - e Luporini, nello scritto che abbiamo ricordato all’inizio del nostro intervento, terrà a ricordare la piena partecipazione da lui provata nel leggere il celebre § 10 (“Delimitazione dell’analitica esistenziale rispetto a antropologia, psicologia e biologia”) di Sein und Zeit -, rifiuto che non solo è segno della distanza da tutte le filosofie in varia misura eredi del positivismo evoluzionistico (e quindi anche dallo stesso Bergson), ma che è anche un rifiuto che viene ripetutamente ed esplicitamente pronunziato ed è un altro segno della distanza nei confronti di Bergson (e, in prospettiva, verrebbe da dire, di Sartre) - non in nome di un umanesimo di maniera, retorico, ma sulla base della convinzione che al fondo d’ una concezione della individualità formulata ed articolata nei termini del biologismo sta in realtà un modo di concepire la temporalità sostanzialmente astratto. In realtà, la temporalità del biologismo è - quantomeno sul piano fenomenologi9 PROFILO filosofia pratica kantiana era venuta proponendo. Ma, in realtà, a ben guardare, il contatto con il neokantismo - con la filosofia neokantiana dei valori, ma anche (e forse soprattutto) con la critica esercitata nei confronti di quest’ultima da Scheler - non mostrava affatto di sostituire in Luporini il confronto diretto, continuo con il dettato kantiano, e proprio come dettato di una filosofia comunque ancorata alla finitezza, anche se di tale suo ancoraggio non sempre forse completamente consapevole. Nella stessa pagina29 in cui era venuto ricordando come per Kant avesse da essere intesa la «natura dell’uomo», Luporini sottolineava infatti che «se liberi si fosse “necessariamente” la libertà perderebbe ogni valore, cioè ogni opposizione all’essere-di-fatto, alla naturalità, e si confonderebbe con essa. In verità - egli ribadiva -, non ci sarebbe alcuna distinzione tra la spontaneità dell’uomo e la spontaneità del vivente»30. Affermazioni come queste non possono non confermarci nella convinzione che il giovane Luporini - conoscitore esperto e sicuro di Kant - non potesse non trovarsi in sintonia con quanto espresso in molti luoghi celebri delle opere kantiane nei quali il conflitto tra libertà e necessità veniva affrontato, esaminato, scomposto. E, certo, fra i tanti luoghi celebri cui può andare la memoria e che Luporini non poteva non avere ben presenti, vi sono le pagine della Dilucidazione critica della analitica della ragion pura pratica31. In quelle pagine, Kant si era confrontato direttamente con il problema del contrasto tra la «causalità come necessità naturale» e la «causalità come libertà». Dopo avere a lungo dibattuto il problema dei modi in cui definire i caratteri distintivi della azione libera32, Kant era poi approdato ad inquadrare l’intera questione nella prospettiva del diverso ruolo che la temporalità si trova a svolgere nell’agire necessitato e nell’agire libero. Accade allora che lo stesso soggetto che ha agito ed agisce come un fenomeno e che ha compiuto e compie azioni i cui «motivi determinanti» si collocano «in ciò che appartiene al tempo passato, “e non è più in suo potere”», è anche quello che può benissimo trovarsi a considerare «la sua esistenza “in quanto essa non sta sotto le condizioni di tempo”», sì da considerare «se stesso soltanto come determinabile secondo le leggi che si dà mediante la ragione stessa». Una volta collocatosi in questa forma di esistenza, «niente è per lui anteriore alla determinazione della sua esistenza, la quale cambia secondo il senso interno, e anche l’intera successione della sua esistenza come essere sensibile, non è da riguardare nella coscienza della sua esistenza intelligibile se non come conseguenza, e non mai come motivo determinante della sua causalità in quanto noumeno»33. Se dunque la filosofia kantiana veniva a presentarsi come modello di riflessione alieno da ogni assolutizzazione speculativa della natura dell’uomo - da essa supposto infatti sempre «come ente ragionevole finito» - e si impegnava quindi a interpretare «la struttura trascendentale del pensiero e in genere tutte le forme della ragione»34, era anche ovvio che della particolare finitezza della natura umana non poteva essere trovato documento migliore di quello fornito dai modi del darsi della coscienza della temporalità. Nell’ erigersi a tratto costitutivo fondamentale della attività del senso interno, forma strutturante la stessa unità autocoscienziale di cui prima - e potremmo dire istintiva - espressione è la percezione (appercezione) della propria individualità nel suo primo «naturale» livello, alla coscienza della temporalità - del tempo nella sua concretezza - si poteva - si doveva guardare come ad una sorta di primo strumento per la affermazione di un tipo di libertà dell’ ente uomo tale da non entrare in contrasto con la costituzionale, intrinseca finitezza del medesimo, ma nello stesso tempo tale anche da non limitare l’indagine all’accertamento ed alla catalogazione dei vari ordini di motivazioni che possono precostituire l’azione. S arebbe a questo punto senza dubbio possibile - e di grande interesse - sviluppare una linea di indagi ne che, analizzando il concetto di una «causalità della libertà» che trova il suo luogo classico innanzitutto nella analisi dei modi in cui viene a configurarsi il punto di vista teleologico nella Critica del Giudizio35, ci condurrebbe direttamente a quell’insieme di discussioni dell’ambito neokantiano in cui prende consistenza primaria la problematica del “valore”, e che sono discussioni di cui era vivissima - e controversa - l’eco nella filosofia tedesca con cui il giovane Luporini non poteva non essere venuto a incontrarsi. Non possiamo però spingerci tanto innanzi, anche se è fuori di dubbio questa una delle linee di ricerca cui attenersi per situare e comprendere i modi in cui - in quella che possiamo dirne la pars construens - si sviluppa la discussione di Luporini nella illustrazione dei modi del «genuino esistere». Per il momento, possiamo senz’altro arrestarci alla constatazione di quelli che sono i tratti fondamentali che connotano il livello più nettamente descrittivo-fenomenologico delle analisi - non possiamo effettivamente parlare, in proposito, di una pars destruens - che Situazione e libertà dedica al dispiegarsi della libertà come “fatto” che diviene “atto”. Analisi che abbiamo visto essere incentrate nel riconoscimento della importanza fondamentale del nesso tra la coscienza della temporalità e il prendere consistenza d’una libertà che ha come dimensione specifica quella della istantaneità, della deliberazione che riesce a sottrarsi al vincolo del passato. Nesso - abbiamo appena visto - che aveva trovato in Kant una sua chiara formulazione. L’importanza di questo nesso - che poi, a ben guardare, è il senso più concreto, più tangibilmente rilevabile di quello che, discutendo appunto di Kant36, Luporini aveva indicato come «il segreto rapporto che corre fra la natura dell’uomo e la sua libertà» - è dunque fuori discussione, per il suo configurarsi come condizione necessaria - e forse anche sufficiente - dell’avvio di una riflessione sulla specificità della collocazione dell’uomo nel mondo, di un uomo che è anche appartenente ad una specie animale, ma ad essa, comunque, non è riducibile. Ed è proprio in questa luce - la luce di un confronto costante, serrato e mai incline a compromessi con l’assunzione del punto di vista biologico nella interpretazione della «essenza dell’uomo» - che a questo nesso bisogna guardare, e guardarvi come via di accesso - al livello più «basso», più concreto, più vicino «alle cose stesse» - al problema della libertà, onde accertare se e come quest’ultima è realmente possibile, stante la finitezza dell’uomo. 10 PROFILO N elle pagine di quel suo ultimo scritto da cui abbiamo preso le mosse per svolgere le nostre considerazioni, Cesare Luporini ricordava37, tra l’altro, la grande impressione che su di lui aveva esercitato la lettura del Kant und das Problem der Metaphysik di Heidegger. Una lettura che era stato lo stesso Heidegger a invitarlo a compiere, una lettura - così Luporini - fatta «senza particolari intoppi, data la confidenza che avevo acquisito con la Critica della ragion pura, nelle sue due redazioni classiche» . Una lettura che, approdata alla “Quarta sezione” del grande libro heideggeriano38 - quella sulla «ripetizione» della «fondazione della metafisica» -, lo aveva «letteralmente rapito», e da cui, a più di mezzo secolo di distanza, dichiarava di essere stato tanto profondamente impressionato da subirne «un effetto che porto ancora in me». Alcune delle proposizioni del testo heideggeriano - non esitava ad affermare Luporini - «mi hanno accompagnato per sempre»39. E, prima di tutto, ciò valeva per il modo in cui Heidegger aveva posto - e appunto radicalizzato, riducendolo ai suoi minimi e fondamentali termini - la questione della «ragione». «La finitezza non è semplice accessorio della ragione umana - aveva scritto Heidegger - ; è invece un rendersi finita della ragione stessa, è la “cura” per il suo poter essere finita»40: l’uomo è razionale in proporzione diretta al suo accettare la propria finitezza e al suo impegnarsi nell’adesione alla medesima. Nel suo esistere - nel solo modo in cui l’uomo può essere, e cioè nell’esserci, nel Da-sein - l’uomo è appunto nel Da, in quel momento, in quell’istante in cui l’essere irrompe nell’ente e lo obbliga ad aprirsi, fornendolo della «possibilità di rivelarsi a un se-stesso», ed in un modo che mette in luce che l’uomo è in quanto è finitezza. La finitezza dell’ esserci dell’uomo chiosava Luporini - è «più originaria dell’uomo stesso»41. Sono - si potrà certo dire - tesi ben note, alla cui scolastica ripetizione siamo oramai avvezzi, così come abbiamo dovuto fare l’abitudine alle molte incrostazioni che su di esse sono venute stratificandosi, fino a logorarne l’originaria struttura argomentativa, sì che può senz’altro riuscire difficile rendersi oggi conto del «sentimento di accedere a una liberazione filosofica» che - al pari di «molti studiosi tedeschi allora allievi di Heidegger» Luporini ci dice di avere provato alla lettura delle due grandi opere heideggeriane: Sein und Zeit e Kant und das Problem der Metaphysik, quest’ultima usata come «chiave di lettura» per accedere alla prima [41]. E, certo, la possibilità di cogliere, di comprendere quel sentimento, quasi di immedesimarsi in esso è resa ancor più difficile dal fatto che le strade di molti di coloro che, allora, a Heidegger si erano volti alla ricerca di siffatta «liberazione filosofica» sono divenute assai spesso strade divergenti, segnate nello stesso momento nel profondo da quello che per molti - e per tutti i migliori - fu il vero e proprio tradimento del maestro, all’avvento del nazismo. Ma il sentimento di tale «liberazione» - che, certo, può essere ricostruita e fatta rivivere affidandosi anche alla forza delle emozioni che nascono alla lettura dei sempre più fitti documenti umani di quell’epoca che stanno in questi ultimi anni vedendo la luce - ci può forse essere più chiaro nella sua non consolatoria valenza e nel suo nucleo costitutivo se - e possiamo allora capire bene perché il giovane Luporini, già allora lettore appassionato di Leopardi, potesse tanto vivamente provare un sentimento del genere - ci rendiamo conto di quanto esso nascesse dal fatto che Heidegger giungeva ad additare all’attenzione del suo uditorio l’esigenza di prendere atto della finitezza dell’uomo richiamandosi innanzitutto alla decisione con cui era stato proprio nel seno della riflessione kantiana sulla possibilità di operare una nuova fondazione della metafisica che era emersa la consapevolezza dei confini - confini appunto, e non limiti - posti all’uomo dal definirsi della propria costituzionale temporalità, dall’emergere di una dimensione della vita coscienziale che ci fa cogliere, afferrare con tutta la evidente chiarezza del dato fenomenologico - e ben più di quanto non possa avvenire con la ontologizzazione delle strutture formali della dialettica - quella che è la radicale finitezza dell’uomo, liberandoci in tal modo da ogni «illusione trascendentale». Non era forse dopo una serrata analisi della Einbildugskraft trascendentale (nella quale aveva avuto posto centrale la sottolineatura dell’«intimo carattere temporale» della medesima e l’esame del «tempo come affezione pura del sé») che Heidegger - nel Kant und das Problem der Metaphysik42 - era approdato alla «ripetizione della metafisica»?. E non datava solo di un anno prima, del 1928 - e l’eco quindi nel seminario di Friburgo frequentato dal giovane Luporini non poteva non esserne stata vivissima - la pubblicazione, curata dallo stesso Heidegger43, delle lezioni husserliane sulla «coscienza interiore del tempo»?. Era proprio in quelle lezioni che, sulla scorta di una analisi della temporalità colta nella sua concretezza di Erlebnis, veniva tentata da Husserl una più radicale fondazione della fenomenologia, intesa a sondare le ricchezze della interiorità. Di fronte ad una prospettiva del genere, l’atteggiamento di Heidegger era durissimo. Anch’egli si richiamava ad Agostino, ma non all’Agostino del noli foras ire, ma a quello della affectio, elaborando così quel concetto di Befindlichkeit44 - appunto l’«essersi» o il «sentirsi situati» - che a Luporini, ancora nel 1992, appariva come «una delle maggiori e più feconde scoperte di Heidegger»45. E quindi quella che Heidegger voleva fosse una radicale reinterpretazione della fenomenologia non poteva non respingere ogni esaltazione, ogni «mitologia» della interiorità, ogni ancorché remoto pericolo di ricadere in forme più meno solipsistiche o più o meno teologizzanti di spiritualismo. Sullo sfondo, sempre annunziato e solo in parte poi messo in atto, emergeva l’ineliminabilità del confronto - Auseinandersetzung46 - con la filosofia di Hegel, ed in primo luogo proprio con lo Hegel della Fenomenologia dello spirito. Ed è allora anche in questa luce - pensando a quanto il lavoro di riflessione su Marx e sul marxismo di Cesare Luporini sia stato il lavoro di chi ben sapeva quale era stata la reale grandezza di quella «filosofia classica tedesca» della quale si era voluto che il proletariato fosse l’erede - che torna a confermarsi tutta l’importanza dell’intenso contatto del giovane Luporini con un modo di filosofare che, mettendo talvolta addirittura mano alle armi della provocazione, era stato comunque in grado di liberare dalle macchinosità interpretative della scolastica neocriticistica quel nucleo fondamentale e radicale di pensiero che, in Kant, prende forma nella tesi della «naturale disposizione alla metafisica» da cui l’uomo è affetto. 11 PROFILO NOTE 1 C. Luporini, Con Heidegger 1931. 1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussione, Angeli, Milano 1992, pp. 25-49. In seguito Luporini 1992. 2 Luporini 1992, p. 34. 3 C. Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Le Monnier, Firenze 1942; n. ed. (con altri scritti): Situazione e libertà nell’esistenza umana e altri scritti, Editori Riuniti, Roma 1993. In seguito Luporini [1942] 1993. I rinvii alle pagine sono, ovviamente, a quest’ultima edizione. 4 Luporini [1942] 1993, pp. 13-15; 7-9, 43-44. 5 Luporini [1942] 1993, p. 53 6 Luporini [1942] 1993, p. 53, n. 1; 56. 7 Luporini [1942] 1993, p. 56. 8 Luporini [1942] 1993, pp. 93 sgg. 9Luporini [1942] 1993, p. 203. 10 Luporini [1942] 1993, pp. 34, 37-38, 39-40. 11 Luporini [1942] 1993, pp. 199-206. 12 Luporini [1942] 1993, p. 96. 13 Ibidem. 14 Luporini [1942] 1993, pp. 96-101 15 Luporini [1942] 1993, pp. 200-201. 16 Luporini [1942] 1993, p. 201. 17 Ibidem. 18 Luporini [1942] 1993, p. 202. 19 Luporini [1942] 1993, p. 203. 20 Ibidem 21 36 22 37 Ibidem Ibidem 23 Ibidem 24 Luporini [1942] 1993, pp. 32-33. 25 Luporini [1942] 1993, p. 203. 26 Luporini [1942] 1993, p. 206. Il rinvio è a Kant, KV, B 226-227 27 Luporini [1942] 1993, p. 75. 28 Ibidem, nota 1. 29 Luporini [1942] 1993, p. 75. 30 Luporini [1942] 1993, p. 74. 31 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft [1788], hrsg von P. Natorp, in: Kants Gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Band V, Reimer, 1908, pp. 89-106 (Critica della ragion pratica, trad. di F. Capra, riv. da E. Garin, Laterza, Bari 1963, pp. 112-134). 32 Kant, op. cit., pp. 95-98 (trad. it. cit., p. 119-122). 33 Kant, op. cit., pp. 97-98 (trad. it. cit., pp. 122-123) 34 Luporini [1942] 1993, p. 68 n. 1. 35 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft [1790], hrsg von Wilhelm Windelband, in: Kants Gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Band V, Reimer, 1908, p. 195-197, Anmkg (Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1960, pp. 37-39) [...] Il 1966 è l’altra data importante, nella biografia intellettuale e politica di Luporini, dopo il ’43-’45. Allora, dal ’43 in avanti, s’era trattato di passare al marxismo, dal precedente esistenzialismo. E qui si pone una questione a cui di Sergio Landucci è inevitabile un cenno. In certe occasioni, Luporini stesso sembrava attratto da una considerazione retrospettiva, prevalentemente continuistica, del suo percorso di pensiero (quando se le sentiva proporre da altri); mentre in altre occasioni, e cioè quando ripensava in proprio al suo percorso, rivendicava non senza una punta d’orgoglio del tutto legittimo d’aver saputo anche cambiare, non stare fermo, e di ciò pagando tutti i costi (un giorno, ebbe a dire di considerare «umiliante per l’umanità» in generale, supporre che tutti continuino sempre a ripensare le stesse cose che abbiano pensate una volta). Ora, non c’è dubbio che, nelle persone serie, gli elementi di continuità si rintraccino anche nel caso delle rotture eventualmente le più profonde; ma non perciò può venir sottostimata la discontinuità, in Luporini, fra l’esistenzialismo ed il marxismo. E lui stesso non l’ha sottostimata, nella ricostruzione contenuta in Da «Società» alla polemica sullo storicismo, dicendovi chiaro e tondo quel che d’altronde corrisponde alla realtà, se si va a sfogliare quella prima «Società» fino a rintracciare l’intervento intitolato Rigore della cultura, al quale ha sempre tenuto moltissimo. Luporini [1942] 1993, p. 75 n. 1. Luporini 1992, p. 40. 38 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik [1929], Frankfurt/M, Vittorio Klostermann, 1991, pp. 204-246 (Kant e il problema della metafisica, trad. di M. E. Reina, riv. da V. Verra, con una Introduzione di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 178-211). 39 Luporini 1992, p. 40. 40 Heidegger, op. cit., p. 217 (trad. it. cit., p. 187). 41 Luporini 1992, p. 40. 42 Heidegger, op. cit.,pp. 188-195 (trad. it. pp. 162-168) 43 E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, hrsg von M. Heidegger [1928], Tübingen, Niemeyer, 1980 ( trad. it. in E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), a cura di A. Marini, Angeli, Milano 1992. 44 M. Heidegger, Sein und Zeit [1927], Tübingen, Niemeyer, 1963, __ 29, 30, 40, 68 b (Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1969). Si veda anche M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, hrsg von H. Tietjen, Tübingen, 1989 (Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, Gallio, Ferrara 1990). 45 Luporini 1992, pp. 37-38. 46 Luporini 1992, p. 37. Vi si trova un attacco all’esistenzialismo (allora, nella forma sartriana, certo ben più esposta che non quella heideggeriana, ma, di fatto, allora anche quella largamente invadente), motivato proprio dal considerarlo, l’esistenzialismo, come un orientamento adeguato ad un altro tempo, ormai chiuso, come un’esperienza storica da cui ci si doveva congedare, perché ora urgeva appropriarsi degli strumenti concettuali, di concezione generale ed analitici, forniti appunto dal marxismo. E, anche a codesto proposito, egli ha esplicitato con piena lucidità autointerpretativa quanto è dato ricavare dai documenti - i suoi scritti - pertinenti. In un Convegno sulla sua opera che si tenne qui a Firenze nell’86, disse che dell’Heidegger di Essere e tempo non l’avevano convinto proprio le categorie analitiche, giudicandole selezionate arbitrariamente (perché proprio quelle, e non altre?), e, comunque, tutte prive di presa sulla società e la storia. «Mi rimaneva in mano solo la contrapposizione di “autentico” e “inautentico”, da reinterpretare...». E infatti, se si va a vedere, questa contrapposizione era bensì presente in Situazione e libertà, nell’articolazione stessa delle due Parti, “Il qualsiasi esistere” e, rispettivamente, “Il genuino esistere”; ma, questo secondo, interpretato - al contrario che l’«autentico» in Heidegger - in senso assiologico (secondo la lezione appresa da Scheler), e, nel contenuto, attorno al valore della «libertà», come raggiungimento personale e collettivo. E appunto nel vuoto analitico constatato nell’esistenzialismo, nell’86 Luporini indicava la premessa in negativo, diciamo così, per il suo passaggio al marxismo. «Quella duplice fedeltà» 12 PROFILO Per quanto lo riguardò, l’appropriazione del marxismo non fu certo un impegno di lieve entità. Basti notare che il suo primo intervento teorico, al riguardo, risalirà solo al 1954 (Marxismo e sociologia: il concetto di formazione economico-sociale). Nel contempo, s’era dato a grandi studi di storia della filosofia, consegnati ai volumi Filosofi vecchi e nuovi. Scheler, Hegel, Kant, Fichte, Leopardi (1947), La mente di Leonardo (1953), Voltaire e le ‘Lettres philosophiques’ (1955) e Spazio e materia in Kant (1961). La svolta del ’66 - dopo che, nel decennio precedente aveva proseguito con molti interventi nel quadro del marxismo (raccolti, poi, in Dialettica e materialismo) sarà rappresentata dalla decisione di immergersi “dentro Marx”, per dissociarlo dai vari “marxismi”, come s’esprimerà per caratterizzare il lavoro a cui dedicò tutte le proprie forze nei tre lustri e più che sarebbero seguiti. La questione fondamentale era dello statuto medesimo da attribuire alla teoria del Marx maturo: di scienza, e quindi autofondantesi, per definizione, ovvero di teoria comunque fondata ancora su una base “filosofica” (in sostanza, quella antropologica, derivata da Feuerbach, dominante nei cosiddetti Manoscritti del 1844)? Per alcuni marxisti, siffatta fondazione rimaneva operante anche nel seguito (aveva pensato così pur Luporini, precedentemente); per altri, era da venir recuperata, in quanto, in ultima analisi, il marxismo sarebbe una “filosofia dell’uomo” (secondo suonava il titolo d’un noto libro, allora di Adam Schaff), ché solo ciò le fornirebbe il “senso” proprio. Per parte sua, Luporini sosteneva ora che «la rivoluzione teorica prodotta da Marx consiste, all’opposto, nell’abolizione, attraverso il materialismo storico, di quella philosophische Grundlage». Ma, naturalmente, se c’è bisogno di dirlo, il discorso di Luporini rimaneva (e sarebbe rimasto sempre, nel seguito) “filosofico”, perché era comunque un discorso “sulla” scienza, e cioè di secondo livello. Il rifiuto era d’una filosofia “speculativa”, e cioè con pretese, per l’appunto, fondative. La contrapposizione, quindi, ad una concezione arcaica della filosofia, per una concezione all’altezza del nostro secolo. Il programma del disoccultamento della «rivoluzione teorica» realizzata da Marx, in quel momento iniziale animava anche Althusser, come Luporini riconobbe apertamente. Ma ben presto Althusser avrebbe intrapreso quel gioco al massacro, sul Marx della maturità, che Luporini contrasterà fortemente. Le loro strade, quindi, si divaricheranno quasi subito. Intanto, però, proprio da sùbito, c’era un dissenso su un punto fondamentale: Althusser aveva buttato a mare tutt’insieme l’«antropologia filosofica» e il cosiddetto umanismo (marxista). Luporini, invece, distingueva nettamente fra le due cose; e, dietro la bandiera dell’ “umanismo socialista”, si rifiutava di vedere solo ideologia: c’erano problemi ben reali. Non già, s’intende, problemi del tipo “Che cos’è l’uomo?”, ché «la risposta viene ormai da particolari scienze empiriche»; bensì il plesso di questioni relative alla vita reale ed al destino storico dell’umanità, per le quali era essenziale integrare al marxismo anche altri risultati scientifici (a cominciare da quelli provenienti dalla psicoanalisi); ma, il tutto, nella pro- spettiva del rapporto fra i condizionamenti e l’«autodeterminazione» dei singoli, la quale ultima coinvolge, evidentemente, la loro interiorità consapevole. «Non si tratta di una problematica di lusso», diceva Luporini, non foss’altro che perché «non ha senso parlare di una coscienza di classe del proletariato e occuparsi alla sua formazione... all’infuori di siffatta problematica della interiorità». Donde l’irriducibilità del marxismo anche ad un qualche “comportamentismo”. Il che ci dice come il discorso di Luporini fosse “filosofico” perché oltre che, comunque, “sulla” scienza di Marx - inoltre nient’affatto scientistico. Giudicava ben “timidi” quei sedicenti marxisti che rifiutavano, come pretesa ideologia borghese, la separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore; e a Marx rivendicava senz’altro la Wertfreiheit della scienza. Ma, giustappunto di conseguenza, s’apriva così una prospettiva - per i valori enunciabili con le note formulazioni di Marx a proposito del comunismo ancorata sì all’analisi del reale, però libera da alcun preteso, o surrettizio, automatismo del corso storico stesso (ed era questa una scelta netta, compiuta da Luporini, fra le non univoche prospettive che, al riguardo, è dato di ritrovare in Marx). A parte poi Althusser, per Luporini s’imponeva un confronto critico con lo strutturalismo, proprio perché il suo obiettivo principale, a partire dal ’66, era quello ch’era l’avversario per eccellenza anche dello strutturalismo medesimo: lo storicismo. Evidentemente, per lui valeva la regola aurea che avere avversari in comune non giustifica di confondersi in una sorta di fronte unico, neppure nella battaglia delle idee. Bisognava dunque combattere lo storicismo senza tuttavia cedere alle ideologie strutturalistiche, che, del resto, erano allora nel loro momento di successo. Tutta l’Introduzione premessa alla raccolta Dialettica e materialismo, nel ’74, sarà percorsa da questa esigenza di un’alternativa su due fronti. Sennonché, il successo dello strutturalismo era un fenomeno congiunturale, come di fatto si sarebbe rivelato rapidamente. Invece, lo storicismo era una tendenza di lunga durata, e profondamente penetrata all’interno del marxismo (e non soltanto di quello italiano). Era pertanto da snidare fin dal suo primo affacciarsi (al di là delle etichettature filosofiche di scuola), e proprio all’interno del marxismo: precisamente nell’anno 1859, nientemeno, con la recensione di Engels al Per la critica dell’economia politica. A mostrare come ne risultasse un «completo stravolgimento», rispetto al modo di procedere di Marx sia nel Per la critica sia nel Capitale - ed il rovescio letterale di quanto quegli aveva teorizzato anche esplicitamente - Luporini si dava con puntigliosità e reiteratamente. Ma ne aveva ben donde: l’assunto di Engels s’era infatti trasformato in una communis opinio, i cui sostenitori si ritrovavano un po’ dappertutto (per esempio, dall’economista polacco Oskar Lange allo storico italiano Emilio Sereni). Certo, l’indagine di Marx era condotta sulla base di materiali storici, ma - asseriva Luporini - «non più ‘storici’ di quelli che si presentano, per esempio, al fisico, o al linguista, ecc. »; ché, in questo senso, “storico” è sinonimo di “empirico”. E una costruzione sistematica è irriducibile, per definizione, ai suoi materiali; così come, nella realtà, nessuna forma o strut13 PROFILO tura è riducibile ai suoi elementi (lo sapeva bene già Aristotele). Il livello della sistematicità è, naturalmente, quanto mai vario, fra le diverse scienze. Si può giungere fino ad una neutralizzazione della storicità (avviene nelle scienze maggiormente ‘astratte’, come le si dicono); ma è soltanto illusorio il procedimento inverso - rilevava Luporini e cioè il tentativo di «neutralizzare o obliterare il momento sistematico, allo scopo di isolare l’elemento individuale, singolare, puntuale», come sarebbe il mero evento o accadimento (pretesa - va detto - che dipoi è ridiventata semmai ancor più imperversante che non allorché egli scriveva queste parole). Quanto alla collocazione del Capitale, rispetto a quest’arco di possibilità, Luporini riconosceva senza esitazioni che, intrecciate alla costruzione sistematica astratta («genetico-formale», la chiamava), vi si trovano inserzioni «genetico-storiche», d’altronde ben note, ma necessarie per la costruzione stessa di quel modello; e vi si trovano così anche elementi per una ricostruzione della transizione dal modo di produzione feudale. Qui, ovviamente, “storico” non è più sinonimo di “empirico” né di “evento singolare”, ma ha il senso - modernamente classico - di sviluppo dinamico, nel caso specifico affidato principalmente (secondo la tesi marxiana) all’incremento delle cosiddette forze produttive. Sennonché, se avessero ragione Engels o Sereni, il Capitale dovrebbe procedere con andamento appunto diacronico, ancorché essenzializzato, e muovere quindi dal feudalesimo. lnvece, l’avvio del Capitale non è affatto il feudalesimo, bensì (in quella la sezione che più di qualsiasi altra diede da fare a Marx) la “forma” della “merce”; e, attraverso le peripezie teoriche che ne risultano, con lo “scambio” ed il “denaro”, il modello che ne vien fuori è quello soltanto ideale - di un’economia puramente “mercantile”, che, in quanto tale, non è mai esistita, di fatto, come «epoca» della formazione economica della società (e difatti Marx non ve la comprendeva allorché le poneva nella successione di “asiatica”, schiavistica, feudale e capitalistica). Per contrasto, vien da pensare a quegli slogans, che oggi ricorrono (Gianni Agnelli, in testa), onde questo sistema in cui viviamo non si dovrebbe denominare più neppure “capitalistico”, bensì, giustappunto, “del libero mercato”! Marx aveva sostenuto che, storicamente, la comparsa del prodotto come “merce” richiede una divisione del lavoro sviluppata al punto che sia compiuta quella separazione, fra valore d’uso e valore di scambio, che nel commercio di permuta diretta ha solo il suo embrione; ma ancora ben al di qua di quella mercificazione di tutti (o quasi) i prodotti che invece sarà propria del modo di produzione capitalistico. Commentava Marx: «Tale grado di sviluppo», intermedio fra i due estremi indicati, «è però comune a formazioni socio- economiche storicamente diversissime». E Luporini postillava: così «è espressa in maniera lampante la necessità della componente storicogenetica per la costruzione del modello dell’economia capitalistica [“capitalistica”, si noti bene, e non semplicemente “mercantile”], e insieme il suo carattere di “variabile entro certi limiti”». Ma, a sua volta, è anche lampante perché proprio questo punto, e cioè il riferi- mento alla storia reale come a variabile, attraesse tanto Luporini: in alternativa a quell’evoluzionismo, o necessitarismo, nella rappresentazione del cosiddetto sviluppo storico, ch’era stato il tratto caratteristico di tutti i dogmatismi, entro il marxismo. Il nucleo, insieme teorico e politico, che si trattava di contrastare, era dunque l’assunzione d’un percorso uniforme dell’umanità, a tappe obbligate. Dei grossi saggi di Luporini «dentro Marx», solo i primi due (Realtà e storicità: economia e dialettica nel marxismo e Marx secondo Marx) fecero in tempo ad essere inclusi in Dialettica e materialismo. Verso l’80 l’editore Einaudi annunciava come prossimo un volume di Studi su Marx, di Luporini, destinato a raccogliere gli altri, successivi, e che avrebbe dovuto trarre il titolo da uno di essi: Critica della politica e critica dell’economia politica (gli altri sarebbero stati, presumibilmente, La logica specifica dell’oggetto specifico e Per l’interpretazione della categoria “formazione economico-sociale”. Però, di quel volume, non ne fu di nulla. [...] L’oggi, ancora una volta diverso, che è il nostro, anche Luporini ha fatto in tempo a vederlo, assumendo - nell’89-’90 - le posizioni che sono rimaste (è da supporre) nella memoria di tutti; ed inoltre portando il segno della sua attenzione vigile sui fenomeni che dipoi si sarebbero ingigantiti. [...]. Relativamente a Marx, nell’ultimo ritorno su di lui, Luporini segnalerà soprattutto due questioni, che, negli studi precedenti, a cui s’è accennato, non comparivano ancora. Per un verso, riconoscerà pure, ora, come, sul punto del passaggio al socialismo ed al comunismo, anche Marx fosse rimasto ben più evoluzionista di quanto neanche lontanamente consenta invece tutta l’esperienza storica del nostro secolo (ciò, anche perché partecipava di quel determinismo che improntava ancora l’epistemologia corrente ai suoi tempi). Per un altro verso, la questione nuova e sempre più dirompente veniva indicata da Luporini - al di là anche dell’eventualità di catastrofi immediatamente cruente - nella questione ambientale (e demografica). Marx, dirà allora, considerava intollerabile il dominio dell’uomo sull’uomo, però, quanto al dominio dell’uomo sulla natura, partecipava alle prospettive generali del suo tempo (e, si può aggiungere, di tutta quanta quella che chiamiamo la modernità) su uno sfruttamento illimitato delle risorse naturali ed un incremento indefinito della produzione. In questi ultimi interventi, dunque, Luporini si collocava «con un piede dentro Marx, ed uno fuori». Ma, ciò, proprio per sostenere quello che chiamava l’«orizzonte del comunismo». 14 SCHEDA D iretto da Nunzio Incardona, l’Istituto di Filosofia tato i suoi interessi verso un’analisi della presenza di tale costituisce, con l’Istituto di Storia della Filosofia e originaria impostazione metafisica nella riflessione etica e l’Istituto di Teoria e Storia delle idee, una delle tre linguistica moderna, fino alla scuola analitica. Muovendo sedi deputate all’insegnamento del pensiero filosofico nel- da una concezione del pensiero contemporaneo come una l’ateneo palermitano. Carattere principale di questo centro feconda crisi della tradizione della metafisica classica, è il forte impegno teoretico e la fisionomia unitaria delle Nicolaci ha così contribuito a introdurre all’interno dell’Istivarie direzioni di ricerca che agiscono al suo interno. tuto l’opera di autori come Heidegger, Wittgenstein, Hare, Allievo di M. F. Sciacca, Incardona, partendo dall’espe- Austin. La sua riflessione investe dunque il rapporto tra rienza teorica dello spiritualismo di matrice rosminiana, metafisica e dimensione linguistica, mostrando come, anha sviluppato il proprio pensiero in direzione di un’inda- che alla luce dell’apporto della riflessione contemporanea, gine sul principio e sui fondamenti metafisici del pensie- tale interazione abbia condizionato il formarsi e il determiro occidentale. Una riflessione, dunque, che si muove narsi della struttura della conoscenza morale. all’interno delle grandi posizioni della metafisica classi- Più legata ad un’analisi di tipo storiografico appare ca, e che ha contribuito in modo profondo a determinare l’opera del medievista Alessandro Musco, i cui interessi l’area di riflessione e di ricerca dell’Istituto. Questi motivi gravitano verso la tradizione mistico-metafisica e le teoretici informano di sé tanto gli insegnamenti, quanto le origini del pensiero medievale; un campo di ricerca, direttrici stesse della ricerca dei differenti componenti l’Isti- questo, che sembra poter coagulare attorno a sé una tuto. La sensazione che si ha fin dall’inizio del lavoro teorico rinnovata tradizione di studi arabi ed ebraici. L’arabistica, all’Istituto è difatti quella di presente all’Istituto con Giuuna vera e propria struttura seppe Roccaro, vanta del reI luoghi della filosofia di scuola, in cui la plurivocisto una solida tradizione a tà e la molteplicità degli intePalermo, e sembra poter conressi specifici trova il protribuire a consolidare e sviprio baricentro in un motivo luppare la presenza degli stufilosofico comune. di medievali tra le direzioni Utilizzando la tradizione di ricerca dell’Istituto. metafisica per affrontare ab A Incardona fanno diretto imis il problema dell’arché, riferimento anche i ricercaIncardona rileva come il tori dell’Istituto. L’appropensiero filosofico possa fondimento del pensiero di essere, nella sua radicalità Gorgia e Aristotele si deve di Luca M. Scarantino originaria, intrinsecamena E. Caramuta; l’interesse te esaurito e compiuto in sé per Heidegger e Ricoeur è fin dalle sue prime battute. sviluppato invece da A. M. Tale prospettiva teoretica Treppiedi, mentre della diacondiziona in tal modo la lettica hegeliana si occupa scelta degli autori la cui G. Tagliavia. La riflessioopera viene privilegiata nel ne politologica è terreno di curriculum degli studi; Ariricerca di M. Corselli; quelstotele ed Hegel, considela estetica, con particolare rati come i due poli attraattenzione al momento letverso cui si articola l’intero pensiero filosofico occiden- terario e al periodo romantico, di S. Lo Bue. L. Di tale, costituiscono in particolare l’effettivo baricentro dei Bartolo, attraverso la sua attività di ricerca presso la programmi dei corsi. Significativa è altresì la presenza di Sorbona, contribuisce ad un rafforzamento dei legami Kant e soprattutto di Platone; assai importante è d’altra parte dell’Istituto con l’ambiente accademico francese. la presenza dell’intero pensiero greco delle origini, in cui la L’attività scientifica e convegnistica dell’Istituto si actematica dell’arché, sviluppata da Incardona, riconosce la compagna alla pubblicazione della rivista «Giornale di fondamentalità della riflessione filosofica occidentale. Tale Metafisica», che da una decina di anni organizza gli caratteristica, se rende talvolta l’Istituto, nella sua struttura annuali “Incontri del Giornale di Metafisica”, dedicati ad didattica, ripiegato su se stesso e sui suoi autori privilegiati, aspetti di volta in volta diversi della tradizione metafisine costituisce al contempo la peculiare vitalità teoretica, che ca. Dal primo incontro, tenutosi nel 1983 a Genova, lo rende un significativo punto di riferimento per una vasta l’iniziativa ha via via assunto un’importanza sempre parte del milieu filosofico a livello non solo nazionale. maggiore, divenendo occasione di confronto e di dibattiLe linee filosofiche indicate da Incardona ispirano in to per quel versante della tradizione filosofica italiana misura decisiva le tematiche investigative dei diversi che si riconosce in un pensiero a carattere trascendente, docenti dell’Istituto, che si affiancano a Incardona e che con una rilevante componente spiritualistica. ne sono allievi. Giuseppe Nicolaci ha sviluppato la pro- Particolarmente significativa è pure l’attività di collabopria ricerca nel senso di una tematizzazione del contem- razione con il Centro Internazionale “Giovanni Gentile” poraneo. Rivolgendosi alla dimensione linguistica che, di Castelvetrano, con il quale viene annualmente orgada Aristotele in poi, egli considera essere parte integrante nizzato un Convegno internazionale, dedicato al pensiedella tradizione e del pensiero metafisici, Nicolaci ha orien- ro del fondatore dell’attualismo. L’Istituto di Filosofia di Palermo 15 AUTORI E IDEE William Blake, The Creation of Eve (1808, particolare) 16 AUTORI E IDEE AUTORI E IDEE Le ‘letture’ di Ricoeur Paul Ricoeur, oggi ottantunenne, non ha mai smesso di far dialogare il discorso filosofico con il suo altro. Ne è una testimonianza la serie dei volumi, pubblicati a partire dal 1991 con il titolo ‘Lectures’ (Letture), che raccolgono suoi scritti sparsi. L’ultimo volume, LECTURES III, AUX FRONTIÈRES DE LA PHILOSOPHIE, (Letture III, Alle frontiere della filosofia, Seuil, Parigi 1994), è incentrato sul rapporto di Ricoeur con i testi che stanno a fondamento delle grandi religioni. Da segnalare anche, in questo contesto, una monografia critica di Olivier Mongin sul pensiero e l’opera di Ricoeur: PAUL RICOEUR (Seuil, Parigi 1994), che rintraccia una linea di continuità tra le prime e le ultime opere del filosofo. Dopo Lectures I, Autour du politique (Letture I, Intorno al politico, 1991) e Lectures II, La Contrée desphilosophes (Letture II, La contrada dei filosofi, 1992), quest’ultima raccolta, Lectures III, Aux frontières de la philosophie, mostra come Paul Ricoeur, erede della filosofia husserliana e dei filosofi dell’esistenza (G. Marcel, K. Jaspers), abbia dialogato non solo con la linguistica, la psicoanalisi e la letteratura, ma anche con la fenomenologia della religione e l’esegesi biblica. L’opera si presenta divisa in tre sezioni: la prima verte sulla religione come fenomeno sociale e culturale; la seconda affronta il problema del male; la terza è dedicata all’esegesi biblica. Ricoeur parte dalla constatazione che la figura del religioso non è presente in forma universale, dal momento che vi sono una pluralità di comunità religiose e di testi fondatori. Ad esempio nel Talmud, osserva Ricoeur, la lettura ebraica del Vecchio Testamento dimostra che i modi di leggere questo testo (dove un rabbino risponde ad un altro, suscitando la discussione) sono al tempo stesso atti interpretativi. Il Cristianesimo ha poi conferito pluralità all’origine, dal momento che si hanno quattro Vangeli per raccontare e interpretare la vita e la passione di Cristo. Il pluralismo del fenomeno religioso, secondo Ricoeur, è dovuto al carattere insondabile del mistero, ovvero al fatto che c’è sempre una riserva di senso che sfugge. Fatta eccezione per l’Islam, in cui non vi è alcuna distanza tra Dio, Maometto e il Corano, poiché Dio parla in Arabo per bocca di Maometto, nelle altre grandi religioni vi è sempre uno scarto tra l’origine della parola e la sua espressione umana; ed è proprio questo iato che crea uno spazio originario di interpretazione. Ma è la problematica del male che funge da frontiera tra filosofia e religione; esso costituisce una sfida per entrambi gli ambiti. La filosofia ha fatto nei secoli vari tentativi per impossessarsene, elaborando varie teodicee; laddove però non riesce a dimostrare che il male è necessario per l’esistenza del bene, il problema del male diventa una questione di tipo etico-politico: non si tratta più di indagare da dove viene il male, ma di cercare di delimitarlo. Nella prospettiva religiosa ebraico-cristiana il problema del male rimane un mistero: non si tratta di razionalizzarlo, ma di vivere nella tensione estrema tra lo scandalo del male, da un lato, e la riconoscenza di tutto ciò che appare come dono, dall’altro. Grazie appunto a quel che Ricoeur chiama “economia del dono”, il Cristianesimo mantiene un legame stretto con l’esigenza etica. Affinché si possa parlare di responsabilità, il pensiero etico, secondo Ricoeur, postula l’esistenza di un soggetto, ma non di un soggetto automono e trasparente a se stesso: un se stesso “come un altro”. Proprio questa idea di una soggettività attraversata da una alterità si ritrova, sostiene Ricoeur, nella trascendenza del dono della Parola. «Io vedo il Cristianesimo come un “grande Codice” - afferma Ricoeur; situarmi nel cristianesimo è situarmi in un grande insieme simbolico di cui non sono l’origine». L’ermeneutica biblica permette così di articolare questo rapporto dei segni con la soggettività individuale che è alla base della polisemia del testo. Contro coloro che attuano una netta separazione tra gli scritti iniziali di Ricoeur e i lavori del periodo propriamente ermeneutico, nella sua monografia dedicata al filosofo Olivier Mongin sostiene una fondamentale continuità tra questi scritti, mostrando come gli stessi interrogativi percorrano le pur varie e differenti riflessioni del filosofo. In questo, Mongin non trascura il carattere “poliglotta” del pensiero di Ricoeur, che dopo gli anni ’60 interloquisce con filosofi di formazione anglosassone e con autori tedeschi. A.M. 17 Le prove dell’esistenza di Dio Dimostrare l’esistenza di Dio non rappresenta uno fra i tanti problemi di cui si occupa la storia della filosofia, ma il problema fondamentale in cui si esprime la questione del rapporto tra essere e pensiero, nonché quella relativa alle modalità di quest’ultimo, in quanto procedura razionale. Questo è ciò che emerge dal terzo e ultimo volume dell’opera di Wilhelm Weischedel, IL DIO DEI FILOSOFI (trad. it. a cura di L. Mauro, Il Melangolo, Genova 1994), che conclude la ricerca dell’autore dedicata all’esprimibilità filosofica dell’esistenza di Dio, e dal saggio di Emanuela Scribano, L’ESISTENZA DI DIO. STORIA DELLA PROVA ONTOLOGICA DA DESCARTES (Laterza, Roma-Bari 1994), che attraverso le vicende della prova ontologica mette a fuoco l’evoluzione dello strumento razionale nel suo rapporto con le modalità temporali, cioè con le condizioni attraverso le quali viene definita l’esistenza. A KANT La ricostruzione documentata e, su molti punti, decisiva delle vicissitudini della prova ontologica, offerta da Emanuela Scribano, non si limita a un’analisi di tipo storiografico. Le tematiche che vengono messe in campo, e le stesse assunzioni che guidano la ricerca, rivestono infatti un carattere prettamente teoretico, e trascendono criteri e periodo storico qui considerati, investendo, invece, la questione ontologica e gnoseologica relativa a possibilità e modalità di espressione dell’essere da parte del pensiero, e di quella - conseguente dello strutturarsi dei due poli nella loro relazione. Al di là di una contrapposizione tanto radicata nella tradizione quanto apparente, la relazione che è storicamente intercorsa tra prova a priori (l’argomento ontologico di origine anselmiana) e prova a posteriori (l’argomentazione causale, rintracciabile in Tommaso) mette in luce, secondo Scribano, una solidarietà che può spiegare la fortuna dell’una e dell’altra e, insieme, l’evolversi del loro rapporto in base al mutamento delle modalità logiche e temporali di determinazione del concetto di AUTORI E IDEE esistenza. Dal punto di vista storiografico, sostiene Scribano, quella che per Kant è la dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio equivale all’argomentazione a priori esposta da Descartes nelle Meditazioni; quest’ultima, a sua volta, rinvia però alla dimostrazione causale (cioè aprioristica) di Tommaso, almeno quanto l’argomento a priori di Anselmo. Di fatto, nell’età moderna, di cui, quasi convenzionalmente, Descartes rappresenta il campione filosofico, si realizza un diverso modo di concepire la predicazione di esistenza e, con esso, una diversa concezione della sua dimostrabilità. In questo senso, ben prima di quanto non sia accaduto con l’attenzione mostrata dalla riflessione novecentesca, la questione onto-teologica si mostra come la sede più adeguata delle questioni filosofiche relative all’esprimibilità dell’esistente. Iuxta le esplicite dichiarazioni di Descartes e di Kant in proposito, l’argomento ontologico appare, in rapporto a quello cosmologico, come l’unico in grado di dimostrare l’esistenza di Dio, così come quest’ultimo viene concepito dalla tradizione cristiana: un essere dotato di identità personale, infinito e creatore, e non solo principio cosmologico dell’universo. In origine, nell’argomento ontologico di Anselmo, entrano in gioco soltanto modalità “logiche” di definizione dell’esistenza: è impossibile, in quanto contraddittorio, che un ente, di cui non si può pensare il maggiore (come nel caso di Dio), non esista nella realtà. L’argomentazione ontologica di Descartes si appropria del punto di forza dell’argomento cosmologico, ovvero del concetto temporale di necessità: è possibile ciò che si realizza almeno una volta, impossibile ciò che non si realizza mai, necessario ciò che si realizza sempre. Kant, che nella ricostruzione di Scribano rappresenta non solo il punto d’arrivo storiografico, ma la sintesi teoretica dell’evolversi della prova ontologica - e, con essa, dei tentativi di “dimostrare” in generale l’esistenza di un ente - ha il merito «di avere ricostruito la logica dell’innesto dell’argomento ontologico nel corpo dell’argomento cosmologico, e di averla per primo raccontata». La confutazione kantiana della prova cosmologica nella sua versione leibniziana, osserva Scribano, ha forza proprio e solo in quanto essa rifiuta, nel contesto della critica della prova ontologica, la possibilità di un’esistenza logicamente necessaria, cioè la possibilità di dedurre l’esistenza da un concetto. Con ciò viene però negata la legittimità non solo della teologia moderna, ma anche della metafisica; dell’una e dell’altra, conclude Scribano, a partire dall’evoluzione, in età moderna, della prova ontologica, risultano così dimostrate la contemporaneità e la solidarietà consustanziali e la comune problematicità. Dalla questione della dimostrabilità dell’esistenza di Dio prende le mosse anche Wilhelm Weischedel nell’ultimo volume, il terzo, della sua celebre e ponderosa opera, Il dio dei filosofi, che intende anzitutto mettere a fuoco la riflessione filosofica nonché quella teologica, nelle sue valenze filosofiche - dedicata al “problema di Dio” nel panorama del pensiero novecentesco. Se non è possibile regredire al di là dei limiti imposti dagli esiti della riflessione kantiana, osserva Weischedel, allora dobbiamo da un lato ripensare la possibilità di dimostrare l’esistenza di un ente in quanto tale e di quello che era concepito come l’ente sommo, nonché ens entium, dall’altro sollevare l’esigenza - non intendendo rinunciare a utilizzare lo strumento razionale, ovvero quello linguistico, per avvicinarsi a Dio - di definire altre modalità di “dimostrazione”, ovvero di “prove” dell’esistenza del divino, così come la tradizione teologica cristiana lo ha concepito. Per ciò che concerne il primo aspetto, Aristotele ritorna ancora una volta in primo piano, per Weischedel, come colui che definisce la metafisica, ovvero il “sapere primo”, come scienza dell’essente in quanto tale (on he on), dell’essente in totalità (katholou) e della “parte più nobile” dell’essente medesimo (timiotaton ghenos). In tale articolazione, come ha mostrato Heidegger, la metafisica si configura come onto-teo-logia, e il problema dell’essere di Dio diventa quello dell’essere dell’ente, nonché dell’essere del mondo, in quanto totalità dell’ente. Il secondo aspetto del problema analizzato da Weischedel riguardo alla questione della dimostrazione dell’esistenza di Dio (e, conseguentemente, quella dell’esistenza del mondo) rappresenta il motivo più caratteristico all’interno del dibattito teologico novecentesco. Stando alla ricostruzione di Weischedel, esso non fa che confermare, nella molteplicità delle voci che tentano di rintracciare un’autorità razionale per la fede, i termini del problema così come lo aveva circoscritto Kant. Ogni concetto su Dio, in altri termini, presuppone un’esperienza che va al di là dei parametri in qualunque modo fissati per l’argomentazione razionale; la pretesa di dimostrare questo presupposto si configura, dunque, come una sorta di circolo vizioso, orientato all’impossibile tentativo di uscire dai limiti imposti dalla nostra condizione di esseri finiti. F.C. Budda e il buddismo In un’epoca materialista e consumistica come la nostra, la pubblicazione di scritti come BUDDA (Tea Corbaccio, Milano 1993), di Herman Oldenberg, che ripercorre la vicenda storico di Budda, e LE VIE DEL BUDDHA (Sansoni, Firenze 1994), di Chodzin Kohn, che affronta la filosofia buddista centrata sulla meditazione, rappresenta una sfida e un appello al confronto. 18 Nel suo studio, Herman Oldenberg propone un Budda umano, fornendo una chiave di lettura della coscienza buddista sia sul piano teorico, che su quello pratico. Il Budda descritto dall’autore è un uomo comune, non esente da dubbi, paure, conflitti; la differenza è una grande ricchezza interiore, accompagnata da un’irrefrenabile sete di sapere, che lo conducono ad abbandonare ogni bene materiale per inoltrarsi nell’arduo cammino della povertà verso una verità che coinvolge e illumina tutto il suo essere. Non il male, ma il bene; non l’egoismo, ma l’altruismo sono le qualità con cui Budda affronta se stesso, gli altri e il significato dell’esistenza. Oldenberg tratta del personaggio Budda in forma narrativa, cogliendo somiglianze tra il Dio Budda e Cristo, maestro di una francescana partecipazione al dolore degli altri, ma anche predicatore del distacco dal mondo. Chodzin Kohn approfondisce invece la religione buddista come prassi di vita, aprendo un confronto con l’Occidente. La meditazione come fonte di sapere, accompagnata dallo yoga, sono elementi che nella filosofia orientale rappresentano la via verso il sublime, la salvezza: una salvezza che si compie nella pratica costante di esercizi spirituali atti a purificare l’essere. Queste tecniche Kohn le descrive come insegnamenti base per il raggiungimento della saggezza e della moralità, che coincidono con una retta visione del mondo e un retto agire. Se per gli occidentali l’adesione alla dottrina cristiana si risolve con un atto di fede, i buddisti sono accolti dalla comunità solo in virtù di un’assoluta rinuncia a qualsiasi bene terreno, in totale armonia con la natura. Riti, esercizi sacri, penitenze si configurano in un’unità, in una fusione tra individuo e collettività, che non lascia spazio ad alcuna differenza. La diversità viene soppressa al suo sorgere; l’individuo assume significato in nome di una totalità più grande di lui e la consapevolezza di questa dimensione umana conduce a non affrontare in prima persona la vita, ma a lasciarsi guidare dalla forza della natura, del divino. L’ascolto di se stessi e della vita appartiene alla saggezza buddista, e di questo Kohn si fa testimone, interpretando l’esistenza come un lungo viaggio verso la liberazione totale. In questo contesto segnaliamo l’avvio in Italia di un programma di studi e pratica di meditazione, lo “Schambhala Training”, creato nel 1977 dal lama tibetano ven. Chögyam Trungpa Rinpoche, che ha ripreso la tradizione Shambhala della società illuminata dell’essere “guerriero” in una visione laica dello sviluppo dell’uomo, che prescinde quindi dall’appartenenza a qualsiasi religione. Nel 1968 Trungpa Rinpoche, che ha dedicato la sua vita allo studio del buddismo tibetano e alla sua diffusione in Occidente, fonda in Scozia un primo centro di buddismo tibetano, il Samye Ling. Successivamente fonda vari AUTORI E IDEE altri centri nel Nord-America, tra i quali un’università, il Naropa Institute, nel 1974 e, appunto, lo Shambhala Training, nel 1977, che attualmente è presente negli Stati Uniti, in Canada, in Cile, in Australia e in Europa; in italiano è presentato a Lugano (Svizzera) e a Milano. Scopo di Trungpa Rinpoche è stato quello di creare nel mondo una “società illuminata” che, mediante l’unione della visione spirituale e della praticità, consentisse il “risveglio” degli uomini per indirizzarli ad una attività sociale benefica, fondata sulla compassione di tutti gli esseri sensibili, che instaura la visione Shambhala. A questo scopo ha provveduto la creazione di tre indirizzi spirituali, che rappresentando altrettante “porte” di accesso al Mandala di questa società illuminata cioè il “Vajradhatu”, la “Nalanda” e lo “Schambhala Training”. Il “Vajradhatu” riguarda la porta buddista del Mandala Schambhala e avvia allo studio della dottrina buddista e alla pratica della meditazione. La porta “Nalanda”, che ha preso questo nome da una famosa università indiana dell’XI secolo, è costituita da diverse organizzazioni che hanno lo scopo di diffondere le pratiche di discipline contemplative intese come diversi sentieri per riscoprire la”bellezza”, la “sensibilità” e l’”eleganza”. Alcune di queste organizzazioni sono Naropa Institute, Kyudo, Ikebana, Mudra Space Awareness Training, Maitri Space Awareness e il Comitato di Traduzione Nalanda. Infine, lo “Schambhala Training” presenta un programma di studio e una pratica di meditazione, dotati di un risvolto secolare, più che religioso, in quanto si propone di indicare agli uomini il sentiero del “guerriero” nella vita quotidiana, nella quale la paura non deve essere considerata solo come un grande impedimento, ma anche come un modo per conoscere più profondamente se stessi. In questa prospettiva diventa possibile affrontare con fiducia quelle paure che ostacolano la capacità di realizzare totalmente il proprio essere uomo, edificando così la società illuminata. Dopo la morte nel 1987 di Chögyam Trungpa Rinpoche il suo primogenito, Sawang Ösel Rangdröl Mukpo, ha continuato l’attività del padre, dirigendo dal 1990 il Mandala Schambhala. La diffusione della visione dello Shambhala assume una notevole importanza in quanto non si esaurisce in una pratica contemplativa di fruizione puramente individuale, isolata dal resto del mondo, ma s’impone per la sua volontà di inseririsi nel mondo con lo scopo di originare un’azione collettiva positiva che, partendo dalla espansione delle potenzialità soggettive, sfoci nell’instaurazione di una società gioiosa, “gentile” e sana. Nei primi mesi del 1995 è previsto a Milano il Livello I dello “Schambhala Training” (per informazioni: Pema Thaye, tel. 031/400112). D.M./M.Mi. Il pensiero politico di Oakeshott Continua la pubblicazione dell’opera omnia del politologo Michael Oakeshott. Dopo RATIONALISM IN POLITICS (Razionalismo in politica, 1991), è ora la volta di RELIGION, POLITICS AND THE MORAL LIFE (Religione, politica e la vita morale, a cura di T. Fuller, Yale University Press, New Haven 1993) e di MORALITY AND POLITICS IN MODERN EUROPE (Moralità e politica nell’Europa moderna, a cura di S. Robin Letwin, Yale University Press, New Haven 1993). Muovendo da una riflessione e da un’osservazione della storia intesa in senso extra-politico e comune, Oakeshott propone una visione anti-razionalista e anti-collettivista della politica. La sua concezione appare tuttavia, in vari aspetti, problematica e paradossale, se non aporetica: l’obbedienza alla legge come dovere etico si scontra con la neutralità morale della legge; l’Occidente viene considerato come depositario del valore dell’individualità e allo stesso tempo dell’etica ideologica e collettivista; la “sicurezza”, scopo del socialismo, viene rifiutata; la moralità è irrimediabilmente divisa tra normatività e spontaneità. Religion, Politics and the Moral Life raccoglie dieci saggi, redatti tra il 1925 e il 1955, in cui Michael Oakeshott fa risalire la sua visione della religione e della morale agli insegnamenti di un sacerdote anglicano, ai tempi della sua infanzia, il quale sosteneva che la religione è pietas, non un insieme di credenze, e la morale un modo di comportamento. Coerente con questa concezione, nel saggio Religion and the World (La religione e il mondo, 1929), Oakeshott considera la religione autentica come pre-teoretica e non-dogmatica, cioè come religiosità. Essa è orientamento dell’anima in una dimensione dell’esperienza vissuta al suo massimo livello. Una religione intesa come assenso intellettuale a certe richieste oggettive sul mondo si rende vulnerabile non solo a confutazioni esterne ma anche ad un criticismo anti-razionalista. L’autentica religione, rileva Oakeshott, non può garantire la “salvezza”, che invece consiste nell’essere liberati “qui e ora” dall’egoismo quotidiano e dalla tirannia del successo. A questo proposito, nel saggio The Historical Element in Christianity (L’elemento storico nel Cristianesimo, 1928) Oakeshott afferma che non esiste “un cuore” dell’esperienza cristiana o un’essenza del cristianesimo, né alcuna credenza storica definitiva a cui appoggiarsi, esiste solo la fine della mutazione diacronica di ciò che chiamiamo Cristianità. 19 L’affermazione che la religione sia pura pratica solleva in Oakeshott la questione, presente sia in Religion, Politics and the Moral Life che in Morality and Politics in Modern Europe, se possa esistere una politica staccata dalla teoria politica. La politica in senso pratico, osserva Oakeshott, non consiste solo nella gestione di interessi pratici e immediati, ma tocca anche la vita spirituale di tutti coloro che essa riguarda, venendo a identificarsi con i valori morali più alti di una società, come “Dio” e “patria”. In The Claims of Politics (Le pretese della politica, 1939) Oakeshott afferma che i più alti valori della società, la sua più chiara consapevolezza di sé, sono dati dai poeti, dagli artisti e dai filosofi, non dai politici. Il governo, o l’attività politica in generale, che è ciò che definisce lo Stato - come vien detto in The Autority of the State (L’autorità dello Stato, 1929) -, consiste nel salvaguardare la cultura e porre le sue minime condizioni di sviluppo. Società, Stato e Nazione sono intesi da Oakeshott come realtà pre- e post-politiche, appartenenti ad un determinato mondo storico e a una cultura specifica. Dei saggi compresi in Religion, Politics and Moral Life fanno parte anche due inediti: The Customer is Never Wrong (1955), in cui Oakeshott rifiuta la proposta di Walter Lippmann di costruire una nuova filosofia basata sulla legge naturale, e “Scientific Politics” (1948), recensione del testo di Hans Morgenthau: Scientific Man versus Power Politics (Uomo scientifico versus potere politico, 1947). Morality and Politics in Modern Europe presenta otto lectures inedite, tenute da Oakeshott a Harvard nel 1958, che sviluppano le concezioni da questi elaborate a partire da The Masses in Representative Democracy (Le masse nella democrazia rappresentativa, 1957; ora incluso nella nuova edizione di Rationalism in Politics) fino alla terza parte di On Human Conduct (Sulla condotta umana, 1975), e centrate sull’importanza dell’individualità, la sua emergenza storica, la sua moralità collettiva, a cui si oppone l’anti-moralità della reazione collettivistica. Due sono i punti chiave individuati da Oakeshott nella storia della modernità. Il primo è il processo di centralizzazione e modernizzazione delle monarchie europee, che ebbe come conseguenza di liberare aspiranti “individualisti” dalle fedeltà feudali a dalle tradizioni locali. Il secondo è frutto del carattere di visibile inadeguatezza dell’individualità agli occhi di coloro che ancora non l’hanno raggiunta e la cui insicurezza diviene il mezzo per ottenerne l’obbedienza in cambio della loro redenzione in teocrazie (Calvino a Ginevra) o utopie produttivistiche (Bacon, Owen, Saint-Simon) o equalitarismi socialisti. M.G. AUTORI E IDEE Dilettanti e viandanti nel romanticismo Il viaggio, inteso come quell’esperienza in cui l’individuo realizza se stesso, e il dilettantismo, quale carattere proprio di personaggi privi di regole e alla ricerca della pienezza estetica, sono tema rispettivamente dello studio di Patrizio Collini, WANDERUNG . IL VIAGGIO DEI ROMANTICI (Cafoscarina, Venezia 1993) e dello scritto di J. Wolfang Goethe e di Friedrich Schiller, IL DILETTANTE (a cura di E. De Angelis, Donzelli, Roma 1993), che raccoglie anche saggi di Otto Ludwig, Rudolf Kassner, Gottfried Keller, Thomas Mann, Karl Philipp Moritz, Jean Paul, Friedrich Schlegel, Adalbert Stifter, Wilhelm Heinrich Wackenroder, Richard Wagner. Lo studio di Patrizio Collini, prendendo spunto dall’analisi de Le peregrinazioni di Franz Sternbald di Tieck e dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, analizza la funzione e la struttura del viaggio e del viaggiatore in epoca romantica. Secondo Collini, esistono fondamentalmente due tipologie del viaggio. Il primo, escatologico nella visione cristiana e progettuale nella visione laica, è caratterizzato nella sua ontologia dalla meta che fornisce il senso alle tap- pe; il viaggio assume qui il ruolo dello strumento funzionale e necessario ad uno scopo, rappresentato dal traguardo, che una volta raggiunto, negherà anche la funzione del viaggio stesso. Il secondo tipo di viaggio, la Wanderung (peregrinazione), che Collini sceglie nello specifico della sua analisi, cancella, invece, ogni tipo di meta e assume significato nel darsi degli eventi, che non esistono in funzione del traguardo, ma esclusivamente nel loro accadere. La capacità di procedere al di là dello scopo finale, rende il viandante il vero donatore di senso che esiste nei singoli accadimenti e vive il mondo come assoluta e continua novità. Collini, che colloca questa tipologia di viaggio all’interno della letteratura romantica, ad esempio nel Wilhelm Meister di Goethe, rovescia il tema della Bildung (formazione), altrettanto caro al romanticismo. In altre parole la Wanderung diventa quella capacità dell’anima di cogliere il mondo nella sua innocenza e casualità al di là di qualsiasi anticipazione di senso. D’altra parte, il tipico viaggio romantico è caratterizzato proprio dalla donazione di senso attraverso la progettualità e il finalismo. Basta pensare alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in cui le tappe assumono significato grazie alla meta che, a sua volta, diventa tale grazie alle tappe. In questo tipo di viaggio la formazione dell’individuo è possibile grazie al fine ultimo Caspar David Friedrich, Viandante su un mare di nebbia (particolare, 1818) 20 della ragione, che si realizza durante il percorso. Una volta esclusa la meta e il progetto, conclude Collini, non ha più alcun senso, però, parlare di “senso”; per questo, una tale interpretazione del viaggio si addice anche a due pensatori che hanno superato la concezione teleologica e finalistica della conoscenza, e cioè Nietzsche e Schopenhauer. L’assenza di progettualità e di regole colloca questo modello di viaggiatore accanto a quello del dilettante, a cui J. Wolfang Goethe, con la collaborazione di Friedrich Schiller, dedicano alcune interessanti considerazioni nello scritto Il dilettante, in cui, oltre alle concezioni dei due autori, compaiono vari saggi che rappresentano altrettanti esempi concreti di dilettantismo. La figura del dilettante, caratteristica dell’età romantica, è propria dell’amante dell’arte e dell’eroe romanzesco, che vive nel mondo dell’immaginario, isolato dalla società. Goethe e Schiller descrivono il dilettantismo come quell’atteggiamento in primo luogo utile all’uomo in genere nella realizzazione dei suoi impulsi; in secondo luogo come quello stile che, da una parte fornisce all’arte l’impulso creativo e, dall’altra, in quanto godimento, costituisce una conseguenza dell’arte stessa. Nonostante questa vicinanza alla produzione artistica, il dilettantismo, secondo Goethe e Schiller, si distingue nettamente dall’arte. Quest’ultima, infatti, è caratterizzata da leggi formali ed espressive ed è finalizzata alla verità del soggetto rappresentato, mentre il dilettantismo si manifesta nella totale assenza di leggi e al di là della ricerca di una qualsiasi verità. Inoltre, mentre l’artista fa della propria passione una professione, il dilettante si limita ad un’attività saltuaria e, quindi, d’occasione. Il prototipo del dilettante, in questo modo, diventa quello di un individuo che, vivendo isolato e ai margini della società, esaspera la propria esistenza nella ricerca parossistica della realizzazione artistica. Nella totale assenza di valori sociali e di progetti da perseguire, il dilettante vive inseguendo il sogno di un appagamento estetico che esalti la propria soggettività al di sopra di tutto e di tutti. Rende bene l’idea del dilettante la figura di Anton Reiser nell’omonimo romanzo di Karl Philipp Moritz, che narra di un viaggiatore completamente proiettato nel sogno di diventare attore. Circondato da una realtà per lui completamente evanescente, il viaggiatore-dilettante vede sfumare davanti agli occhi la possibilità concreta di realizzare il suo sogno. Così, mentre, sullo sfondo, l’autore sottolinea l’impossibilità per il protagonista, che non riesce mai a dimenticare se stesso, a diventare attore, il viaggiatore si adatta a lavorare come manovale, vivendo la nuova professione, ancora una volta, come un ruolo da palcoscenico. A.S. AUTORI E IDEE Ralph Goings, Twin Springs Diner (1976, particolare) Terra-Patria invece di non-luoghi Una severa disamina del nostro stato di “agonia”, a livello planetario, e, nel contempo, la proposta di una “nuova religione”, caratterizzano l’ultima opera del sociologo francese Edgar Morin, TERRA-PATRIA (trad. it. di S. Lazzari, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994 ), scritta in collaborazione con Anne Brigitte Kern. Intento dell’analisi di Morin è recuperare il pianeta al ruolo di “patria”, cioè di luogo costruttore di identità per l’uomo che lo abiti. Alla decontestualizzazione, e attraverso di essa, alla definizione dei concetti produttori di identità è dedicato lo studio di Marc Augè NON LUOGHI: INTRODUZIONE AD UNA ANTROPOLOGIA DELLA SURMODERNITÀ (trad. it. di D. Rolland, Edizioni Eleuthera, Milano 1993). Il “Vangelo della perdizione” proposto da Edgar Morin in Terra-Patria prevede una religione con finalità razionali: salvare il pianeta, nostra unica vera Patria, sia da quelle che Morin definisce “minacce damoclee”, cioè le minacce globali (degrado progressivo della biosfera, uso delle armi atomiche), sia dai disagi prodotti dallo sviluppo della tecno-scienza in tutti i settori della vita sociale. La “nuova barbarie” prodotta dal “mito dello sviluppo” è propria soprattutto dell’Occidente e ha causato un nuovo, diverso sottosviluppo, quello relativo all’individuo, privato del suo tempo, costretto a vivere un tempo “precipitato e cronometrato”, compiendo un lavoro parcellizzato e deresponsabilizzato. Un individuo che, nella maggior parte dei casi, resta in tal modo escluso dalla vita politica democratica, abituato ad usare una miriade di mezzi di comunicazione senza però che si pervenga mai ad un livello di comunicazione effettiva. Il risultato complessivo, sostiene Morin, porta ad una situazione policrisica, dove incertezze, problemi, minacce si intrecciano in una rete di interretro-azioni, estremamente difficile da identificare e da risolvere. A questa condizione tragica e incerta di un’umanità ancora incapace di realizzarsi come tale - una condizione che Morin non esita a definire “agonia planetaria” - si oppone, quale «permanente contrappunto, un inno all’evoluzione, ad una sorta di epopea cosmica, che un giorno, curiosamente, è sfociata nell’Homo Sapiens». Partendo dalla comune origine della vita, Morin sottolinea, infatti, la fondamentale unità ideologica, morfologica, psicologica ed affettiva dell’Homo Sapiens, un’identità comune che è stata occultata e tradita, proprio nel cuore dell’era planetaria, dalla sviluppo compartimentato e specializzato delle scienze e da una 21 evoluzione politica confusa e contraddittoria. Da qui, la necessità di fondare una “antropolitica” basata sulla responsabilità planetaria, sulla presa di coscienza da parte dei “nuovi cittadini planetari”, del loro comune destino terrestre. L’antropolitica dovrà tenere conto dell’estrema incertezza della realtà, accettare la dialettica tra ideale e reale, tra sviluppo ed inviluppo, operando nella direzione di quello che Morin chiama “meta-sviluppo”, uno sviluppo meta-tecnico, meta-economico, meta-industriale, che conduca l’uomo a riappropiarsi del “passato tellurico”, nonché di quello umano, per vivere secondo imperativi etici quali comprensione, solidarietà, compassione. Morin detta anche una serie di norme strategiche per attuare quella che egli definisce una “ominizzazione della Terra”, dalla quale non può essere disgiunta una profonda riforma del pensiero, attraverso la pratica del cosiddetto “pensiero complesso”, già ampiamente teorizzata ed esemplificata nei quattro volumi della Méthode (1977-1992). Il pensiero complesso è un pensiero che abbandona i rigidi schematismi prodotti da una razionalizzazione astratta, unidimensionale, opera di un’intelligenza parcellizzata, deterministica e meccanicistica, per instaurare una razionalità autentica, che conosce i limiti della logica e del deter- AUTORI E IDEE minismo, che negozia con l’irrazionale, con l’oscuro, con il caotico, che fa suo anche il disordine ed il casuale della realtà. Il pensiero complesso, sostiene Morin, è un pensiero multidimensionale e “ologrammatico”. In questa prospettiva la Terra appare come una totalità complessa, fisica, biologica, antropologica in cui la vita è un’emergenza della storia della terra e l’uomo un’emergenza della storia della vita terrestre. Alla questione del riconoscimento, da parte dell’individuo, della propria identità nei luoghi del proprio agire è dedicata l’ultima opera di Marc Augè, Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità. Con questo studio Augè persegue “un’antropologia del quotidiano” esplorando i “non-luoghi”, cioè quegli spazi dell’anonimato, frequentati da individui tra loro simili, chiusi ciascuno nella propria singolarità. L’ipotesi che guida questa ricerca è quella secondo la quale l’epoca in cui viviamo, che Augè definisce “surmodernità”, abbia come sua modalità fondamentale l’eccesso spazio-temporale e l’accellerazione della storia. Il non-luogo si presenta come nozione opposta a quella di luogo, antropologicamente considerato come costruttore di identità, di relazioni, di storia. Il non-luogo indica, invece, due realtà complementari: è spazio destinato a determinate finalità e, al tempo stesso, indica il rapporto dell’individuo con tale spazio. Rappresentano non-luoghi, ad esempio, le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti), i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei); ma anche i supermercati, gli ospedali, le grandi catene alberghiere. Mentre il luogo antropologico crea relazioni, il non-luogo genera una “contrattualità solitaria”: condizione essenziale per divenirne utente appare, infatti, l’entrare in relazione con le dinamiche che lo governano. Il non-luogo si definisce proprio attraverso le prescrizioni che mettono in rapporto l’individuo con un ente astratto (lo Stato, il Comune, un’associazione) che ha la pretesa di rappresentare una sostanza reale, anche con valenza etica. Contestualmente, si assiste a una invasione dello spazio da parte di testi che si presentano come interpellanze, solo apparentemente rivolte a individualità personali, che risultano, però, intercambiabili nel loro carattere seriale. Si crea, così, una cosmologia di echi e strutture linguistiche tali da costituire un sistema di riferimento tanto universale, quanto generico e massificante. Paradossalmente, in una tale condizione l’individuo si sentirà “a casa” e ritroverà una sua “identità”, anche se fittizia, proprio nell’anonimato delle autostrade, dei grandi magazzini e delle catene alberghiere, nei quali riconoscerà il carattere prescrittivo del non-luogo. L.P. Herzen e la sua filosofia In BREVE STORIA DEI RUSSI (Corbaccio, Milano 1994), recentemente ristampata, Aleksandr Herzen analizza le conseguenze e la trasformazione della Russia in seguito alla rivoluzione del 1948, la caduta del marxismo e il ruolo dell’euroasismo quale filosofia oggi diffusa fra gli intellettuali vicini al potere. Opinioni drastiche nei confronti di un ordine morale oggettivo opposto ad un agire di libere coscienze sono espresse da Herzen in DALL’ALTRA SPONDA (trad. it. di P. Pieri, Adelphi, Milano 1993), una riflessione critica sull’esito fallimentare delle rivoluzioni europee del 1848. Aleksandr Herzen si è interessato in modo attivo alla storia russa e al periodo del 1948, illustrandone gli aspetti populisti. Autore di vari saggi, ha rivolto particolare attenzione alla caduta del marxismo come un cambiamento globale del mondo. In Breve storia dei russi Herzen critica quelle ideologie che pur di soddisfare l’impellente bisogno di Assoluto che c’è nell’uomo esasperano i concetti di uguaglianza, di nazionalità, di democrazia, di progresso, senza in realtà difendere i veri diritti umani, affrontando i problemi più urgenti dei lavoratori. Herzen si scaglia contro ciò che sta dietro ai grandi movimenti popolari, ovvero il cinismo, la lotta per il potere...; un’intera storia umana si rivela dominata da ambiguità, da principi oscuri, non da lotte autentiche in difesa dei veri interessi dei cittadini, dei deboli. Herzen propone un’interpretazione della storia che si oppone a un finalismo predeterminato; la storia non ha altro impulso che la volontà di ogni singolo individuo, che agisce o contro il bene collettivo, o in sua difesa, spinto da motivazioni autentiche. La storia è in continua evoluzione, un’evoluzione che vede come responsabile l’umanità e la sua opera. Herzen prende in considerazione soprattutto la storia dell’Unione Sovietica e il post comunismo marxista. La rivoluzione, il crollo del marxismo e la transizione al nuovo regime anticomunista hanno avuto le loro cause in fatti, in precisi momenti, in fenomeni umani e sociali che non hanno niente a che fare con un intervento o un giudizio Divino. Storia e natura sono sfere separate, secondo Herzen, e hanno leggi completamente diverse e un orizzonte completamente diverso, terreno, il primo, ultraterreno, il secondo. Per una teoria della comprensione dei fatti storici come è la filosofia della storia, «i destini umani non sono liberi, poiché nello sviluppo storico rientrano molti principi variabili, la volontà e il potere personali prima di tutto.» Con queste parole Herzen caratterizza la sua riflessione critica sull’esito fallimentare delle rivoluzioni europee del 1848. Dall’altra sponda è una lunga 22 e spietata riflessione sul significato e il fine della storia, nella consapevolezza che dietro tante guerre inutili, assurde tragedie collettive, rivoluzioni e rivendicazioni combattute in nome dell’Umanità e della Libertà, si nascondono la ragion di Stato e la spregiudicatezza degli uomini politici, burocrati che dovrebbero garantire la giustizia, ma che non fanno che legittimare le peggiori scelleratezze. Herzen si scaglia contro ogni forma di dispotismo, e critica a spramente «la meschinità e il livore della borghesia, che schiaccia tutto ciò che è originale, indipendente e aperto», prevedendo quella che sarà la tirannia dei grandi sistemi altruistici del nostro secolo: il «panteismo aritmetico del suffragio universale», «fede superstiziosa nella repubblica», a cui fa riscontro la brutale arroganza della minoranza dall’altro. Per la filosofia della storia porsi il problema del “senso” significa considerare il corso storico, dalla sua origine al suo compimento, come diretto a un fine, a un telos. Ogni evento, ogni fatto, ogni episodio diventano, in tal senso, segni o indizi rivelatori di un processo, non necessariamente cosciente, verso una direzione prestabilita. Herzen rifiuta tutto ciò, nega qualsivoglia prospettiva finalistica che porta ad una storia profetica. «Guardare alla fine e non alla cosa stessa, è un errore gravissimo» secondo Herzen; la vita ama il nuovo, il corso della storia non è preordinato da “un’astuta” ragione, che armonizzi i moti disordinati degli uomini secondo un proprio disegno segreto. L’assunto principale del pensiero di Herzen è che Natura e storia non appartengono a due ordini diversi, ma formano un’unica realtà in cui le esistenze umane si trovano immerse e dalla quale sono determinate. Le riflessioni di Herzen non si presentano mai come pura speculazione filosofica, perché le esigenze di individuo e comunità ne costituiscono il presupposto e il fine. M.Ma./D.M. In onore di Hermann Schmitz Con il titolo REHABILITIERUNG DES SUBJEKTIVEN . FESTSCHRIFT FÜR HERMANN SCHMITZ (Riabilitazione del soggettivo. Scritti in onore di Hermann Schmitz, Bouvier Verlag, Bonn 1993) è stato pubblicato un grosso volume, curato da Michael Grossheim e HansJoachim Waschkies, che raccoglie contributi di numerosi autori, allievi e amici, che hanno voluto così festeggiare il 65° compleanno del loro maestro, Hermann Schmitz, e il suo ritiro dall’insegnamento. Nella premessa dei curatori viene brevemente richiamata l’opera di Hermann Schmitz, il cui asse direttivo fondamentale si pone sotto il segno di una “destrutturazione AUTORI E IDEE fenomenologica della tradizione”: «Il compito che mi sono posto - ha dichiarato Schmitz - è quello di non far cominciare il filosofare con costruzioni o proiezioni della nostra specifica oggettivazione culturale, ma, alla luce di una più precisa osservazione e concettualizzazione, risalire all’originario, involontario, momento dell’esser sorpreso, enuclearlo e da qui raggiungere le strade dell’oggettivazione che portano a teoria e prassi, diritto e religione, orientamento spaziale e temporale, arte e costumi». Di questo progetto filosofico Michael Grossheim e Hans-Joachim Waschkies intendono, con questo volume, saggiare il valore euristico, proponendo percorsi che toccano diversi ambiti del sapere e dell’esperire umano. Nella prima parte del volume sono riuniti contributi che si confrontano prevalentemente con la filosofia di Schmitz sotto aspetti di tipo sistematico. Dopo un breve saluto di Hans-Georg Gadamer, si succedono contributi inerenti all’idea di ragione e razionalità (Ulrich Pothast), al rapporto tra neo-fenomenologia e costruttivismo (Peter Janich), all’istanza di una nuova estetica della natura che consideri il nesso soggetto-oggetto (Gernot Böhme), alla paradoxia di Epimenide in H. Schmitz e N. Luhmann (Günther Schulte), alla problematica della conoscenza scientifica e allo statuto di “paradigma” scientifico in S. Kuhn (Hans-Jürgen Wendel), al concetto di animal rationale (Arno Baruzzi), al rapporto antitetico che ha l’idea di “principio” in Ernst Bloch e Ludwig Klages (Michael Grossheim), al concetto di responsabilità (Karl-Otto Apel) e infine al carattere che la nuova fenomenologia può rivestire per i problemi presenti in modo specifico nel pensiero europeo (Hans Werhahn). Nella seconda parte del volume vengono raccolti saggi che cercano di dimostrare come la nuova fenomenologia possa rivelarsi proficua anche in altri ambiti scientifici, come la psicosomatica (Gerhard Danzer) e la fisiologia (Hans Schäfer). Seguono poi contributi sulla fenomenologia della religione (Hermann Timm), sul significato dell’opera di Schmitz nel campo religioso della cura delle anime, sulla rilevanza della psicolinguistica nel Sistema della filosofia di Schmitz (Bernd Tischer) e sul rapporto tra filosofia della corporeità e arti figurative (Lorenz Dittmann). Tra i contributi in ambito politico-giuridico, viene affrontata la questione se il moderno Stato dei partiti definisca effettivamente il tipo di Stato oggi dominante (B. C. Vis). Nella terza parte del volume, infine, compaiono contributi a carattere storiografico, che in qualche modo sono originati dalla filosofia di Schmitz. Sono presi in considerazione la filosofia di Parmenide (Wilhelm Perpeet), quella di Empedocle (Guido Rappe), i motivi letterario- filosofici presenti in Lucrezio (Hartmut Böhme), l’estetica kantiana (Reinhard Brand), la teoria dell’incoscio di Freud (Siegfried Brasch), l’ontologia di Husserl (Tadashi Ogawas) ed infine il rapporto tra Heidegger e la rivoluzione conservatrice tedesca (Ernst Nolte). G.B. Rivoluzioni in geometria I principi e le ipotesi della nuova geometria, nata dalla confutazione del V Postulato di Euclide, sono l’oggetto di due opere: NUOVI PRINCIPI DELLA GEOMETRIA CON UNA TEORIA COMPLETA DELLE (trad. it. a cura di R. Pettoello, Bollati-Boringhieri, Torino 1994), di Nikolai Lobacevskij, e SULLE IPOTESI PARALLELE CHE STANNO ALLA BASE DELLA GEOMETRIA (trad. it. a cura di L. Lombardo Radice, Bollati-Boringhieri, Torino 1994), di Bernhard Riemann. Quando nel 1829 il matematico russo Nikolai Lobacevskij pubblicò, su una sconosciuta rivista di uno sperduto paesino russo, il suo lavoro sui nuovi principi della geometria, mise una conclusione originale e del tutto inaspettata al problema della inconfutabilità della verità del V Postulato di Euclide: il postulato meno intuitivo della geometria euclidea (per una retta e per un punto non appartenente ad essa passa una ed una sola parallela alla retta data) veniva fatto cadere e dalle sue ceneri nasceva una geometria del tutto nuova, una geometria dove la somma interna degli angoli di un triangolo vale sempre meno di 180°, dove la curvatura dello spazio è sempre negativa e dove le parallele alla famosa retta sono in numero infinito. La convinzione che lo spazio euclideo fosse l’unico spazio assiomatizzabile e che, soprattutto, fosse la rappresentazione unica dello spazio reale, aveva profonde radici, che attingevano linfa vitale dalla formulazione filosofica di quella credenza ad opera di Kant nella Critica della ragion pura. Questa giustificazione filosofica crollava e la rivoluzione geometrica di Lobacevskij varcava i confini del mondo matematico per minare alla base la fiducia nel sistema kantiano. Questa situazione di sfiducia nella matematica, e di perplessità in filosofia, che sarà propria degli anni a venire, diviene materia di dibattito nell’Introduzione di Lucio Lombardo Radice a Nuovi principi della geometria con una teoria completa delle parallele, e nella recentissima prefazione di Evandro Agazzi al medesimo volume. Tutto ciò non trova tuttavia spazio nei saggi di Lobacevskij, in cui viene data una presentazione compiuta di quella che è stata una delle scoperte più feconde e, nello stesso tem23 po, delle più ignorate, della ricerca matematica, nonostante il matematico russo abbia cercato per tutta la vita e in ogni parte d’Europa un riconoscimento adeguato del suo lavoro. Ben altro successo ebbero conclusioni altrettanto originali del medesimo postulato. Quando la geometria senza parallele di Bernhard Riemann venne presentata nel 1854, fu sufficiente una decina di anni perché si potesse sviluppare quella catena di reazioni che Lucio Lombardo Radice descrive nella sua introduzione al volume. Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, che include il famoso scritto, edito postumo nel 1867, nel quale Riemann generalizza le vedute di Lobacevskij partendo da studi di Gauss sulle superfici curve, presenta anche saggi dell’autore di ordine filosofico e scientifico, in cui si profila il progetto di trovare una formulazione matematica unitaria per descrivere le leggi di propagazione dei fenomeni fisici, dalla propagazione della luce a quella gravitazionale. Mentre questi progetti sono stati vanificati dalla prematura morte dell’autore, il suo scritto sulle basi della geometria ha avuto un grande influsso, non solo sullo stesso Gauss, del quale Riemann era stato allievo ed erede brillante, ma su tutto l’ambiente matematico contemporaneo. M.P. L’etica nell’età della tecnica Poco prima della sua morte, avvenuta nel febbraio 1993, mentre era prossimo ai novant’anni, Hans Jonas aveva autorizzato la raccolta in volume di una serie di interventi (brevi scritti, discorsi, interviste), da lui effettuati dopo la pubblicazione, nel 1979, del suo fortunato ‘Das Prinzip Verantwortung’ (trad. it., Torino 1990), in cui, come è noto, Jonas poneva il problema di un’etica appropriata alla condizione dell’uomo nell’età del suo dominio tecnologico. La raccolta di questi scritti esce ora in volume, a cura di Wolfgang Schneider, col titolo: DEM BÖSEN ENDE NÄHER (Più prossimi alla cattiva fine, Suhrkamp, Francoforte s.M. 1994). Una ridefinizione delle categorie etiche alla luce del problema ecologico è invece la proposta di Konrad Ott, ÖKOLOGIE UND ETHIK. EIN VERSUCH PRAK TISCHER PHILOSOPHIE (Ecologia ed etica. Saggio di filosofia pratica, Attempto Verlag, Tubinga 1993). Il titolo di questa raccolta di scritti riprende le parole stesse pronunciate da Hans Jonas in un’intervista concessa al periodico «Der Spiegel» nel maggio 1992, e qui posta ad apertura del volume. AUTORI E IDEE Jonas osserva che di fronte alla domanda fondamentale sulla possibilità della sopravvivenza in questo pianeta non è stato fatto, in pratica, alcun passo avanti; anzi, la situazione è andata sempre più degenerando. L’idea centrale, a cui Jonas si richiama nei nove scritti raccolti nel volume, è che l’uomo trova il suo limite nell’accrescersi delle sue stesse potenzialità tecniche, che finiscono con l’impedirgli di usufruire di quanto è in suo potere. Una tale consapevolezza, ammonisce Jonas, richiede a sua volta una sorta di nuova rivoluzione copernicana da attuarsi nel campo dell’etica, che non può più accontentarsi di indicare all’uomo le sue responsabilità di fronte al suo prossimo, ma deve includere nel suo ordine di considerazioni il rapporto dell’uomo con il mondo vivente e le esigenze di tutti coloro che non hanno voce in capitolo, come ad esempio (e in primo luogo) le generazioni future. In tal modo l’etica si apre per la prima volta ad una dimensione quasi cosmica, tale per cui più si amplia il nostro potere sul mondo, più “noi” diveniamo responsabili della sua sorte. Ma chi è questo “noi” - si chiede ora Jonas? Si tratta della società nel suo insieme, considerata nelle forme delle sue espressioni politiche. Qui però, osserva Jonas, non vi è garanzia che la scelta operata dal “noi” sia improntata al principio responsabilità. Il soggetto etico è sempre stato un io individuale, che risponde alla propria coscienza. Istituire un insieme collettivo come soggetto etico significa responsabilizzare la struttura politica della società. In democrazia, fa notare Jonas, tutte le domande sociali sono tese alla soddisfazione dei bisogni e degli interessi immediati, senza che si tenga conto delle ricadute globali e a lunga scadenza che ciò comporta. Affinché si crei una coscienza etica allargata, non resta altro, secondo Jonas, che affidarsi ad una sorta di Erziehung durch Kastrophen (educazione attraverso catastrofi), agli shock prodotti dai piccoli e grandi eventi catastrofici che si verificano di tanto in tanto. Nonostante Jonas continui a sostenere che l’enorme potere di disposizione tecnica dell’uomo sia un prodotto della libertà umana, e che dunque tecnica e libertà crescano insieme, pure egli non rinuncia a mettere in guardia sul fatto che nel momento in cui l’uomo si afferma come soggetto tecnico, si smarrisce come soggetto etico. Tuttavia, anche ammessa la legittimità di questo interrogativo, Jonas non è affatto propenso a mettere in discussione “l’avventura tecnologica” dell’uomo, per quanto essa comporti necessariamente che «nel futuro si debba vivere all’ombra di minacciose calamità». Seguendo gli sviluppi del concetto di ecologia fin dalla sua comparsa all’interno della biologia, Konrad Ott si in- Hans Jonas serisce invece nel dibattito sull’etica, richiamando l’attenzione sul fatto che l’emergere dell’istanza ecologica all’interno delle vedute scientifiche costituisce ben più di un cambio di paradigma. Introducendo un elemento di autoriflessività, di cui finora la scienza aveva fatto a meno, l’ecologia segna un momento di profonda discontinuità e di rottura radicale della scienza in rapporto alle forme da essa assunte lungo tutta l’età moderna. Spinta dalla preoccupazione ecologica, la scienza diventa consapevole di essere un sapere intorno alla vita e quindi una pratica di trasformazione delle forme vitali, che le impone di sollevarsi fino alla considerazione responsabile del suo operare. Se un tempo tutto poteva giustificarsi in nome della scienza, osserva Ott, ora invece la scienza deve procedere parallelamente alla sua capacità di giustificazione dei risultati che essa persegue. Ma poiché la scienza non può comunque trovare istanze giustificati24 ve né al di fuori, né al di sopra di sé, ne consegue che per garantire alla scienza la consapevolezza del suo operare bisogna passare ad un illuminismo riflessivo o responsabile, che Ott designa semplicemente come “illuminismo ecologico”. Secondo Ott, dunque, l’ecologia non segna una negazione del progresso, del sapere e delle pratiche tecnico-scientifiche, ma una loro riformulazione all’insegna dello stesso campo problematico da essi introdotto. Tuttavia, osserva Ott, la vigilanza sul proprio operare, a cui è chiamata la scienza, non rientra nelle sue categorie costitutive ed essa deve far conto su un altro campo del sapere, quello etico, nei confronti del quale permane comunque uno iato insuperabile. Certo, l’ecologia costituisce in tal senso un tentativo di conciliazione, anche se essa risulta ora assorbita nel massimalismo etico, ora nel minimalismo scientifico. G.B. AUTORI E IDEE La teoria della scelta razionale in Nozick Robert Nozick torna, per la seconda volta a distanza di anni, ad affrontare il tema della teoria della scelta razionale nel suo nuovo lavoro: THE NATURE OF RATIONALITY (La natura della razionalità, Princeton University Press, Princeton 1993), in cui viene fornita una soluzione al problema dell’induzione sollevato da Hume, cioè al dilemma della reciproca consistenza del principio dominante e di quello di massima probabilità. Il saggio è ideologicamente orientato verso una visione evoluzionista della realtà per cui la teoria della scelta razionale, così come le strutture della nostra società, sono il risultato di un’evoluzione darwiniana della realtà biologica. The Nature of Rationality è un saggio di natura ideologica, che parte dalla soluzione del dilemma dell’induzione di Hume per giungere all’ipostatizzazione della razionalità che estende il suo dominio sull’ordine del mondo. La natura della razionalità, così come quella di tutte le altre realtà, è biologica ed è frutto dell’evoluzione; quindi è razionale, giusta, inevitabile e dotata di valore. Due sono i principi che reggono in Robert Nozick la teoria della scelta razionale. Il primo, il principio “dominante”, afferma che se un’azione ha conseguenze più desiderabili di qualunque altra, questa sarà quella da portare a termine. Il secondo, il principio della “massima prospettiva”, espresso in termini di probabilità, sostiene che è bene performare quell’azione che ha maggiori possibilità di riuscita. In passato Nozick aveva mostrato che i due principi non erano mutualmente consistenti, utilizzando un argomento del fisico William Newcomb, che osservava come in una scommessa, col variare della quantità di denaro scommesso, si modifica anche la scelta del principio della scommessa stessa. Nozick dimostrava allora che i due principi sono reciprocamente consistenti se sono intesi come un continuo che il singolo individuo, in una determinata situazione, miscela in un certo modo. L’ultimo tentativo di risolvere il problema dell’induzione con la logica delle probabilità, ricordava Nozick a questo proposito, è quello di Rudolf Carnap che in The Continuum of Inductive Methods (Il continuum del metodo induttivo, 1952) affermava che le previsioni sul futuro possono essere fatte in diversi modi: saltare alle conclusioni, prestare attenzione a qualche evidenza, ecc. L’individuo razionale, secondo Carnap, isolaun punto significativo nel continuo ed agisce di conseguenza. La teoria della scelta razionale ha due scopi principali: la soluzione di conflitti interni, che rende possibile ad una congregazione di individui di raggiungere una decisione pratica, valutando le opinioni e senza provocare scismi; la soluzione di conflitti esterni, che permette l’integrazione democratica dei diversi interessi, conoscenze, obiettivi e meto- Robert Nozick 25 AUTORI E IDEE di d’azione tra i membri o i gruppi. La teoria della scelta razionale è quindi un fenomeno culturale e come la cultura e la storia è, per Nozick, l’esito dell’evoluzione biologica degli istinti di razionalità. Il ragionamento stesso che lo ha portato alla soluzione del dilemma è considerato da Nozick come risultato dell’evoluzione biologica e dell’adattabilità delle intuizioni in conflitto, senza individuare nessun meccanismo per la selezione. La razionalità cessa di essere una caratteristica essenziale dell’umanità, di essere universale; infatti, osserva Nozick, «la nostra razionalità, sia individuale che coordinata, [che] definisce e simbolizza la distanza che ci separa dalla semplice animalità, [...] ha reso il mondo, in vari modi, inospitale ai minori livelli di razionalità», trasformando caratteristiche co-ordinate in inferiori, fino a concludere che alcune persone sono più vicine di altre all’animalità. Il lavoro di Nozick si conclude con 35 pagine di note bibliografiche sul tema della teoria della scelta razionale. Tra gli spunti di ricerca e gli approfondimenti, Nozick propone, ad esempio, utilizzando la nozione di “utilità simbolica”, di integrare la teoria della scelta razionale, che fino ad ora è stata intesa in senso calcolistico, con una rappresentazione di tutti quei valori e interessi che l’impostazione della teoria non ha ancora permesso di esprimere. M.G. Bergson, o la filosofia come scienza rigorosa Forte di una riconosciuta stima di specialista della filosofia classica tedesca e autore di volumi fondamentali su Kant e Fichte, Alexis Philonenko ha recentemente dato alle stampe un saggio critico sull’opera di Henri Bergson, BERGSON OU DE LA PHILOSOPHIE COMME SCIENCE RIGOUREUSE (Bergson o la filosofia come scienza rigorosa, Cerf, Parigi 1994), nella prospettiva di dissipare quell’aura di “vaga sentimentalità” nella quale verrebbe confinata la filosofia da una critica superficiale. Per Alexis Philonenko, l’incontro con Bergson passa attraverso la mediazione di Georges Canguilhelm, che nel 1956 tiene le sue magistrali lezioni su Bergson alla Facoltà di Lettere dell’Università di Parigi e apre la strada ad una lettura non condizionata dal pregiudizio di irrazionalismo mistico e più fedele al rigore filosofico dell’autore del noto Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Nella convinzione che «la filosofia di Bergson si sia andata facendo, ed è questo l’atto che bisogna seguire», Philonenko ripercorre con spirito sistematico le sue opere, esponendo un sistema aperto che ha nondimeno le caratteristiche di una scienza rigorosa: «il modo di procedere di Bergson è sempre rigoroso e, quantunque sperimen- tale, si considera scienza e non poesia o sentimento». È il caso della categoria di intuizione, tensione estrema nell’apprensione delle cose, momento teoretico originario di una filosofia che afferma «il primato dello spirituale sulla materia, sia che si tratti della libertà, del ricordo o della vita». È del resto un metodo, questo, che oppone a quello scientifico una nozione qualitativa di esperienza, interiore e fondata su una percezione fluida del tempo. La scienza fisico-matematica nasce dall’esigenza di ordinare logicamente gli oggetti, creando dei simboli astratti ed un concetto “spazializzato” di tempo che frammenta il flusso continuo dell’esperienza. All’omogeneità pura dello spazio matematico dove si allineano gli enti, Bergson sostituisce l’eterogeneità pura della durata, le variazioni e le trasformazioni incessanti del flusso di coscienza, riaprendo le possibilità di un concetto qualitativo di conoscenza. Su queste basi prende le mosse quello che Philonenko definisce un «attacco alla fortezza kantiana». Kant, la cui impresa critica si vuole quale compimento della metafisica, disegnando i limiti della conoscenza, poggia sul medesimo concetto spazializzato di tempo delle scienze e si risolve a «platonizzare più rigorosamente di qualsiasi altro filosofo, (...) per giungere alla desolante constatazione di quanto la scienza sia relativa». L’autentico tentativo di superamento della tradizione filosofica spetta invece, nell’ambiziosa lettura di Philonenko, a Bergson che compie «l’atto di instaurazione della filosofia (...) A differenza del kantismo che vuole portare a compimento la filosofia, il pensiero di Bergson è il balbettio di una scienza che sta nascendo». Lettura estrema e suggestiva, questa di Philonenko, ma rigorosamente motivata a partire dai testi bergsoniani, che ha il merito di riaprire la discussione su uno tra i più significativi filosofi del ‘900. E.N. Linguaggio ed evoluzione naturale Si può ipotizzare un nesso teoretico tra ricerche sui linguaggi naturali, come quello dei sordi o di altre patologie, e scienza del linguaggio? In altri termini è possibile conciliare la linguistica chomskiana con le scienze cognitive? THE LANGUAGE INSTINCT: HOW THE MIND CREATES LANGUAGE (L’istinto linguistico: come la mente crea il linguaggio, Allen Lane, 1993), di Steven Pinker, e PATTERNS IN THE MIND LANGUAGE AND HUMAN NATURE (Modelli mentali: linguaggio e natura umana, Harvester, 1993), di Rayè Jackendoff, indicano una positiva svolta nella polemica che ha separato, fin dalla sua fondazione, il formalismo grammaticale di Chomsky dalla psicologia e dalla neuropsicologia. 26 Collaboratore di prestigio, l’uno, e brillante allievo di Noam Chomsky, l’altro, Steven Pinker e Rayè Jackendoff partono dalla convinzione dell’importanza teoretica di integrare ricerche empiriche sul linguaggio con lo studio formale ed astratto della linguistica. La recente filosofia del linguaggio, di cui i presenti saggi esaminano le acquisizioni più significative, ha infatti dimostrato che il linguaggio ha una innegabile base naturale, è anzitutto un fenomeno biologico. Da questo punto di vista, osservano i due studiosi, le principali affermazioni della linguistica circa l’elaborazione mentale del linguaggio mostrano possibili implicazioni con i modelli neurologici, dato che è ormai appurato che il cervello trasforma sistematicamente in codici le rappresentazioni mentali o le strutture di dati. Nonostante i legittimi dubbi degli studiosi di neurologia riguardo l’esistenza di modelli cognitivi, i vaghi schemi di information-processing - entusiasticamente postulati - hanno ora un solido terreno. Molte ricerche hanno ormai accertato, infatti, che il cervello effettivamente si occupa di una enorme quantità di processi che possono essere descritti e previsti attraverso modelli cognitivi di rappresentazione, e solo da questi. Se tuttavia Pinker tende maggiormente a sottolineare la molteplicità dei dispositivi conoscitivi che compongono la mente, Jackendoff propende per una visione unitaria, nella preoccupazione di rispondere alle perplessità concettuali e filosofiche riguardo all’idea di sistema interno di rappresentazione. Dal suo punto di vista, i fenomeni linguistici non sono gli unici fenomeni mentali ad essere ordinati secondo tali schemi rappresentativi. Ciò che avviene nel caso del linguaggio è anzi, secondo Jackendoff, l’esempio più chiaro, quasi il modello paradigmatico, di ogni sistema di rappresentazione. Motivo di fondo dello studio di Jackendoff è che le rappresentazioni si organizzano attorno a diverse strutture (o format), che, poi, indirizzano in vario modo le specifiche richieste su quanto può essere rappresentato al loro interno, svolgendo in tal modo una funzione “grammaticale” in senso ampio. Tutto ciò è condiviso nelle sue linee essenziali anche da Pinker, che dal canto suo sottolinea come tale organizzazione mentale coincida perfettamente con le linee evolutive darwiniane. Il maggior contributo derivante da questo primo sforzo di conciliazione tra linguistica e scienze dell’apprendimento è la maggior scientificità, in senso stretto, che gli studi chomskiani acquisiscono. Una buona scienza del linguaggio risulta in grado di riunificare la linguistica con le ricerche della psicologia e della neurologia. Ciò, d’altro canto, apre nuovi, affascinanti interrogativi e prospettive speculative sull’intero sistema evolutivo umano. A.A. AUTORI E IDEE Frank: lo stile della filosofia e la questione del mito Attraverso un’originale contaminazione della filosofia analitica con la riflessione ermeneutica, l’ultima opera di Manfred Frank, LO STILE IN FILOSOFIA (trad. it. di M. Nobile, con un saggio di M. Ruggenini, Il Saggiatore, Milano 1994) afferma la mai completa risolubilità, in un’intuizione trasparente, del “contenuto del linguaggio”, a causa dell’ineliminabilità dell’impronta individuale che il linguaggio porta con sé nello “stile”. Di Frank è stato recentemente pubblicato un altro testo, risalente al 1982, IL DIO A VENIRE. LEZIONI SULLA NUOVA MITOLOGIA (trad. it. a cura di F. Cuniberto, prefaz. di S. Givone, Einaudi, Torino 1994), che ebbe particolare rilevanza nell’ ambito della cosiddetta “Mythos-Debatte” degli anni ’80 in Germania. Che sussista una differenza tra il linguaggio della filosofia e quello della letteratura, Manfred Frank, ne Lo stile in filosofia (testo tratto dalle lezioni tenute dall’autore a Princeton nel 1990) se ne dice convinto; egli nega, però, che la specificità della filosofia nei confronti della letteratura risieda nella cogenza del contenuto veritativo della prima in rapporto alla seconda. L’elemento comune al linguaggio delle due discipline consiste, da un lato, nell’appartenenza a una tradizione, per cui il messaggio veicolato «non si lascia mai risolvere in un’intuizione trasparente»; dall’altro, nell’impronta conferita al linguaggio dal suo “stile”, che rappresenta l’ineliminabile dimensione individuale attraverso cui si verifica, da parte del soggetto, l’accesso al mondo. Dal riconoscimento di questi due aspetti del linguaggio scaturiscono una serie di questioni: in primo luogo, quella della congruenza tra il carattere individuale e irripetibile dello stile e la pretesa di universalità, implicita nella questione veritativa posta dalla filosofia; in secondo luogo, quella del ruolo che lo stile, elemento propriamente “letterario”, riveste nell’elaborazione concettuale. A partire da tali questioni, sostiene Frank, si può infine stabilire il grado di autoriflessività che il pensiero filosofico, in quanto ermeneutica cosciente della rilevanza dei propri elementi stilistici, può acquisire nei confronti di sé medesimo. Nel suo saggio Una filosofia dello stile. Verso l’intransparenza del vero, che accompagna l’edizione italiana de Lo stile in filosofia, Mario Ruggenini mostra come la ricerca avviata da Frank giunga all’affermazione di una “intransparenza del vero”, mettendo in gioco elementi provenienti dall’ermeneutica con motivi mutuati dalla filosofia analitica. La tesi di Frank di una radice individuale dell’universale si oppone all’idea di una coscienza assoluta, che nel suo potere di autoriflessione totale si presenti come assolutamente monologica. Una tale coscienza, secondo Frank, risulta incrinata proprio da quell’elemento, lo stile, che nell’ironia romantica serviva a svalutare il relativo a favore dell’assoluto, ma che, considerato nella sua irripetibilità letteraria, rappresenta la traccia indelebile dell’individuale, del relativo medesimo. “Intransparenza del vero” è appunto ciò che designa quella situazione per cui la ragione non può esaurire la propria realtà nell’atto autoriflessivo. Frank vede all’opera il paradigma della coscienza assoluta e delle sue pretese di autotrasparenza anche nel tentativo, rintracciabile nel “neostrutturalismo”, di riconduzione dell’elemento individuale, di per sé incodificabile, alle regole che presiedono alla sua formazione: il modello della sussunzione. Ascendenze di questo modello sono rintracciabili, secondo Frank, già in Aristotele, dal quale la filosofia, in quanto “scienza prima”, riceve il paradigma della propria autocomprensione. A questo paradigma si mostra fedele anche Martin Heidegger: l’esigenza di considerare come preliminare, ai fini della comprensione dell’ente, quella dell’essere, viene da Frank reinterpretata come l’affermazione relativa alla possibilità, per i soggetti, di relazionarsi all’ente solo tramite la mediazione linguistica - del senso, ovvero del significato. Contro il modello sussuntivo Frank obietta, facendo riferimento alle analisi e alle argomentazioni di Donald Davidson, che è il “fatto” linguistico che spiega le regole, e non viceversa. Nessuna regolarità può spiegare la comprensione di un’espressione; né il codice sociale può risolvere in sé (come crede l’approccio che Davidson definisce social externalism) il problema dell’accesso al senso del discorso. Sottolineando il carattere “letterario” del testo filosofico, Frank suggerisce l’ipotesi di una connotazione “estetica”, rintracciabile nell’argomentazione filosofica, rimuovendo in tal modo una consolidata distinzione di “genere” tra scrittura letteraria e scrittura filosofica. In tal senso, osserva Frank, l’uso reiterato, da parte di Wittgenstein, di “immagini” o “similitudini” riveste un significato profondamente filosofico, in quanto, nella sua difformità stilistica dal linguaggio filosofico usuale, ne persegue invece la finalità euristica più profonda: attraverso una non paradossale conformità al proprio oggetto, l’indicibile viene infatti mostrato “in quanto” indicibile, l’inesprimibile viene “detto” attraverso l’evocazione. In questo, l’analisi di Frank si oppone, da un lato, all’illusione (illuminista e positivista) di risolvere il mito nella sua spiegazione; dall’altro al misticismo di chi, insistendo sull’aspetto metaforico del linguaggio, esaurisce la spiegazione nell’evocazione, riducendo l’analisi razionale a una narrazione mitologica. All’interno della Mythos-Debatte, il dibattito sul mito sviluppatosi in Germania negli anni ’80, si colloca propriamente un’altra 27 opera di Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, ora finalmente disponibile in edizione italiana. Come ricorda Sergio Givone nella sua “Prefazione” al volume, gli autori che hanno animato questo dibattito appaiono accomunati dal tentativo di rivendicare al mito un valore di verità non contrapposto, bensì connesso a quello della razionalità. Ad essa viene delegato il compito di problematizzare il mito con l’obiettivo di giungere a una “mitologia della ragione”, secondo la definizione di Schelling che, secondo Frank, rappresenta l’esordio dell’idealismo tedesco nella sua versione estetico-romantica. Il Romanticismo per primo (non certo Nietzsche), ricorda infatti Frank, intuì «il fondo oscuro di un’antichità non classica, ossia non apollinea e non omerica: l’idea di un underground culturale che solo nell’epos apollineo trova un’espressione linguistica articolata, e un’elaborazione simbolica complessiva». Solo il Romanticismo poteva dunque porsi la “questione del mito”, ovvero la questione della razionalità, e stabilire come esigenza programmatica la loro risoluzione. Presupposto di un tale programma era che la fonte di senso della ragione rimane estranea alla ragione stessa; essa la trova davanti a sé - o, più propriamente “dietro”: dietro le spalle - come un “dato”, un “dio a venire” che è, in realtà, già da sempre dato alla ragione in quanto sostrato del suo operare. Il carattere di novità della “nuova mitologia” schellinghiana, che può parimenti essere considerata come il programma del filosofo novecentesco, consiste «nel voler salvare il mito solo per la sua funzione di legittimazione trascendente, ma non per i suoi contenuti superstiziosi». A questo programma, osserva Flavio Cuniberto nel suo saggio Una mitologia trasparente? Nota su Manfred Frank, che conclude l’edizione italiana de Il dio a venire, non appare estranea una finalità politico-culturale, oltre che filosofica: sottrarre la riflessione sul mito, e la sua utilizzazione, alla pratica di pensiero e alla politica neofascista. Intento, quest’ultimo, attuato da Frank attraverso la già ricordata contaminazione fra decostruzionismo, ermeneutica e pensiero analitico, nonché attraverso il dialogo soprattutto con la cultura francese e, segnatamente, con la figura di Jacques Derrida. In questo modo, il mito viene sottratto al suo radicamento in uno specifico contesto storico ed etnico e proiettato in una dimensione archetipica, dove esso funge, nel suo rapporto con la ragione, da entità paradigmatica. Anche per questo verso, la questione dello “stile in filosofia” trova qui le sue radici: nell’esigenza ispirata alla cultura francese - di una clarté che sappia compiere, nei confronti del mito, quella Aufklärung non totalizzante che consiste, nel contempo, nel portare la ragione a imbattersi nei propri limiti, realizzando in questo modo il programma di una “mitologia della ragione”. F.C. TENDENZE E DIBATTITI Jean-Paul Sartre Jacques Lacan, Louis Althusser Michel Foucault 28 TENDENZE E DIBATTITI TENDENZE E DIBATTITI Su Foucault In concomitanza con la pubblicazione dell’immenso lavoro di raccolta dell’opera di Michel Foucault, si moltiplicano le iniziative editoriali sull’autore scomparso dieci anni fa. Nella biografia intellettuale MICHEL FOUCAULT ET SES CONTEMPORAINS (Michel Foucault e i suoi contemporanei, Fayard, Parigi 1994), Didier Eribon si sofferma sui rapporti di Foucault con i pensatori del suo tempo, delineando un quadro del clima culturale francese di questi ultimi decenni. In MICHEL FOUCAULT , LA CLARTÉ DE LA MORT (Michel Foucault, il chiarore della morte, Odile Jacob, Parigi 1994), Jeannette Colombel, dopo aver tentato una diagnosi del presente sulla base di un’attenta lettura dei testi di Foucault, individua un punto d’incontro tra questi e Jean Paul Sartre. Un testo inedito di Gilles Deleuze, DÉSIR ET PLAISIR (Desiderio e piacere, «Magazine Litteraire», n. 325, ottobre 1994) rappresenta l’ultimo dialogo tra Deleuze e Foucault. A cura di Alain Brossat appare MICHEL FOUCAULT, LES JEUX DE LA VERITÉ ET DU POUVOIR (Michel Foucault, i giochi della verità e del potere, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994), da cui si può ricavare il taglio particolare con cui Foucault è recepito nei paesi dell’Est. Da segnalare infine due edizioni francesi di opere in lingua inglese: la biografia di David Macey, MICHEL FOUCAULT (Gallimard, Parigi 1994), e, in uscita entro l’anno, il lavoro critico di John Rajchmann, EROTIQUE DE LA VERITÉ, FOUCAULT, LACAN ET LA QUESTION DE L’ÉTHIQUE (Erotica della verità, Foucault, Lacan e la questione dell’etica, PUF, Parigi 1994). Risale a cinque anni fa la prima biografia su Michel Foucault ad opera di Didier Eribon. Vi si raccontava del legame di Foucault con Louis Althusser, della sua iscrizione al Partito Comunista, della sua difficoltà a vivere l’omosessualità e delle influenze che questa aveva avuto nel suo percorso intellettuale, pur senza presentarla come unica chiave interpretativa. La parte iniziale della nuova biografia che Eribon dedica a Foucault è incentrata proprio sulla ricezione che ha avuto il suo precedente lavoro. Riveduto e arricchito da numerose appendici, questo nuovo volume rappresenta infatti, per Foucault, l’occasione per ribattere alle obiezioni che gli sono state rivolte da più parti. Pur senza stabilire un rapporto diretto di causa-effetto tra vita e opera, Eribon suggerisce che l’esperienza di marginalità vissuta dal pensatore francese lo avrebbe sensibilizzato a ogni forma di esclusione. A sostegno di questa tesi è riportata un’illuminante affermazione di Foucault contenuta in L’intellettuale e i poteri: «Ho sempre sostenuto che ognuno dei miei libri è in qualche modo costituito da frammenti di autobiografia: i miei libri sono sempre stati i miei problemi personali con la follia, la prigione, la sessualità». Successivamente Eribon passa in rassegna i legami che Foucault ha intrattenuto con alcuni dei maggiori intellettuali del tempo. Innanzittutto Georges Dumezil, “un vero modello intellettuale” per Foucault, nonostante l’abisso che separava le loro convinzioni politiche: Dumezil era stato in gioventù un simpatizzante di Azione francese, mentre Foucault, influenzato da Althusser, aveva aderito al Partito comunista. Il rapporto con Althusser, racconta Eribon, si instaurò nel 1946, quando tutti e due «camminavano con equilibrio instabile sulla linea di creta che separa la ragione dalla follia». All’insegna dell’omosessualità invece fu la relazione con Dumezil. Successivamente Eribon si occupa dei rapporti con la coppia Sartre e Beauvoir, della disputa tra strutturalismo e umanismo, del dibattito sul dopo ’68, dell’insegnamento della filosofia. Tra gli altri, compaiono anche Lacan e Habermas nei loro punti d’incontro-scontro con la traiettoria di Foucault, che si trova così inserita nel contesto allargato della vita intellettuale francese di questi ultimi decenni. Particolare rilievo è dato alla relazione di stima e ammirazione instaurata con Roland Barthes. In Michel Foucault. La clarté de la mort, Jeannette Colombel, senza mai abusare dell’amicizia che le fu offerta, si “limita” a interrogare le opere di Foucault così da «evitare la doppia ignominia del sapiente e del familiare», come ammonisce Jilles 29 Deleuze, citato in esergo al volume (e al cui dialogo con Foucault è dedicato il prologo). A partire dall’opera fucaultiana, Colombel getta uno sguardo sul presente, ovvero mette le opere di Foucault in situazione: dal flagello dell’AIDS alla Bosnia, emerge la straordinaria fecondità di queste riflessioni che, se opportunamente recepite, danno spunti per leggere la nostra epoca. L’ “attualità” era d’altronde uno dei soggetti preferiti di Foucault, tant’è che soleva definirsi uno “storico del presente”, attribuendosi il compito di rendere visibili le opacità contemporanee che si traducevano in esclusioni e marginalizzazioni. Il confronto con Sartre, avanzato da Colombel, intende mettere in luce i punti di convergenza tra due pensatori ritenuti spesso agli antipodi, soprattutto in seguito alla polemica suscitata dalla pubblicazione di Le parole e le cose, di cui Colombel fornisce un resoconto, citando la risposta di Sartre, contenuta nel numero di «Arc» del 1966, dedicato a Foucault. Il punto d’incrocio tra i due, che rimangono comunque irriducibili, riguarda la questione della “costituzione del soggetto morale” e della soggettività. Sartre è presentato, più che come un sostenitore della filosofia della coscienza, come colui che per primo ha rotto con il cogito fondatore di Kant e Husserl: è da un ambito impersonale, attraverso una molteplicità di atti, di “estasi” che per Sartre si costituisce la soggettività. In Sartre troviamo un rifiuto della vita interiore analogo a quello presente in Foucault, che in Il pensiero del fuori, scritto in omaggio a Blanchot, sostiene la scomparsa del soggetto a favore del linguaggio. Se si considerano le analisi condotte a partire da Sorvegliare e punire, si potrebbe essere indotti a collocare il potere al centro dell’interesse di Foucault. Ma in un’intervista rilasciata nel 1983, egli stesso precisa: «Non è il potere, ma il soggetto che costituisce il tema generale delle mie ricerche». La delineazione della “microfisica dei poteri” si rivela così, osserva Colombel, funzionale alla messa in luce di «una “storia” dei modi di soggettivazione nella nostra cultura»: il metodo genealogico, ovvero la ricerca dell’origine di strutture divenute ormai abituali e delle soggettività a cui hanno dato luogo, consentiva di TENDENZE E DIBATTITI problematizzarle e mettersi al riparo da ogni loro ipostatizzazione e passiva accettazione. Da parte sua, Sartre ritiene che la soggettività sia irriducibile alla storia pur essendo ad essa relativa, tant’è che pone la “situazione” come condizione di possibilità della libertà, come ciò a partire da cui «il soggetto crea dei valori attraverso i suoi atti e la sua condotta». A sua volta Foucault, partendo dalle strutture e dalle posizioni in esse occupate dai soggetti, fa riferimento alla libertà come scelta etica, come conquista in fieri del soggetto: «lavoro indefinito sui nostri limiti, fatica paziente che dà forma all’impazienza della libertà». Sul terreno di una morale non prescrittiva Colombel fa dunque incontrare due pensieri che prevedono l’esigenza di una libertà interna alle strutture in cui il soggetto è inserito e in cui deve costituirsi come soggetto morale. La problematica etica è anche il motivo che regge l’accostamento tra Foucault e Lacan proposto da John Rajchmann in Erotique de la verité, Foucault, Lacan et la question de l’éthique. Nonostante l’avversione di Foucault per la psicoanalisi, che fa della sessualità una questione di desiderio e del desiderio l’essenza dell’uomo, questi avrebbe in comune con Lacan la ricerca dei rapporti tra soggettività e verità. I punti di convergenza e di divergenza tra Foucault e Gilles Deleuze li si può ricavare, invece, da un testo inedito di Deleuze dedicato a Foucault, Desir et Plaisir, e ora pubblicato in «Magazine Littéraire». Più che di una critica, si tratta del tentativo di Deleuze di riprendere il dialogo con un amico di vecchia data, dialogo un tempo intenso e che si era poi interrotto in seguito alla recensione di Deleuze all’opera di Foucault, Sorvegliare e punire (1975), apparsa su «Critique». I temi trattati da Foucault in questa sua opera - la questione del potere, delle sue tecniche, dei modi di esercitarlo, dei suoi rapporti col sapere - sono al centro dell’incontro organizzato nel giugno del 1993 a Sofia e di cui sono stati pubblicati di recente gli atti con il titolo: Michel Foucault, les jeux de la verité et du pouvoir. La raccolta mostra come l’opera di Foucault sia particolarmente letta e utilizzata nell’Europa dell’Est come analisi delle forme di governabilità, che appoggiandosi su articolazioni di saperi e poteri, si esercitano sia a livello di Stato che di individuo. La biografia dedicata a Foucault da David Macey, sebbene ricca di dettagli sulla sua vita, rimane spesso a livello poco critico, poco interpretativo: Macey riporta le circostanze della nascita delle opere di Foucault, ne ricorda i temi principali e segue le trasformazioni della loro ricezione. Più che di una biografia intellettuale, si tratta qui, in realtà, di una biografia evenemenziale. Se la pratica filosofica di Foucault è indissociabile dal suo impegno militante - «Ogni volta che ho cercato di fare un lavoro teorico - dichiara lo stesso Foucault - è stato a partire da elementi della mia esistenza, sempre in rapporto con dei processi che vedevo dispiegarsi intorno a me» - un’interpretazione che non si faccia carico di questa dinamica tra vita e pensiero, è destinata a rendere un Foucault monco, sfigurato. A.M. La filosofia del linguaggio di Davidson Le indagini di Donald Davidson sulla natura degli eventi, sulla teoria causale dell’azione e sulle relazioni tra mente, corpo e verità, sulle condizioni di possibilità della teoria del significato, sul rapporto tra linguaggio e interpretazione e sull’aspetto sociale del linguaggio, trovano un ampio e preciso riscontro in alcune recenti pubblicazioni. VERITÀ E INTERPRETAZIONE (trad. it. a cura di E. Picardi, il Mulino, Bologna 1994), che raccoglie i più importanti saggi di filosofia del linguaggio di Davidson, analizza temi portanti del dibattito odierno in campo analitico sui caratteri e le condizioni della teoria del significato, il rapporto tra linguaggio e interpretazione, l’aspetto sociale e pubblico del linguaggio. LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE (trad. it. a cura di L. Perissinotto, Unicopli, Milano 1993) riporta il saggio di Davidson sui malapropismi, che giunge a negare l’esistenza del linguaggio, e le risposte critiche di Ian Hacking e di Michael Dummett, che invece pongono in primo piano il ruolo dell’interpretazione, per la comprensione degli enunciati e l’esistenza e la natura del linguaggio, e il ruolo delle convenzioni. A questi scritti di Davidson fa riscontro il saggio critico di Davide Sparti, SOPPRIMERE LA LONTA NANZA (La Nuova Italia, Firenze 1994), che pone la domanda se la teoria dell’interpretazione di Davidson possa dar conto della diversità interculturale e linguistica e della loro interpretazione. I più importanti saggi di filosofia del linguaggio di Donald Davidson sono disponibili oggi in traduzione italiana, rivisti e modificati dall’autore, nel volume: Verità ed Interpretazione (una raccolta analoga, dedicata alla filosofia dell’azione, Essays on Actions and Events, del 1980, è stata pubblicata in edizione italiana nel 1992 con il titolo: Azioni ed eventi). Nella prima parte della raccolta, che riporta il titolo: “Verità e Significato”, Davidson si chiede quale tipo di teoria della verità possa costituire una teoria del significato nei termini di una nozione di interpretazione valida per tutti gli enunciati attuali e possibili del 30 linguaggio. Secondo Davidson l’unica nozione appropriata è quella di soddisfacimento di un enunciato, cioè quella che rende la correlazione tra realtà e linguaggio; mentre quelle di corrispondenza e coincidenza sono da rifiutare. La nozione di soddisfacimento, osserva Davidson, è correttamente formulata da Tarski per mezzo delle tabelle di verità, con il merito di mostrare anche il suo carattere composizionale. La teoria della verità costituisce la semantica formale per i linguaggi naturali, che va ad affiancarsi alla sintassi formale di Chomsky. Il progetto di Davidson intende porsi come un progetto globale; per questo, nella seconda parte del volume, denominata “Applicazioni”, egli cerca di “addomesticare” i casi idiomatici della citazione, del discorso indiretto e degli operatori per il modo verbale. La citazione e il riferimento indiretto sono risolti dall’autore come casi speciali del riferimento dimostrativo delle parole nell’immediato contesto discorsivo. Il caso degli operatori del modo verbale, invece, può essere spiegato analizzandolo separatamente dalle forze illocutorie attraverso un’analisi paratattica, nei limiti della teoria della verità tarskiana. Nella terza parte, denominata “Interpretazione radicale”, Davidson si interroga come una teoria della verità, per un parlante, possa essere verificata senza far uso della nozione di significato. Per Davidson una tale verifica può essere condotta solo indirettamente, attraverso lo studio della struttura dell’assenso, utilizzando il metodo formulato nel principio di carità. Questo ci permette di separare che cosa si vuole significare da che cosa si crede e di scegliere tra le teorie dell’interpretazione quella che permette la comprensione tra i parlanti, obiettivo della comunicazione verbale. Tuttavia, il principio di carità, osserva Davidson, è criticabile nella misura in cui dà per scontato che l’ascoltatore conosca molte delle credenze del parlante e che solo l’individuo provvisto di linguaggio possieda una struttura degli atteggiamenti proposizionali perfettamente sviluppata. Le ricadute filosofiche della sua concezione sono illustrate da Davidson nella quarta parte del volume, dal titolo: “Linguaggio e Realtà”. Ciò che emerge, in primo luogo, è l’imperscrutabilità del riferimento, dato che la teoria della verità è verificata dai suoi stessi teoremi, che stabiliscono a quali condizioni l’enunciato è vero, non per quale oggetto esso è verificato. In secondo luogo emerge la similarità dei metodi con cui ognuno di noi guarda il mondo; il che comporta anche la correttezza, nelle sue linee generali, della visione del mondo. Contro il relativismo concettuale Davidson mostra come il linguaggio non sia uno schermo o un filtro, annullando con ciò il dualismo contenuto-schema e scalzando la possibilità dell’empirismo. Infine, nella quinta parte del volume, “Limiti del letterale”, Davidson investiga i TENDENZE E DIBATTITI limiti della teoria del significato, che deve essere ampia, ma allo stesso tempo ristretta, per poter essere sistematizzabile. A tale proposito Davidson si interroga sui casi linguistici limite come le metafore, i malapropismi e i lapsus linguae, nella convinzione che siano analoghi ai casi dei proferimenti incompleti o grammaticalmente confusi e delle parole inedite e che quindi non costituiscano un’eccezione, ma una realtà onnipresente e pervasiva nella nostra pratica linguistica. Il significato usato negli enunciati metaforici, afferma Davidson, non può che essere quello letterale, altrimenti le metafore risulterebbero incomprensibili. Per quanto riguarda il limite dell’adeguatezza delle teorie, Davidson sostiene che essa è stabilita sul campo, non utilizzando regole formalizzate nella teoria, ma grazie all’intuito dell’interprete, in cui si presuppone la capacità di elaborare teorie. A quest’ambito problematico del pensiero di Davidson appartiene anche il saggio Una graziosa confusione di epitaffi, che compare nel volume curato da Luigi Perissinotto, Linguaggio e interpretazione, unitamente alle risposte critiche di Ian Hacking, La parodia della conversazione, e di Michael Dummett, Una graziosa confusione di epitaffi: alcune note su Davidson e Hacking (i tre saggi costituiscono l’ultima parte della raccolta a cura di E. Lepore: Truth and Interpretation. Perspectives on the Philosophy of Donald Davidson, del 1986). Nel saggio Una graziosa confusione di epitaffi, Davidson descrive che cosa implica l’idea di avere dimestichezza con la pratica linguistica e come è possibile applicare ai singoli proferimenti questa padronanza, mostrando come ciò sia inspiegabile senza la nozione di interpretazione e senza un concetto di linguaggio come convenzione e, dal punto di vista del suo utilizzo, come applicazione meccanica di regole generali acquisite. Un tale progetto porta Davidson alla conclusione provocatoria che non esiste un qualche cosa come il linguaggio. Ponendosi in un contesto dialogico, Davidson ritiene che la conoscenza del linguaggio sia data nei termini di una teoria transitoria e di una anteriore. La prima è costituita dalla lista dei nomi usati nel discorso e dei significati letterali delle parole; la seconda può essere identificata con l’idoletto, cioè il linguaggio di un determinato parlante, spazialmente e temporalmente situato, che contiene tutte le nostre conoscenze linguistiche e non sull’interlocutore. Nella pratica comunicativa i due parlanti, che prima di dialogare possiedono la teoria anteriore, sviluppano le rispettive teorie transitorie, che interagendo con le teorie anteriori le modificano. La comprensione linguistica dei parlanti dipende, secondo Davidson, dall’abilità nel far convergere le teorie transitorie, a partire da vocabolari e grammatiche private, per mez- zo di strategie non comunicabili, constatato che le regole sono irrilevanti teoricamente, ma non pragmaticamente. Nel suo saggio di risposta alla concezione di Davidson, Ian Hacking nota come la negazione dell’esistenza del linguaggio e la contemporanea esistenza di molti linguaggi formali ponga Davidson sullo stesso punto di partenza di Tarski, ma in opposizione a questi, dal momento che per Davidson è necessaria la precomprensione della verità per poter ottenere il significato, mentre per Tarski è necessaria la conoscenza del significato per giungere alla verità degli enunciati. Inoltre Hacking rileva che la sistematicità del linguaggio non richiede ricorsività, come vuole Davidson, la cui visione olistica del linguaggio è per Hacking insostenibile, non essendo confermata dall’esperienza e risultando incompatibile con la descrizione della comunicazione nei termini di teoria transitoria. Infine, osserva Hacking, se consideriamo il linguaggio come un insieme di regole unitario e monolitico e affermiamo che non esiste il linguaggio, allora non esistono nemmeno i vari linguaggi “L” che ne sono parte e i rispettivi enunciati “vero-in-L”. L’unica lettura accettabile delle conclusioni di Davidson, ribadisce Hacking, è quella di negare l’esistenza di un unico linguaggio totale, di vocabolari e linguaggi privati, e affermare l’esistenza di molteplici linguaggi debolmente connessi, provenienti dalle varie comunità linguistiche in cui viviamo; ciò permetterebbe di spiegare sia l’errore che la correttezza linguistica. Conclude la raccolta curata da Perissinotto un saggio di Michael Dummett, Una graziosa confusione di epitaffi: alcune note su Davidson e Hacking, in cui l’autore cerca di chiarire quale siano lo scopo e la natura della teoria anteriore e transitoria (ribattezzate “teoria a lungo raggio” e “teoria a breve raggio”) che determinano la nozione di significato, di linguaggio e l’obiettivo della proposta di Davidson. Questi, osserva Dummett, intende dare un resoconto totale della comprensione linguistica, estendendo le conclusioni dello studio dei casi non-standard a quelli standard, per determinare quali sono le abilità linguistiche che il parlante deve conoscere. Considerando innegabile l’esistenza del linguaggio comune come modello comunicativo, Dummett riformula la proposta di Davidson, introducendo la nozione di teoria di secondo grado - ossia di teoria di teoria. Nella pratica linguistica, osserva Dummett, le intenzioni hanno bisogno, per manifestarsi, delle convenzioni relative alle comunità linguistiche; di fatto la padronanza della pratica linguistica è una conoscenza a metà strada tra quella teorica e quella pratica, dato che non si può sapere che cosa sia in effetti una pratica fino a quando non la si padroneggia. Individuando due possibili spiegazioni del linguaggio, una schematica (teoria del significato 31 corredata dai principi di collegamento) e una reale (attività linguistica come padronanza di una pratica), Dummett ritiene, infine, che sia stata la tentazione di descrivere la nostra abilità linguistica come una conoscenza teoretica ciò che ha portato Davidson ad affermare l’inesistenza del linguaggio. Un ulteriore approfondimento delle concezioni di Davidson può essere tratto dalle considerazioni critiche di Davide Sparti, espresse nel saggio Sopprimere la lontananza uccide, che affronta il tema della differenza nel linguaggio, interrogandosi sulla natura della comprensione dello straniero. Lo straniero è non solo l’immigrato ma anche il nativo estraniato per situazioni di incertezza, conflitto o cambiamento, esperienze queste che si pongono fuori dall’ambito razionale analizzato da Davidson. Sparti affronta la concezione di Davidson, muovendo dalle sue considerazioni critiche sul relativismo degli schemi concettuali, in cui si esprime la non coincidenza del mondo e del linguaggio con il nostro raggio del mondo e del linguaggio. La possibilità di errori o di una interpretazione parziale richiede per Davidson l’appello al “principio di carità”, che instaura una relazione inscindibile tra semantica, razionalità e interpretazione radicale. Ma questo, rileva Sparti, porta Davidson a reintrodurre il dualismo mondo-schema, che era stato eliminato per mezzo della nozione di causa, considerata un requisito fondante del principio di carità. Tale nozione, benché sia definita come a-significante e appartenente all’ambito extra linguistico, sottopone e determina gli atteggiamenti cognitivi. In base a queste considerazioni, Sparti individua all’interno della proposta di Davidson una insanabile tensione tra la spinta olistico-emergentista e normativa, che comporta una semantica intensionale per gli atteggiamenti cognitivi e linguistici dell’uomo, e la spinta realistico-causale che, centrata sulla nozione di causalità, adotta una semantica estensionale per potersi riferire agli oggetti ed agli eventi esterni che ci caratterizzano. La filosofia di Davidson, osserva Sparti, mostra dunque di appartiene ancora all’empirismo che pretendeva di superare. Riferendosi alla nozione di interpretazione, proposta da Davidson sulla base delle idee di regola, condizione di asserzione, uso, ecc. di Wittgenstein, Sparti critica il progetto esternalista e quello olistico-cognitivo di Davidson. Per quanto riguarda il progetto esternalista, Sparti rileva che in Davidson la causa è sottodeterminata dall’interpretazione, cioè non esiste nessuna causa autoreferenziale che si applichi a se stessa, determinando il suo contenuto intenzionale; anzi, per una sola causa si possono dare molte interpretazioni. Gli enunciati stessi, continua Sparti, sono agiti secondo l’uso linguistico, non interpretati o causati. In definitiva, l’immagine TENDENZE E DIBATTITI di interpretazione formulata da Davidson risulta insufficiente, e la nozione di comprensione è troppo concettuale e astratta rispetto a quella che ha luogo nelle interazioni sociali. Per quanto concerne invece il progetto olistico-cognitivo di Davidson, Sparti rileva una sottovalutazione dell’importanza dell’intenzione come motore dell’azione a favore dei desideri e delle credenze. Al modello causale o intenzionale, Sparti oppone, come più adeguato, quello del recettore, che pone nell’agire ciò che determina il significato e nelle condizioni d’uso, che ricostruiscono continuamente il principio di carità, la fonte per la recezione del significato da parte dei recettori. Il rifiuto del progetto olistico-cognitivo esternalista è da ricercare, secondo Sparti, nell’illegittimità della riduzione della comprensione alla capacità di traduzione-interpretazione; anzi è proprio la traduzione a portare a fraintendimenti e anomia. La proposta di Davidson deve essere, in tal senso, invertita, affinché si comprenda senza tradurreinterpretare, cioè senza dover ridimensionare i processi dell’interpretazione. Solo considerando contemporaneamente la proposta causalista ed esternalista di Davidson e quella contingente e serialista di Wittgenstein possiamo avere un’immagine globale della comprensione del significato. Queste valutazioni preliminari servono a Sparti per affrontare, in Davidson, il tema della differenza culturale e del possibile rapporto con essa, quindi i legami tra interpretazione, traduzione e le interruzioni della comprensione sociale, in riferimento all’esperienza dello “straniero”, cioè della diversità culturale, linguistica e della loro interpretazione. L’esperienza rara, accidentale e anomala di estraniamento dello straniero si genera, per Sparti, a seguito di un’interpretazione parziale che avviene in un ambito esterno alla zona di razionalità, in cui, per Davidson, si ha il riconoscimento della persona in quanto tale. Negando l’esistenza di forme traducibili e tuttavia nettamente alternative in termini di credenze e razionalità, che comportino un fondamentale accordo umano e comunità autoreferenziali, Davidson misconosce la specificità, la varietà e la radicale situazionalità del noi. A questo Sparti obietta che solo nel mutuo confronto tra le comunità si ha il riconoscimento e la comprensione reciproca che produce l’identità e la distinzione sociale: l’estraneo o lo straniero è necessario per la formazione e la ritenzione della nostra identità. Sparti, in altri termini, contrappone alla proposta di Davidson di una comunità cognitiva, razionale, individualista, basata sull’assunto non dimostrato di unità cognitiva dei suoi individui, quella di una comunità di comunicanti che, salvaguardando le connessioni di usi, atti, tecniche e asserzioni che gli uomini instaurano tra di loro, conserva la diversa identità dello straniero. Tra i recenti testi critici che affrontano l’opera filosofica di Davidson è opportuno segnalare, in questo contesto di riflessione, il saggio di J. E. Malpas, Donald Davidson and the mirror of meaning (Donald Davidson e lo specchio del significato, Cambridge 1992). L’opera si articola su due livelli: il primo fornisce un’esegesi della riflessione più recente di Davidson riguardo l’indipendenza ontologica dei contenuti mentali dell’interpretazione, la teoria della causalità e i suoi rapporti con il significato e il principio di carità; il secondo sviluppa oltre la lettera la sua posizione olista collegandola alla tradizione fenomenologica e heideggeriana. L’opera di Malpas è articolata in sette capitoli. I primi due capitoli sono dedicati alla presentazione delle linee generali della filosofia di Davidson e di quella del suo maestro W. V. O. Quine. I tre capitoli successivi si occupano dell’olismo, dell’indeterminatezza e del principio di carità. Infine, gli ultimi due capitoli trattano delle questioni metafisiche ed epistemologiche, sollevate dall’interpretazione, come lo scetticismo, il relativismo, il realismo e la verità. In particolare, anche se non in misura così ampia quanto promette il titolo del testo, Malpas rivolge l’attenzione al rapporto di rispecchiamento tra la struttura psicologica e quella dell’interpretazione che permette a Davidson di spiegare l’indipendenza ontologica dei contenuti mentali dall’interpretazione, senza che quest’ultima debba svelare tali contenuti. Partendo dalla concezione di Davidson, Malpas sviluppa una teoria olistica che prende a prestito dalla fenomenologia e dall’ermeneutica le nozioni di “intenzione” e di “orizzonte” e vi aggiunge quella di “progetto”. In questo, tuttavia, Malpas viola oltre che la lettera, anche le intenzioni di Davidson, affermando che la corretta caratterizzazione della nozione di verità è quella di aletheia, di verità come disvelamento, proposta da Heiddeger. Tale nozione, osserva Malpas, è contenuta implicitamente nella concezione di Davidson, secondo cui la comprensione è insita nel dialogo e nell’implicazione con il mondo. M.G. Geofilosofia Con il titolo GEOFILOSOFIA viene pubblicato il primo numero di una nuova rivista, «MILLEPIANI», diretta da Tiziana Villani e promossa dall’associazione culturale “Mimesis”, il cui intento consiste nel realizzare «un progetto-laboratorio che avvii una riflessione sul Moderno, e sui principali percorsi di pensiero che lo attraversano». Il saggio di apertura, Geofilosofia, che dà il titolo a questo primo numero della rivi32 sta «Millepiani», è frutto della collaborazione fra Gilles Deleuze e Felix Guattari ed è tratto da Qu’est-ce-que la philosophie? (1991). Si tratta una riflessione che vuol porsi come topologica, “a partire dal luogo”, anziché come gnoseologica, ontologica, etica o politica, a partire dalla relazione fra soggetto e oggetto. Secondo Deleuze e Guattari, il pensiero e l’agire dell’uomo si collocano in una logica di dislocazione, di deterritorializzazione e successiva riterritorializzazione, che costituiscono l’essenza tanto della pratica politica, quanto di quella filosofica. Lo Stato, sia quello moderno, sia la polis greca, opera una deterritorializzazione, perché considera il territorio in base a finalità (economiche, politiche), a “misure”, che esorbitano da esso; ma anche la filosofia nasce da un’operazione deterritorializzante, attraverso lo straniamento semantico-concettuale di strumenti linguistici decontestualizzati rispetto alla cultura da cui provengono. D’altra parte, ogni deterritorializzazione comporta una riterritorializzazione: una nuova identità nello Stato; una nuova referenzialità semantica nel concetto. In questa prospettiva, fa notare Tiziana Villani nel suo intervento: Verità e divenire. Attualità e necessità del nomadismo, lo sradicamento diventa un atto strategico dell’esercizio di verità: in ciò consiste la “nomadologia”, la proposta di un “sapere nomadico”, che si faccia carico dell’erranza e delle verità nel loro sorgere dai “luoghi comuni”. La sortita dal luogo comune si attua attraverso una pratica dell’eccesso, che è nel contempo deterritorializzante, in quanto rottura della ritualità dei percorsi consuetudinari, e contestualizzante, in quanto richiesta di una ricollocazione in un “progetto”. A questa prospettiva si oppone ciò che Paul Virilio, nel suo Utopia o teletopia, definisce come “mediatizzazione totale dell’umanità”, quella “mondializzazione” che identifica l’u-topia, l’assenza di luogo, con la tele-topia, in quanto lontananza da ogni luogo. Tale lontananza si qualifica come indifferenza dei luoghi, e risulta essere il fondamento di quell’atteggiamento che, richiamandosi a Peter Sloterdijk, Pierre dalla Vigna, in Metamorfosi del moderno. Nomadismi e transizioni nel pensiero contemporaneo, definisce come “neocinismo”, in quanto «accoglimento di ogni cosa nell’indifferenziato», come “adesione all’indifferenziato”. Nella sua radicalità antiteologica, questo atteggiamento, insieme trasformistico e opportunista, costituisce l’essenza della prassi politica nella modernità, e rinvia a una visione dell’essenza umana più pessimistica che disincantata. Alla possibilità di ricostruzione del soggetto agente è orientato anche il saggio di Adelino Zanini, Sottrarsi alla vista. I paradigmi dell’esodo, della fuga, dell’abbandono, del “sottrarsi a” rinviano tutti, sottolinea Zanini, all’idea di movimento: TENDENZE E DIBATTITI il nomadismo si qualifica dunque, in via immediata, come un “pensiero del territorio”, nel senso che non può fare a meno di “pensare il territorio”, almeno nella forma dell’abbandono, ma anche in quella della sua ricerca. Esso si qualifica però, al contempo, come pensiero della pluralità; nella sua erranza il soggetto cambia molti luoghi, e con ciò muta esso stesso, si muove in contesti non congruenti, irriducibili l’uno all’altro, diventa altro, “straniero”; si sottrae alla presenza, alla vista, a uno sguardo, cioè, omnicomprendente ed esaustivo. F.C. Su Nietzsche Tra gli scritti che intendono analizzare l’eco di risonanza della filosofia nietzscheana nella cultura contemporanea segnaliamo l’opera di Steven Aschheim, THE NIETZSCHE LEGACY IN GERMANY (L’eredità di Nietzsche in Germania, University of California Press, Berkley 1992) e tre recenti studi di Antimo Negri, NIETZSCHE NELLA PIANURA. GLI UOMINI E LA CITTÀ (Spirali, Milano 1993), NIETZSCHE. LA SCIENZA SUL VESUVIO (Laterza, Roma-Bari 1994) e INTERMINATI SPAZI ED ETERNO RITORNO (Le Lettere, Firenze 1994). Steven Aschheim analizza le diverse interpretazioni del pensiero nietzscheano in Germania nell’età contemporanea, individuando tre filoni interpretativi. Il primo si afferma all’inizio del Novecento e vede Nietzsche come il dissacratore delle tradizioni e delle verità precostituite, considerate come pregiudizi ideologici. Il secondo, assolutamente antitetico al primo, si manifesta tra la prima e la seconda guerra mondiale, in virtù anche alla manipolazione operata dalla sorella del filosofo, e pone la filosofia di Nietzsche come paradigma dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo. Dopo la seconda guerra mondiale, nota Aschheim, grazie a pensatori come Derrida, prende corpo la tendenza a considerare Nietzsche padre del decostruzionismo, ambio tradizionale del pensiero liberaldemocratico, opposto al nazismo. Questa varietà di interpretazioni, osserva Ascheim, mostra come sia impossibile collocare stabilmente Nietzsche all’interno dell’origine o della derivazione di una qualche corrente ideologica. Il pensiero nietzscheano è fluido e soggetto a infinite interpretazioni ed è proprio questo, ricorda Aschheim, che costituisce l’autenticità del suo messaggio. La riduzione di questa molteplicità di interpretazioni ad una sola scuola di pensiero, conclude Aschheim, non farebbe che distorcere l’originarietà del suo pensiero in forme del tutto estranee alla sua intenzione teoretica. Per Antimo Negri, invece, rintracciare in Nietzsche un “manifesto politico” è comunque impossibile e illegittimo. Nel suo studio: Nietzsche nella pianura. Gli uomini e la città, Negri oserva come la posizione nietzscheana vada innanzitutto compresa attraverso le coordinate del riferimento alla cultura antica, da un lato, e alla critica dei valori (e, dunque, delle ideologie), dall’altro. Il realismo tucidideo si coniuga, in Nietzsche, con l’antidemocraticismo di Teognide. L’aristocraticismo che ne consegue non si fonda dunque in nessun modo, secondo Negri, su un estetismo di stampo dannunziano (il culto della bellezza, che la massa non riesce a comprendere), bensì su una visione che, pretendendosi disincantata, giudica e condanna infingimenti e dissimulazioni a suo giudizio ideologici, quali le teorie egualitarie, il mito del progresso; ma anche la retorica vitalista o biologico-razziale. La pianura o la “palude”, cui Nietzsche pure guarda (e in ciò consiste la sua dimensione “politica”), va indagata con gli occhi del realista Tucidide, che sa vedere come la polis costituisca il necessario risultato delle passioni di cui gli uomini sono in balìa, piuttosto che il frutto di un loro calcolo razionale. Di qui l’infondatezza delle retoriche politiche (da D’Annunzio a Mussolini, da Rensi a Heidegger), reazionarie o progressiste che siano, superomiste o egualitarie, che si configurano, perciò, come mitologie. La prospettiva di Nietzsche, al di là (o al di qua) delle sue eredità e delle sue manipolazioni, si delinea dunque come una visione politica non ideologica, fondata sulle acquisizioni di una “volontà di potenza” che si presenta, anzitutto, come physis dell’uomo. In Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, Negri mostra come il messaggio nietzscheano e la cultura dionisiaca siano fortemente radicati nell’età contemporanea. La scienza viene collocata sul Vesuvio in quanto ha perso quel margine di universalità che la caratterizzava nella sua fondatezza. La “gaia” scienza, al contrario, è posta alle pendici del Vesuvio, soggetta, nella sua leggerezza e fragilità, al continuo rischio di frane ed eruzioni. Negri analizza la “cultura del vulcano” nell’epistemologia e nell’estetica contemporanee, riscontrando anche in autori, normalmente non legati a Nietzsche, elementi di forte connessione. In ambito epistemologico, infatti, Popper e Mach rappresentano la caduta dell’oggettivismo, tipica della filosofia nietzscheana. Il primo per l’affermazione dell’inesistenza di una vera e propria “logica” nella scoperta scientifica (le palafitte su cui si erge la scienza popperiana ricorderebbero le pendici vesuviane), mentre il secondo per il sensualismo che, come il prospettivismo di Nietzsche aveva ridotto i fatti a interpretazioni, circoscrive gli elementi del mondo a sensazioni. In ambito estetico Negri ritrova la filosofia nietzscheana nell’incontro tra impressionismo ed espressionismo, tendenze che meglio sintetizzano il rovesciamento del rapporto tra soggetto e oggetto. La tensione del soggetto verso l’oggetto dell’espres33 sionismo e il turbamento del soggetto da parte dell’oggetto dell’impressionismo si incontrano infatti, ad esempio, ne “L’Urlo” di Munch, che rappresenta, allo stesso tempo, il grido dell’uomo verso la natura e il suo contrario. Anche la musica, prosegue Negri, reca l’impronta nietzscheana: oltre alla musica di Wagner, la “Carmen” di Bizet, in particolare, coglie il senso di quell’amore dionisiaco che sfugge a qualsiasi istituzione, come il matrimonio, che lo svuoterebbe del suo senso originario. Restando ancora in ambito estetico, in Interminati spazi ed eterno ritorno, Negri affronta il rapporto tra Nietzsche e Giacomo Leopardi. Il legame fondamentale tra i due consiste nella produzione letterariofilosofica, che scavalca i generi classici per raggiungere nuove forme di espressione. Il poetare pensante di Leopardi, infatti, viene accostato da Negri al pensare poetante di Nietzsche attraverso l’analisi di diverse opere, come lo Zibaldone di Leopardi, che contiene riflessioni filosofiche espresse in forma poetica, o lo Zarathustra di Nietzsche, dove nella pratica della “danza della penna” il verso sostituisce e accompagna il concetto. La convergenza formale dei due autori è dovuta, secondo Negri, all’impostazione post-metafisica e anti-hegeliana che accomuna i due autori in una nuova utilizzazione del linguaggio che rispecchia quella visione del mondo in cui, dopo la “morte di Dio”, ogni dimensione, tra cui quella letteraria, viene distorta e riadattata. La concezione decentrata, o post-copernicana, dell’uomo, posto alla periferia dell’universo, è ciò che accosta, secondo Negri, Nietzsche a Leopardi. Ma non solo: l’universo materialistico, privato della presenza di Dio, si muove, per i due autori, di un moto ciclico e infinito che riproduce se stesso inesorabilmente, senza lasciare alcuna libertà all’individuo. L’eterno ritorno nietzscheano viene ricondotto, così, al riprodursi meccanicistico della natura leopardiana, insensibile e indifferente all’uomo, sempre più solo. A questo proposito può essere interessante confrontare queste considerazioni con le valutazioni su Nietzsche espresse da Gabriele D’Annunzio in due recensioni e in due altri scritti dedicati al filosofo e ora raccolti nel volume: Su Nietzsche (a cura e con postfazione di D. Valenti, De Martinis, Catania 1993). D’Annunzio, che non leggeva il tedesco, venne a conoscenza del pensiero nietzscheano grazie alla mediazione della cultura (e della lingua) francese. Le problematiche del superomismo e del disprezzo per le masse, delle quali si sarebbe nutrita la poetica (se non la poesia) dannunziana, trovano qui il loro cespite. Le recensioni dannunziane appaiono significative per la ricezione non solo italiana di Nietzsche, anche perché mostrano il carattere anzitutto estetico di tematiche sulle quali, successivamente, farà leva l’interpretazione “politica” di Nietzsche da parte del nazismo. A.S. TENDENZE E DIBATTITI Martin Heidegger, Carl Schmitt Schmitt e Heidegger di fronte al nazismo La pubblicazione in Germania della prima biografia completa di Carl Schmitt ad opera di Paul Noack: CARL SCHMITT (Propyläen, 1993), ha suscitato sulla stampa tedesca vaste e profonde reazioni. Nell’analisi sulla vita e le opere del brillante giurista della repubblica di Weimar, considerato con Ernst Jünger il battistrada della dittatura nazista, Noack mette in dubbio non solo l’autenticità della sua conversione al regime hitleriano, ma considera il pensiero politico e giuridico di Schmitt “innocente e atemporale”. In tono di riabilitazione di un altro importante pensatore tedesco coinvolto con il nazismo, Martin Heidegger, si esprimono anche lo studio di Francois Fediér, HEIDEGGER E LA POLITICA (trad. it. di M. Borghi, Egea, Milano 1993), e quello di Ernst Nolte, MARTIN HEIDEGGER TRA POLITICA E STORIA (trad. it. di N. Curcio, Laterza, RomaBari 1994). «Il Führer protegge il diritto dal peggiore abuso se al momento del pericolo, in forza della sua stessa natura di Führer, crea direttamente il diritto come supremo capo giudiziario». Con queste parole inizia l’articolo tristemente famoso Der Führer schützt das Recht (Il Führer protegge il diritto), con il quale Carl Schmitt giustificava gli assassinii ordinati da Hitler il 30 giugno del 1934; un articolo che dovrebbe togliere ogni dubbio sulla fede nazionalsocialistica del suo autore. Eppure sull’autenticità dell’adesione di Schmitt al regime hitleriano permangono ancor’oggi non pochi dubbi. Per Paul Noack, l’adesione di Schmitt al nazismo fu “occasionale”: «un cattivo uso delle sue teorie, uno sbandamento politico, un’iperreazione, forzata dalla crisi della repubblica di Weimar». Per questo, sostiene Noack, è giunto il momento di «riammettere Carl Schmitt al circolo delle idee», in quanto autore di un pensiero giuridico e politico «innocente e atemporale». Fu dunque un “errore” politico quello che portò Schmitt a considerare il sistema nazionalsocialista come l’incarnazione dell’auspicato Stato totale, espressione dell’ “omogeneità” sociale che aveva nel rapporto “amico-nemico” il cardine della sua politica? Negli anni della repubblica di Weimar, gli scritti di Schmitt sulla teoria del diritto erano tra i più letti e discussi, considerati unanimamente come punto di riferimento decisivo sull’attuabilità del sistema democratico in Germania. Come consigliere del governo Hindenburg, Schmitt fornì le giustificazioni teoriche e giuridiche al sistema presidenziale che governò la Germania 34 dal 1930 al 1933 con decreti di emergenza. Furono dunque il suo sostegno attivo al governo presidenziale, i compromessi nella prima fase del governo di Hitler e soprattutto la sua fama di Kronjurist del Terzo Reich, che per Noack hanno portato a interpretare le sue opere scritte prima del 1933 come «le fondamenta giuridiche dello stato nazista» e quindi ad esporlo a «numerose e ingiustificate censure». Furono dunque la paura, l’ambizione e la vanità a determinare il modo in cui Schmitt reagì ai vari cambiamenti nei quali si trovò coinvolto. Noack sembra convinto che se ci si dimentica dell’ “uso” errato che hanno subìto le sue teorie, il pensiero di Schmitt si presenta come un modello di orientamento politico e giuridico straordinariamente attuale. È questo il caso, in particolare, della sua critica al parlamentarismo e più in generale al liberalismo, presente nello scritto del 1923, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno), dove vengono denunciati non solo le disfunzioni della vita parlamentare di Weimar, ma gli inconvenienti “strutturali” del parlamentarismo stesso, quali l’egemonia dei partiti, la lottizzazione dei pubblici poteri, l’abuso dei privilegi, la politocrazia, le ricorrenti crisi di governo, la separazione tra elettori ed eletti. Per questi motivi Schmitt credeva che la democrazia e il parla- TENDENZE E DIBATTITI mentarismo liberale non fossero la stessa cosa. Per uscire dall’empasse occorreva un’istanza decisionistica in grado di affermare la sovranità super partes dello Stato, identificata da Schmitt nel presidente del Reich quale Hüter der Verfassung (custode della costituzione). I commentatori tedeschi della biografia di Noack si sono trovati daccordo nel ritenere che se è corretto nei confronti di Schmitt leggere le sue opere scritte prima del 1933 indipendentemente dall’orizzonte politico della dittatura nazista, questo atteggiamento non appare altrettanto corretto nei confronti della sua opera. Il motivo ricorrente delle critiche all’opera di Noack riguarda la stessa possibilità di pensare oggi una «dittatura sana», definita da Schmitt in Die Diktatur (La dittatura, 1921) «l’essenza dello Stato moderno», in grado di collegare l’istanza democratica con quella dello Stato forte. Tuttavia, proprio in questo testo, nella distinzione tra «dittatura commissariale», che non abroga la costituzione vigente, e «dittatura assoluta», Noack coglie la maggiore distanza di Schmitt dal nazismo. Molte delle idee di Schmitt sul diritto costituzionale e sul governo, osserva Noack a questo proposito, sono state incorporate nella costituzione di Bonn della Repubblca Federale, in particolare le limitazioni alle modifiche costituzionali mediante emendamenti, per evitare che il sistema possa fornire gli strumenti legali per la propria distruzione. Tuttavia occorre sottolineare a questo riguardo che anche quando prima del 1933 Schmitt optò per la dittatura di von Schleicher, la sua costruzione teorica non si distingueva da quella nazista. Infatti il regime nazista restò una «dittatura commissariale» in quanto non abolì la costituzione di Weimar nel suo complesso, ma pose nello stesso tempo fuori gioco tutte le garanzie democratiche e di diritto dello Stato, lasciando inviolato solo il diritto alla proprietà. Al tempo stesso il nazismo è stato una «dittatura sovrana» perché concentrò nell’esecutivo anche la facoltà legislativa arrogandosi anche il potere costituente. Questo sistema coincideva così fin nel dettaglio con lo stato interventista e divenne, secondo le teorie di Schmitt, uno «stato di eccezione» permanente. Se uno dei motivi della recente renaissance del pensiero di Schmitt è dovuto all’indiscutibile potenziale teorico, ciò che nelle analisi di Noack resta in ombra è proprio la critica al parlamentarismo, fondata su conoscenze di teoria del diritto e di sociologia del diritto che non sono presenti nelle sue opere di primo piano. Nell’intento di riabilitare la figura di Martin Heidegger dal coinvolgimento con il nazismo, Francois Fediér imposta la sua difesa su due argomentazioni: in primo luogo lo smantellamento delle tesi di Victor Farias; in secondo luogo la dimostrazione dell’incompatibilità delle intenzioni filosofiche di Heidegger con la effettiva rea- lizzazione nazista. Nella prima parte del suo studio Fediér analizza tutti gli episodi biografici che costituiscono, secondo Farias, una chiara prova di collusione tra Heidegger ed il nazismo, presentandoli come irrilevanti o addirittura come dimostrazioni dell’indipendenza del filosofo rispetto all’ideologia nazista e antisemita. Nella seconda parte Fediér affronta il legame reale tra Heidegger e la politica del suo tempo, dimostrando che in Heidegger l’intervento effettivo del pensiero filosofico sull’azione reale necessitava di un organismo in grado di farsene carico. La riabilitazione dell’università tedesca, operata da Hitler, rappresentava in tal senso l’occasione migliore. La Rede del ’33 annunciava appunto il progetto di riforma dell’università, che sarebbe dovuta diventare la guida destinale del popolo tedesco verso la propria redenzione. L’intenzione heideggeriana, infatti, era quella di una vera e propria rivoluzione nazionalsocialista che, con l’eliminazione della dialettica tra le diverse classi sociali, avrebbe portato il lavoro di ogni individuo al servizio della nazione e lo avrebbe elevato a strumento spirituale di coesione dei popoli. Nel 1933 Hitler sembrava rappresentare la possibilità concreta per questa trasformazione e Heidegger confuse il proprio progetto con il suo. Ma quando, un anno dopo, nel piano hitleriano il concetto di nazione diventava quello fanatico di razza, Heidegger prendeva le distanze dal suo incarico universitario e dal progetto di rivoluzione nazista. La mancanza di una abiura pubblica nei riguardi della scelta del ’33 è dovuta, secondo Fediér, non ad una mancata condanna verso il nazismo, bensì alla concomitanza della ricerca di un nuovo tipo di pensiero che riuscisse a pensare l’impensato e che coincideva con il silenzio. Più incisivo nell’analisi politica e filosofica è lo studio di Ernst Nolte, che non vede nelle dimissioni di Heidegger del ’34 un rifiuto dell’ideologia nazionalsocialista, quanto una posizione più complessa. Me- Manifesto per la “Giornata del Partito” a Norimberga nel 1934 35 TENDENZE E DIBATTITI diante l’analisi parallela della vita e del pensiero di Heidegger, Nolte, differenziandosi dalle tesi di Fediér, dimostra chiaramente che esiste una profonda continuità tra il periodo antecedente e quello posteriore al rettorato del ’33, testimoniata dal rifiuto del cattolicesimo, dalla paura del comunismo e dalla necessità di un destino diverso e rivoluzionario per il popolo tedesco. Il pericolo del marxismo, avvertito durante la Repubblica di Weimar e confermato più volte anche dopo la seconda guerra mondiale, spinge Heidegger a ricercare nel nazionalsocialismo quella soluzione rivoluzionaria che avrebbe salvato i tedeschi dall’appiattimento e dallo sradicamento, causati dalla tecnica, e avrebbe fornito quei valori che, al posto del cattolicesimo, avrebbero portato l’uomo ad una più alta considerazione di se stesso e del proprio popolo. Il progetto di Heidegger consisteva nella istituzione di una sorta di polis tedesca, in cui tutti i lavoratori, costituendo un’unità culturale, avrebbero oltrepassato la dicotomia metafisica di soggetto e oggetto che aveva caratterizzato, sino ad allora, il destino dell’Occidente. Lo Studium generale dell’università da lui prospettato, infatti, istituiva quell’unità tra insegnante e studente che, sul piano spirituale, rappresentava l’unità tra lavoratore e datore di lavoro. Il vizio di fondo di tale progetto consisteva, certamente, nella presunzione che la filosofia potesse farsi carico di una tale trasformazione della realtà, e i riferimenti alla Repubblica di Platone testimoniano questa tendenza. Secondo Nolte, comunque, al momento dell’investitura di Hitler a cancelliere del Reich niente faceva presagire la profonda discrepanza tra il progetto heideggeriano e l’effettiva realizzazione del nazismo. Per questo, una volta manifestatosi, nella sua interezza, il progetto hitleriano, Heidegger si è mosso su due piani: la rivendicazione del proprio progetto nazionalsocialista, come l’unico ed autentico, e il distacco da quello di Hitler, considerato inadeguato e spesso paragonato al comunismo e all’americanismo, movimenti di massa e nichilisti. Heidegger non fece mai autocritica perché il suo progetto, non essendo mai stato nazista nel senso hitleriano del termine, era assolutamente estraneo all’antisemistismo. Per questo, sostiene Fediér, la responsabilità personale di Heidegger di fronte agli orrori del nazismo è praticamente nulla. Il suo silenzio sull’accaduto diventa, così, il risultato di «chi pensa in grande ed in grande è costretto ad errare», mentre il progetto per una soluzione diversa, anche manifestato in forme differenti, resterà sino alla morte. M.C./A.S. Hobbes, e oltre Si deve in particolare all’opera di Yves Charles Zarka, direttore di un progetto di ricerca su Hobbes presso il CNRS di Parigi, la serie delle iniziative (seminari, convegni, pubblicazioni) sulla storia e sulla teoria della moderna filosofia etica e politica. Oltre alla traduzione delle opere di Hobbes, tra le recenti pubblicazioni, frutto di questo gruppo di ricerca, segnaliamo: RAISON ET DÉRAISON D’ETAT, (Ragione e sragione di Stato, a cura di Y. C. Zarka, Puf, Parigi 1994) e L’INTERPRETAZIONE NEI SECOLI XVI E XVII (a cura di G. Canziani e Y. C. Zarka, F. Angeli, Milano 1993). Per quanto riguarda le iniziative seminariali, nell’anno 1993-1994 si è tenuto a Parigi un seminario dal titolo: “JEAN BODIN: NATURA, STORIA, DIRITTO E POLITICA”. Il seminario è stato accompagnato da due giornate di studio e un colloquio. La prima delle due giornate di studio ha avuto luogo alla Sorbona, il 30 aprile 1994, ed è stata dedicata al tema: “TEOLOGIA E POLITICA IN HOBBES ”. Una seconda giornata è stata organizzata a Parigi il 21 maggio 1994, sul tema: “DALLA RESISTENZA ALLA RIVOLTA: LA POLITICA DEI MONARCOMACHI (XVI E XVII SECOLO )”. Il colloquio, organizzato in collaborazione con il Centre de recherches politiques Raymond Aron, si è invece tenuto a Parigi, all’EHESS, il 17 e il 18 giugno 1994 sul tema: “SOVRANITÀ E GOVERNO: JEAN BODIN E I TEORICI DELLA RAGION DI STATO”. Il progetto di ricerca, diretto, dal 1988, da Yves Charles Zarka, riunisce ricercatori francesi e stranieri di differenti discipline attorno a un intento iniziale di traduzione in lingua francese delle opere complete di Hobbes. Pubblicate presso le edizioni Vrin di Parigi, le opere già tradotte sono, a tutt’oggi, quattro: Béhémoth (tr. franc. di Luc Borot) e Dialogue des Common Laws (tr. franc. di Lucien e Paulette Carrive), editi nel 1990; De la liberté et de la nécessité e Hérésie et histoire (tr. franc. di F. Lessay), pubblicati nel 1993. In mancanza di un’edizione completa nella lingua originale, e a causa delle lacune della maggior parte delle edizioni parziali, tali traduzioni forniscono un strumento di lavoro indispensabile per tutti i ricercatori che s’interessano a Hobbes, grazie anche, in particolare, a un’accurato apparato critico che permette di reperire e di correggere le imperfezioni delle edizioni dei testi originali. Quanto alla presentazione, ogni volume comporta un’introduzione storica relativa all’opera e al suo contesto, un apparato critico comprensivo delle differenti lezioni delle edizioni dell’epoca e delle divergenze fra queste e i manoscritti stessi. Non mancano inoltre precise annotazioni storiche, un quadro delle corrispondenze fra la traduzione francese e altre edizioni 36 del testo originale, glossari e indici analitici. Quest’ampia impresa si avvale della stretta collaborazione fra filosofi, anglicisti e latinisti e proseguirà nel 1995 con la pubblicazione di Questions concernant la liberté, la nécessité et le hasard (tr. franc. di L. Foisneau e di F. Perronin) e di Eléments de la loi (tr. franc. di M. Triomphe). La traduzione delle opere di Hobbes non è un progetto isolato, bensì è accompagnato da una serie di ricerche strettamente connesse e che si aprono a compasso sul pensiero politico moderno. A questo scopo, Zarka ha costruito una rete europea di ricerche congiunte sulla filosofia moderna. Solo per L’Italia, numerose sono le collaborazioni con il Centro di studi del pensiero filosofico del XVI e del XVII del CNR di Milano (direttore: Guido Canziani), con l’Istituto Luigi Firpo di Torino (direttore: Enzo Baldini), con il Dipartimento di Filsofia - Progetto bilaterale CNR di Pisa (direttore: Onofrio Nicastro), con l’unità di ricerca su “Ragione di Stato: teoria e storiografia” del CNR di Trento (direttore: Diego Quaglioni). Uno degli interessi maggiori di questo gruppo di ricerca è lo studio dei fondamenti metafisici dell’etica e della politica del XVII secolo. L’idea iniziale di Zarka è stata quella di estendere all’insieme del secolo il metodo di ricerca utilizzato ne La décision métaphysique de Hobbes. Conditions de la politique (La decisione metafisica di Hobbes. Condizioni della politica, 1987), che intendeva riattivare il senso della problematica etico-politica, inscrivendola nel contesto dottrinale in cui appare, e nel valutare gli spostamenti (o i prolungamenti) che tale problematica provoca nel preciso ambito concettuale che prende avvio con la tarda scolastica e si sviluppa pienamente nel XVII secolo. Tale approccio metodologico lasciava emergere una storia filosofica della filosofia, capace di mettere in luce i presupposti teorici di un’opera, inquadrandola nel contesto di elaborazione dei maggiori concetti dell’etica e della politica moderne e mettendo in evidenza il peso teorico degli spostamenti terminologici e concettuali, presenti in questa o in quell’opera. Tra i progetti di seminario organizzati in questi ultimi anni dal gruppo di ricerca, l’anno 1989-1990 fu consacrato alle ricerche sulla lessicografia hobbesiana, che confluirono nella pubblicazione del volume collettivo: Hobbes et son vocabulaire (Hobbes e il suo vocabolario, 1992). Nel 1990-1991, l’attenzione si rivolse all’analisi delle complesse relazioni fra Locke e Hobbes (alcuni risultati furono pubblicati nel n. 37/1993 della rivista «Philosophie»). Nell’anno 1991-1992, al centro delle ricerche fu il tema della ragione di Stato, che diede origine al volume: Raison et déraison d’Etat. Nel 1992-1993, nuovo impulso è stato dato all’analisi della storia dei sistemi, attraverso un’indagine sulle fonti scolastiche della filosofia morale e politi- TENDENZE E DIBATTITI ca del XVII secolo, con l’intento di ricostruire nessi teorici comuni tra tradizioni apparentemente estranee. Una parte di questo lavoro di ricerca sarà pubblicato nel 1995, nel volume: Aspects de la pensée médiévale dans la philosophie politique moderne (Aspetti del pensiero medievale nella filosofia politica moderna). Il seminario dell’anno 1993-1994, dal titolo: “Jean Bodin: natura, storia, diritto e politica”, ha inteso raccogliere i risultati più recenti della ricerca sul pensiero di Bodin. Marie-Dominique Couzinet ha proposto una ridefinizione dell’idea di metodo alla luce della cultura filosofica della fine del secolo XVI, richiamando in particolare l’attenzione sul sapere geografico nel pensiero di Bodin. John Salmon si è occupato principalmente dell’eredità di Bodin in Inghilterra e in Germania; mentre Claude-Gilbert Dubois ha messo in relazione il concetto di nazione di Bodin con la cultura dell’epoca, confrontando l’immagine “nazionalista” di Bodin con la realtà della nazione francese. Gérard Mairet si è interrogato invece sul fondamento metafisico della sovranità ne Les six livres de la république (I sei libri della repubblica). Tra le altre comunicazioni, Vincenzo Piano Mortinari si è occupato di Bodin come giureconsulto; François Berriot ha analizzato il concetto di natura in uno scritto poco conosciuto, Le Théâtre de la nature universelle (Il teatro della natura universale); Pierre Magnard ha proposto una lettura delle teorie religiose di Bodin e Nicole Jacques-Chaquin ha sottolineato l’importanza del problema della stregoneria. Due giornate di studio e un colloquio hanno arricchito e sviluppato la ricerca sviluppata nel seminario. Il colloquio: “Sovranità e governo: Jean Bodin e i teorici della ragion di Stato”, ha messo in luce i legami tra la teoria bodiniana della sovranità e le teorie della ragion di Stato, tanto francesi, quanto tedesche che italiane, che ripresero una quantità notevole di concetti e di posizioni di Bodin, considerato, al pari di Aristotele e di Machiavelli, una fonte perenne di elaborazione teorica. La distinzione bodiniana tra Stato e governo è apparsa infatti come una condizione della razionalizzazione delle pratiche di governo, sviluppata dalle dottrine della ragione di Stato, anche se una delle principali preoccupazioni di Bodin era di fondare una teoria giuridica dello Stato, mentre la corrente dottrinale della ragion di Stato considerava l’azione politica in termini di deroga alla legge comune o al diritto comune. Simone Goyard-Fabre ha richiamato l’attenzione sullo statuto giuridico del magistrato, insistendo sulle connessioni fra politica e giurisprudenza. Diego Quaglioni si è occupato dell’edizione latina de La République (1586), soffermandosi, in particolare, sull’espressione: Imperandi ratio, che nell’edizione latina traduce gouvernement et administration con il nuovo significato di moyen d’exercer la souveranité. Nella teoria bodiniana della sovranità e dei suoi limiti, secondo Quaglioni, bisogna ricercare la “radice ideologica” della ragion di Stato. Marie-Dominique Couzinet ha analizzato la ripresa, da parte di Bodin, della teoria machiavellica della conservazione dello Stato, dimostrando come Bodin tenti di fare di questa teoria una scienza che, concepita sul modello della medicina, riposa sulla conoscenza del naturale dei popoli e delle cause naturali delle trasformazioni delle repubbliche (conversiones rerum publicarum). Il rapporto fra obbedienza politica e obbligazione giuridica è stato al centro dell’intervento di Gianfranco Borrelli, il quale ha affermato come i teorici della ragion di Stato, Botero in particolare, oppongano alla teoria bodiniana d’una sovranità assoluta e impersonale una teoria delle tecniche politiche in grado di disciplinare i soggetti. Silvio Suppa ha voluto mettere in rapporto la riflessione sulla sovranità di Machiavelli e di Bodin all’interno del processo più generale di formazione della ragione moderna, seguendo la linea di ricerca di Horkheimer. Alberto Tenenti ha insistito sulla diversità delle concezioni della ragion di Stato nelle differenti città italiane nella seconda metà del XVI. Enzo Baldini ha sottolineato l’importanza dei primi scritti di Bodin, De regia sapientia (1583) e Dispregio del mondo (1584), e ha attirato l’attenzione sui primi critici italiani contrari alle teorie di Bodin, come Botero, Minucci e Innocenzo IX, ricordando il ruolo del cardinale Facchinetti come ispiratore dei principali scritti anti-machiavellici e anti-bodiniani in Italia intorno al 1588. Michel Senellart, ha presentato un’analisi della ricezione di Bodin presso i teorici tedeschi della prudenza civile del XVII. Yves Charles Zarka ha concluso il colloquio con un’accurata riflessione sulle nozioni di Stato e di governo in Bodin e nei teorici della ragion di Stato, mettendo a fuoco tre livelli di rapporto: tra sovranità e deroga; tra Stato e governo; tra conservazione dello Stato e prudenza politica. Quanto alle due giornate di studio, nella prima, dal titolo: “Teologia e politica in Hobbes”, G. A. J. Rogers si è occupato del rapporto fra legge naturale e legge morale, dimostrando come la teoria delle leggi di natura sia suscettibile d’una doppia lettura, secolare e religiosa, dove quest’ultima si giustifica soprattutto per la preoccupazione, manifestata da Hobbes, di tener conto della cultura religiosa dei suoi contemporanei. Martine Pécharmann, intervenendo sui rapporti fra logica e teologia, ha messo in evidenza i fondamenti e le difficoltà in Hobbes di pensare la prova dell’esistenza di Dio. Luc Foisneau, facendo riferimento alla riflessione hobbesiana sui fondamenti dell’obbedienza civile, ha analizzato la teoria secondo cui la mortalità naturale degli uomini procede 37 dalla volontà divina, sottolineando come il “mortalismo”, che Hobbes condivide con lo scrittore Milton, acquista nel suo sistema un significato filosofico importante. Infine, Tom Sorell ha dimostrato che se Hobbes non elimina Dio, lo relega comunque ai confini del suo sistema. Nella seconda giornata di studio, “Dalla resistenza alla rivolta: la politica dei monarcomachi (XVI e XVII secolo)”, Arlette Jouanna ha proposto un’interpretazione storica della questione del dovere della rivolta, a partire da un’analisi della funzione del contratto, inteso come principio di legittimazione della resistenza politica. Marie-France Renoux-Zagamé ha presentato i grandi temi della teologia politica della Lega, sottolineando la difficoltà d’unificare un pensiero indissolubilmente legato al contesto polemico delle guerre di religione. Paulette Carrive si è occupata in particolare di Georges Buchanan, mentre Jean Fabien Spitz si è interessato al rapporto fra Locke e i monarcomachi, nel quadro di una storia delle origini della moderna filosofia politica in una prospettiva meno continuista di quella proposta da Skinner. I lavori del gruppo di ricerca su Hobbes proseguiranno quest’anno (1994-1995) con una riflessione sul pensiero di Grotius (per informazioni: GDR O988, “Recherches sur Hobbes et sur la philosophie éthique et politique du XVII siècle”, 7 rue Guy Mocquet, BP n°8, 94801 Villejuif cedex). L.F. Su Marx e il marxismo Il volume CARLO MARX: È TEMPO DI UN BILANCIO , a cura di Paolo Sylos Labini (introd. di G. Becattini, Laterza, RomaBari 1994), raccoglie scritti di autori tra economia e filosofia, che in alcuni casi tracciano un’analisi decisamente negativa della dottrina marxista, in altri la rivalutano, riconoscendo al marxismo forti meriti sia in campo ideologico, che economico. Un confronto tra Comte e Marx sul tema del progresso come fenomeno socio-politico e scientifico è sviluppato da Giovanni Magistrale in NEUTRALIZZAZIONE SPOLITICIZZAZIONE - IPERPOLITICIZZAZIONE (Schena, Fasano di Brindisi 1994). Il volume curato da Paolo Sylos Labini, Carlo Marx: è tempo di un bilancio, è frutto del dibattito, svoltosi tra il ’91 e il ’93 sulla rivista di Pietro Calamandrei, «Il Ponte», circa la validità del sistema marxista, dando adito a posizioni anche molto critiche nei confronti delle concezioni economiche e dei presupposti ideologico-culturali elaborati da Marx. Sylos Labini considera il marxismo responsabile, da un lato, dell’avanzare del fascismo, dall’altro della dittatura e dello sfruttamento di clas- TENDENZE E DIBATTITI se; le responsabilità si accentuano, secondo Sylos Labini, in tema di conflitto di classe, inteso da Marx come il motore della storia. Per tali motivi Sylos Labini ritiene necessario dissociarsi dalla dottrina economica ed etica marxista, che a suo parere ha favorito l’inserimento di elementi di corruzione nei partiti comunisti, determinando il fallimento economicosociale e ideologico. Di pareri opposti sono Siro Lombardini e Giorgio Lunghini, che ritengono il Marx economista ancora un punto di riferimento utile, che non può essere ignorato, dal momento che le concezioni del marxismo restano ancora a fondamento di ideologie che rivestono un ruolo di rilievo nella dinamica politica internazionale. La grandezza di Marx, sostengono i due autori, sta nell’aver preso come oggetto di indagine non il denaro, la merce, l’alienazione, lo sfruttamento, il lavoro, ma le forme che queste categorie assumono nel modo capitalistico di produzione. Lombardini, in particolare, rivaluta l’utopia marxiana nella realizzazione di una società democratica a partire da una riflessione sul ruolo degli emarginati, attribuendo meriti, in tal senso, sia al Marx economista, che al Marx ideologo. Lunghini opera invece un confronto tra Marx e il marxismo, osservando che la rivoluzione di cui il marxismo si è fatto portavoce non coincide con quella voluta da Marx, a cui viene riconosciuto il merito di essere stato critico nei confronti di un utopismo “marxista”. Anche Bruno Jossa non condivide la critica di Marx come responsabile teorico del socialismo e dello stalinismo, sollevata da Sylos Labini. Che Marx abbia commesso grossi errori di valutazione, osserva Jossa, è innegabile; ma è altrettanto innegabile che egli abbia impostato nel giusto modo il problema di una trasformazione dei rapporti di produzione in ambito economico: da questo non si può prescindere nel fare un bilancio critico su Marx e le sue teorie. Nel contesto di riflessione sulla validità attuale della teoria marxiana, un interessante spunto è offerto da Giovanni Magistrale, che in Neutralizzazione - Spoliticizzazione - Iperpoliticizzazione mette a confronto le teorie di Comte e Marx riguardo alla questione del progresso. La teoria di Comte, osserva Magistrale, cerca di coniugare scienza (ordine) e progresso, di fondare un ordine sociale sulla base del progresso; ordine dinamico, evolutivo, che garantisce stabilità senza escludere il cambiamento. Ciò che Comte rifiuta del progresso è il riduzionismo matematico-biologico, legato ad una ragione pianificatrice; per Comte la storia della società (e quindi anche il progresso) è dominata dalla storia dello spirito umano, che non segue un processo cumulativo ma, un cammino pluralistico, evoluzionistico. Comte ritiene di poter confidare nel pro- gresso; ma solo in un progresso che vada contro le leggi del potere e che difenda la consapevolezza del carattere trasformatore della realtà, che è imprevedibile e che non può essere sottoposta ad una forzata coerenza logica. Ciò che piuttosto si verifica è un’alternarsi di egoismo e di altruismo, che conduce ad un equilibrio di forze e di posizioni. Di parere più drastico è Marx che, secondo Magistrale, attacca la teoria del progresso, attribuendole inconsistenza; il progresso, come lo hanno designato i suoi sostenitori e fondatori, per Marx risulta astratto, irrealizzabile, dal momento in cui nella realtà assistiamo a continui regressi e movimenti circolari. Differentemente da Comte, osserva Magistrale, Marx critica in modo evidente la dottrina del progresso, ma non formula alcun compromesso; l’unica progresso che prospetta è la lotta contro l’alienazione, contro la società alienata, che non permette alcun progresso, né scientifico, né umano. D.M. Sul pregiudizio morale e il diritto alla vita Tra i recenti studi in ambito etico che affrontano il problema del rapporto tra necessità biologica e legge morale si segnala il saggio di Annette Baier, già presidente dell’American Philosophical Association, MORAL PREJUDICES: ESSAYS ON ETHICS (Pregiudizi morali: saggi sull’etica, Harvard UP, Harvard 1994), che rivendica spazio alle leggi biologiche nelle norme etiche e sprona ad affermare la professionalità di una filosofia “al femminile”. Le fa eco Ronald Dworkin, che in LIFE DOMINION: AN ARGUMENT ABOUT ABORTION AND EUTHANASIA (Il dominio della vita: discutendo di aborto ed eutanasia, HarperCollins, 1993) esamina dal punto di vista formale le spinose questioni del “diritto alla vita”. La tendenza di molti studiosi di morale a sviluppare una meta-teoria etica della natura dell’obbligazione morale, definisce quella linea platonico-kantiana, secondo la quale, osserva Annette Baier, «essere persona “non” è essere nato uomo o donna, ma piuttosto non essere nati affatto; anzi, germogliare da qualche fertile campo noumenico, completamente formati ed educati». Da ciò consegue una visione antinaturalistica della ipseità umana, astratta ed astorica. Muovendo dalla critica ai due capisaldi della filosofia moderna, il cogito cartesiano e la kantiana volontà noumenica, Baier sostiene che la tanto declamata indipendenza dalle circostanze, la ricerca di incondizionalità e di rigore sono i prodotti tipici di una cultura patriarcale. Di contro, 38 Baier preferisce considerare il soggetto morale innanzitutto come organismo biologico, alla stregua di quanto affermato già da Darwin e sviluppato nelle loro teorie morali da Dewey e MacIntyre. Lo sforzo di Baier, tuttavia, non consiste solo nel riconoscimento della dignità della donna di fronte alla legge morale, né nella semplice difesa delle reciproche differenze sessuali. Al centro della sua argomentazione vi è la critica al concetto di obbligazione, così come viene codificato dalla tradizione. «Se il dovere di educare con amore i propri figli - afferma Baier - venisse aggiunto alla lista delle obbligazioni morali, la maggior parte delle teorie della giustificazione degli obblighi cadrebbe in contraddizione». È infatti assurdo ipotizzare “il dovere di amare”, come se si trattasse di una necessità, dato che il “dovrei” implica il “posso”. Da ciò Baier conclude che «dalla morale liberale non può discendere nessuna coerente guida», soprattutto su questioni come la guerra, l’aborto e i doveri materni. Sulla valutazione morale di problemi relativi alle cosiddette situazioni-limite della vita interviene Ronald Dworkin, nel suo Life’s Dominion, in cui il concetto di “diritto” viene invocato in difesa della vita, contro aborto ed eutanasia. A questo proprosito, Dworkin afferma che attribuire diritti a qualsiasi entità implica, da un lato, che la difesa dei diritti di un essere equivale a pronunciarsi sull’importanza di proteggere i suoi “interessi”; il che è possibile solo se si suppone l’esistenza di una forma di “coscienza”, la qual cosa, tuttavia, non sarebbe sostenibile nel caso dei feti. D’altro lato, osserva Dworkin, si possono legittimamente supporre e difendere i diritti umani anche nelle situazioni-limite solo se si riconosce l’intrinseco valore della vita. Per quanto riguarda l’argomento del valore, fa notare Dworkin, la vita umana rappresenta due differenti tipi di processi creativi. Dal punto di vista naturale, la vita stessa nasconde qualcosa di miracoloso con il suo fiorire e crescere da una dotazione genetica. D’altro canto, dal punto di vista della consapevolezza, la vita rappresenta «non solo un esempio biologico, ma un nuovo inizio per la cultura e l’individualità, un’opportunità per creare inediti significati nel mondo». In tal senso Dworkin ritiene che i disaccordi sul tema dell’aborto e dell’eutanasia possano essere riletti alla luce delle profonde divergenze circa l’importanza morale di queste due dimensioni nella valutazione intrinseca delle vite umane. A.A. PROSPETTIVE DI RICERCA PROSPETTIVE DI RICERCA S̆pet: ermeneutica ed estetica La traduzione quasi contemporanea in lingua tedesca e italiana di due importanti testi del filosofo russo ˘ Gustav G. Spet, allievo di Husserl, che diffuse e sviluppò in modo originale la fenomenologia nel suo paese, rende per la prima volta accessibile al pubblico dell’Europa occidentale il pensiero di uno dei più interessanti filosofi russi del nostro secolo. Mentre in Germania viene pubblicato lo studio ˘ di Spet: DIE HERMENEUTIK UND IHRE PROBLEME (L’ermeneutica e i suoi problemi, a cura di Alexander Haardt e Roland Daube-Schackat, trad. ted. dal russo di E. Freiberger e A. Haardt, Alber, Friburgo-Monaco di Baviera 1993), in Italia giunge a termine, con la pubblicazione del saggio: MOMENTI ESTETICI NELLA STRUTTURA DELLA PAROLA (trad. it. di E. Klein, in «Kamen’. Rivista di poesia e filosofia», n. 4, dicembre 1993), la traduzione dei FRAMMENTI ˘ DI ESTETICA, in cui Spet sviluppa i principi della propria analisi ermeneutica e fenomenologica del segno nell’ambito dell’estetica e dello studio della letteratura. ˘ Nato a Kiev nel 1879, Gustav G. Spet conclude i propri studi universitari con la dissertazione Il problema della causalità in Hume e Kant. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, diventa docente di Filosofia nell’Università di Mosca, ove fonda un centro di studi di “psicologia etnica”, ed entra a far parte del “Circolo linguistico di Mosca”, uno dei centri principali del formalismo russo. Escluso dall’Università per ˘ motivi politici nel 1923, Spet si concentra sulla propria attività di vicepresidente dell’Accademia di stato delle scienze dell’arte, dalla quale viene però estromesso nel 1929. Da questo momento si guadagna da vivere come pubblicista e traduttore: a lui si devono le versioni russe di opere di Dickens, Byron e Shakespeare e della Fenomenologia dello spirito di Hegel, terminata nel 1937, ma pubblicata solo nel 1959. Arrestato nel 1935 con l’accusa di “attività anti-sovietiche”, viene confinato a Jenisejsk e a Tomsk. Di nuovo arrestato nel- l’ottobre 1937, viene ucciso dalla polizia segreta staliniana il 16 novembre dello stesso anno. Come nel caso di altri pensatori russi di questo secolo (N. Berdjaev, S. Bulgakov, ˘ S. L. Frank), anche il pensiero di Spet conosce, sotto l’influsso del neo-kantismo, una transizione “da Marx a Kant”. La svolta decisiva viene però a seguito del˘ l’incontro di Spet con la fenomenologia di Husserl, risalente ad un viaggio di studio in Europa occidentale negli anni 1912-13, durante il quale frequenta a Gottinga le lezioni di Husserl, e in particolare un seminario su “Natura e spirito”. Sotto l’influsso della fenomenologia di Husserl, nel ˘ 1914 Spet scriverà Fenomeno e senso. ˘ Nella fenomenologia Spet individua una scienza filosofica fondamentale che, riprendendo e superando il motivo gnoseologico delle correnti scettiche, empiristiche e kantiane, tematizza l’ambito ontologico della coscienza e lo pone in relazione alle altre forme dell’essere. In generale, si ˘ può dire che Spet sviluppa in modo originale la fenomenologia husserliana in due direzioni: estende l’analisi costitutiva (in senso fenomenologico) agli atti di coscienza e alle formazioni segniche in cui si realizza il fenomeno del comprendere; considera la realtà, che è oggetto della filosofia, come realtà storico-sociale. Seguendo queste due direzioni di indagine egli giunge così a un’integrazione tra fenomenologia, ermeneutica e semiotica e a sviluppare le indagini husserliane di Ideen II relative alla costituzione del mondo storico e culturale (personalistico), riprendendo la distinzione di Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito e la teoria diltheyana del comprendere. Questi temi costituiscono il filo conduttore dello studio Die Hermeneutik und ihre Probleme, composto nel 1918, ma rimasto inedito e pubblicato in russo solo tra il 1989 e il 1992, a cura di A. Mitjukin, nella rivista «Kontekst». Nella sua analisi dei ˘ problemi dell’ermeneutica, Spet muove dallo studio di Dilthey, Die Entstehung der Hermeneutik, ma prende in considerazione uno spettro storico e teorico più ampio, che comprende, oltre alla teoria ermeneutica dello stesso Dilthey espressa nel saggio del 1910, Der Aufbau der ge39 schichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito), autori classici nella storia dell’ermeneutica come Ernesti, Ast, Schleiermacher, la teoria del comprendere di Boeckh, la metodologia della storia di Droysen, e, relativamente al rapporto tra ermeneutica, psicologia e scienze sociali, le posizioni di autori come Steinthal, Spranger, Simmel. La possibilità di superare quelli che gli sembrano i limiti psicologistici della concezione del ˘ comprendere, Spet la individua nel saggio del 1910 dello stesso Dilthey, ove la comprensione di un prodotto del mondo della cultura non consiste nella riconduzione di tale prodotto (poesia, opera d’arte, sistema filosofico) all’esperienza vissuta del soggetto creatore, ma nella comprensione di una configurazione culturale dotata di una propria legalità e struttura. ˘ In Dilthey manca però, secondo Spet, una determinazione dell’essenza del comprendere in quanto fonte specifica di conoscenza delle scienze dell’uomo. Se ci si chiede in che modo le “oggettivazioni” del mondo spirituale possano venire interpretate in modo intersoggettivo e obbligante per i membri di una stessa comunità culturale, e se si è consapevoli del carattere segnico di tali oggettivazioni (arte, lingua, diritto ecc.), si pone allora la necessità di una chiarificazione della struttura del segno come oggetto e strumento dell’interpreta˘ zione. Per questo aspetto, Spet si riferisce da una parte alla “Prima” delle Ricerche logiche di Husserl (“Espressione e significato”), dall’altra si ricollega alla tradizione razionalistica del secolo XVIII (G. Fr. Meier, C. Wolff), e determina la semiotica come disciplina ontologica, che si muove cioè al livello di un’ontologia formale. Questa stessa concezione si ritrova nei Frammenti estetici, dove leggiamo: «La teoria della parola come segno è un problema dell’ontologia formale o teoria dell’oggetto, nella sezione della semiotica». In questo testo del 1922, costituito da tre parti, intitolate rispettivamente: “Ripetizioni al momento giusto - Miscellanea”, “Ammonimenti al momento giusto” (queste due parti sono state pubblicate in «Kamen’», n. 2, ottobre 1992, e n. 3, maggio 1993) e “Momenti estetici nella struttura PROSPETTIVE DI RICERCA ˘ Gustav G. Spet, Georg Wilhelm Friedrich Hegel Wilhelm Dilthey, Edmund Husserl 40 PROSPETTIVE DI RICERCA ˘ sviluppa le proprie anadella parola”, Spet lisi semiotiche, fenomenologiche ed ermeneutiche negli ambiti dello studio della letteratura e dell’estetica. Di particolare interesse il tentativo di determinare l’ambito dell’estetica in quanto “scienza dell’arte”, distinguendo fenomenologicamente l’approccio dell’estetica da quello della poetica e della critica, tema caro, nell’estetica italiana, a Dino Formaggio. A temi tipici della riflessione estetica contemporanea rinviano anche le riflessioni su “L’arte e la vita”, “Poesia e filosofia”, “Segni e stili”, reperibili nelle “Ripetizioni al momento giusto”. Le parti di questi ˘ Frammenti in cui Spet sviluppa le riflessioni di maggiore impegno sistematico nel senso di un’analisi fenomenologica della parola sono i saggi “La struttura della parola in usum aestheticae” (in “Ammonimenti al momento giusto”) e “Momenti estetici nella struttura della parola”. Nel suo saggio Hermeneutische Logik im Umfeld der Phänomenologie, pubblicato nel volume Erkenntnis des Erkannten. Zur Hermeneutik des 19. und 20. Jahrhunderts (Conoscenza del conosciuto. Sull’ermeneutica del XIX e XX secolo, 1990; trad. it. di A. Marini e G. Matteucci, di prossima pubblicazione presso l’editore F. Angeli di Milano) Frithjof Rodi ha messo in luce i rapporti tra la concezione semiotico-er˘ meneutico-fenomenologica di Spet e la tradizione diltheyana. Questi rapporti sono particolarmente significativi per quanto riguarda il concetto di “struttura” in Dilthey ˘ e nella sua scuola, dal momento che Spet considera il mondo culturale come dotato di struttura, tanto che «si può dire che lo stesso “spirito” o la cultura sono struttura˘ ti». Da qui Spet sviluppa una fenomenologia della parola che intende metterne in luce i diversi momenti strutturali, le diverse stratificazioni di senso: dalla parola come dato sensibile alla dimensione del senso o significato, dalle funzioni “naturali” della parola (percezione di una voce identificata come voce umana ed esprimente la condizione psicofisica di una persona) alla sua dimensione comunicativa nell’appartenenza al mondo sociale e culturale. Particolarmente importante per la considerazione della parola come “fatto estetico” è la sua facoltà di essere veicolo di un “tono emozionale”. Su questa base, e distinguendo ulteriormente tra la “natura oggettiva” (comunicazione di un contenuto oggettivo di pensie˘ ro) e il “ruolo espressivo” della parola, Spet analizza gli “elementi estetici” nella struttura della parola, intendendo con ciò «quegli elementi di una struttura creativa e oggettiva che sono legati all’emozione estetica (all’esperienza)». Egli giunge così a una determinazione dell’ambito dell’estetico che risulta non da definizioni preliminari, e dogmatiche, dell’oggetto estetico, ma da una descrizione immanente del piano dell’esperienza e da un’analisi-descrizione dell’uso estetico del linguaggio. M.M. Etica e diritto in Fichte Il diritto e l’etica, considerate da Johann Gottlieb Fichte come discipline specifiche da dedurre direttamente dai principi della scienza, trovano la loro sistematizzazione in due opere, recentemente apparse in una nuova edizione italiana: DIRITTO NA TURALE (a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994) e SISTEMA DI ETICA (a cura di C. De Pascale, trad. it. di R. Cantoni, Laterza, Roma-Bari 1994). Oggetto di ripetuti studi da parte di Johann Gottlieb Fichte il diritto trova, nel Diritto naturale del 1896, la sua definitiva organizzazione. La struttura della legislazione verte ora su un presupposto soggettivo ed uno oggettivo che fondano e giustificano il diritto; il primo è dato dalla libertà dell’individuo, che, grazie all’amor di sé tende a salvaguardare la propria autonomia; il secondo è costituito dalla coesistenza di uomini liberi che, necessariamente, pongono in essere il diritto. In questo modo, ribaltando la struttura delle opere precedenti, in cui la morale costituiva il fondamento ontologico del diritto, Fichte separa le due dimensioni, conferendo loro un rapporto di accordo e insieme di indipendenza. Infatti, mentre la morale è formale, assoluta e incondizionata, il diritto ne costituisce il contenuto e dipende dalla scelta degli individui di vivere in comunità. In altre parole, se la morale costituisce una dimensione esistenziale e imprescindibile per l’individuo, il diritto dipende dalla scelta di vivere in uno Stato e quindi può essere accolto, o non esserlo, senza inficiare il valore della morale. Le due discipline, in questo modo, vengono rese autonome, in quanto la libertà dell’individuo costituisce la condizione di possibilità del diritto, ma non ne esaurisce i contenuti. Il Diritto naturale è diviso in due parti, la prima si occupa della struttura dello Stato, mentre la seconda del diritto applicato. La genesi dello Stato, secondo Fichte, dipende dalla decisione degli individui di costituire delle forme di coercizione e sanzione, radicate nell’istituzione statale. Per salvaguardare la propria libertà individuale, gli uomini devono necessariamente porre limitazioni alla loro coesistenza, decidendo liberamente di organizzarsi in ordinamento statale e darsi delle leggi. La forma di governo prediletta da Fichte non contempla la tripartizione dei poteri, che, per questioni di funzionalità e responsabilità, devono essere assegnati, in toto, al potere esecutivo. La garanzia di giustizia e democrazia, secondo Fichte, è data, in primo luogo, dall’eforato, un’assemblea rappresentativa con diritto di veto, e in secondo luogo, dalla possibilità, in casi estremi, di sollevazioni popo41 lari, che metterebbero fine a qualunque tentativo di dispotismo. Nella seconda parte, Fichte tratta le questioni del diritto applicato, in particolare del diritto di proprietà, salvaguardato in ogni sua forma: il diritto-dovere di tutti i cittadini al lavoro; la divisione in classi; il dovere dello stato di assistere i cittadini più bisognosi; e, infine, la necessità di uno stato di polizia che sorvegli e protegga la totalità dei cittadini. Scritto e pubblicato nel 1798, il Sistema di etica, trattando della libertà nei suoi fondamenti ontologici e teoretici, costituisce il completamento ideale del diritto applicato, che si occupava della libertà dell’individuo all’interno della comunità. Fedele alla sua impostazione di fondo, Fichte deduce la libertà da un principio originario che lo ponga in essere. Così, se il fondamento della Dottrina della scienza consisteva nell’Egoità e quindi nell’unità originaria dell’Io, quest’ultimo necessita ora di un facoltà primitiva e superiore alla conoscenza, in grado di darle forma. L’intuizione intellettuale, infatti, determina l’Io esclusivamente come facoltà conoscitiva e, per questo, non esaurisce le sue potenzialità. Vi è allora, secondo Fichte, una spinta originaria (Urtrieb) che, prima della divisione tra conoscenza e volontà e dell’opposizione tra soggetto e oggetto, determina il porsi dell’Io come assoluta libertà morale. Seguendo il procedere dell’Io, Fichte colloca l’etica dei doveri nel momento in cui l’opposizione del Non-Io di fronte all’Io genera la corporeità e la natura. L’applicazione dei doveri nasce così con la consapevolezza, da parte dell’Io, del proprio Sé, che costituisce la volontà determinata. La morale, in tal modo, si manifesta come l’autocoscienza dell’azione che si fa legge e diventa rigore solo in rapporto a se stessi. L’etica dei doveri, in altre parole, nasce in relazione all’io empirico, inteso come opposizione tra pensiero e corporeità, tra Io e Non -Io e, ribadisce Fichte, si distingue dal diritto, relativo esclusivamente alla convivenza dei diversi Io empirici in una società. Nonostante la presenza di elementi di vicinanza con la concezione di Kant, la morale kantiana è rigidamente formale e incondizionata, mentre quella fichtiana si risolve nelle azioni morali, che riguardano più da vicino l’Io empirico. Fichte, infatti, oltre a parlare di doveri universali, vicini all’etica kantiana, descrive accuratamente quelli pratici che riguardano, tra le altre situazioni, il diritto di famiglia, che comprende quello tra coniugi e quello tra genitori e figli, il dovere del dotto, dell’educatore morale e dell’artista e il dovere di diffondere e promuovere la moralità. A.S. PROSPETTIVE DI RICERCA Heidegger di fronte a Hegel Nella ricostruzione dell’itinerario filosofico di Martin Heidegger, la pubblicazione di due scritti inediti, ora raccolti con altri nel volume della «Gesamtausgabe» dal titolo: HEGEL (vol. 68, Klostermann, Francoforte 1993), rappresenta senza dubbio una tappa importante. Nei due testi, che si presentano come una raccolta di appunti di lavoro degli anni 1938-39, Heidegger analizza minuziosamente l’intrinseca logica del sistema hegeliano, individuando nel concetto di “negatività” e di “esperienza” i momenti centrali del suo confronto con Hegel. L’itinerario del pensiero di Martin Heidegger è segnato, con accentuazioni e valenze diverse, dal confronto con Hegel. Lo stesso riferimento a Hegel, che conclude la dissertazione su Duns Scoto del 1915, è quasi un’indicazione programmatica dalla quale, pur con oscillazioni di tono e valenze diverse, Heidegger non si discosterà. Tuttavia, nei testi di Heidegger finora pubblicati, Hegel non ha mai lo spessore e la ricchezza delle articolazioni con cui, ad esempio, Heidegger fa agire nella propria costellazione speculativa l’opera di Nietzsche. Per questo motivo risulta ancor più significativo quest’ultimo volume della «Gesamtausgabe» dedicato a Hegel, in cui figurano due saggi che mostrano come Heidegger si sia di fatto direttamente confrontato con l’intrinseca logica della filosofia hegeliana. L’annotazione di Heidegger del 1938-39, che definisce il primo dei due scritti come Abhandlung, è in qualche modo fuorviante; si tratta, in realtà, di una raccolta di appunti di lavoro fortemente legati ai Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (Contributi alla filosofia (Dell’evento)). Proprio da questi appunti appare chiaramente come il confronto con Hegel sia stata sofferto e difficile e come lo stesso Heidegger ne fosse consapevole. In questo scritto, il punto di partenza di Heidegger consiste nella ricerca di un momento determinante del sistema filosofico hegeliano che sia in grado di «sottrarsi all’esigenza di integrazione del sistema in quanto lo rende possibile». La chiave del confronto Heidegger la coglie nel concetto di “negatività” (Negativität) come fondamento della dialettica costitutiva della vita dello Spirito. In sostanza Heidegger prende Hegel alla lettera quando afferma che «l’unità di pensiero e cosa appartiene alla negatività» e cioè che la realtà concreta si mostra proprio quando l’autosussistenza della cosa viene negata. Per Hegel, infatti, il pensiero e la cosa divengono concreti grazie al movimento del pensiero che si separa dalla cosa pensata solo per tornare a negare tale divisione; per Heidegger «la concreta realtà del pensiero e della cosa viene dalla negatività». Che questa affermazione sia sottilmente provocatoria, risulta chiaramente dal fatto che per Hegel la realtà concreta è l’Assoluto: parlando della negatività come “energia” (Energie) dell’assoluto, Heidegger non sostiene nulla che Hegel stesso, per ragioni fondamentali, non avrebbe potuto dire; ma allo stesso tempo pone il pensiero di Hegel sotto tutt’altra luce. Se Hegel aveva inteso l’Assoluto come in sé chiuso, come motilità pacificata, per Heidegger si tratta della «vita in sé chiusa perché unitariamente plasmata dalla negatività». Nel secondo scritto, del 1938-39, il confronto con Hegel è basato sul concetto di “esperienza” e si presenta come un’anticipazione di Hegels Begriff der Erfahrung (Il concetto hegeliano di esperienza), del 1942, pubblicato nella raccolta Holzwege (1950). Rispetto allo scritto del ’42, dove il tono della discussione condotta da Heidegger sull’ Introduzione alla Fenomenologia dello spirito è pacato e distaccato, in queste pagine d’appunti ci rendiamo conto fino a che punto Heidegger fosse colpito dal pensiero hegeliano. Il metodo dell’analisi è quello della Destruktion: demolire le determinazioni concettuali e gli “indurimenti” della teoria, per rendere vivo il pensiero, nella consapevolezza dei limiti intrinseci di questo metodo distruttivo (decostruttivo). Nello scritto concernente il concetti di negatività Heidegger afferma che l’esperienza originaria del pensare non può essere conservata, intendendo che ogni esperienza è più ricca della possibilità della sua stessa articolazione. Allo stesso tempo, però, il tradurre in parola l’inesplicato o l’inindagato di un pensiero ha per Heidegger il significato di un “ricominciare”, di un retrocedere verso l’inizio, che ricorda le parole di Hegel nella Wissenschaft der Logik (Scienza della logica): «l’andare innanzi è un retrocedere nel fondo, all’originario e a ciò che ha verità». Ma è forse proprio in questo che consiste la maggiore distanza di Heidegger da Hegel. Per Heidegger nuovo inizio significa oltrepassamento (Überwindung) della metafisica, un appropriarsi di ciò che ancora non è stato pensato in quello che è già stato pensato. Un tornare a ciò che è stato a partire da ciò che è a-venire. Come è noto questo ritorno del nuovo inizio nel primo comporta una rifondazione della storia della filosofia che prende le distanze da quella hegeliana che connette la storia della filosofia all’ “idea” come autocoscienza assoluta. Tuttavia al di là delle conseguenze teorico della “decostruzione”, Heidegger è d’accordo con Hegel nel considerare l’esperienza intrinseca alla coscienza, nell’affermarne cioè il carattere storico. Heidegger però vuole mostrare come Hegel abbia in un certo senso «addomesticato la rischiosa esperienza del pensare», deducendo formalmente il momento negativo più che farlo concretamente sperimentare 42 dalla coscienza. Nell’affermare che: «l’Assoluto è già in sé e per sé presso di noi e vuole essere presso di noi», Hegel rivelerebbe il suo intento principale di rinviarci a quel rapporto con l’Assoluto in cui già sempre ci troviamo. Malgrado l’insistenza con cui Heidegger si misura con Hegel, il confronto tra i due, come testimonia Heidegger in una lettera a Gadamer del 2 dicembre 1971, resta aperto: «Io stesso non so ancora abbastanza chiaramente come debba essere definita la mia posizione rispetto a Hegel. Come posizione opposta sarebbe troppo poco [...]. Ripetutamente mi sono opposto al discorso del “crollo” del sistema hegeliano. Crollato, cioè decaduto è ciò che seguì - Nietzsche compreso». M.C. Heidegger nella biografia di Safranski Un’ampia biografia su Martin Heidegger è oggi giunta in Germania già alla sua terza edizione: si tratta dell’opera di Rüdiger Safranski, EIN MEISTER AUS DEUTSCHLAND. HEIDEGGER UND SEINE ZEIT, (Hanser, Monaco di Baviera 1994). Safranski non è filosofo, né storico della filosofia, ma giornalista con spiccate attitudini filosofiche e dotato di una particolare abilità nel ricostruire gli ambienti e i quadri storici nei quali hanno vissuto e operato grandi pensatori. Tra le documentazioni a cui Safranski fa riferimento figura in particolare la monografia di Elzbieta Ettinger dal titolo: HANNAH ARENDT - MARTIN HEIDEGGER . EINE GESCHICHTE (München 1994) che ricostruendo l a vi ce nda de l l ega me t ra Heidegger e Arendt, fornisce al contempo un resoconto del carteggio intercorso tra i due. «L’Università è noiosa. Gli studenti sono mediocri, senza particolari stimoli, e poiché mi occupo molto del problema della negatività, ho qui la migliore occasione per studiare il modo in cui il nulla si presenta». Così scriveva Martin Heidegger nel 1926 all’amico Karl Jaspers, al quale lo legavano un comune atteggiamento critico nei confronti della filosofia universitaria e una comune volontà di rinnovare radicalmente la pratica del domandare filosofico. Un anno dopo la noia è passata. Essere e tempo, la sua opera capitale, è apparsa. Heidegger, ormai trentottenne è diventato famoso e nel 1928 viene chiamato all’Università di Friburgo quale successore del proprio maestro Edmund Husserl. Nel ’33 Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo e tenta di cavalcare il movimento nazionalsocialista. A Jaspers viene invece impartito il divieto di insegnamento, es- PROSPETTIVE DI RICERCA sendo sposato con una donna ebrea. Fu la rottura tra i due. “Heidegger e il proprio tempo”: questo potrebbe essere il titolo che meglio di ogni altro esprime lo sforzo biografico di Rüdiger Safranski: la sua biografia offre una ricostruzione plastica delle vicende storiche e dell’ambiente in cui Heidegger visse e operò. Certo, Heidegger ha sempre teso a minimizzare gli aspetti biografici della propria opera. Ma Safranski ha saputo rendere in modo esemplare tutto ciò che attualmente è possibile sapere sulla biografia di Heidegger, connettendolo in modo organico sia con la ricostruzione dell’ambiente storico, sia con l’evoluzione teorica del pensiero dell’essere. In verità Safranski, a cui si deve già una fortunata biografia su Schopenhauer (1987), non conduce in prima persona ricerche storiche, ma utilizza piuttosto materiali già disponibili, in particolare le ricerche di Hugo Ott o anche di Victor Farias. La sua incomparabile superiorità espositiva e capacità di scrittura gli consentono tuttavia di fornire un quadro molto più persuasivo, come dimostra, in particolare, il modo in cui Safranski illustra il rapporto di Heidegger con il nazionalsocialismo e il ruolo che ebbe nella sua vita la relazione d’amore con Hannah Arendt. Per quanto riguarda il primo aspetto, Safranski svolge in tutta la sua complessità l’intreccio che lega alcuni elementi del pensiero heideggeriano ad altrettante componenti dell’ideologia nazionalsocialista, mettendo in guardia, tuttavia, dall’interpretare semplicisticamente il pensiero heideggeriano in chiave esclusivamente politica. Ma è riguardo al secondo aspetto che Safranski ottiene il massimo effetto: sfruttando la descrizione del carteggio (ancora inedito) tra Heidegger e Arendt ad opera di Elzbieta Ettinger in Hannah Arendt Martin Heidegger. Eine Geschichte, in cui si parla di una vera e propria storia d’amore durata fino alla fine, Safranski presenta tale relazione come una sorta di filo rosso che attraversa la vita di Heidegger e dal quale, a lungo, il destino di Heidegger sembrò dipendere, non sapendo egli recidere tale relazione con una autentica decisione. Da quando Heidegger fu colpito e fatalmente attratto dalla giovane Arendt che, vestita di un verde sgargiante, fece la sua comparsa nel seminario di filosofia, fu preso da una passione profonda, pienamente corrisposta, senza la quale, come egli stesso ebbe a confessare, non avrebbe mai scritto Essere e tempo. Fu la passione di una vita, che i due furono però costretti a vivere clandestinamente - come se non fosse mai esistita. Quando nel 1960 Arendt ebbe tra le mani, fresca di stampa, la versione tedesca di Vita activa, sul frontespizio della prima copia scrisse questa dedica a Heidegger: «De vita activa. Mi risparmio la dedica. Come potrei dedicare questo libro a te, mio intimo, cui sono e non sono rimasta sempre fedele, e in entrambi i casi amandoti», aggiungendo, nella lettera di accompagnamento, che quel libro non sarebbe mai nato «senza quel che da te ho imparato in gioventù». Su questo punto il lavoro di Safranski presenta forse le maggiori novità e notevoli motivi di interesse, anche se la sua esposizione dei fatti non mancherà di far discutere. In ogni caso, la biografia di Safranski riesce a restituirci intensi momenti della vita e del pensiero di Heidegger, dalla prima formazione e il primo insegnamento a Friburgo, attraverso l’assiduo e produttivo periodo di Marburgo, al secondo insegnamento a Friburgo fino all’ultima fase; dall’interdizione all’insegnamento dopo la guerra fino agli anni della grande risonanza internazionale. E.C. Leibniz e la teodicea Questioni di ordine esistenziale e religioso sono al centro dei SAGGI DI TEODICEA (a cura di V. Mathieu, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994) di Gottfried Wilhelm Leibniz, in cui vengono affrontate questioni relative all’esistenza del male, alla libertà dell’uomo e alla bontà di Dio. Rifacendosi, in parte, all’edizione italiana del 1973, la nuova traduzione dei Saggi di Teodicea, a cura di Vittorio Mathieu, riporta alla luce uno dei cardini essenziali del pensiero di Gottfried Wilhelm Leibniz. Il volume raccoglie tre saggi, che affrontano, come recita il sottotitolo, il problema della bontà di Dio, della libertà dell’uomo e dell’origine del male, ai quali seguono tre appendici, che trattano le principali obiezioni e difficoltà suscitate dai problemi trattati. L’occasione del volume, introdotto da una lunga prefazione di carattere religioso sulla infinità e bontà di Dio, consiste nella risposta alle questioni suscitate da Pierre Bayle, avversario di sempre di Leibniz, che pone, sistematicamente, i problemi della Teodicea. La prima questione è quella della creazione del mondo; di fronte all’infinità dei mondi possibili presenti, di fronte a Dio nel momento della genesi, la scelta è stata sempre fatta secondo un criterio eticomorale. Animato da bontà e perfezione infinite, infatti, Dio, assolutamente libero nella sua scelta, ha deciso per il migliore dei mondi possibili, che, in questo modo, passa dal piano dell’essenza dei possibili a quello dell’esistenza dei reali. Grazie a questa dicotomia tra essenza ed esistenza, Leibniz risolve le difficoltà relative alla nozione di “incompossibilità”. Se, infatti, sul piano delle essenze, gli infiniti mondi coesistono nella loro molteplicità e differenza, questo non accade sul piano fattuale, dove l’esistenza dell’uno è incompossi43 bile a quella di un altro suo contrario. Lo stesso argomento risolve anche gli altri due problemi, la libertà dell’uomo e la presenza del male. Per quanto riguarda il primo, Leibniz ricorda che la perfezione di Dio, costituito da monadi infinite, determina anche la totale conoscenza della possibilità degli eventi passati, presenti e futuri del mondo. Questo toglie, apparentemente, libertà all’uomo, che sembra appartenere ad un destino precostituito. In effetti, poiché l’imperfezione dell’essere umano si manifesta, secondo Leibniz, nella sua incapacità di conoscere totalmente gli eventi sul piano reale, l’uomo è assolutamente libero di scegliere sul piano esistenziale, e dei fatti, ma non lo è sul piano delle essenze, già disposte da Dio secondo l’armonia prestabilita. L’uomo, insomma, è libero di scegliere quello che, al momento della creazione, è già stato scelto da Dio. Analogamente si giustifica per Leibniz il problema del male. La perfezione delle essenze, presenti nella mente di Dio, decade al momento del passaggio all’esistenza. Il nostro mondo, anche se “il migliore di quelli possibili”, è pur sempre finito e il nostro sguardo su di esso è pur sempre limitato. Il male metafisico è allora giustificato dalla nostra incapacità di comprenderlo su di un piano che, per costituzione, è imperfetto. In altri scritti, tuttavia, non mancano, da parte di Leibniz, giustificazioni di tipo estetico - come quella secondo cui il male esiste solo per darci la possibilità di comprendere il bene - che qui non sono prese, però, in considerazione. Sebbene le tre soluzioni adottate da Leibniz sembrano risolvere ogni dubbio, esistono difficoltà, di ordine più esistenziale, che logico, che non trovano una soluzione. Ad esempio l’aporia di fondo, insita nel concetto di “migliore dei mondi possibili”, per cui un qualcosa di finito è posto come “migliore” in senso assoluto. Inoltre, Dio è libero di scegliere quale possibilità rendere esistente, ma non lo è altrettanto rispetto alle possibilità stesse che gli si presentano di fronte, indipendentemente dalla sua volontà. Infine, se il criterio di scelta adottato da Dio è quello morale e se ha scelto il migliore dei mondi possibili, allora la scelta non è stata fatta in assoluta libertà. In altre parole, essendo il nostro già il migliore dei mondi, Dio, nel crearlo, si è “limitato” a sceglierlo. Leibniz non risolve queste aporie che, secondo Mathieu, dipendono dalla decisione del filosofo di porre Dio sul piano della scelta e non su quello della creazione. Determinando Dio come colui che decide tra infinite alternative, Leibniz concede razionalità e rigore alla monadologia, ma le sottrae quel margine di infinità che solo la creazione avrebbe potuto concederle. A.S. PROSPETTIVE DI RICERCA Epistemologia ed empirismo logico E‘ apparsa la nuova edizione di un classico dell’epistemologia del Novecento, IL VALORE DELLA SCIENZA (trad. it. di F. Albèrgamo, rev. e introd. di G. Polizzi, La Nuova Italia, Firenze 1994), di Henri Poincaré, in cui la figura del filosofo e matematico emerge come svincolata dall’etichetta di “convenzionalista” e si proietta in direzione di un realismo strutturale all’interno di una prospettiva semi-razionalistica. Un’opportuna integrazione di questo ambito di pensiero è la raccolta di testi dal titolo: FILOSOFIA SCIENTIFICA ED EMPIRISMO LOGICO (a cura di G. Polizzi, Unicopli, Milano 1993), che riporta le relazioni tenute al I Congresso Internazionale di Filosofia scientifica di Parigi nel 1935, da cui si può ricavare, attraverso una intensa ricognizione storico-teoretica, le linee portanti del dibattito contemporaneo sull’empirismo logico. Le Ouvres di Henri Jules Poincaré sono oggi raccolte in 10 ponderosi volumi: nella produzione dell’«ultimo grande scienziato universale» - come affermava Jules Vuillemin - la profondità delle indagini si coniuga alla stupefacente varietà dei campi sondati, indice di una personalità leonardesca difficilmente riscontrabile nel panorama attuale. Come sottolinea Gaspare Polizzi nell’ampio saggio introduttivo, Henri Poincaré, tra matematica ed epistemologia, l’indagine di Poincaré, ne Il valore della scienza, opera del 1905, appare costantemente guidata da uno “stile” e da una “mente matematica” in grado di affrontare con lo spirito dell’epistemologo problematiche fondazionali relative tanto alla questione delle geometrie non-euclidee, quanto a quella della rigorizzazione dell’analisi e della assiomatizzazione dell’aritmetica. Matematico puro e di grande valore, Poincaré lo fu per tutta la vita: pubblicò la sua ultima memoria di carattere matematico una soluzione di un teorema topologico connesso con il problema dei tre corpi - nel 1912, a quattro mesi dalla morte. D’altra parte Poincaré inizia la riflessione sulla scienza già dal 1887, considerando i postulati geometrici quali ipotesi vagliate a seconda del grado di comodità e di pregnanza logica. Nonostante la poca consuetudine con il linguaggio filosofico, rilevata anche dal nipote Pierre Boutroux, nel saggio Sur les hypothèses fondamentales de la géométrie Poincaré sostiene il carattere convenzionale degli assiomi della geometria, che viene considerata un “ponte” tra matematica e fisica. Le successive ricerche, come gli studi di meccanica celeste, vengono guidate da un apparato matematico che affronta la realtà fisica, in base al presupposto che esiste sempre un’equazione differenziale in cui inserire le interrelazioni fenomeniche. In seguito, Poincaré inizia a profondere contributi notevoli in direzione degli sviluppi della fisica relativistica e quantistica. Il valore della scienza riveste un’importanza fondazionale di assoluto rilievo. Nella prima sezione vengono analizzate le scienze matematiche, delle quali è affermata l’autonomia nei confronti della psicologia; da qui il primato della deduzione logica. La seconda sezione svolge riflessioni sulle scienze fisiche e sull’astronomia. Nella storia della fisica la visione atomista si oppone a quella infinitaria e continuista; Poincaré prevederà nel 1912 l’affermarsi della prima. I due saggi della terza ed ultima sezione delineano una filosofia generale della scienza. Dopo aver riassunto le posizioni convenzionaliste di Le Roy, Poincaré sviluppa una disamina dell’anti-intellettualismo, imputando a Le Roy di considerare l’intelligenza e il “discorso” quali agenti deformanti la realtà, e le leggi scientifiche quale valore puramente strumentale e utilitaristico. Per Poincaré, invece, le “regole d’azione” posseggono valore a partire dalla loro capacità previsionale. Nelle scienze fisiche, attraverso l’esperienza, si apportano determinate correzioni agli errori “accidentali” e “sistematici”; ugualmente in matematica, per verificare l’attendibilità di postulati o di teoremi non si ricorrerà alla testimonianza dei sensi e al ricordo di questa testimonianza, bensì all’intelletto. Il fatto scientifico, dal quale deriva la scienza, non è altro che il fatto “bruto” sperimentato, tradotto nel codice di un linguaggio (donde la sua “comodità”). A partire da qui vengono posti in luce i limiti del convenzionalismo mediante l’esame di esempi tratti dalla cinematica dei corpi solidi alla geometria, dalla meccanica alla fisica. La scienza è dunque un sistema di relazioni, una classificazione in cui va cercata l’oggettività, costituita dai rapporti fra gli enti. Gaspare Polizzi è anche il curatore del volume Filosofia scientifica ed empirismo logico che riporta, suddivisi in quattro gruppi - “Razionalismo empirico ed empirismo logico”, “Enciclopedia”, “Induzione e Logica”, “Matematiche e realtà” - saggi scelti tra gli Atti del Congresso di Parigi del 1935. Polizzi rileva che il principale proposito del Congresso si presenta come tentativo di conferire all’empirismo logico lo statuto di una “filosofia scientifica”, contribuendo «in modo decisivo alla fondazione dell’epistemologia come disciplina autonoma». Tra gli interventi raccolti nel volume, Federigo Enriques ci introduce nel clima del positivismo suo contemporaneo, sollevando dubbi sulla filosofia empirica, ma anche sul logicismo, chiedendosi se la logica «è un’analisi delle operazioni del pensiero esatto o al contrario mira a relazioni che sono - in qualche maniera fuori dal nostro spirito». Partendo invece da una ridefinizione teoretica di alcune istanze della fisica contemporanea, Hans Reichenbach, esponente del Circolo di 44 Berlino, si adopra in direzione di un annullamento dell’a priori sintetico nei giudizi scientifici mediante una riformulazione, in termini logico-matematici, del principio di induzione. La comunicazione di Rudolf Carnap concerne la fondazione di una “logica della scienza”, ovvero una rigorosa analisi logica del linguaggio scientifico. Per Carnap «la logica è il metodo di filosofare» e «filosofare vuol dire soltanto chiarire i concetti e gli enunciati della scienza mediante l’analisi logica» nel tentativo di eliminare residui psicologici dalla teoria della conoscenza. La relazione di Charles W. Morris è incentrata su una contaminazione tra pragmatismo, empirismo e formalismo. La semiotica determina l’essenza dei segni, mentre la filosofia «si occupa del confronto della critica e della proposta delle strutture linguistiche generali»: la “semiotica filosofica” è una “metascienza”, che saprà svelare le potenzialità conoscitive del linguaggio, per giungere al progetto enciclopedico di una lingua scientifica unificata. Con l’intervento di Otto Neurath si giunge alla ricapitolazione degli interrogativi, sollevati dai precedenti interventi, intorno alla possibilità di una scienza unificante. Allontanandosi da alcune posizioni del Circolo di Vienna e rifiutando sia la teoria wittgensteiniana del significato (possibilità del confronto fatti-proposizioni), sia la distinzione tra linguaggio scientifico e ordinario, Neurath giunge fino a negare la teoria semantica della verità. Particolarmente significativa appare la sua proposta di introdurre un linguaggio “fisicalistico”, visuale e non formalizzato, l’ISOTYPE (International System of Typographic Pictorial Education) in vista della costituzione di una “scienza totale”. In posizione divergente rispetto alla svolta logica di Carnap e al fisicalismo di Neurath, per il quale l’unica versione accettabile è quella che ribadisce il valore empirico, di linguaggio oggettivo, da attribuirsi al linguaggio fisico) si muove invece Moritz Schlick. Come sottolinea anche Ludovico Geymonat, che fu suo allievo, il realismo empirico di Schlick ben si inserisce nel panorama delle acquisizioni della fisica agli inizi del Novecento, ma, ricorda Polizzi, «appare difforme e “anacronistica” rispetto agli orientamenti logico-formali e alla proposta enciclopedica», e si colloca piuttosto accanto alle discussioni wittgensteiniane e alla tradizione gnoseologica kantiana. Va ricordato, infine, che l’uso del criterio di falsificazione di Karl Popper, attivo al Congresso parigino, fu causa di fraintendimenti nelle relazioni tra il filosofo e il Circolo di Vienna. A questo proposito Polizzi ripercorre gli esiti diversi che ebbero al Congresso, e hanno avuto fino ad oggi, il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein e la Logik der Forschung di Karl Popper: non si tratta, osserva Polizzi, di dare giudizi postumi, bensì di tracciare una “storia del- PROSPETTIVE DI RICERCA l’epistemologia” che possa rispondere (anche) alle questioni cruciali del dibattito filosofico -scientifico contemporaneo in buona parte già così autorevolmente enucleate nelle tesi parigine. M.B. Per una storia filosofica dell’infinito Benché Jonas Cohn sia stato un riferimento importante e esplicito di pensatori della taglia di Cassirer e di Koyré, e più recentemente di Lévinas e Desanti, la sua opera sulla “storia dell’infinito”, del 1896, non è stata percorsa con l’attenzione che le conviene. L’edizione francese dell’opera di Cohn, che appare con il titolo: HISTOIRE DE L’INFINI (Storia dell’infinito, a cura di J. Seidengart, Cerf, Parigi 1994), ha il duplice merito di colmare un oblio e di presentare, accompagnata da un’erudita e accurata introduzione, un’opera il cui carattere “attempato” non pregiudica affatto la pertinenza e l’oculatezza della riflessione. Nell’Introduzione all’opera di Jonas Cohn, Histoire de l’infini, Jean Seidengart, che si occupa, in particolare, del rapporto fra filosofia e storia delle scienze attraverso il filtro della cosmologia, si prende cura non solo di riassumere e presentare i punti salienti dell’opera, ma anche di segnalare i momenti critici della riflessione, il carattere “datato” dell’impostazione, gli sviluppi successivi della teoria dell’infinito (in particolare della relatività), che Cohn non poteva ancora conoscere. Impariamo così a leggere e ad apprezzare un’opera, ancora oggi non superata per lo sguardo ampio che Cohn dispiega sul fenomeno dell’esperienza dell’infinito e non solo su questa o quella concezione dell’infinito. L’originale prospettiva di Cohn consiste nel voler tenere insieme, da un lato, lo studio delle diverse concezioni dell’infinito, le cui trasformazioni dipendono tanto da implicazioni logiche (contraddizioni delle teorie precedenti, paradossi e teoremi, ecc.), quanto da motivi alogici (mutamenti assiologici, visioni del mondo, ecc.), dall’altro, la visione unitaria dell’esperienza dell’infinito, visione al contempo nutrita da un approccio trascendentale (neokantiano) e al contempo antropologico. In tal senso, le analisi storiche di Cohn, certamente incomplete, ingombrate da pregiudizi, seguono il filo di una storia che è anche genesi di un’idea, di un’esperienza costitutiva del mondo. E‘ chiaro allora come per Cohn le contraddizioni inerenti all’idea d’infinito appartengano a due attitudini antropologiche costitutive e incompatibili dell’esperienza: il finitismo, l’esigenza di dare un contorno alle cose per conoscerle e “controllarle”, e l’infinitismo, l’impulso a superare i limiti, il tropismo verso la continuità. Per questo, in Cohn, i problemi teorici connessi all’idea d’infinito catalizzano altri aspetti cruciali per il pensiero filosofico e scientifico: il rapporto fra continuo e discontinuo; la concezione del tempo e dello spazio; la riflessione sul mondo e sull’universo. In questa prospettiva di riflessione, si è tenuto all’Osservatorio di Parigi, dal 12 al 16 settembre 1994, un importante convegno dal titolo: “Storia e attualità della cosmologia”, organizzato da un comitato scientifico composto da Pierre Léna, Jacques Merleau-Ponty, Jim Peebles, JeanRené Roy, Alain Segonds. F.M.Z. Detti e scritti da Foucault In occasione del decimo anniversario della morte di Paul-Michel Foucault una monumentale iniziativa editoriale getta luce nuova sulla sua opera. Si tratta di quattro volumi di DITS ET ECRITS (Detti e Scritti, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Parigi 1994), che raccolgono tutto quel che Foucault ha scritto al di fuori delle sue opere: articoli, interviste, prefazioni, interventi a tavole rotonde: un gigantesco caleidoscopio che consente di cogliere la diversità dei registri con cui Foucault ha condotto la sua attività intellettuale. «Nessuna pubblicazione postuma». Questa la volontà di Foucault espressa nel suo testamento e rispettata da Daniel Defert e François Ewald, che hanno raccolto le pagine foucaultiane rimaste esclude dalle sue opere. Michel Foucault, che più volte ha diagnosticato la fine di Dio e quindi dell’uomo, la fine della filosofia, la fine dell’autore e della sua propria opera, si preoccupa tuttavia di fissare dei limiti a quel che, suo malgrado, rimane come traccia indelebile dei suoi percorsi intellettuali ed esperenziali. Così, nelle 3556 pagine che compongono i quattro volumi di Dits et ecrits compaiono solo quegli scritti pubblicati da Foucault stesso e quelli a cui aveva comunque dato il suo assenso. Niente manoscritti trovati nei cassetti, dunque, né appunti personali, ma solo pezzi autografati già pubblicati. La portata innovativa dell’opera non risulta tuttavia pregiudicata; la sua novità sta innanzitutto nell’aver reso accessibili scritti introvabili - come la Prefazione Rêve et existance di Binswanger, l’articolo La situazione di Cuvier nella storia della biologia, la prima Prefazione alla Storia della follia - o comunque difficilmente reperibili; nell’aver restituito i mille volti di Foucault all’estero, rendendo disponibili in francese i testi scritti in altre lingue come La verità e le forme giudiziarie e le 45 diverse interviste rilasciate soprattutto in Italia, Giappone, USA. In secondo luogo, questa operazione di raccolta crea un innegabile effetto postumo: l’inedito è costituito dalla coesistenza spaziale di una molteplicità di scritti sparsi (sono in tutto 364, pubblicati tra il 1954 e il 1988) e dagli effetti che questa produce. Per orientarsi nella miriade di temi trattati (dalla psicologia alla letteratura, dalla stregoneria alla guerra iraniana, dal liberalismo all’arte erotica e all’amicizia) i curatori forniscono tre sussidi: una bio-cronologia, dove eventi privati si intrecciano con quelli pubblici nell’intento di cogliere uno stile di vita; cinque indici (dei nomi di persona, delle nozioni, delle opere di riferimento, dei nomi di luoghi, dei periodi storici); una bibliografia, resa esaustiva da un complément. L’edizione, molto accurata, risponde a un criterio di precisione: testi annotati disposti in ordine cronologico di pubblicazione; indicazioni di tutte le varianti e le correzioni; citazioni controllate e provviste di riferimento; ogni tomo riporta il sommario degli altri tre. Qualche perplessità sulla fedeltà di questa impresa editoriale alla volontà di Foucault potrebbe sorgere se si considera l’ “effetto d’opera” che essa induce: dovremmo chiederci se l’autore di Qu’est-ce qu’ un auteur? (Che cos’è un autore, testo redatto per una conferenza del 1969) l’avrebbe autorizzata nella sua pretesa di esaustività (non una riga di Foucault pubblicata a suo nome manca all’appello nella raccolta). D’altra parte l’effetto prodotto dai quattro volumi è anche quello di un continuo movimento: Foucault cambia continuamente volto, moltiplica incessantemente la sua identità: «Foucault - osserva François Ewald - amava indubbiamente questa dispersione, questa difficoltà di totalizzarlo, questa possibilità di sfuggire a ogni identità in cui lo si voleva rinchiudere”. Alcuni interventi di Foucault, presenti nei volumi, assumono poi la funzione di metatesto, utile a scongiurare il pericolo che il lettore colga come immobile, cristallizzato il senso di un qualsiasi scritto: «Io non sottoscrivo mai senza restrizioni quello che ho detto nei miei libri»; oppure: «I miei libri sono delle configurazioni aperte». Sulla “funzione” di queste righe disperse nell’economia del suo lavoro Foucault osservava che gli interventi in articoli o riviste «sono per lo più riflessioni su un libro finito che possono aiutarmi a definire un altro lavoro possibile. Sono spazi di impalcatura che possono servire da ponte tra un lavoro che sta per essere completato e un altro». Quel che Foucault considerava utile, può risultare comodo anche per il lettore, che può essere coinvolto nel lavoro di gestazione di testi già noti per far luce sulle diverse zone d’ombra di un Foucault ancora clandestino. Una sorta di commento alle sue opere che costituisce anche un’agevole introduzione per quanti non lo conoscono. A.M. PROSPETTIVE DI RICERCA Immanuel Kant Razionalità e religione in Kant Il “primato della ragion pratica” è il fondamento comune di due opere di Immanuel Kant, che recentemente sono state oggetto di nuove edizioni. Si tratta de LA RELIGIONE ENTRO I LIMITI DELLA SOLA RAGIONE (trad. it. di A. Poggi, Laterza, Roma-Bari 1994), che si occupa del rapporto tra religione naturale e rivelata, e de IL CONFLITTO DELLE FACOLTÀ (trad. it. di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994), che studia le relazioni esistenti tra le diverse facoltà universitarie, tra cui la teologia e la filosofia. Pubblicata originariamente nel 1794, La religione entro i limiti della sola ragione è stata caratterizzata da un iter difficile. Il testo, che, pur non essendo una “critica” vera e propria, si colloca sulla scia della Critica del giudizio per l’analisi della fede riflettente, contiene quattro saggi che si occupano del male radicale esistente nel mondo, della possibilità della ragione di affrontarlo, del ruolo del male nella società e dei rapporti tra Stato e religione. Il tratto comune a tutti i saggi consiste nella teorizzazione del rapporto esistente tra religione naturale e religione rivelata. Prendendo le mosse dalla struttura della morale e dalla sua autonomia, Kant sottolinea più volte che gli imperativi categorici traggono il loro valore e la loro universalità esclusivamente da se stessi. La morale razionale non necessita di un Sommo Bene come suo fondamento, che, al contrario, toglierebbe universalità al proprio valore. Ciò non esclude, comunque, che dalla morale derivi la necessità di una fede razionale che completi e dia il senso all’etica stessa. La religione diventa così il fine, a posteriori, della morale ed è connotata da una struttura esclusivamente razionale. Da qui deriva la celebre teoria dei due cerchi concentrici, di cui la religione naturale, o razionale, costituisce il cerchio interno, e quindi prioritario, proprio perché derivato dalla morale. Si tratta di una 46 religione universale e necessaria che esiste, propriamente, “entro i limiti della ragione”. Il cerchio esterno, che invece esce dai confini della ragione, è costituito dalla religione rivelata, che si manifesta empiricamente nelle religioni storiche ed è, per questo, contingente. In tal modo la Chiesa e la storicizzazione della religione sono considerati insufficienti per la realizzazione completa della razionalità etico-religiosa, che non si avvale, peraltro, neanche di una filosofia della storia, imperfetta e incapace di rispettare l’ideale razionale. Da qui le numerose critiche di cui è stata bersaglio l’interpretazione kantiana del cristianesimo, che pur essendo la sintesi che meglio ha saputo schematizzare la religione naturale, rimane pur sempre una fede e quindi una costruzione empirica. Considerato una palese aggressione alla religione cristiana, lo scritto di Kant, anche a seguito dell’intervento del Re di Prussia, Federico II, fu censurato, in quanto sminuiva le fede nei confronti della ragione, concepita come l’unico fondamento, universale e necessario, di tutti i campi dell’agire umano. La censura di Federico II e la relativa risposta di Kant, che, pur difendendo la sua impostazione, si dichiara il “primo suddito” del Re, costituiscono l’apertura de Il conflitto delle facoltà, che si occupa, ancora, del rapporto tra religione e razionalità. Le facoltà di cui qui parla Kant sono gli istituti universitari, che spesso si trovano in contrasto tra loro. In particolare Kant si occupa dei conflitti tra filosofia e teologia, filosofia e giurisprudenza e filosofia e medicina, che costituiscono gli argomenti trattati nei tre saggi contenuti nel volume. Il riferimento è alla distinzione, operata nel Medio Evo, tra facoltà superiori, teologia, medicina e giurisprudenza, e inferiori, la filosofia. A questa distinzione Kant oppone quella secondo cui la filosofia, intesa come la disciplina ad uso della ragione, costituisce il fondamento comune e universale di tutte le altre scienze. Il conflitto delle facoltà, diventa, in tal modo, fittizio proprio perché vinto da una facoltà superiore in grado di superare i particolarismi delle singole discipline. Ne risulta una sorta di platonismo, per cui la filosofia si assume l’onere e l’onore di guidare e di indirizzare anche, ad esempio, la politica e la religione. Nel secondo saggio emerge, di fatto, la completa superiorità della filosofia sulla politica, cui consegue un rifiuto della tradizione e dell’autorità, visti come manifestazioni storiche dei pregiudizi. Riprendendo i toni della Risposta alla domanda: “Che cos’è l’Illuminismo?”, Kant mostra come i particolarismi delle diverse discipline siano superabili esclusivamente dalla capacità razionale e umana di trovare un fine comune e ultimo, che dia senso all’esistenza. Appare dunque evidente come per Kant l’universalità della ragione non riguardi l’ambito conoscitivo: la rivoluzione copernicana costituisce una parte determinante della razionalità, ma non ne esaurisce i fini. La conoscenza del soggetto trascendentale, infatti, perde quella connota- PROSPETTIVE DI RICERCA zione di sintesi universale, caratteristica della Critica della ragion pura, e viene limitata all’ambito gnoseologico e fenomenico. Spetta, allora, alla ragion pratica il compito di unificare il pluriprospettivismo delle diverse scienze, che senza un’unità di fondo rivelano conflitti e aporie. Il fondamento di libertà e verità, inteso come base della ragion pratica, costituisce quell’apertura universale in grado di dare senso all’uomo e alle sue attività. A.S. L’essenza del cristianesimo in Feuerbach Ne L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, di cui oggi è finalmente disponibile l’edizione integrale italiana (a cura di F. Bazzani, trad. it. di F. Bazzani e D. Haibach, Ponte alle Grazie, Firenze 1994), si esprime l’antropologia filosofica di Ludwig Feuerbach, nel suo tentativo di rintracciare il fondamento della religione, in particolar modo della religione cristiana. Posta l’origine della religione nell’alienazione dell’essenza umana in quella divina, Feuerbach delinea la sua filosofia come ricostituzione delle capacità dell’uomo di riconoscere le qualità divine della sua stessa natura. Particolare interesse assume qui la religione cristiana con le sue contraddizioni, il suo nascosto desiderio di recuperare la fisicità mediante il mistero della reincarnazione. Ne L’essenza della religione l’argomentazione teorica di Ludwig Feuerbach è suddivisa in due sezioni. Nella prima sezione, più ampia e articolata, Feuerbach presenta le sue tesi sulla base di stringenti dimostrazioni. Tutto il suo discorso ruota intorno alla riduzione della religione e della teologia ad antropologia attraverso l’esame del significato dell’alienazione umana. Con la religione l’uomo si allontana da sé, esce da sé, alienando in Dio, in una realtà estranea, la propria essenza e quindi ponendo il problema della ricostituzione della propria identità. Le potenzialità umane vengono completamente dispiegate ed attualizzate in Dio, che assume perciò sembianze umane, rivelando il suo carattere di un Dio a misura d’uomo. Infatti, osserva Feuerbach, quando l’uomo descrive Dio si avvale delle caratteristiche della sua stessa natura, ampliandole all’infinito; Dio diventa un puro oggetto di pensiero, frutto unicamente dell’intelletto umano, che pensando se stesso si illude di pensare Dio, mentre rivela solo la coscienza che ha di se stesso. Il Dio che emerge dalle pagine di Feuerbach è il risultato di un progetto esistenziale umano, che attraverso gli attributi della provvidenza, della predestinazione, del miracolo, ha un unico obiettivo: l’uomo. Questo fine peculiare si evidenzia particolarmente nel Ludwig Feuerbach tema della salvezza, che è rivolta in modo privilegiato all’uomo che attraverso la fede religiosa mostra orgogliosamente i propri privilegi rispetto agli altri esseri viventi. E quando l’uomo, in silenzio, si rivolge a Dio con la preghiera, per Feuerbach non fa altro che dialogare con il proprio cuore, confidando nell’esaudimento dei suoi desideri. In quest’ottica, la fede in Dio risulta essere la più grande celebrazione della fede nell’uomo. Nel tentativo di dimostrare la propria validità razionale, fa notare Feuerbach, la religione si involge in una spirale di argomentazioni sofistiche che sono proprie della teologia razionale e che rivelano il loro carattere contraddittorio quando venga messa in rilievo l’essenza umana della religione. Così, una dopo l’altra, sotto le sferze concettuali di Feuerbach, cadono tutte le credenze religiose. Il segreto fondamento della creazione divina del mondo è l’autocoscienza umana; ugualmente, la causa del misticismo è rintracciabile nell’essenza umana che si trasfigura nell’essenza divina mediante la separa47 zione dello spirito dal corpo. Per quanto riguarda l’immortalità umana, osserva ancora Feuerbach, l’uomo con essa non solo realizza uno dei suoi maggiori desideri, ma riacquista anche quella sua parte materiale dalla quale aspirava a distaccarsi in nome della fede religiosa, spirituale. Anche il dogma della trinità ha qui una sua spiegazione: l’essenza umana, pur nella sua unicità, è differenziata a causa della particolarità irripetibile di ogni individuo; la trinità non sarebbe altro che la rappresentazione sostanzializzata di questa ricchezza e varietà proprie dell’essenza umana. Nel suo intento di cogliere l’essenza della religione Feuerbach mostra la sua predilezione per il cristianesimo, che edificando un Dio più umano rispetto a quello di altre religioni, come quello freddo e distante, quasi inumano, della religione ebraica, rivela maggiormente le contraddizioni della religione stessa. La peculiarità del cristianesimo è costituita dalla figura di Cristo, che simboleggia il cuore liberato da tutti i legami e PROSPETTIVE DI RICERCA quindi “l’onnipotenza della soggettività”. Nella figura di Cristo è posta l’esigenza, propria del Cristianesimo, del superamento della scissione dell’uomo. Una volta separatosi dalla sua essenza, alienandola in Dio, l’uomo avverte l’esigenza di recuperarla e quindi edifica il mistero della reincarnazione, che dunque costituisce un circolo vizioso: l’uomo, fattosi Dio, ritorna ad essere uomo. La filosofia di Feuerbach è volta a valorizzare l’uomo nel suo essere sensibile, concreto, lontano dall’ingannevole cielo spirituale della religione, mediante il recupero di tutte quelle qualità che aveva perduto. Si tratta quindi di un’antropologia che fa dell’uomo il Dio di se stesso, che riafferma la divinità nell’anima umana contro un Dio mistico, lontano dalle radici terrestri umane, un Dio immensamente distante, che rende l’uomo estraneo a se stesso. Quest’antropologia si ripropone di ricondurre Dio all’essenza umana, consentendo all’uomo di riappropriarsi della sua essenza alienata e recuperare così il suo valore divino. In questo Feuerbach si inserisce in quella linea di pensiero che si oppone alla riduzione dell’esistenza all’essenza, proponendo invece una valorizzazione dell’esistenza sensibile, quella che è attestata direttamente dalla concretezza dei sensi, che non può essere ricondotta ad un astratto oggetto di pensiero. La filosofia di Feuerbach è quindi celebrazione dell’esistenza umana, di quell’esistenza che assume significato solo nel rapporto con gli altri. Per Feuerbach, l’uomo prende coscienza di se stesso nel momento in cui prende coscienza degli altri uomini. In quest’ottica Feuerbach apprezza della religione cristiana l’attributo divino dell’amore, che per lui è solo amore per gli altri uomini, l’amore per l’umanità. Se la fede religiosa separa l’individuo dagli altri, dandogli l’illusione di un destino privilegiato, l’amore invece lo ricongiunge agli altri uomini. Riportando Dio a sé, l’uomo non fa altro che riconciliarsi con se stesso. M.Mi. Biografie nietzscheane La connessione tra vita e pensiero nell’opera di Friedrich Nietzsche è al centro di due recenti biografie: si tratta dell’opera di Joachim Köhler, NIETZSCHE. IL SEGRETO DI ZARATHUSTRA (trad. it. di P. Fontana, pref. di F. Minazzi, Rusconi, Milano 1994), che affronta la vita del filosofo da un punto di vista psicologico, e della raccolta autobiografica di scritti dello stesso Nietzsche, COME SI DIVENTA CIÒ CHE SI È (trad. it. di C. Buttazzi, introd. di C. Pozzoli, Rusconi, Milano 1994). La biografia di Joachim Köhler affronta la vita del filosofo tedesco in funzione della sua sessualità e psicologia. Come osserva Fabio Minazzi nella sua Prefazione, l’identità di vita e pensiero, tanto esaltata da Nietzsche, comporta un’attenzione alla corporeità dell’uomo, che intende anche, e soprattutto, superare “fisicamente” se stesso. Per tale motivo Köhler rifiuta una lettura come quella di Heidegger, che vedeva in Nietzsche “una testa senza corpo”, e, al contrario, volge la sua attenzione all’animalità corporea del filosofo. Addentrandosi nella psiche del giovane Nietzsche, Köhler riscontra un complesso di Edipo esasperato al punto da manifestarsi, anche secondo le testimonianze di amici e studenti del filosofo, in una nascosta, e drammaticamente vissuta, omosessualità. Da un tale punto di vista, Köhler può spiegare diversi elementi teoretici che, finora, non avevano trovato una reale giustificazione. Ricordiamo, in tal senso, l’importanza della lettura da parte di Nietzsche della Metafisica della sessualità di Arthur Schopenhauer, che descriveva l’amore eterosessuale come la massima manifestazione dell’arbitrio e del dominio della voluntas sull’uomo. Il rifiuto di questo tipo di amore ha, secondo Köhler, condotto Nietzsche all’esaltazione di quell’unica forma di rapporto amoroso che, alternativamente, esclude la procreazione, e cioè l’omosessualità. Da un tale punto di vista, la vera colpa di Socrate, nella filosofia nietzscheana, consisterebbe infatti, osserva Köhler, nell’aver respinto il giovane Alcibiade, come si legge nel Simposio di Platone. In altre parole la rinuncia all’amore omosessuale avrebbe in seguito portato Socrate a commettere altre colpe, come la definitiva esclusione del dionisiaco dalla cultura greca, che, una volta privata del culto della pederastia, avrebbe iniziato la sua vera decadenza. Anche la raccolta autobiografica nietzscheana dal titolo: Come si diventa ciò che si è, si caratterizza per i continui richiami a vissuti e ad elementi biologico-corporei. Il volume comprende tre gruppi di scritti autobiografici, che narrano il guardarsi dal di dentro di Nietzsche in tre diversi momenti della propria vita. Il primo gruppo, “La mia vita”, raccoglie le pagine dei diari scritti dal 1856 al 1869, quando il giovane Nietzsche, profondamente segnato dalla morte del padre, si affacciava alle soglie dell’età adulta. Il secondo gruppo, che risale al 1886, contiene le prefazioni agli scritti più famosi, ricche di elementi biografici e di vissuti. Chiude la raccolta “Ecce homo”, del 1888, l’autobiografia in cui Nietzsche, pochi mesi prima della pazzia, giustifica la stesura delle sue opere in funzione della propria esistenza. Così, una volta dichiarato il proprio compito, il rovesciamento degli idoli, il filosofo racconta quegli episodi che hanno inciso la sua vita al punto da essere trascinati nella sua produzione filosofica e letteraria. Emerge tra questi il sofferto rapporto con Richard Wagner: l’iniziale passione e l’identificazione del musicista con Dioniso e Zarathustra e la definitiva rottura, seguita dopo la stesura del Parsival che, dolorosamente, porta Nietzsche a definire l’amico di un tempo “rammollito”. A.S. 48 Lettere di Epicuro La pubblicazione delle LETTERE SULLA FISICA, SUL CIELO E SULLA FELICITÀ (trad. it. di N. Russello, Rizzoli, Milano 1994) di Epicuro offre una sintesi essenziale, ma non schematica, di una dottrina volta a definire un metodo scientifico basato sull’esperienza. I temi maggiormente trattati sono la fisica come scienza, l’astronomia e l’etica. Per comprendere queste Lettere di Epicuro occorre fare un salto indietro nella storia e calarsi nel contesto socio-culturale in cui Epicuro è vissuto. La dottrina di Epicuro rappresenta una vera innovazione; per la prima volta la fisica viene considerata come scienza autonoma. La prima lettera che Epicuro indirizza a Erodoto verte infatti su una concezione della fisica che riprendendo i principi dell’atomismo, si contrappone radicalmente agli esiti di un tutto ordinato del pensiero platonico, così come agli sviluppi aristotelici. Per affermare l’esistenza di un universo, scrive Epicuro all’amico, non si può partire dal nulla, ma dai corpi e dallo spazio in cui essi si muovono. La materia, a sua volta, ha come elemento costituitivo gli atomi che rappresentano l’origine e la spiegazione di tutte le cose. Muovendosi, infatti, gli atomi si aggregano a formare mondi infiniti, che nascono e si dissolvono, nell’eterna durata del tempo. Nella sua ricerca scientifica Epicuro non si avvale di alcun disegno aprioristico, ma si limita a considerare la realtà tangibile, i fatti riscontrabili nell’esperienza. Anche nella seconda lettera, diretta a Pitocle, che tratta di astronomia, Epicuro pone come fondamento unico di ogni indagine sugli astri i fenomeni, ovvero quelle entità date e conoscibili mediante l’esperienza. Anche gli astri vengono visti in chiave materialista e non metafisica, pur non escludendo l’esistenza degli dei. La terza lettera, diretta a Meneceo, è una lunga riflessione sul problema etico e sulla felicità quale obiettivo di ogni individuo. La felicità di cui parla Epicuro è una felicità dell’anima, un raggiungimento di saggezza e serenità interiore per sconfiggere la paura della morte e dell’ignoto. Epicuro esorta Meneceo (e con lui i suoi discepoli) a diffidare dei piaceri effimeri della vita terrena e ad inseguire una vita semplice, dedita alla meditazione e all’autenticità dei valori umani. La lettera solleva la necessità del raggiungimento di una ricchezza interiore, considerata dall’autore premessa indispensabile per una autentica felicità, singola e collettiva. Anche in questo caso l’esperienza dell’esistere è il perno su cui poggia la fedeltà epicurea; la dottrina della felicità, in particolare, rappresenta da parte di Epicuro una difesa dell’unicità dell’esistenza, pur non essendo egli un esistenzialista. D.M. NOTIZIARIO Del fondatore del positivismo, AUGUSTE COMTE, è stata pubbli- cata in ambito anglosassone una dettagliata biografia intellettuale: Auguste Comte. An intellectual biography, Volume one (Auguste Comte. Una biografia intellettuale, volume uno, Cambridge University Press, Cambridge 1993). L’autrice, Mary Pickering, ritiene che ripercorrendo la vita di Comte possa essere chiarita la plausibilità della sua autoproclamazione di inventore della scienza delle relazioni sociali: la sociologia. Filo conduttore dell’analisi di Pickering è costituito dalle relazioni di Comte con il mondo femminile. La prima significativa presenza femminile nella vita di Comte fu la madre, che dominava in modo opprimente la vita della famiglia e verso la quale egli nutrì sempre sentimenti ambivalenti. A tredici anni, si ribellò contro la fede cattolica e monarchica dei genitori, annunciando che non avrebbe più creduto in Dio, proclamandosi “repubblicano”. La triste esperienza dell’infanzia spinse Comte, secondo la sua stessa ammissione, a cercare nella «vita pubblica la nobile, anche se imperfetta, compensazione dell’infelicità della sua vita privata». Anche la sua relazione matrimoniale con Caroline Massin, una ex prostituta che egli voleva sottrarre alle liste di prostituzione della polizia, fu misera, tanto da essere definita da Comte «l’unico irreparabile errore» della sua vita. Il naufragio matrimoniale fu poi anche aggravato da difficoltà finanziarie. L’esperienza negativa del matrimonio, secondo quanto riferisce Pickering, portò il filosofo ad individare nell’amicizia tra uomini «il solo legame completo, veramente durevole» e a sconfessare le sue precedenti opinioni sull’emancipazione delle donne. A ventotto anni, Comte sperimenò la discesa nella follia, che descrisse come una «crisi cerebrale» dovuta alla «fatale coincidenza di grandi dolori morali e duro lavoro». Dopo la malattia, ottenuto il divorzio, incontrò Clothilde de Vaux, con la quale ebbe una relazione solo platonica, facendo di lei «l’angelico modello» del suo programma di “religione dell’umanità”. Così, paradossalmente, osserva Pickering, “il fondatore” della sociologia come scienza dei rapporti sociali si trovò a disagio proprio nell’ambito delle relazioni fondamentali della vita. La vita di Comte dimostra come il suo progetto intellettuale di riconciliare scienza e consenso morale, scienza e religione, esprima un’esperienza centrale della sua esistenza. In tal senso, Pickering si oppone con forza a quei critici che vedono nella seconda parte dell’opera di Comte, quella dedicata alla “religione dell’umanità”, un aberrante frutto della sua follia, come afferma ad esempio J. S. Mill, dimostrando invece come il programma di una “religione dell’umanità” e la riforma politica ad essa connessa siano già presenti a partire dalle prime opere di Comte. Inoltre Pickering rileva che la concezione positivistica sostenuta da Comte è una prospettiva che denuncia il “puro empirismo” e ac- NOTIZIARIO cetta che il giudizio sui valori possa portare ad una conoscenza positiva, cioè una fondazione dei principi morali positivi. Lo stesso Circolo di Vienna gli rimproverò l’assenza, nella sua filosofia, di una distinzione adeguata degli aspetti rigorosi delle procedure scientifiche da quelli più speculativi morali e valoriali. In conclusione, secondo le considerazioni di Pickering, l’autoproclamazione di Comte come fondatore della sociologia, deve essere rivista,dato che egli, insieme a Saint-Simon, fu solo una delle fonti dello sviluppo della scienza sociale nel XIX secolo e l’aver posto al centro della teoria sociologica la “legge dei tre stati” e la nozione di gerarchia delle scienze non fu determinante nel successivo orientamento di questa disciplina. M.G. “luoghi del sapere”, nei quali le trasformazioni e gli incontri del pensiero possano dispiegare le loro potenzialità critiche. Quest’impostazione, ha sottolineato Adelino Zanini, presuppone un’esperienza e uno stile di lavoro, nonché di scrittura, che intendono fornire elementi utili a un’indagine di tipo genealogico sugli eventi della contemporaneità, che in quanto tali hanno costituito, e devono costituire, motivo e ambito del dispiegarsi di una passione filosofica in grado di operare collegamenti non irrilevanti tra linguaggio e saperi che intendano esperire il mondo. La categoria del “possibile”, reinterpretata attraverso quella di “virtuale”, viene da Fadini accostata alla nozione di “attualità” in quanto entrambe elementi di una lettura del reale che - citando Canetti - intende istaurarsi a partire da un’esperienza di pensiero e per questo non può esaurirsi nell’ordine dell’esistente. Il tentativo filosofico si connota perciò, in via immediata, come “politico” e come “storico”; il referente ideale appare, infatti, quello di una “comunità”, linguistica e concettuale, tenuta assieme da relazioni che contengono in sé la possibilità del proprio divenire, del proprio “poter essere altrimenti” e, in ciò, del proprio essere “altre”. Un tentativo filosofico che non può dunque che porre a tema le questioni del soggetto e dell’alterità, concepite come quel rapporto tra teoria e prassi nel soggetto, che fa perno su una ridefinizione della categoria di corporeità. F.C. Nel maggio del 1994, presso l’Istituto Filosofico “Aloisianum” di Gallarate si è costituito il SEMINARIO PERMANENTE DI FILOSOFIA CONTEMPORANEA, diretto da Ubaldo Fadini e Adelino Zanini. La struttura intende dare veste formale all’attività di un gruppo di studiosi che da alcuni anni lavorano intorno alla riproposizione di un pensiero critico-affermativo, che sia in grado di articolare posizioni teoriche alternative rispetto a quelle delineate dall’approccio, comunque variegato, della riflessione filosofica incentrata sulla nozione di “postmoderno”. In questa prospettiva, i primi confronti hanno avuto per oggetto la riflessione di Gilles Deleuze (gli atti del convegno relativo, dal titolo: Gilles Deleuze: un pensiero “forte” della differenza ontologica, sono stati pubblicati nel secondo fascicolo del 1993 della rivista «Fenomenologia e società») e, successivamente, con quella di Michel Foucault, al quale è stato dedicato un seminario sul tema: “Archeologìa dei saperi. Produzione di soggettività e forme di razionalità”. Nel novembre del 1994 è stato infine organizzato un convegno dal titolo: “Essere-Nulla-Progetto. A proposito di Jean Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty”. Illustrando le finalità dell’iniziativa, Ubaldo Fadini ha affermato che uno degli intenti del Seminario è quello di evidenziare, e mettere alla prova, capacità di analisi in grado di produrre In una nuova edizione, a cura di Carlo Augusto Viano, è stata ripubblicata la LETTERA SULLA TOLLERANZA (Laterza, Roma-Bari 1994) di John Locke, uno dei manifesti più efficaci del liberalismo, scritto durante il tentativo di restaurazione degli Stuart. A fronte della stretta alleanza tra il potere della Corona e quello della Chiesa, con il conseguente venir meno delle libertà politiche e religiose del singolo individuo, la lettera ribadisce l’irrinunciabilità dei diritti fondamentali dell’uomo. In opposizione a una concezione utilitaristica dello Stato, così come a una concezione etica, la difesa programmatica della tolleranza presuppone, innanzitutto, 49 la separazione tra potere politico e religioso e, in secondo luogo, il rispetto assoluto delle diversità di fede religiosa degli individui. La tolleranza religiosa, secondo Locke, ha però un limite: gli orrori compiuti dai cattolici in Inghilterra. Il magistrato, secondo Locke, deve infatti avere tolleranza illimitata per le questioni religiose puramente speculative; ma deve limitare la propria tolleranza di fronte a questioni che possono nuocere allo Stato. In questo modo, Locke intendeva porre un limite all’azione dei cattolici, che, soggetti ad un’autorità diversa da quella del Re, il Papa, potevano interferire con le vicende politiche dello Stato. Decisamente intollerante, infine, deve essere l’azione giuridica verso qualsiasi comportamento immorale. La difesa della società libera e tollerante operata da Locke auspica, in questo modo, la convivenza pacifica di diverse culture e rifiuta, aprioristicamente, qualsiasi ideologia. Una concezione di questo tipo, osserva tuttavia Viano, nasconde a sua volta un elemento ideologico, cioè la considerazione di una società minimale, in cui ogni fede o cultura può convivere con le altre al prezzo di ridimensionare i propri confini e di cancellare quegli eccessi, tipici di alcune culture, che di fatto non vengono tollerati da Locke. A.S. La nuova edizione de L’APOLOGIA DI SOCRATE di Platone (trad. di A. De Fabrizio, Sellerio Editore, Palermo 1994) è preceduta da un ampio saggio di Luciano Canfora che, considerando il rapporto tra maggioranza e minoranza, mette sotto accusa la giuria che condannò Socrate. Influenzata dalle produzioni letterarie del tempo, come le commedie di Aristofane, responsabili di una forte influenza sull’opinione pubblica, la giuria appare soggetta a un condizionamento di massa che le impedisce di valutare l’appassionata difesa di Socrate. A nulla, infatti, valgono le argomentazioni del filosofo, che deve difendersi dall’accusa di empietà e di corruzione dei giovani. Nonostante le argomentazioni di Socrate, rette da una profonda coerenza formale e di contenuto, la giuria dà credito alle accuse, a volte incoerenti e spesso infondate, e decide per il verdetto di colpevolezza. Dalle parole di Platone traspare la reazione serena di Socrate che, dopo aver rifiutato la possibilità di una vita senza ricerca, riflette sul senso della morte, intesa o come dolce sonno o come luogo di incontro delle anime più sapienti. Alla ragione, a cui fa appello Socrate e la minoranza della giuria a lui favorevole, si oppone una maggioranza condizionata e parziale, che decide per la condanna a morte. A.S. Avvalendosi dell’opera e della consulenza di un qualificato gruppo di studiosi e di ricercatori nell’ambito NOTIZIARIO del goethianismo scientifico, la casa editrice Il Capitello del Sole ha avviato l’edizione integrale in lingua italiana degli SCRITTI SCIENTIFICI DI GOETHE, con l’intento di colmare una grave lacuna nel panorama culturale italiano, essendo ancora praticamente inediti i saggi, gli studi, le monografie e i frammenti, che complessivamente costituiscono il corpus dell’opera scientifica di Goethe. Le rare e sommarie edizioni antologiche e i parziali estratti monotematici risultano infatti avulsi dalla complessa organicità in cui si articola la sua indagine. Se si considera che nella grande edizione di Weimar gli scritti di scienze naturali riempiono quattordici volumi e che molti ampi passi sono presenti nei cinquanta volumi delle lettere e nei trentasette volumi dei diari, questo panorama statistico dà l’idea dell’importanza dell’opera scientifica goethiana. Iniziata negli anni universitari di Lipsia e Strasburgo con il saggio La natura, apparso sul «Tiefurter Journal» del 1782, l’opera scientifica di Goethe terminò solo poco prima della sua morte. Il costante interesse di Goethe per le più diverse manifestazioni della natura (botanica, zoologia, teoria dei colori, metereologia, geologia), e la sua contesa con Newton, non fecero però di lui un naturalista noto. I suoi scritti scientifici venivano giudicati “eterodossi”: di poco conto dal punto di vista letterario e imbarazzanti da quello scientifico. Inoltre, grandi difficoltà dovette affrontare Goethe per pubblicare i suoi studi; emblematica, in tal senso, fu la riluttanza dell’editore Göschen a pubblicare la Metamorfosi delle piante. Lo stesso importante lavoro sull’osso intramascellare fu stampato per la prima volta solo nel 1830 dall’Accademia Leopoldo-Carolina di Halle. L’ordine dei volumi delle opere di Goethe, attualmente esistenti, pubblicati intorno al 1900 da R. Steiner e S. Kalischer, sarà mantenuto nell’edizione italiana. I testi saranno accompagnati da un esauriente apparato di note storico-biografiche e terminologico-scientifiche. Ai dodici volumi suddivisi per grandi aree disciplinari: la morfologia della natura organica, la filosofia della natura e la scienza, la natura minerale e la dottrina dei colori e un volume di massime e riflessioni di argomento filosofico e scientifico, seguiranno una scelta di testi e di contributi, a carattere specialistico e generale, di ricercatori e scienziati che negli ultimi decenni hanno assunto l’epistemologia di Goethe a guida delle loro ricerche. M.C. Di MARGHERITA PORETE, condannata come eretica il 1 giugno 1310, appare, in prima edizione italiana,Lo specchio delle anime semplici annichilate e che dimorano soltanto in volontà e desiderio d’amore (Le mirouer des simples ames anien- ties et qui seulement demourent en vouloir et desir d’amour, trad. it. di G. Fozzer, San Paolo, Milano 1994). L’edizione presenta il testo mediofrancese a fronte e, in appendice, la versione trecentesca italiana, a cura di Romana Guarnieri. Lo specchio delle anime semplici conduce il lettore alla conoscenza non solo della tragedia di cui Porete fu vittima, ma al suo sofferto percorso mistico-spirituale che segnò tutta la sua esistenza. Nata a Valenciennes tra il 1250 e 1260, Margherita Porete, incarna i più alti valori della fede cristiana a partire dalla messa in atto dei precetti evangelici, per giungere alla piena libertà dello spirito. L’elemento che caratterizza l’opera è un linguaggio che si presenta sotto forma di dialogo espresso in lingua volgare (piccardo), con toni che in alcuni passaggi assumono un carattere simbolico, sintesi di esperienza mistica. D.M. Segreteria centrale della Facoltà di Lettere e Filosofia, via Savonarola 9, 44100 Ferrara (per ulteriori informazioni ci si può rivolgere alla Segreteria della Facoltà, tel. 0532/ 247506, 210929, 210007 - fax 0532/ 202689). Si è costituito a Oldenburg (Oldb.), in Germania, il centro di ricerca FILOSOFIA ITALIANA-STIFTUNG, il cui scopo è promuovere la ricerca scientifica sulla filosofia italiana contemporanea e avviare contatti con filosofi italiani. A tal fine sono previsti borse di studio e sovvenzioni per favorire progetti di ricerca sulla filosofia italiana contemporanea; filosofi italiani sono invitati a tenere conferenze e corsi di lezioni presso l’Università di Oldenburg; vengono finanziati convegni su tematiche inerenti all’attuale situazione della filosofia italiana con l’intento di creare condizioni proficue per uno scambio di idee tra studiosi tedeschi e italiani. L’intenzione è anche quella di creare presso l’Università di Oldenburg un centro di ricerca sulla filosofia italiana contemporanea, che attraverso monografie, traduzioni, conferenze, faccia conoscere in Germania gli sviluppi della tradizione filosofica italiana a partire dall’Illuminismo fino alle più recenti tendenze del dibattito filosofico. Attuale presidente del cento di ricerca è Wilhelm Büttemeyer, a cui si devono importanti studi sul pensiero filosofico italiano del XIX e XX secolo. Tra le prime iniziative del centro si segnala una conferenza tenuta a Oldenburg da Franco Volpi il 28 giugno 1994 sul tema: “Nietzsche in Italia. Una ricezione senza confini”. La Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Ferrara, bandisce 50 posti per la frequenza al corso annuale di perfezionamento in STUDI SUL RINASCIMENTO ITALIANO. Il corso si propone di offrire, attraverso diversi contributi disciplinari, una preparazione specifica nell’area della cultura rinascimentale. La durata del corso è di un anno accademico, e non è suscettibile di abbreviazioni. Prevede duecento ore di lezione, che saranno concentrate in due periodi (maggio-giugno e settembre-ottobre). Il corso si articola nelle seguenti aree disciplinari: letteratura e storia della lingua italiana, filologia umanistica, storia medioevale e moderna, storia delle scienze e della geografia, storia dell’arte e della critica d’arte, storia della musica e del teatro, storia della filosofia e dell’educazione, letterature comparate. Il programma completo delle discipline e l’elenco dei docenti, interni ed esterni, sarà comunicato entro il 31 dicembre 1994. Il Consiglio di Corso è formato dai docenti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara, che svolgono attività didattica nel Corso. I corsi inizieranno nel mese di maggio 1995. L’Università rilascerà ai partecipanti un diploma di laurea presso un’Università italiana o presso un’Università straniera, secondo la normativa vigente in materia di equipollenza. La domanda di ammissione, accolta in base alla valutazione dei titoli, dovrà essere accompagnata da due lettere di presentazione da parte di docenti o studiosi di chiara fama. Il numero massimo di partecipanti è fissato in 50, il numero minimo in 35. Il termine per la presentazione delle domande di iscrizione scade il 31 gennaio 1995 e la quota prevista è fissata in L. 1.000.000 da versarsi in due rate. La domanda va compilata su carta legale, indirizzata al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Ferrara e presentata alla Con l’inizio del 1995 prende avvio INSEGNARE FILOSOFIA, una rivista quadrimestrale di ricerca sulla didattica della filosofia, diretta da Mario Quaranta e pubblicata dalla casa editrice Pagus di Treviso. In questi anni l’attenzione ai problemi della didattica è cresciuta; sono state svolte diverse indagini sull’insegnamento della filosofia da parte della Società Filosofica Italiana e di diversi IRRSAE. Queste indagini hanno messo in evidenza un disagio diffuso e la domanda di strumenti didattici nuovi, per non ridurre lo studio della filosofia a pura e semplice memorizzazione di parti di un manuale. Nel frattempo i nuovi programmi di filosofia elaborati dalla commissione “Brocca” hanno precisato fini e metodi dell’insegnamento della filosofia nella ipotizzata riforma della scuola secondaria superiore. La novità di questi programmi sta nell’aver posto al centro della didattica la lettura dei filosofi e nell’aver relegato il manuale in una posizione marginale. «Insegnare Filosofia» vuole essere una risposta alla nuova domanda degli insegnanti. L’ambizione della ri- 50 vista è costruire un circuito di collaborazione, di dialogo e di ricerca comune fra gli insegnanti nel presupposto che anche la didattica della filosofia sia un campo di ricerca capace di dare frutti significativi. Il primo numero apre la riflessione su: L’aggiornamento degli insegnanti di filosofia (Anna Sgherri Costantini), Possibilità e problemi di una didattica della filosofia (Armando Girotti), L’educazione alla ricerca filosofica a scuola (Giuseppe Deiana), Il ruolo della memoria e del pensiero per immagini in didattica della filosofia (Mario Trombino), Bilancio di un esperimento in filosofia (Guerrina Della Valle). Al corpo di saggi sulla “filosofia insegnata” vanno aggiunti un saggio di Karl Popper, inedito in Italia, Come la luna potrebbe gettare un po’ di luce sulle due vie di Parmenide e un testo inedito di Enzo Melandri, La precomprensione di Leibniz. Quali sono i caratteri del nuovo equilibrio mondiale che si va profilando? Quali vincoli e quali opportunità esso pone per il processo di integrazione europea? In un mondo sempre più interdipendente, ma nel quale permangono gravi disuguaglianze di sviluppo economico e sociale, qual è il significato e quale il futuro prevedibile delle comunità politiche, caratteristiche dell’epoca contemporanea: le nazioni, delle vecchie nazioni e delle nazioni nuove? Alla fine del secolo, che sarà forse chiamato il secolo delle ideologie, quali sono i connotati presenti e le prospettive future della politica ideologica? Come dobbiamo correggere la nostra interpretazione della democrazia liberale ora che essa appare quasi privata dei suoi nemici più tenaci? Come dobbiamo ripensare il caso dell’Italia? Come possiamo prospettare politiche costituzionali capaci di promuovere il consolidamento istituzionale della democrazia? A queste e ad altre domande intendono fornire una risposta i QUADERNI DI SCIENZA POLITICA, una nuova rivista quadrimestrale, diretta da Mario Stoppino, che intende prsi in costante collaborazione con tutte le discipline che studiano la politica con criteri diversi, o che studiano fenomeni sociali importanti per comprendere la politica. Nel primo numero (1/1994) compaiono articoli di Mario Stoppino, Che cos’è la politica, di Giuseppe Ieraci, Presidenzialismo e parlamentarismo nelle democrazie difficili, di Marco Clementi, La teoria dei regimi internazionali. Nel secondo numero (2/1994) sono previsti articoli di Franco Goio, Teoria della nazione, di Giampiero Cama, Istituzioni politiche, movimento operaio e crisi di partecipazione. Un confronto fra Gran Bretagna e Germania, di Alessandro Bruschi, Narrazione e teoria. CONVEGNI E SEMINARI CONVEGNI E SEMINARI Augusto Guzzo nel centenario della nascita In occasione del centenario della nascita di Augusto Guzzo, l’Accademia delle Scienze di Torino, la Facoltà di Lettere e Filosofia, i Dipartimenti di Ermeneutica filosofica e di Filosofia dell’Università di Torino hanno organizzato il 12 e il 13 aprile 1994, presso l’Università di Torino, un convegno dal titolo: “AUGUSTO GUZZO A CENT’ANNI DALLA NASCITA”, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Giuseppe Riconda, Pietro Rossi, Francesco Barone, Vittorio Stella, Nynfa Bosco, Vittorio Mathieu, Carlo Augusto Viano, Amalia De Maria, Corrado Rosso, Francesco Moiso e Giuseppe Cambiano. Ha aperto i lavori del convegno Francesco Barone, che ha sollevato l’esigenza di rivedere la teoria storiografica che classifica Augusto Guzzo come spiritualista. Guzzo, infatti, ha sempre cercato di distinguere il chiarimento di sé a se stessi, opera della filosofia, e il tentativo di rispondere agli interrogativi, che tale chiarimento solleva, di competenza invece della religione, intesa come «esperienza del soprannaturale, per iniziativa dello stesso soprannaturale». Secondo Barone, la speculazione guzziana, volendo chiarire l’ambiguo rapporto tra filosofia religione, delinea la possibilità di una concezione della filosofia che non sia in concorrenza con le altre attività umane, ma affermi, attraverso l’innegabile vitalità di queste, la propria vitalità. Il senso del rapporto tra filosofia e religione nella sua complessità dà luogo ad una riflessione, da intendere come una Weltanschauung distinta dalla filosofia, che è, invece, ricerca trascendentale. Di fronte al venir meno del peso della certezza nella cultura contemporanea, l’attualità di Guzzo, ha osservato Barone, risiederebbe in quella tensione tra il bisogno di certezza e le risposte sempre storiche e contingenti, che ad esso vengono date in ogni campo dell’attività umana. Per ciò che riguarda la prospettiva estetica, Vittorio Stella ha sottolineato la costante disposizione di Guzzo a riflettere sull’arte, la cui esperienza, per essere compresa nel suo svolgimento spirituale, deve essere pensata come sensazione che si configura in sentimento. In particolare, Stella ha messo in evidenza la distanza tra l’estetica guzziana e quella crociana: la prima, forte di un’istanza conoscitiva, guarda alla “realtà” e intende l’arte come conoscenza e l’intuizione come un cogliere il “profondo”; la seconda si disinteressa della “realtà” e si concentra sul “motivo” o “spunto”. Così, l’arte è per Guzzo espressione di ciò che lo spirito pensa e sente in forme inventate apposta per esprimerlo. Il tema della forma formante, ha ricordato Stella, sarà sviluppato da Luigi Pareyson, la cui estetica prenderà emblematicamente il nome di “teoria della formatività”. L’aspetto morale della speculazione guzziana è stato invece analizzato da Nynfa Bosco, che ha definito la filosofia di Guzzo come un’antropologia filosofica, poiché il suo oggetto è costituito da tutta quanta l’esistenza dell’uomo. Dato che eminentemente morale è il processo per il quale l’individuo si universalizza in una nuovissima sintesi, nella quale i due opposti si trascendono l’un l’altro, si può parlare in Guzzo di un primato della coscienza morale. L’etica guzziana, ha rilevato Bosco, appare, da un lato, filocalica e platonica nella sua genesi, in quanto in essa la libertà si configura non solo come responsabilità, ma anche come disposizione a formare, ossia come arte; dall’altro, aristotelica nel suo dispiegarsi, in quanto propone un legame vitale che unisce la scelte dei singoli e le forme della civiltà, senza, tuttavia, che i due profili possano essere separati. L’etica di Guzzo risulta, in ultima analisi, essenzialmente vocazionale e naturale; ne deriva una raffigurazione della vita morale vivace, dettagliata e armonica, ma per nulla tragica e, quindi, di stile classico. Vittorio Mathieu ha illustrato la prospettiva religiosa di Guzzo, prendendo spunto da una lettera inedita a Ugo Spirito, scritta da Guzzo nei primi mesi successivi alla morte della madre, che tratta principalmente della correlazione tra immanenza e trascendenza, interpretata qui in senso idealistico. In questa lettera, Guzzo fa riferimento al suo biglietto di annunzio della morte della madre, identificata con la tra51 scendenza, che, secondo Mathieu, lascia emergere una dichiarazione esplicita di conversione al cattolicesimo, mai sentita in seguito. La religione in Guzzo appare ancorata alla speculazione agostiniana, per via della necessità dell’affidamento del singolo all’iniziativa divina: caratteristica, questa, propria della religione rispetto alla filosofia. Inoltre, ha osservato Mathieu, che l’idealismo guzziano sia di origine platonica emerge dalla sua interpretazione del trascendente come trascendentale. Guzzo nega l’immanenza del positivista, che non è immanenza vera e propria, e non nega, invece, l’immanenza dell’idealista, che è immanenza del trascendentale: Dio è il principio e la norma, e la realtà proviene da esso come l’azione dalla norma. Soffermandosi poi sulla memoria accademica: La Religione. Fenomenologia e filosofia dell’esperienza religiosa, del 1964, Mathieu ha evidenziato come essa sia in realtà un commento a Sant’Agostino, che Guzzo vuole giustificare nel suo apparente rovesciamento dall’antimanicheismo all’antipelagianesimo. Emerge qui, come ha notato Mathieu, il richiamo alla responsabilità individuale, contro Gentile, nell’interpretazione della grazia come una possibilità di libertà: essa è il dono di una norma interna, che si tratta continuamente di interpretare. Interviene allora la filosofia in aiuto della religione, dal momento che non è possibile seguire passivamente un dogma religioso, ma bisogna capire la Rivelazione e, quindi, capire noi stessi come luogo in cui questa continua ad attuarsi a noi, anche attraverso la nostra partecipazione ad essa. Nel corso della tavola rotonda, che ha concluso i lavori, Pietro Rossi ha rievocato le collocazioni storiografiche finora proposte per il pensiero di Guzzo. Una prima lo considera come un esponente dello spiritualismo cristiano, rappresentante dell’ala destra dell’idealismo gentiliano insieme a Carlini e Sciacca. Una seconda, radicata nello stesso Guzzo e poi ripresa da Pareyson, lo pone come terza via dell’idealismo rispetto a Croce e Gentile, a partire da Sebastiano Maturi. Per collocare adeguatamente il pensiero di Guzzo, ha osservato Rossi, occorre soprattutto ricordare gli autori da lui studiati, Bruno e Spinoza, da una parte, e Agostino, dall’altra, che permette di spie- CONVEGNI E SEMINARI Augusto Guzzo 52 CONVEGNI E SEMINARI gare l’ambiguità di formulazioni, sempre presente in lui, relative al trascendente e al trascendentale e ai loro rapporti. Sull’ambiguità di Guzzo si è soffermato anche Carlo Augusto Viano, il quale ha ricordato la sua figura di grande apologeta della filosofia pura e lo ha definito erede di una tradizione idealistica religiosa, ma non confessionale, alternativa rispetto a quella laica e a quella cattolica. Amalia De Maria ha parlato della pedagogia di Guzzo, mostrando come egli abbia sottolineato il carattere autonomo dell’educazione, che è un processo di formazione spirituale che non può essere sostituito né da tecniche metodologiche, né da ricerche psicologiche, né da sussidi didattici. I rapporti di Guzzo con l’estero sono stati analizzati da Corrado Rosso, in particolare, grazie anche all’amicizia con René Le Senne, quelli con la Francia, probabilmente frutto di una sua affinità molto forte con Pascal e con i moralisti in genere. Sulle ricerche storiografiche di Guzzo si sono invece soffermati Francesco Moiso e Giuseppe Cambiano: il primo ha evidenziato la concretezza del suo metodo; il secondo ha messo in rilievo l’interpretazione, soprattutto morale, dei dialoghi platonici. Giuseppe Riconda ha evidenziato il rifiuto di Guzzo per la gnoseologia scettica di Gentile, poiché essa concepisce l’atto del pensiero come soppressione dell’alterità dell’altro. Nel filosofare di Guzzo, invece, il momento teoretico non è mai disgiunto dal confronto storiografico. In tal senso, ha osservato Riconda, proprio l’interesse di Guzzo per Agostino e Tommaso dimostra il suo allontanamento dall’hegelismo; il che rende necessaria una revisione non solo dell’interpretazione che lo considera spiritualista, ma anche di quella che lo vede prosecutore di Maturi. La prospettiva di Guzzo si allontana, per altro, anche da Kant, perché pone al centro una religiosità non astratta, ma concreta. La sua filosofia della religione nasce da una parte da questa invocazione, che è slancio umano verso Dio, dall’altra dall’iniziativa del soprannaturale, con lo scopo di restituire pieno valore e dignità alla religione, aprendo la strada ad un’ermeneutica dell’esperienza religiosa. M.L.B. Rivoluzioni concettuali In occasione della presentazione dell’opera di Paul Thagard, RIVOLUZIONI CONCETTUALI (trad. it. a cura di E. Giorgi, introd. di L. Magnani, Guerini e Associati, Milano 1994) si è svolto alla Casa della Cultura di Milano, il 17 maggio 1994, un dibattito dedicato al tema: “FILOSOFIA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE”, con la partecipazione di Gianni degli Antoni, Lorenzo Magnani, Fulvio Papi, Mario Stefanini. Il dibattito è stato inaugurato da Fulvio Papi, che ha sottolineato gli elementi di originalità e il carattere di novità della concezione di Paul Thagard, che propone l’utilizzo di strumenti computazionali per l’individuazione di modelli di concettualizzazione. In questo, Thagard, come ha ricordato Lorenzo Magnani, intende rendere conto di un problema epistemologico classico: individuare i criteri in base ai quali una teoria è ritenuta preferibile a un’altra. A partire dagli anni Sessanta, si è posta l’alternativa tra confrontabilità e incommensurabilità di teorie scientifiche concorrenti. Optando per la seconda tesi, come ha fatto per esempio Thomas Kuhn, si pone il problema di far ricorso, nel dar conto del prevalere di una teoria scientifica rispetto a un’altra, a motivazioni inerenti al contesto storico. Questa impostazione, ha rilevato Magnani, è stata ben accetta nella cultura italiana, grazie all’impronta storicista che l’ha permeata, mentre l’impostazione strutturale, di ascendenza neopositivista, è invece passata in secondo piano. Dalla tesi dell’incommensurabilità delle teorie scientifiche, e dalla conseguente apertura alla dimensione “storica” (non estranea neppure alla prospettiva di Popper), deriva l’impostazione di Feyerabend, che rappresenta la crisi dell’idea della razionalità nella scoperta scientifica. Alla restaurazione di una tale idea all’interno della “logica della scoperta scientifica” può essere funzionale l’utilizzazione di un programma computazionale che, nel momento della decisione fra due teorie confliggenti, consideri “olisticamente” un gran numero di possibilità esplicative, conseguenze e presupposti di ciascuna. In altri termini, il testo di Thagard tenta di restituire un contenuto razionale alla scoperta e alla capacità esplicativa delle teorie scientifiche. Nel suo intervento, Mario Stefanini ha sottolineato il valore della possibilità di analizzare problemi epistemologici attraverso strumenti computazionali. La questione filosofica verte sulla rappresentabilità del ragionamento scientifico, ovvero sull’analizzabilità dei modelli di ragionamento. Thagard opera in questa direzione, quando prende in esame il procedimento inferenziale dell’abduzione. Gianni degli Antoni ha invece sottolineato l’esigenza di collegare la riflessione epistemologica allo sviluppo della ricerca scientifica. Che lo sviluppo scientifico provochi delle rivoluzioni concettuali, non significa necessariamente mettere in “crisi” una disciplina scientifica; la “crisi” pertiene, più propriamente, alla riflessione epistemologica. Il panorama della riflessione scientifica odierna, ha osservato degli Antoni, va stravolgendosi attraverso la ridefinizione dei campi disciplinari, nonché attraverso l’irrompere di una componente “etica” nelle analisi di ciascuna disciplina. In tal senso, la novità della concezione di Thagard sta appunto nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale per spiegare il rapporto fra la dimensione dello “scientifico” e quella del “non scientifico”. F.C. 53 Presso la sezione filosofico-teorica del Dipartimento di filosofia dell’Università di Pavia è stato recentemente attivato il Laboratorio di Filosofia Computazionale. Al suo direttore, Lorenzo Magnani, ha rivolto alcune domande Flavio Cassinari. D. La filosofia computazionale, che si colloca nello spazio dello studio dei sistemi intelligenti nella relazione interdisciplinare tra filosofia, logica, intelligenza artificiale e scienze cognitive, ha conosciuto, negli Stati Uniti, uno sviluppo rilevante sia per pubblicazioni che per attività universitaria. Il Laboratorio di Filosofia Computazionale di Pavia è il primo in Italia e uno dei primi in Europa. Professor Magnani, quali sono gli obiettivi che questo indirizzo di ricerca si pone? R. L’obiettivo più generale della filosofia computazionale consiste nel costruire nuovi modelli e programmi per la selezione e la valutazione delle ipotesi nell’ambito della ricerca scientifica, grazie ai metodi e ai concetti dell’intelligenza artificiale. La filosofia computazionale affronta, tra gli altri, problemi inerenti al rapporto tra scoperta e spiegazione scientifica, al ruolo dell’analogia, alla questione dell’evoluzione dei concetti. Viene in particolare presa in considerazione la struttura epistemologica delle scoperte scientifiche e del ragionamento diagnostico, attraverso l’analisi di alcuni programmi particolari, finalizzati alla diagnosi medica. Su un altro versante, la filosofia computazionale si occupa tanto dell’analisi dei sistemi esperti relativamente alla questione dell’abduzione, quanto dell’elaborazione di programmi computazionali prototipali, collegati ai problemi epistemologici e logici individuati. I metodi computazionali del problem solving e della scoperta forniscono un’alternativa, rispetto ai metodi della logica formale, nell’analisi di molti problemi epistemologici. Per quanto riguarda il problema della giustificazione e della scelta fra teorie rivali, occorre rispondere a questioni quali la possibilità dell’accadere delle “rivoluzioni concettuali” (cioè della sostituzione, in ambito scientifico, di un sistema concettuale con un altro), nonché di un eventuale loro carattere razionale. In questa prospettiva, la ricerca condotta dal Laboratorio di Filosofia Computazionale di Pavia, istituito dal Dipartimento di Filosofia dell’Università nel dicembre del 1993, si svolge parallelamente a quella del Laboratorio di Scienze Cognitive, già attivo presso l’Istituto di Psicologia della Facoltà di Lettere e Filosofia. D. C’è dunque il tentativo di ricostruzione, mediante l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale, dei processi che presiedono alla logica della scoperta scientifica? R. Non solo. L’attività si indirizza non esclusivamente all’opera di ricostruzione di processi cognitivi, che hanno già dato luogo a risultati, ma all’elaborazione di sistemi in grado di estrinsecare una capaci- CONVEGNI E SEMINARI tà previsionale. In concreto, grazie alle ricerche sviluppate nell’ambito della filosofia computazionale, negli Stati Uniti sono stati messi a punto programmi finalizzati alla diagnostica internistica che, opportunamente caricati di dati sintomali, hanno dimostrato capacità previsionale pari a quella di un “medico esperto”. In effetti, fino a oggi non sembra legittimo sostenere che siano stati elaborati programmi computazionali in grado di produrre nuove teorie; questo però è l’obiettivo, dal momento che la costruzione di nuove teorie rappresenta il grado più elevato di scoperta scientifica. D. In questa prospettiva, però, l’approccio della filosofia computazionale esorbita dall’esame di casi di scoperta scientifica e sembra voler proporre una teoria generale a livello non solo epistemologico. R. Certo! La nozione stessa di explanatory coherence, sulla quale fa perno il progetto di filosofia computazionale che intendiamo sviluppare nel nostro laboratorio, implica una prospettiva olistica, in quanto la “coerenza esplicativa”, che costituisce il criterio di decisione fra teorie confliggenti, non si pone sul livello di un “evento particolare” (nozione, come si sa, già di per sé problematica in epistemologia), bensì a un livello superiore, e più globale. La teoria della explanatory coherence, proposta dallo statunitense Paul Thagard, intende illustrare la “coerenza” o “incoerenza” di un’ipotesi scientifica, in relazione a caratteristiche e proprietà “esplicative” della stessa, nei confronti di un’evidenza empirica. In tale prospettiva, una teoria scientifica (intesa come insieme di ipotesi che spiegano evidenze empiriche) viene considerata migliore di un’altra quando gode, complessivamente, di una maggiore explanatory coherence. Va sottolineato che la questione messa in gioco dalla nozione di “coerenza esplicativa” investe tanto l’accettazione o il rifiuto di ipotesi nell’ambito delle teorie scientifiche, quanto le procedure di decisione della razionalità quotidiana. L’inferenza che porta a scegliere la spiegazione più efficace nella valutazione di differenti teorie, o differenti ipotesi, coinvolge un insieme dinamico di criteri, caratterizzati in modo multidimensionale. Per esempio, se una teoria scientifica è più semplice, e spiega più dati significativi di quanto non facciano le teorie concorrenti, può essere accettata come la spiegazione più efficace. Questo tipo di inferenza è certo quella coinvolta nella procedura di tipo diagnostico, dove l’obiettivo consiste nel selezionare la spiegazione migliore (la diagnosi più efficace) nell’ambito di una gamma predeterminata di ipotesi diagnostiche. La fase preliminare del progetto relativo a un’attività di filosofia computazionale è dunque dedicata allo studio di una teoria generale della explanatory coherence nella accettazione e nella eliminazione delle ipotesi, sia nel campo delle teorie scientifiche, sia nel ragionamento comune o esperto. D. Esiste una connessione fra il concetto di inferenza chiamato in causa dalla nozione di explanatory coherence e le questioni tradizionalmente trattate dalla filosofia? R. La risposta è affermativa, perché l’analisi relativa alla nozione di explanatory coherence appare strettamente collegata a quella riguardante lo status cognitivo del ragionamento e della conoscenza, nonché a quella del problema della abduzione sul piano epistemologico. A questo proposito, credo si possano individuare due concetti di abduzione. Il primo è quello individuato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce, che interpreta l’abduzione come una procedura inferenziale, e la considera come il processo di “creazione” di nuove ipotesi scientifiche. Nell’ambito del ragionamento diagnostico ci si imbatte però in una seconda tipologia di abduzione, il cui grado di creatività appare, in certo senso, inferiore: l’ “abduzione selettiva”. Nella diagnosi è infatti sufficiente giungere a “scegliere”, tra molte altre, un’ipotesi diagnostica, selezionandola all’interno di una casistica, fornita dalla scienza medica. Il problema della scelta e della valutazione delle ipotesi riveste, in effetti, un ruolo centrale nel campo degli studi sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel caso del ragionamento diagnostico; il concetto di abduzione ha comunque da sempre indicato, nella tradizione filosofica ed epistemologica, proprio la situazione di generazione e di valutazione delle ipotesi. In altri termini, il concetto di abduzione ha sempre rappresentato, nella riflessione filosofica “tradizionale”, la via dell’inferenza verso la “spiegazione più efficace”. Il confronto tra le culture Negli ultimi due anni di attività (ottobre 1992- maggio 1994) il Centro Culturale della Fondazione San Carlo di Modena ha intrapreso una ricerca sul problema dell’incontro, dello scontro e del confronto fra le culture che si è articolata in giornate di studio e cicli di lezioni. In questo contesto si è svolto, dall’ottobre 1993 al maggio 1994, un ciclo di lezioni dal titolo: “LA PROVA DELLO STRANIERO. FIGURE PER IL CONFRONTO TRA LE CULTURE”, con la partecipazione di Romano Màdera, Francesco Remotti, Giovanni Filoramo, Pierre Rosanvallon, Francisco Jarauta, Simonetta Tabboni, Enrico Pozzi, Alessandro Pizzorno, Mary Douglas, Franco Cassano. La ricerca sul confronto tra le culture ha preso avvio con una giornata di studio, tenutasi il 16 ottobre 1992, dal titolo: “La comprensione dell’altro. Premesse filosofiche del confronto tra le culture”, a cui hanno partecipato: Armando Rigobello, 54 Carlo Sini, Salvatore Natoli, Sergio Moravia. In questa giornata di studio si sono voluti ricostruire e discutere i principali orientamenti presenti nella filosofia contemporanea sul problema della comprensione dell’altro, dalla filosofia della differenza all’ermeneutica, dalla fenomenologia alla filosofia analitica, al fine di scoprire se la riflessione filosofica possa offrire qualche strumento, qualche base su cui avviare, eventualmente, un confronto fra le culture. A questa prima iniziativa ha fatto seguito un ciclo di lezioni, svoltosi tra il novembre 1992 e il maggio 1993, sul tema: “Questioni del tradurre. Traducibilità e intraducibilità di linguaggi, culture e forme di vita” che ha visto la partecipazione Emilio Mattioli, Rosaria Egidi, Simona Argentieri, Diego Marconi, Davide Sparti, Goffredo Bartocci, Alessandro Simonicca, Steven Lukes, Clifford Geertz. Scopo di ciclo di lezioni è stato individuare possibili criteri coi quali commisurare il noto e l’ignoto attraverso l’analisi di alcuni grandi dibattiti che hanno investito parallelamente settori diversi del sapere contemporaneo, come l’estetica, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio e l’etica. Dal piano teorico, su cui è avanzata questa prima fase dell’indagine sul confronto tra le culture, il ciclo si è spostato su un piano più direttamente connesso con la dimensione empirica, interrogando da una parte le scienze sociali, in particolare l’antropologia, capace di evidenziare la dimensione propriamente interpretativa dell’agire e il carattere simbolico delle pratiche umane associate, dall’altra la psicanalisi, impegnata a scoprire se la pluralità delle lingue sia una ricchezza o una tara, e l’etnopsichiatria, volta a trovare nel vissuto emotivo un nuovo canale per la comunicazione tra mondi diversi. La “prova dello straniero” è stato il tema che ha caratterizzato il secondo ciclo di lezioni. Lo “straniero”, infatti, da sempre oggetto di un atteggiamento ambivalente, insieme di fascino e repulsione, interesse e chiusura, rappresenta una sfida a tutto campo per la società in cui si inserisce. La sua presenza mette alla prova tanto il sistema della nostra convivenza civile quanto il sistema concettuale e di credenze con il quale definiamo la nostra cultura e la nostra identità, misurando tanto il grado di identificazione collettiva, quanto la capacità di trasformazione interna. All’interno di questo contesto si sono analizzati figure e concetti dello straniero attraverso l’esame di esempi provenienti dall’antichità, dalle società di interesse etnografico, dalla riflessione che la cultura occidentale ha prodotto sull’alterità, al suo interno e al suo esterno. Romano Màdera (“L’ombra dello straniero”) ha rintracciato lo straniero nell’immagine del mondo, del divino, dell’anima e della persona. In un mondo apparentemente privo di confini, il “pianeta CONVEGNI E SEMINARI di tutti”, si assiste, nelle diverse società, a un ripiegamento sulle appartenenze etnico-linguistiche e religiose. Le ragioni di questo paradosso sono da cercare, secondo Màdera, nelle dinamiche del capitalismo globale. In particolare ciò si spiega come reazione alla condizione generale di straniamento che risulta da una valorizzazione della persona non come individualità concreta, ma come uomo universale astratto. Con il capitalismo globale si è anche realizzata la purificazione del sacro prevista dal programma platonico: il dominio dell’astratto ha cacciato il divino dalla vita sociale; ma esso ora si ripresenta come dio straniero (ad esempio l’islamismo). Nell’immagine dell’anima, che ci consegna la psicologia del profondo, scopriamo dentro di noi la figura dello straniero, di cui ci liberiamo o proiettandone i tratti sull’altro, l’immigrato di colore, oppure dipingendo di bianco lo straniero esterno per non riconoscere lo straniero che è in noi. Facendo un passo indietro, Giovanni Filoramo (“Pellegrino, straniero, senza patria. Figure dell’estraneità al mondo nel Cristianesimo antico”) ha descritto tre figure che, nei sec. I-V d. C., hanno incarnato l’esperienza di straniero del cristiano: il pellegrino, straniero perché ha la sua vera patria nella città celeste ma - a differenza dello gnostico e dell’anacoreta - vive nel mondo in cui è solo di passaggio e, senza lasciarsene assimilare, segue le sue leggi; lo gnostico, straniero per definizione, al di sopra del mondo perché viene da un mondo trascendente, per il quale il mondo rappresenta una prigione, ma anche qualcosa di ostile, in quanto creato da un dio malvagio, l’anacoreta, colui che, per raggiungere il suo scopo, deve scegliere continuamente di estraniarsi dal mondo e, facendo del suo esilio volontario una condizione permanente, vive da “senza patria”. Da una prospettiva opposta, un’altra tradizione religiosa, quella ebraica, è stata interrogata sul tema dello straniero: non più il punto di vista dell’uomo di fede in quanto straniero, ma dello straniero in quanto oggetto dei comportamenti e degli atteggiamenti degli uomini di fede. A questo proposito, Mary Douglas (“Immigrati e stranieri. L’idea di straniero nella Bibbia”) ha fatto notare come le prescrizioni esplicite e generose del Levitico e del libro dei Numeri (noti come “Libri Sacerdotali”) sono in contrasto con l’assunzione che la religione basata su questi libri sacri sia fondata su un’esclusione etnica. Douglas ha preso in considerazione la relazione fra le storie attribuite a Esdra e Neemia, risalenti al periodo del Secondo Tempio, quando i “Libri Sacerdotali” ricevettero la loro forma definitiva. In quell’epoca (V sec. a.C.) gli esiliati ebrei, di ritorno da Babilonia, volevano ottenere le restituzioni delle terre di famiglia. Esdra e Neemia descrivono alcune brutali discriminazioni etniche commesse nel nome della religione, ma non c’è traccia nei “libri Sacerdotali” del fatto che la loro legislazione sia sostenuta da una dottrina religiosa. La prospettiva antropologica, affrontata da Francesco Remotti (“Cannibali, schiavi e sovrani. Il ricorso allo straniero in una prospettiva antropologica”), ha preso in considerazione, tra le forme di ricorso all’alterità, la figura dello schiavo, oggetto di sfruttamento culturale, oltre che economico, quella del sovrano, come nel caso dell’Africa precoloniale, e quella del cannibale, figura capace di mettere a nudo l’intreccio tra alterità e identità e dunque il carattere artificioso di qualsiasi identità. Il cannibalismo, ha osservato Remotti, dimostra che il ricorso dell’alterità si spiega non solo in base a un esigenza di identificazione, che risolve il rapporto con l’altro nell’opposizione noi-loro, ma anche in base a un’esigenza di alterazione, che trasforma il rapporto in assimilazione. Degli aspetti giuridico-politici relativi al problema dell’estensione dei diritti civili e politici agli stranieri che si inseriscono in comunità politiche fortemente strutturate si è occupato Pierre Rosanvallon (“Straniero e cittadino. I confini della politica”), facendo riferimento alla sua recente ricerca su La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia (Anabasi, Milano 1994). In particolare, Rosanvallon si è soffermato sulla questione del diritto di voto agli stranieri nelle elezioni locali, rilevando i rischi e le deficienze della distinzione tra una cittadinanza locale e una cittadinanza nazionale, e sul problema dell’inserimento degli emigranti nel sistema distributivo, che egli pensa debba essere discusso alla luce dell’avvenuto passaggio dello Stato-provvidenza da meccanismo assicurativo a Stato di solidarietà. Con Francisco Jarauta (“Abitare la frontiera. Riflessioni su meticciato e interculturalità”) la discussione si è spostata dagli assetti giuridico-politici all’assetto sociale. Jarauta ha constatato l’emergenza di una nuova situazione, caratterizzata da processi di meticciato, nomadismo e diverse forme di incrocio culturale e, in base a ciò, ha individuato i compiti dell’intellettuale nell’elaborazione di nuovi concetti per pensare l’alterità, una geofilosofia (alla Deleuze-Guattari) e una nuova cartografia. Muovendo da un’analisi delle figure dello straniero in Simmel e in Elias, Simonetta Tabboni (“Lo straniero e la modernità. Dall’uguaglianza del diritto al riconoscimento della differenza”) ha tracciato il cambiamento del rapporto tra straniero e modernità. Lo straniero è stato una figura paradigmatica della modernità: immagine dello sradicamento, mercante per eccellenza, ha minato le basi della società tradizionale, rivendicando la parità del diritto e parlando il linguaggio universalista della 55 ragione contro il linguaggio dell’appartenenza. Oggi lo straniero rivendica il riconoscimento della differenza parlando il linguaggio dell’etnicità, che di conseguenza, ha osservato Tabboni, può fungere, sul piano pragmatico, da mediatore delle due anime antitetiche della modernità: il richiamo alla ragione e il richiamo all’identità. Con un atteggiamento simile Alessandro Pizzorno (“Usi cognitivi e normativi della metafora dello straniero”) si è dichiarato contrario a una soluzione in astratto del problema morale dello straniero e vede in una soluzione “locale”, analoga a quella data da Quine sul piano della teoria della conoscenza, il modo per evitare i rischi di una soluzione di principio: reprimere la specifica identità dello straniero sotto il peso di regole tratte da una concezione universalistica dell’essere umano. Lo straniero come scopritore di individualità è invece ciò che ha proposto Pizzorno riguardo al problema di capire lo straniero. Enrico Pozzi (“Il traditore come straniero interno. Psicanalisi di una condizione-limite”) ha fornito una definizione formale del traditore come un terzo, che abita sul confine tra due gruppi. Da questa definizione il traditore risulta essere una delle grandi figure dello straniero interno, il viandante potenziale di Simmel, colui che, del tutto uguale al gruppo, salvo che per un aspetto, non potrebbe tradire se non fosse riconosciuto come suo membro a pieno titolo. Si tratta di una figura che svolge una propria funzione sociale: la presenza di una differenza, infatti, è lo stimolo attraverso il quale il gruppo ristabilisce la propria coesione. La nozione di confine, già chiamata in causa nella riflessione di Jarauta su meticciato e interculturalità e in quella di Pozzi sulla figura del traditore, è stata oggetto di ulteriori considerazioni da parte di Franco Cassano (“Il confine e lo straniero”). Egli, in particolare, si è domandato come è possibile che l’estraneità non si trasformi in ostilità, ma diventi occasione di conoscenza a partire dal carattere di ambivalenza che contraddistingue il confine. Infatti, se da una parte il confine è la zona in cui due comunità si separano, dall’altra la linea di confine è anche quella in cui due paesi si toccano, l’insieme dei punti che appartengono ad entrambi; dunque, un luogo d’incontro. Il complesso degli interventi verrà raccolto in forma rielaborata e pubblicato nella collana «Punti critici» della Fondazione Collegio San Carlo entro il primo semestre del 1995. F.B. CONVEGNI E SEMINARI Scritture del pensiero Con il titolo: “SCRITTURE DEL PENSIERO : LINGUAGGI A CONFRONTO ”, l’I.S.U. di Mila- no, in collaborazione con la rivista «autaut», ha promosso, tra l’11 maggio e il 1 giugno 1994, un ciclo di lezioni che fa seguito a quello svoltosi nel 1993, dedicato ai “Linguaggi della filosofia”. Attraverso gli interventi di Giancarlo Majorino, Giampiero Comolli, Giuseppe Pontiggia, Fausto Petrella, Pier Aldo Rovatti Paolo Flores d’Arcais e Alessandro Dal Lago, questo secondo ciclo ha proposto un approfondimento della ricerca sulla scrittura attraverso un confronto tra il linguaggio della poesia, della narrazione, della psicoanalisi e del discorso politico. La questione della scrittura è certamente indistinguibile da quella del pensiero, ma spesso il discorso filosofico si è costituito, in opposizione ad altri tipi di discorso, in uno scarto con il mito, il poetico, l’immaginario. Intervenendo sul “linguaggio della poesia”, Giancarlo Majorino ha parlato della struttura in sé conchiusa, autoreferente della poesia. Nel suo rimando a sé, la parola poetica vanifica il suo rapporto con l’altro, il referente, perdendo la funzione denotativa. Ciò implica una circolarità dell’atto di lettura che deve percorre a ritroso il cammino della poesia che si fa strada nelle parole, per poterne cogliere l’autoreferenzialità. Riprendendo il tema del “comunicare sé” della poesia, Giampiero Comolli ha posto l’interrogativo sul destinatario di tale “mettere in comune”, sul “tu” al quale la poesia, mentre comunica, si rivolge. Richiamando le analisi di Levinás sull’intersoggettività e sottolineando l’aspetto della “materialità” della parola poetica, Comolli ha ipotizzato che l’ “altro”, a cui la poesia comunica, sia il “tu corporeo”. A questo proposito Majorino si è trovato d’accordo nel sottolineare l’importanza della “corporeità”, propria del linguaggio poetico, presente nella sonorità della parola. Nella poesia di Dante, dove il “vedere” diviene “visione”, il suono della parola, ha osservato Majorino, esprime un “retrosenso” - in opposizione a quello denotativo dominante - che è la trascrizione della corporeità del poeta, trascrizione cioè di quell’insieme di vedere e immaginare che sono già potenzialmente uno scrivere. Per Giuseppe Pontiggia, intervenuto insieme a Carlo Sini sul “linguaggio della prosa”, un testo letterario, poetico o filosofico non può venir riassunto, parafrasato o concettualizzato senza venir anche necessariamente “tradito”. Citando il Fedro, dove Platone parla del tradimento dell’oralità da parte della scrittura, Pontiggia ha rilevato come la concettualizzazione di un qualunque testo, ogni forma di sinossi, rappresenti un tradimento di secondo grado. Non esiste insomma una scrittura neutra, denotativa: il pensiero nasce e si costruisce nelle pieghe di ciascun testo e solo in esso. Sini ha invece distinto il testo poetico-letterario da quello filosofico. Le antiche “Dossografie” (manuali ante litteram), mostrano che fin dalle origini il pensiero filosofico ha potuto essere ritrascritto, schematizzato e riassunto in un testo, senza per questo venir necessariamente tradito. Il filosofo, ha fatto notare Sini, non si realizza nell’opera proprio perché scrive in un’«assenza costitutiva di opera»: l’opera non suscita interesse in sé, ma solo in quanto rappresenta la mise en scene del pensiero. Interrogandosi su come la scrittura affronta lo psichico, Fausto Petrella è intervenuto sul “linguaggio della psicoanalisi”. Il punto di riferimento obbligato è stata l’opera di Freud: undici volumi caratterizzati da uno stile analogico e ricco di metafore, in grado di rappresentare in “visioni dinamiche” la configurazione dello psichico. In particolare, Petrella ha condotto la sua indagine sulla “metafora archeologica”, come rappresentazione del lavoro di analisi che tien conto dell’assunto teorico della nuova scienza dello psichico, impedendo che la si limiti ad una «descrizione morfologica della lesione». Nel saggio sulla Gradiva di Jensen, così come ne Il disagio della civiltà, Freud utilizza, come metafora dell’inconscio, l’immagine delle rovine che “si animano e parlano”, dipendentemente dal nostro modo di interrogarle. Riprendendo da Heidegger l’affermazione: «I filosofi devono riconoscere che non sono così versati nel dire», Pier Aldo Rovatti ha sottolineato come la metafora, distanziandosi dalla letteralità e lungi dall’essere un viraggio della parola filosofica verso la parola poetica, evita al pensiero di “arrestarsi” nella parola; la metafora consente al pensiero di dirsi e di eclissarsi. La psicoanalisi, ha osservato Rovatti, suggerendo alla filosofia un “più di metafore”, può consentire al pensiero di superare la sua indigenza, anche se la metafora psicoanalitica, non avendo alcun “proprio” a cui riferirsi, è per sua stessa essenza “designificativa”. Se però la psicoanalisi dà importanza a ciò da cui il linguaggio nasce, è allora il “destino” stesso del linguaggio, in uno con quello dell’essere, il non potervi tornare. Intervenendo sul “linguaggio della politica”, a latere dal cammino di indagine seguito dai precedenti interventi, Paolo Flores d’Arcais e Alessandro Dal Lago hanno indicato nel pensiero di Albert Camus e Hannah Arendt, una possibile via d’uscita dall’attuale “crisi d’identità” della sinistra. In quanto forme di espressione di un pensiero esistenzialistico-libertario, che fa riferimento al “dover essere” e ai valori, questi autori devono essere considerati come una fonte d’ispirazione preziosa per il pensiero politico della sinistra, in alternativa a quei territori culturalmente estranei del Neo-utilitarismo o della contrapposizione “amico-nemico” proposta da Schmitt. M.C. 56 Individuo e tradizione in Popper Con il titolo “Individuo, critica e tradizione in Karl Popper”, Giovanni De Crescenzo ha tenuto dal 6 all’8 aprile 1994, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario che, muovendo dall’analisi della teoria della tradizione elaborata da Popper negli anni ’30 e ’40, ha affrontato il problema del rapporto tra l’individuo, inteso come soggetto razionale titolare di un “atteggiamento critico”, e la tradizione stessa. Nell’analisi popperiana del rapporto individuo/tradizione, Giovanni De Crescenzo individua tre direttive di ricerca incompatibili fra loro. Secondo la prima, che ha il suo apice nella conferenza di Oxford del 1948, “Per una teoria razionale della tradizione”, l’ “atteggiamento critico” dell’individuo non può dar luogo ad una sua completa liberazione dalla tradizione: invero il cosiddetto “processo di liberazione”, per il Popper degli anni ’40, è soltanto un passaggio da una tradizione all’altra. Nell’interazione tra individuo e tradizione, questa prima impostazione riconosce il vincolo inevitabile che lega la critica razionale della conoscenza alla tradizione, ma interpreta questo vincolo a vantaggio dell’individuo e della sua critica, che sembra poter scegliere nella cultura e la storia ciò che più gli aggrada; il rapporto individuo/tradizione risulta essere così assurdamente squilibrato in senso decisionistico e convenzionalistico in favore dell’individuo. Ora, ha osservato De Crescenzo, dalla prima direttiva di ricerca, in cui l’individuo, come abbiamo appena visto, sopravanza sempre la tradizione, Popper passa, nel corso degli anni ’60, alla posizione esattamente opposta, dove la tradizione, intesa come “Mondo 3”, domina e addirittura forma l’individuo. Popper propone un’interpretazione interazionistica e relazionale dell’autonomia del “Mondo 3”, affermando che tale autonomia non è assoluta, ma relativa, poiché il “Mondo 3” non fa altro che retroagire sugli individui che lo hanno generato, e poiché questi ultimi continuano ad agire, a loro volta, sul “Mondo 3”, sia modificando in qualche modo gli oggetti in esso già esistenti, sia generando altre teorie. Quest’ultima impostazione, ha obiettato De Crescenzo, viene tuttavia contraddetta dal fatto che se gli oggetti del “Mondo 3” esistono ed agiscono indipendentemente dagli uomini che li generano e li conoscono, questi ultimi, invece, non potrebbero esistere come soggetti razionali e come persone senza il “Mondo 3”. Dovendo infatti spiegare come e perché l’individuo si personalizza, Popper si appella all’apprendimento degli oggetti del “Mondo 3” che vede tuttavia l’individuo, CONVEGNI E SEMINARI rispetto al “Mondo 3”, in una posizione contemplativa e non selettiva, ricettiva e non costruttiva. Ma se è vero, ha notato De Crescenzo, che l’individuo non può prescindere dalla cultura e dalla società per realizzarsi come persona, Popper non vede che l’individuo, personalizzandosi, non cessa di vivere; il soggetto che si personalizza è infatti vivente, biopsicologico. Inoltre, la cultura non fornisce univocità alla direttiva attraverso la quale l’individuo si personalizza, ma questi, in quanto soggetto agente, sceglie fra le varietà di immagini offerte dalla cultura e dalla tradizione. De Crescenzo ha infine individuato una “terza direttiva” nell’approccio popperiano allo studio dell’interazione individuo/ tradizione, che restituisce al primo la sua iniziativa critica nei confronti della seconda, di cui viene riconosciuta però l’intrinseca storicità e problematicità. Tale direttiva esclude sia l’ipotesi che la tradizione sia un semplice campo di scelta, una cornice in cui l’individuo esercita la sua critica razionale, sia l’ipotesi per la quale la tradizione stessa è una componente essenziale del “Mondo 3”, e come tale domina l’individuo che è alle prese con essa. La “terza direttiva” è inaugurata da Popper in un importante saggio del ’76: Del mito della cornice, che è una critica del relativismo culturale e dello storicismo estremo. Polemizzando con i relativisti, anzitutto con Kuhn, ma anche con Wolff e Quine, Popper, ha rilevato De Crescenzo, non esita a riconoscere nella loro posizione un “nucleo di verità”. Egli infatti ammette che: 1) qualsiasi critica o teoria razionale del soggetto è inserita in una tradizione; il confronto fra le teorie può essere quindi, se non impossibile, certo difficile e problematico; 2) la traduzione di una teoria in un’altra inserita in una diversa cornice o tradizione, una volta realizzata, risulta per lo più parziale e imprecisa, e in definitiva appena soddisfacente. Ma questo non esclude, secondo Popper, che l’esercizio della critica, la conoscenza e la discussione razionale delle tradizioni altrui, siano possibili. Popper ritiene che l’individuo possa, sia pure gradualmente, pervenire ad un punto di vista ugualmente esterno alla sua cornice e tradizione come ad una qualsiasi altra, e stabilire in tal modo quale delle due abbia conseguenze preferibili. In questo egli non si rende conto, ha commentato De Crescenzo, che proprio un’iniziativa del genere è preclusa all’individuo, che è legato alla sua tradizione da innumerevoli e inconsapevoli vincoli che egli può controllare e circoscrivere solo in parte, ma non abolire; la tradizione infatti agisce nell’individuo stesso secondo la precomprensione. La tradizione resta quindi immanente in noi, anche quando facciamo lavoro critico. Ciò che soltanto è possibile all’individuo, ha concluso De Crescenzo, è consapevolizzare alcune componenti della propria società-cultura per confron- tarle con singole componenti di altre società-cultura anche lontane dalla sua e quindi niente affatto precomprese, e così pervenire ad una certa distanza critica, sempre finita e fluida, dalle prime e dalle seconde. L.M. Su nazione e nazionalismo Tra gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi di quello attuale si è affermata una storiografia che ha imposto un’interpretazione falsata del passato con il solo scopo di allontanare indietro nel tempo le radici dei moderni Stati nazionali. Alla luce di queste considerazioni Alberto Cabella ha tenuto dal 7 al 11 marzo 1994, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, un seminario su “L’IDEA DI NAZIONE E IL NAZIONALISMO ”. Il concetto di nazione, ha rilevato Alberto Cabella, e gli altri ad esso connessi, a cominciare da quello di “nazionalismo”, nascono e acquistano il loro senso odierno solo con la Rivoluzione francese e i moti ottocenteschi. Lo Stato moderno coincide, nella sua fase iniziale, nonché sostanziale, con la costituzione di principati e monarchie assolute sulle ceneri degli imperi feudali; nasce come Stato patrimoniale, ossia come proprietà del monarca, i cui abitanti sono ancora “sudditi” che pagano imposte, combattono e muoiono per il re. la Rivoluzione del ’93 renderà questi sudditi “cittadini”, e i loro sacrifici saranno dedicati non al re, ma al Paese. Già gli intellettuali illuministi si consideravano “cittadini del mondo”, invertendo la scala di valori propria del Medioevo, che vedeva al primo posto l’essere cristiani, al secondo l’appartenenza a un microcosmo feudale, e solo all’ultimo posto l’essere nazionale. Nel ‘700, al primo posto vi è l’umanità, senza distinzioni di fede, al secondo l’Europa, al terzo la patria e, infine, la famiglia. La Rivoluzione francese, ha rilevato Cabella, mobilitando tutto il popolo, crea lo Stato nazionale con i suoi cittadini, comportando anche una sorta di rivoluzione culturale nei campi istituzionale, giuridico, politico, che portano a ulteriori nazionalizzazioni: innanzitutto quelle della scuola e dell’esercito, con l’istruzione pubblica obbligatoria gratuita e la leva di massa; poi quella della Chiesa, con la requisizione dei beni ecclesiastici. Nasce anche una religione civile, che secolarizza espressioni propriamente religiose, e la nazione viene ad acquisire connotazioni individualistiche, divendendo “persona” dotata di “anima”, di “coscienza”. Ma se si può affermare che il concetto di nazione nasce in ambito democratico, anzi rivoluzionario, bisogna poi constatare, ha osservato Cabella, come controrivoluzio57 ne e Restaurazione se ne impadroniscano attraverso la mediazione di un personaggio bifronte come Napoleone. Due sono i fondamentali referenti culturali chiamati in causa da Cabella: Rousseau e Fichte. Rousseau è il primo a rompere veramente con la concezione patrimoniale dello Stato, opponendosi all’assolutismo, al giusnaturalismo, e proponendo un nuovo contrattualismo: una condizione in cui ciascuno, unendosi a tutti, ubbidisca solo a se stesso, restando libero; la “volontà generale” sarebbe in tal senso il riflesso delle singole volontà morali. Resta tuttavia il problema, ha obiettato Cabella, di come conciliare gli interessi individuali, garantire l’umanità, evitare degenerazioni totalitarie. Il pensiero di Rousseau si può infatti considerare all’origine di molte ideologie, sia della democrazia, ma anche del totalitarismo nazionalista. Tra le opere di Rousseau, ha aggiunto Cabella, due preludono chiaramente al nazionalismo: Considerazioni sul governo di Polonia, che mostra la necessità di formare il carattere nazionale a cominciare dall’istruzione elementare, fornendo l’idea di “primato” della propria nazione; e il Saggio sulla costituzione della Corsica, che afferma un altro postulato nazionalistico, l’autarchia. Per quanto riguarda Fichte, ha proseguito Cabella, bisogna innanzitutto considerare la sua ammirazione per Rousseau e per la Rivoluzione francese; dall’iniziale cosmopolitismo passerà poi a posizioni schiettamente nazionalistiche, allorché Napoleone invaderà la Prussia, esprimendo chiaramente motivi ancora impliciti nel pensiero di Rousseau: innanzitutto, l’affermazione del primato di un Paese predestinato a fare da guida politica e culturale agli altri. Quello francese può essere dunque considerato, secondo Cabella, il primo nazionalismo, a cui fecero seguito ideologie analoghe nei Paesi che subiranno l’occupazione napoleonica, a cominciare dalla Germania, dai precursori Herder e Schiller, a Humboldt, Hegel, Novalis, Schlegel, Schelling, A. Müller, fino a Treitscke, esplicitamente imperialista, pangermanista, antisemita, riconosciuto come precursore dai nazionalisti. Intanto, gli anni ’70-’80 vedranno il trionfo del colonialismo imperialista e il fallimento del liberismo; tutte le grandi potenze europee diventano protezioniste: nasce il nazionalismo economico dei grandi imperi industriali e finanziari. Maurice Berrès e Claude Marras saranno i maggiori esponenti di questa fase più matura del nazionalismo francese. Nella società industriale di massa, ha osservato in conclusione Cabella, l’idea di nazione è stata spesso (e lo è ancora) intenzionalmente manipolata da chi ha inteso sfruttare la sfera emotiva, propria di una fase di rivolgimento sociale, a fini totalitari e monopolistici; del resto, ha fatto notare Cabella, l’idea di nazione si è dimostrata un mezzo indispensabile per la legittimazione dell’ordine costituito. M.Ga. CONVEGNI E SEMINARI due linee di indagine, a seconda che ci si rivolga a realtà nazionali o a realtà di cui occorra, invece, apprendere la lingua. In un caso e nell’altro, si verifica un atteggiamento di fondo che appare di tipo colonialista, dominativo, da parte del cittadino nei confronti del campagnolo, in un caso, del civile nei confronti del selvaggio, nell’altro. Il passaggio dall’antropologia alla sociologia, da questo punto di vista, consiste proprio nel ritenere, da parte del ricercatore, di rivolgersi non a un popolo colonizzato, “selvaggio”, bensì alla propria stessa realtà sociale. Si può anche leggere la nascita dell’antropologia come scienza, ha sostenuto Godelier, nel passaggio da un’antropologia “interessata” e strumentale, ma dilettantistica e narrazionale (quella di missionari e colonizzatori), a una professionale, caratterizzata dalla costruzione, mediante grafici, della struttura delle relazioni parentali delle civiltà prese in esame. A partire da questa evoluzione dell’antropologia, ha osservato Godelier, si può in concreto verificare che cosa significhi il superamento dell’eurocentrismo e il decentramento del pensiero occidentale: le circa mille culture, attualmente censite sul pianeta, vengono oggi ripartite in sette tipologie di struttura parentale, e quella occidentale appare niente più che come la variante di una di esse, la tipologia “eschimese”. F.C. Particolare di recipiente in terra cotta grigia. Nayarit (Messico) Le frontiere dell’antropologia Organizzata dall’Associazione internazionale per l’antropologia e il mondo antico, si è tenuta nel novembre 1993, presso l’Università degli Studi di Milano, la conferenza di Maurice Godelier dedicata al tema: “LE FRONTIERE DELL’ANTROPOLOGIA ALLE SOGLIE DEL III MILLENNIO”. Nel panorama dell’antropologia contemporanea, Maurice Godelier ha rilevato il delinearsi di una contrapposizione fra due tendenze. L’una “post-modernista”, attualmente in auge negli Stati Uniti, professa una forma di scetticismo più o meno marcato, a seconda dei suoi esponenti, nei confronti della possibilità di conoscere l’ “altro”, cioè l’oggetto dell’indagine antropologica. Questa impostazione, che appare fortemente debitrice alle analisi di Michel Foucault e Jacques Derrida, concepisce l’oggetto dell’indagine come un testo da decostruire, affermando nel con- tempo che esso, in quanto testo “originario”, al di là delle mediazioni culturali, non ci è mai dato. L’altra tendenza dell’antropologia contemporanea, che può essere definita global approach, prende le mosse dall’assunto secondo il quale nessuna civiltà è isolata dalle altre, e nessuna manifestazione di ciascuna di esse è isolata dal contesto generale del pianeta. Questa tendenza si occupa soprattutto dei problemi del degrado ambientale e della sua percezione da parte dell’uomo, nonché dei conflitti interetnici. Come questione filosoficamente rilevante, Godelier si è chiesto se effettivamente l’antropologia rappresenti uno strumento di normalizzazione culturale, da parte dell’Occidente, nei confronti delle altre culture, o se, invece, la riflessione etnologica e quella antropologica siano riuscite, almeno nei loro ultimi sviluppi, a decentrare il pensiero occidentale, dal quale entrambe pure provengono. Per l’etnologia contemporanea, ha ricordato Godelier, esistono 58 Tra i più importanti antropologi viventi, Mary Douglas si inserisce nella tradizione dell’antropologia anglosassone. Sostenitrice del metodo comparativo e della ricostruzione globale della struttura sociale, ha sviluppato in modo originale l’analisi dei sistemi simbolici in rapporto alle differenti società ed ha colto con chiarezza i rischi di una impostazione eurocentrica. Su queste tematiche e sulle sue ultime ricerche Franco Sarcinelli ha intervistato Mary Douglas, in occasione di una sua recente conferenza presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena. D. Signora Douglas, potrebbe parlarci del concetto di simboli naturali? R. Ho scritto un libro, intitolato: I simboli naturali; sebbene il titolo sia un ossimoro paradossale, ciò che esprime resta tuttavia un concetto importante. All’interno di ogni cultura la gente cerca nella natura un’autorità di quello che dice e così accade che ogni comunità ha una sua particolare lista preferita di simboli naturali. La mia convinzione è che non esiste una simbolizzazione naturale, artificiale. Noi abbiamo uno stesso corpo e stesse esperienze fisiche, che sono espresse in modo differente in culture differenti; in tal senso il titolo del mio libro è volutamente ironico. Su questo penso la stessa cosa di Levi-Strauss, che evidenzia in ogni società una commistione e una distinzione tra natura e cultura; solo che questa stessa distinzione è sempre artificiale e differente caso per caso. CONVEGNI E SEMINARI D. Per comprendere meglio che cosa significa questa distinzione “caso per caso”, diventa importante il problema della comparazione tra culture? R. La comparazione - una seria comparazione che sancisca cosa è dimostrabile e cosa è rilevante o irrilevante - è faccenda assai importante ed è molto differente dall’idea di esplicazione. C’è bisogno di solidi principi per determinare che cosa sia confrontabile; soprattutto, sono necessarie basi teoriche di comparazione, per cui quando un antropologo si trova di fronte due tribù simili, o che vivono nella stessa area, può applicare la regola del ceteris paribus, dato che in situazioni abbastanza simili gli elementi differenzianti risultano assai interessanti. Per esempio, in Zaire ho studiato un popolo che viveva su una sponda di un fiume e andava a caccia con arco e frecce e non usavano né reti, né veleno; sull’altra sponda del fiume viveva un popolo con un linguaggio molto simile e con un sistema politico molto più elaborato, poiché vi era un re. Ho pensato che fosse ovvio e del tutto necessario istituire la comparazione tra gli effetti provocati sulle tipologie di ciascun popolo dai caratteri del suolo, dal clima, dalla popolazione, dalla povertà, presente su entrambe le sponde del fiume, per capire che dove vigeva il sistema politico del re l’organizzazione del lavoro era differente e vi era meno povertà e dispersione... - questo è il tipo di comparazione che ritengo che l’antropologia debba fare. Vi è poi un secondo livello di comparazione, in cui tentiamo di interpretare per noi stessi gli elementi che abbiamo a disposizione: è a questo livello che ho scritto I simboli naturali. Sono rimasta molto colpita dal fatto che nell’Africa Occidentale è presente il culto degli antenati e non genealogie di gruppi socialmente riconosciuti come discendenza; nell’Africa Orientale, invece, vi sono le classi di età e non è presente alcun culto degli antenati; infine, nell’Africa Centrale non hanno il culto degli antenati, ma la stregoneria. Per capire le differenze che vi erano tra diversi tipi di strutture sociali e la religione che le caratterizzava ho dovuto fare un’astrazione dalle strutture sociali per elaborare una teoria e con essa chiarire le relazioni tra religione e società: ciò ha implicato comparazioni che hanno richiesto molta attenzione. A questo tipo di lavoro alcuni antropologi non sono affatto interessati e altri credono che ciò non abbia alcun interesse - perciò sostengono che le comparazioni sono impossibili e non puntano a un lavoro di comparazione, ma a quello di argomentazione. D. Dunque, il problema in antropologia è quello della generalizzazione... R. Certo, questo è il problema. Ora, nessuna generalizzazione è impossibile; la generalizzazione è necessaria in ogni cosa. Se hai una gran quantità di informazioni e non possiedi Recipiente in legno. Haida (America) 59 una teoria, l’informazione di cui si dispone rappresenta un “caso da museo”. L’antropologo fa una ricerca molto dettagliata del modo di vivere in un’intera regione , in ogni fase storica; ma se non c’è un nesso che colleghi a noi questa ricerca, essa non è di nessun interesse e diventa un “caso da museo “. D. Nel suo studio sui simboli naturali Lei descrive la questione del rapporto metaforico tra corpo e società. Ha in seguito continuato ad approfondire questo problema? R. Non ho continuato su questa strada. Ho pensato al corpo come metafora della società, ma i miei amici e critici mi hanno fatto notare che è un problema troppo arduo spiegare la scelta di una metafora piuttosto che di un’altra, ossia il procedimento che porta a scegliere una metafora. Pertanto mi sono concentrata maggiormente sui meccanismi della vita collettiva; in particolare, il mio interesse per il corpo si è orientato sul modo di usare il corpo per accusare le persone. Se qualcuno ha il corpo malato, la cosa interessante è che a qualcun’altro viene attribuita la colpa (potrebbe essere un capo gerarchico o uno straniero). Così, il mio lavoro riguardo i simboli si è spostato in quello di rintracciare le accuse e le colpe in relazione al corpo; non il corpo come metafora, ma come locus di attacco, socialmente predisposto, in base al quale le persone esprimono come regola ciò che essi si aspettano come esigenze di altri. E’ un approccio differente rispetto al CONVEGNI E SEMINARI corpo metaforico; è un approccio di tipo più sociologico. Recentemente ho scritto un saggio con un giovane medievalista in relazione al fenomeno della lebbra nel XII secolo in Inghilterra e in Francia. Siamo partiti da questo problema: chi era il lebbroso? Ora, secondo il mio approccio, la lebbra è da considerarsi un attacco: qualcuno viene accusato di aver contratto la malattia; e questa è un’accusa vera e propria, perché il suo effetto, a metà del XII secolo in Inghilterra e in Francia, è tale per cui la persona dichiarata lebbrosa doveva essere segregato dalla società; non poteva né ricevere, né lasciare in eredità del denaro; il suo status civile diveniva fortemente controllato; anzi, non aveva un suo status e, se era fortunato, poteva andare in un lebbrosario, altrimenti finiva sulla strada. La lebbra era considerata fortemente contagiosa e si pensava che fosse trasmessa sessualmente - come l’Aids -, che il lebbroso avesse impulsi sessuali spropositati e che il suo interesse fosse quello di contaminare il maggior numero di persone possibile; era quindi una terribile specie di outsider. All’epoca, sembra che ci sia stata una vera e propria epidemia: migliaia di essi vennero messi in edifici appositi; così che il tipico atto filantropico dell’epoca divenne quello di costruire nuovi lebbrosari. Tuttavia, resta il fatto che non vi era alcun mezzo per diagnosticare la lebbra. Per comprendere il fenomeno della lebbra occorre un’analisi sociologica o antropologica, che metta a confronto l’atteggiamento rispetto al corpo e alla lebbra in differenti periodi storici, in Inghilterra e in Francia, che sono espressione di differenti visioni culturali. Alla fine del X secolo, prima delle Crociate e della minaccia dell’Islam, pochissimi casi di lebbra furono registrati in Inghilterra e in Francia; la direzione dell’accusa era diretta sempre verso l’alto un superiore accusato dai suoi subordinati - ed accadeva che la persona accusata era oggetto anche di altre accuse - per esempio di crudeltà verso i sudditi, di appropriazione indebita di denaro, di cattivo governo. Ma l’accusa principale rimaneva la lebbra e nel caso di un largo consenso contro l’accusato, seguiva la sua rimozione dall’incarico. L’accusa di lebbra era dunque un modo di correggere atti di ingiustizia in una piccola comunità. Il contrasto consiste nel fatto che alla fine del XII secolo la direzione dell’accusa cominciò ad andare in senso opposto e nessuno più della classe superiore risultò affetto dalla lebbra, ma solo le classi povere e i meno abbienti. La prima, la seconda e la terza Crociata avevano completamente ribaltato il sistema feudale, gettato i poveri sulla strada ed eliminato le barriere tra nobiltà e borghesia con un effetto di grande confusione sociale: si erano diffusi molto denaro e benessere nel paese dopo le Crociate, per cui i ricchi, invece di dare contributi in denaro ai poveri, li accusavano di lebbra in modo da non sentirsi più socialmente responsabili nei loro confronti, dal momento che la lebbra era il male ed essi erano peccatori. L’accusa si era trasformata nella direzione opposta rispetto a prima e, tuttavia, nessuno sapeva nulla sulla lebbra. Ecco un esempio del mio attuale lavoro sul corpo come strumento di accusa. ‘Philosophia naturalis’ Nel decennale dell’A.I.S.E. (Associazione Italiana di Studi di Estetica) si è tenuto a Trento, nei giorni 11 e 12 aprile 1994, il convegno: “SIGNIFICATI E VALORI DELLA NATURA NEL PENSIERO ESTETI CO D’OCCIDENTE E ORIENTE”, organizzato e coordinato da Maria Grazia Marchianò, con la collaborazione di Renato Troncon dell’Università di Trento. Due le novità proposte al convegno: una “sezione” dedicata al pensiero orientale e una di estetica musicale, a testimonianza del carattere ramificato dell’estetica e della fecondità delle analogie fra mondi culturali diversi per lingua, disciplina, civiltà. La riflessione sull’estetica orientale ha dato prova della sua variegata geografia e della sua differenziata topica: l’oriente russo, l’oriente cinese, l’oriente giapponese...; e ancora: gli intrecci fra oriente e occidente, fra epoche e concezioni apparentemente lontani. L’estetica russa è stata al centro dell’intervento di Roberto Salizzoni, che si è occupato di A. Platonov e della sua ricezione del processo di sovietizzazione degli anni ’20 e ’30. Chiara Cantelli, invece, ha discusso il paradosso inerente al pensiero di Solov’ev: la bellezza è più diffusa negli esseri inferiori del cosmo e si presenta come deformità rispetto all’armonia assoluta di Dio. Della vitalità della riflessione estetica in civiltà ancor più remote ha testimoniato Giangiorgio Pasqualotto, che ha chiarito le differenze terminologiche e gli usi metaforici dell’idea di natura nelle grandi tradizioni del taoismo, polarizzato sul carattere fisico dell’esperienza naturale, e del buddhismo, orientato verso una comprensione intellettuale e mentale. Monica Ferrando ha invece presentato l’interpretazione metafisica della pittura, vera e propria depositaria della creazione dei “possibili” naturali, nel pensiero di Shitao. In quest’ambito di ricerca non sono mancate le analisi comparativistiche fra modelli culturali: Riccardo Franciolli ha elaborato una rete di analogie tra la polarità Terra-Mondo in Heidegger e quella Yin-Yang; Enrico Giannetto ha sviluppato i punti di convergenza e di distacco fra la metafisica occidentale contemporanea e il buddhismo di Tagore; Francesco Solitario ha seguito le tracce dell’opera novellistica indiana Pancatantra (IV-V) nella scrittura leggiadra di un noto umanista, Agnolo Fiorenzuola, analizzan60 do differenze e affinità dei due testi in merito alla concezione del mondo animale. Per la sezione di estetica musicale, Enrico Fubini si è soffermato sull’invito alla natura - nella duplice accezione di natura del linguaggio musicale e di natura percettivopsicologica dell’ascoltatore - nel linguaggio musicale del Novecento. Luciana Galliano ha sottolineato l’opposizione fra suono e rumore nella cultura occidentale e ha operato un raffronto con la musica orientale, in particolare quella giapponese. Michele Garda ha tracciato l’itinerario dell’estetica del sublime letterario e del sublime musicale nell’estetica inglese e tedesca del Settecento. Tra gli interventi caratterizzati da una correlazione tra piano storico delle ricerche e piano trasversale degli interrogativi teorici, Renato Troncon ha propugnato una riflessione estetica che sappia render conto non tanto delle ragioni, quanto dei caratteri delle cose inanimate; mentre Elio Franzini ha presentato una riflessione personale, incentrata sul tema dell’ “intenzionalità fungente”, di origine husserliana, e sull’idea di artisticità come interpretazione della natura, a partire dalle modalità qualitative della descrizione. Luisa Bonesio ha invece ribadito la necessità di restituire “verticalità” all’immagine della Terra in una dimensione cosmica, per sottrarla allo svuotamento e alla desertificazione della riflessione contemporanea; laddove Paolo D’Angelo ha vagliato motivi e paradossi dell’ “estetica ecologica” contemporanea (tedesca e americana). Non sono mancati i raffronti e gli “scorci” intesi a esemplificare le inquietudini e i motivi teorici di un’epoca o di una tradizione di pensiero. In tal senso, Stefano Benassi ha analizzato la problematica dell’armonia estetico-etica nell’età rinascimentale; Maurizio Ferraris ha analizzato il nodo fra produzione e riproduzione nell’immaginazione, individuando due grandi tradizioni moderne, l’una identificabile nella “pista” associazionistica, l’altra orientata a evidenziare il carattere innovativo dell’analogia; Annamaria Contini ha sviluppato i rapporti fra organico e meccanico in seno al positivismo francese, soffermandosi in particolare su Guyau e Séailles; Reimar Klein ha ripercorso alcuni momenti del pensiero filosofico e letterario tedesco, Goethe, i romantici, Benjamin e Adorno, individuando come motivo sotterraneo la ricerca di una lingua della natura depositata nella storia; Marco Macciantelli ha esaminato l’intreccio fra simbolo e sublime, da Burke alle poetiche simboliste; Giovanna Pinna ha affrontato il nodo fra autonomia del giudizio estetico e modello organico nella riflessione sul bello naturale nell’idealismo tedesco; Federico Vercellone, infine, ha proposto il problema cruciale quello dell’individualità attraverso le figure di Goethe e di Novalis. Alcuni interventi hanno potuto porsi in “dialogo” l’uno con l’altro: così, Elena CONVEGNI E SEMINARI Tavani, Carlo Gentili, e Elio Matassi hanno presentato le loro ricerche sul pensiero di Adorno. Tavani ha insistito sull’alleanza fra “naturale” e “estetico” in Adorno come istanza critica e trascendente in vista dell’esperienza individuale e attiva nel corso del mondo; Matassi ha interpretato la “seconda natura” in Adorno come “caducità” esclusa dal movimento dialettico, affrontando il rapporto tra Hegel e Adorno; Gentili ha invece connesso le osservazioni di Adorno e di Horkheimer sui miti dell’Odissea con l’interpretazione nietzscheana del mito di Edipo. Altri oratori si sono concentrati sulla figura e l’opera di Kant, di cui Gianluca Garelli ha affrontato il tema della melanconia; di Addison, di cui Giuseppe Patella ha analizzato il rapporto fra gusto, arguzia e piacere in merito all’immaginazione; di Leopardi, di cui Franco Rella ha voluto mettere in risalto la riflessione sul carattere “silvestre” della natura tesa fra un troppo pieno e l’annientamento; di Heidegger, di cui Caterina Resta ha ripreso il tema della “physis”; di Schelling, di cui Tonino Griffero ha analizzato le due coppie proporzionali, pianeti-comete e Antichi-Moderni; di Jakob Boehme, di cui Flavio Cuniberto ha interpretato la nozione di “paesaggio primordiale”. Infine, Leonardo Amoroso ha sottolineato il ruolo di Fedro nel dialogo omonimo di Platone; Clementina Gily Reda ha ricordato il pensiero estetico di Remo Cantoni. Altri oratori si sono concentrati sul rapporto fra arti figurative, estetica e retorica. Giorgio Maragliano ha evidenziato la rottura effettuata da Winckelmann nel campo della ekphrasis, descrivendo il corpo umano come fosse un paesaggio; Roberto Diodato ha presentato, in riferimento a un quadro di Vermeer, le analogie fra il pittore e Spinoza inerenti alla comune valutazione del finito, se non del “quotidiano”; Fosca Mariani Zini ha evocato il ruolo della leggiadria nel Rinascimento italiano e ha ricordato l’importanza per l’estetica dell’opera di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili ; Fausto Testa si è soffermato sull’idea di giardino in Leonardo, analizzando il testo e l’immagine del foglio W.12591 di Windsor. F.M.Z. La riforma di Lutero Dall’11 al 15 aprile 1994, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Bruno Forte, della Pontificia facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli), ha tenuto un Seminario dal titolo: “INITIA LUTHERI - INITIA REFORMATIONIS”. Come ha sottolineato Bruno Forte in apertura dei lavori, lo scopo del seminario è stato di sviluppare una storia della Rifor- ma, della Controriforma e dell’apologia luterana, avvalendosi, oltre che dei testi tradizionalmente in uso per lo studio di Lutero, anche dei Dictata super psalterium, pressoché ignorati dalla tradizione. Nei testi sacri, ha osservato Forte, Lutero cerca la risposta alla domanda vera, quella che dia un senso alla sua vita e risponda al suo bisogno di grazia e di luce, la domanda sulla salvezza. Ciò che, secondo Forte, caratterizza i “Commenti” luterani alle Scritture è il profondo coinvolgimento esistenziale che si avverte dalla loro lettura: l’ermeneutica di Lutero, in tal senso, può essere interpretata come una riappropriazione esistenziale della parola di Dio nettamente contrapposta ad una visione legalistica della fede che il teologo tedesco rifiuta fermamente. Nell’Evangelo, Lutero scopre che la salvezza non è in se stessi, ma è piuttosto apertura all’altro. Dei quattro sensi interpretativi (letterario, allegorico, tropologico e anagogico) Lutero, nella sua interpretazione delle Scritture, privilegia quello allegorico (oggettivo) e quello tropologico-morale (soggettivo), finendo poi coll’accordare al secondo una netta preferenza. L’allegorico ha, tuttavia, valore soltanto in rapporto al tropologico: ciò che Dio dice è ciò che dice a me, e che mi dà la forza di uscire da me per ritrovarmi in Dio. Se, dunque, ha rilevato Forte, tutto sta nell’incontro con l’alterità dell’altro, la realtà vera sta nell’attesa, e quella luterana appare come nient’altro che un’ontologia dell’attesa: la vita è domanda, invocazione, dinamismo; è, in una parola, attesa della grazia. Nell’interpretazione dei testi, e in particolare nei Dictata, Lutero si rifà continuamente alla condizione esistenziale dell’uomo e l’attesa della salvezza ne appare come l’elemento caratterizzante. Secondo Forte, Lutero è il teologo del vissuto; le sue domande sono vere e le sue risposte non possono che essere vere, tratte cioè dall’esperienza reale. La verità sta nell’incontro con l’alterità e la salvezza si realizza proprio nella scoperta di questa verità. Ma la strada che conduce alla salvezza non è priva di insidie: il pericolo maggiore è rappresentato dalla negazione dell’alterità e affermazione della soggettività che conduce inevitabilmente al nulla. Esiste, si chiede Lutero, una possibilità di salvare la vita, di renderla giusta e quindi degna di essere vissuta? La risposta sta nel processo della giustificazione, che Lutero identifica proprio con la redenzione dal nulla. La giustificazione, ha osservato Forte, è un processo altamente dialettico, costituito dai tre momenti fondamentali della tesi, dell’antitesi e della sintesi. La tesi è rappresentata dal cosiddetto “naufragio”, e cioè dall’esperienza che l’uomo fa del proprio nulla, il cui risultato è la presa di coscienza della necessità di aprirsi all’altro, che Forte ha definito come la «coscienza dell’ontologia dell’attesa, del nulla che siamo», e che avviene in primo luogo attraverso l’umiltà di Dio: che si è umiliato, si è 61 nientificato per far sì che il mondo esistesse. La redenzione dal nulla, la salvezza, non sta dunque nel merito, che è sempre e comunque merito di Dio, dell’Altro, ma piuttosto nella grazia divina che permette all’uomo di prendere coscienza del proprio nulla e della necessità di offrirsi a Dio per la propria salvezza. Il secondo momento del processo della giustificazione, ha proseguito Forte, è il giudizio di Dio, che scopre e rivela ciò che l’uomo è, mettendo a nudo il suo essere e facendogli prendere coscienza del fatto che nulla è utile alla propria salvezza se non Dio. Terzo e ultimo momento del processo è la Iustitia Dei, per cui il nostro nulla, sperimentato nel naufragio e messo a nudo dal giudizio divino, viene sottoposto alla grazia di Dio, attraverso la quale si realizza la redenzione dell’uomo. Questo concetto della giustizia divina è ripreso da Lutero anche nel “Commento” alla Lettera ai Romani, in cui tema centrale è di nuovo l’incontro dell’umano e del divino nell’evento della giustificazione. Il peccato assume in questo “Commento” una veste del tutto nuova. In questa nuova prospettiva il nulla appare non come semplice negazione, ma piuttosto come fascino, come amore dell’errore e delle tenebre: si tratta, come ha affermato più volte Forte, di una concezione rivoluzionaria, che inaugura l’età moderna. L’uomo, di fronte al giudizio divino, ha fatto notare Forte, è esso stesso peccato, perché è esso stesso il nulla al quale tende. Sorge qui la questione della predestinazione, che Lutero, come Agostino, non risolve: ogni uomo è attratto dal peccato e può salvarsi soltanto attraverso il processo della giustificazione divina. Lutero elabora a questo proposito la dottrina del “simul iustus et peccator”, per cui il peccato diventa un momento del processo della giustificazione: non si può fare esperienza della grazia se prima non si fa esperienza del male e l’uomo giustificato resta un peccatore anche se è giusto. Con questo Lutero non nega, ha osservato Forte, che le opere prodotte dall’uomo abbiano un certo valore e una certa consistenza, ma nega fermamente che l’uomo abbia la possibilità di autoredimersi. L’unica opera umana che abbia una funzione attiva nel processo della giustificazione è il totale abbandono, la resa incondizionata a Dio, la presa di coscienza del proprio nulla e quindi il consapevole riconoscimento dell’ontologia dell’attesa. Secondo Forte, Lutero non dice nulla di nuovo; la novità sta piuttosto nel fatto che Lutero si riappropria delle Scritture in chiave esistenziale. La stessa Controriforma, che sarà avviata dal Concilio di Trento, dimostra, in realtà, secondo Forte, una sostanziale identità di vedute tra Lutero e Trento: tutta la controversia sarebbe nata, secondo Forte, da una diversità ermeneutico-linguistica che è quella su cui si è posta tutta l’incomprensione tra Lutero e il Concilio tridentino. G.M. CONVEGNI E SEMINARI Nietzsche: tra filologia e filosofia Al Nietzsche dei nietzscheani e degli anti-nietzscheani, del culto deteriore, della leggenda si deve contrapporre il Nietzsche che emerge dal lavoro di ricerca storica e filologica, messo al riparo dalle semplificazioni e dalle tentazioni dell’immediatezza. Questo l’intento complessivo di un seminario dal titolo: “FRIEDRICH NIETZSCHE, A CENTOCINQUAT’ANNI DALLA NASCITA”, tenutosi a Pisa da febbraio a maggio del 1994, in occasione dei 150 anni della nascita del filosofo. La serie cadenzata dei vari incontri si è presentata come un percorso di riflessione su vari temi di più studiosi, che da diverse prospettive hanno trovato e riconosciuto nell’edizione critica dell’opera completa di Nietzsche, intrapresa da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, uno strumento essenziale per un percorso di lavoro e per un viaggio di scoperta ancora aperto su un periodo storico e culturale molto importante. Come ha sottolineato nella sua prolusione Giuliano Campioni, uno degli organizzatori del convegno, questa serie di seminari dedicati a Nietzsche ha voluto essere anche un omaggio all’opera di Colli e Montinari, che a Pisa si sono formati e hanno operato e insegnato. La prospettiva metodologica di Colli e Montinari, ha osservato Campioni, non si presenta come una soluzione definitiva al problema Nietzsche, e ai problemi di Nietzsche, ma come coscienza della complessità del fenomeno Nietzsche e dell’attuale impossibilità di una sintesi del suo pensiero che si sottragga ad un totale, quanto falsante prospettivismo. Al contempo, si rendeva necessario fare chiarezza sugli effettivi contenuti di questo pensiero, che possono essere evidenziati solo da un costante e puntuale esame dei suoi scritti e da un’attenta ricostruzione della fitta rete di relazioni e di rimandi, di cui questi sono intessuti. Nel primo appuntamento, Domenico Maria Fazio ha passato in rassegna fortune e sfortune critiche dell’opera di Nietzsche in Italia, mettendo in risalto come la ricezione italiana, soprattutto agli inizi del secolo, sia stata condizionata da una scarsa e molto approssimativa conoscenza dei testi. Nonostante ciò, ha osservato Fazio, l’Italia è stato uno dei paesi in cui il dibattito nietzscheano si è acceso con maggior fervore, dal tentativo di Croce di lettura idealistica di Nietzsche in chiave estetica, al “filosofare con Nietzsche” di Papini e Prezzolini. La fine della Grande Guerra e il conseguente antigermanesimo portarono a una rivalutazione dell’aspetto letterario e stilistico delle opere di Nietzsche ad opera di Gozzano e di Campana. Solo nel 1926, grazie all’editore Monanni, si ebbe la pri- Friedrich Nietzsche (1867) 62 ma edizione italiana “completa” delle opere, sulla base della Taschenausgabe del 1906, che comprendeva solo le opere principali, inclusa un’edizione filologicamente infondata e non curata della Volontà di potenza. Contrariamente a quanto si può pensare, il Fascismo dedicò a Nietzsche un’attenzione molto relativa. Per contro, verso la metà degli anni Trenta si diffuse, ad opera di A. Banfi, un’interpretazione antifascista di Nietzsche, incentrata sull’antidogmatismo e sul libertarismo del suo pensiero. Con l’arrivo in Italia delle interpretazioni di Jaspers, Heidegger e Löwith, seguite e riprese dalle letture fenomenologico-esistenzialiste di Pareyson e di Paci, finisce in Italia l’epoca delle strumentalizzazioni a sfondo sociale e politico e si apre la possibilità di una comprensione più autentica e profonda del pensiero di Nietzsche. I problemi etici e tecnici connessi al lascito letterario (Nachlass) di Nietzsche sono stati invece al centro della conferenza di David Marc Hoffman, coeditore dell’edizione completa Steiner delle opere di Nietzsche, che ha affrontato esplicitamente il problema della liceità di una sorta di voyerismo psicologico, che si esercita sulle testimonianze intime della vita di un autore e che non necessariamente aggiungono qualcosa al suo valore teorico o letterario. In questo, ha osservato Hoffman, è responsabile il curatore che deve mettere il pubblico in grado di ponderare i differenti tipi di testo e coglierne il valore specifico per la comprensione dell’autore. In questo contesto, il caso del Nachlass nietzscheano assume un valore esemplare, in particolare per quanto riguarda la Volontà di potenza, che come è noto fu costruita arbitrariamente dai suoi curatori, in primis dalla sorella Elisabeth. In direzione del tutto diversa si muove l’edizione Colli-Montinari, che usa il principio ordinatorie della cronologia, distinguendo tra frammenti e stesure preparatorie. Per quanto riguarda le lettere, Montinari ha coscientemente contravvenuto alle indicazioni di Nietzsche, ma non ha trascurato di riferirsi alle conseguenze per la ricezione e accetta la colpa dell’indiscrezione senza però mancare di mettere in guardia il lettore sul tipo di operazione compiuta. Un punto di contatto tra Nietzsche e Spencer è stato individuato da Andrea Orsucci nel suo seminario, che ha evidenziato come Nietzsche si sia servito delle nozioni etnologiche contenute nell’Etica e nei Principi di Sociologia di Spencer, per la formulazione di alcune analisi sull’origine dei concetti morali nella Genealogia della Morale. Il rapporto di Nietzsche con la filosofia preplatonica è stato al centro di un seminario a due voci, tenuto da Paolo D’Iorio e da Francesco Fronterotta. Prendendo in considerazione l’attività filologica del giovane Nietzsche, Fronterotta ha osservato, da un punto di vista metodologico, come Nietzsche invitasse a diffidare costantemente e regolarmente delle eccessive e artificiali coincidenze nelle cronologie antiche e a CONVEGNI E SEMINARI Friedrich Nietzsche tra le braccia della sorella Elisabeth Förster Nietzsche valutare i dati cronologici attraverso una rigorosa verifica della tradizione dossografica; una conquista di metodo molto innovativa per quei tempi, che fu avversata ad esempio, da Diels. Da un punto di vista storico, ha aggiunto Fronterotta, Nietzsche intendeva operare un’analisi delle diverse fasi della storiografia greca per esprimere una valutazione complessiva; di qui la valutazione dei preplatonici come figure indipendenti che non intrattengono tra loro rapporti di scuola o personali. Secondo D’Iorio, le opere dedicate ai filosofi preplatonici permettono di chiarire come il periodo “mitico - wagneriano” appaia in Nietzsche come una parentesi all’interno della ricerca sul problema della conoscenza. La tensione tra questi due momenti del suo pensiero, la si può rintracciare, per D’Iorio, nel rapporto di antitesi che intercorre tra La Nascita della Tragedia e La Filosofia nel- l’epoca tragica dei Greci. La prima è legata all’ideologia mitico-comunitaria di Bayreuth; la seconda, influenzata dalla lettura della Storia del Materialismo di Lange e preparata da alcuni cicli di lezioni sui Filosofi preplatonici, tenuti dal 1872 al 1876, si rivela pervasa d’amore per una concezione del sapere scientifico antimetafisico ed iconoclasta, rappresentato in modo eminente nella figura di Democrito. Il tentativo di sintesi dei due punti di vista nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale, in cui scienza e arte vengono ricondotte alla comune radice metaforica e illusoria, si rivela, secondo D’Iorio, inefficace e Nietzsche abbandonerà i suoi studi sui presocratici, per dedicarsi a temi più utili alla causa di Bayreuth, che tuttavia, di lì a qualche anno, abbandonerà definitivamente per riprendere il filone “democriteo” e volterriano della ricerca sulla conoscenza. 63 Del giovane Nietzsche si sono occupati anche Roberto Venuti, che ha evidenziato i rapporti tra Nietzsche e Schiller, riguardo alla considerazione della tragedia e del mito nella classicità, quali emergono ne La Nascita della tragedia, e Luigi Alfieri, che ha invece posto l’accento sul pensiero politico giovanile di Nietzsche, delineando la possibilità di darne una lettura antiautoritaria, contrassegnata da forti accenti anarchici e religiosi. Al pensiero politico di Nietzsche si è rivolto anche Urs Marti, che ha presentato una proposta interpretativa della teoria del superuomo in senso democratico. Nell’anelito verso l’uomo superiore, elemento germinativo della teoria del superuomo, si esprime il sogno di un nuovo tipo di uomo che si elevi al disopra dei concetti morali convenzionali. Secondo Marti, il concetto nietzscheano dell’uomo superiore «tradisce effettivamente CONVEGNI E SEMINARI l’influsso della letteratura francese e questa letteratura a sua volta rispecchia diverse possibilità di contrasto con la democratizzazione della società francese». Al tema del rapporto tra Nietzsche e la cultura francese si riallaccia anche Giuliano Campioni, il quale ha indicato nella cultura parigina del naturalismo e della fisiologia il terreno su cui nasce la nozione di décadence, impiegata da Nietzsche per definire l’arte di Wagner e tutta la cultura della modernità fin de siècle. Autori quali Bourget, i Goncourt, Balzac, Flaubert, Renan, forniscono a Nietzsche gli strumenti per una concezione della décadence intesa come malattia, insubordinazione delle parti al tutto, degenerazione, incapacità di dominare la contraddizione dei molti istinti e dare forma alle forze contrastanti che agiscono all’interno della personalità e della società. La malattia della modernità è il dominio del milieu, della massa priva ogni disciplina e dominio. Al tipo della décadence, prodotto necessario dell’azione plasmatrice del milieu, Nietzsche oppone i grandi uomini del passato, Cesare, Napoleone, espressione autentica della volontà di potenza, intesa come autodisciplina e volontà di dare forma al caos interiore degli istinti. Dopo un ricco e complesso excursus sulla cultura tedesca del primo novecento Franco Volpi ha analizzato l’interpretazione di Heidegger della Volontà di potenza, ricostruendo i riferimenti testuali adoperati dal filosofo di Essere e tempo e alcuni problemi critici insiti nella sua interpretazione del pensiero nietzscheano. Un preciso resoconto tecnico sul lavoro filologico svolto sul Nachlass nella ricerca delle fonti e degli influssi che hanno contribuito alla stesura dello Zarathustra è stato presentato da Marie-Luise Haase, che ha sottolineato come il lavoro filologico sui frammenti postumi e sulle fonti contribuisca a restituire l’esatto valore del pensiero di Nietzsche, eliminando le possibilità di abuso o di interpretazioni avventuristiche, e a collocarlo con sempre maggiore precisione all’interno del tessuto culturale della sua epoca. Prendendo in esame la ricezione della Nascita della tragedia nella letteratura tedesca di fine secolo, Karl Pestalozzi ha messo in luce un momento fondamentale della nascita dell’epoca moderna in Germania alla fine del XIX secolo, mostrando l’influenza di Nietzsche su alcuni artisti tedeschi “moderni”, quali Hoffmansthal, Hauptmann, Rilke. I poeti a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo lessero La Nascita della Tragedia di Nietzsche come poetica, a partire dalla quale intesero e legittimarono la loro poesia, generalizzando il titolo dell’opera nietzscheana in “La nascita della poesia dallo spirito della musica”. L’origine della poesia risiedeva al di là dell’individualità della quale erano coscienti; in essa si manifestava qualcosa di immanentemente divino. L’opera giovanile di Nietzsche assegnò ai poeti anche una particolare collocazione storico-filosofica e il relativo compito, cioè quello che egli aveva concepito per Wagner, che consisteva nel porre termine all’epoca socratica, esercitando una critica della letteratura e delle società vigenti in quanto socratiche, o unilateralmente apollinee. S. F. Viaggio come esperienza religiosa Nell’ambito di un ciclo di lezioni sul tema dello spazio sacro e del viaggio nell’esperienza religiosa, organizzato dal Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo di Modena nell’ultimo biennio di attività (ottobre 1992-aprile 1994), ha avuto luogo dal 7 ottobre 1993 al 14 aprile 1994 il secondo ciclo di lezioni dal titolo: “IN CAMMINO VERSO DIO. LA METAFORA DEL VIAGGIO NELL’ESPERIENZA RELIGIOSA”, che ha visto la partecipazione di Raimon Panikkar, Filippo Gentiloni, Amalia Pezzali, Ermenegildo Manicardi, Paolo Branca, Anna Maria Leonardi, Franco Cardini, Erminia Macola, Gianni Celati, Severino Dianich. Da sempre il tema del “luogo sacro” è stato oggetto di studio, dai classici della ricerca fenomenologica - Rudolf Otto, Mircea Eliade - al semplice uomo di fede. Con questi presupposti prendeva avvio il primo ciclo di lezioni, dal titolo: “I paesaggi del sacro”, proponendo interventi di Armido Rizzi, Paolo Branca, Paolo De Benedetti, Sergio Ribichini, Giuseppe Barbaglio, Pierangelo Sequeri, Filippo Gentiloni, Aldo Natale Terrin, Franco La Cecla, Paolo Ricca. Il secondo ciclo di lezioni ha affrontato la metafora del viaggio, utilizzata nelle varie religioni, in Occidente come in Oriente, per rendere evidente la ricerca di Dio da parte dell’uomo e anche l’apertura tra l’umanità ed il sacro. Il primo incontro, di taglio metodologico, è stato condotto dal teologo e filosofo Raimon Panikkar, che ha mostrato l’ampio uso di questa metafora. Due diversi codici del viaggiare sono stati presentati da Filippo Gentiloni: quello di Ulisse, che viaggia per poi ritornare a casa e ha sempre ben presente la meta; e quello di Abramo, che rappresenta «l’uomo che se ne va; ma non sa bene dove arriverà», per il quale la fede è sempre “un camminare”, seguendo l’indicazione di un dito, secondo una concezione storica del viaggio - tutta la Bibbia, peraltro, narra esperienze di percorsi (l’uscita dall’Egitto, il vagare nel deserto, l’esilio...). Altre figure di viaggiatori prese in considerazione sono state Gautama Siddharta, Buddha e il suo cammino spirituale per il raggiungimento del nirvana, la “rottura” con il ciclo delle rinascite, di cui si è occupata Amalia Pezzali; Gesù, annunciatore itinerante del Regno, ma anche “via, verità e vita”, come ha mostrato 64 Ermenegildo Manicardi, mettendo in evidenza come tutto ciò che riguarda il cammino di Gesù non sia circoscrivibile solo alla sua esistenza storica, ma, abbracciando la Risurrezione, coinvolga anche ogni uomo. L’Islam, su cui si è soffermato Paolo Branca, si propone di dare, anche in senso morale, una direzione al muoversi dell’uomo, del beduino; nella Sura che apre il Corano si legge: «Indicaci la via!». Dal punto di vista fisico e geografico, La Mecca testimonia la disposizione dell’uomo a seguire Dio; e inoltre, il pellegrinaggio costituisce uno dei cinque pilastri della fede. Avvincente anche l’esempio dell’itinerario dantesco nei regni dell’oltretomba, proposto da Anna Maria Chiavacci Leonardi; così come l’immagine del pellegrino medievale, offerta da Franco Cardini, che ha fatto notare come il pellegrino vuole toccare con mano la presenza di Dio nella storia, andando da un luogo profano a un luogo sacro; in realtà, tutta la vita è un pellegrinaggio e il passaggio da uno stato all’altro è da intendersi come metanoia interiore. Alle esperienze di viaggio dei grandi mistici ha fatto riferimento Erminia Macola. Nel viaggio che avviene di notte, secondo l’esperienza di Giovanni della Croce, ci si perde per ritrovarsi in un processo profondo di identificazione: «per essere ciò che non sono, devo andare per dove non sono». La strada è oscura, buia; i pericoli sono le abitudini, che bisogna abbandonare per «correre con leggerezza verso Dio, prenderlo e stringerlo senza lasciarlo andare». Teresa d’Avila, invece, fece dell’anoressia, di cui soffrì, la risposta letterale al dettato dei testi ascetici: il cibo e il sonno non sono che una perdita di tempo; molto più proficuo è non mangiare e rimanere nell’attesa della venuta di qualcosa/qualcuno (ostia, cibo divino) che doni la vera vita. Gianni Celati ha invece parlato dell’avventura poetica di Rilke come esperienza mistica di illuminazione a partire da una sua traduzione originale delle Elegie duinesi. All’elemento di novità - indice di movimento ed ansia - introdotto da Gesù, che paragona il Regno di Dio al sale ed al lievito, ha fatto riferimento Severino Dianich, mostrando come questa espressione rimandi sempre ad un’ulteriorità, ad un’aspirazione. Il Regno è dunque un orizzonte in cui possono essere iscritte mete diverse; qualsiasi movimento sarebbe deviante se non rientrasse in questo orizzonte, che «è già, ma deve ancora venire» Sia la “fuga dal mondo” nella vita contemplativa, travalicando la storia, sia l’impegno per rendere la vita sulla terra più umana sono mete che devono essere iscritte nell’orizzonte del Regno e delle sua venuta ed il progresso terreno non fa che accelerare la discesa definitiva dal cielo della città santa, la nuova Gerusalemme. Il complesso degli interventi verrà raccolto in forma rielaborata e pubblicato nella collana «Punti critici» della Fondazione San Carlo. B.S. CONVEGNI E SEMINARI Avventure delle verità: da Hegel a Goodman Il corso di aggiornamento e perfezionamento in discipline storico-filosofiche organizzato dal novembre 1993 al marzo 1994 dall’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli ha avuto come tema: “LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA. STORIA DELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA”. Il Corso, inaugurato da Vittorio Mathieu e Francesco M. De Sanctis, ha visto la partecipazione di Valerio Verra, Lucio D’Alessandro, Franco Volpi, Carlo Sini, Aldo G. Gargani, Maurizio Ferraris, Aldo Trione, Domenico A. Conci, Vincenzo Vitiello, Enrico Berti, Giuseppe Limone, Evandro Agazzi, Remo Bodei, Saverio Maffettone, Francesco Moiso, Salvatore Veca. Secondo Valerio Verra (“La dialettica nella cultura filosofica contemporanea”), è necessario smentire l’apparente “eclisse” della dialettica, mostrandone invece la presenza sotterranea in tutta la filosofia del Novecento. La dialettica fenomenologica hegeliana ha rivoluzionato la filosofia, dimostrando che tutto è da considerarsi in rapporto alla coscienza, rovesciata rispetto a se stessa. La dialettica logica, che comporta l’identità di filosofia e storia della filosofia, non è poi, secondo Verra, così lontana dall’ermeneutica, dato che Gadamer condivide con Hegel l’idea che la verità non si possa esprimere attraverso la proposizione ed entrambi presuppongono un processo necessario di integrazione delle varie posizioni concettuali o di fusione di orizzonti. Maurizio Ferraris (“Deduzione di una storia dell’ermeneutica”), ha proposto un modo di uscire da quel “miraggio della fine” che sembra accompagnare l’universalizzazione dell’ermeneutica. L’esistenza di una tradizione scritta, di una distanza temporale e di un linguaggio dimostrano che tutto è mediato, che non esiste alcuna origine semplice. Gli sviluppi della filosofia da Kant a Husserl e Heidegger indicano che l’evidenza e l’immediatezza sono sempre effetto di una costituzione, di una mediazione. Dunque, anche l’attesa del nuovo avviene sempre nell’orizzonte aperto della tradizione. All’idea della fine della storia o del senso della storia, che circola oggi con il nome di post-storia, non crede affatto Romeo Bodei (“La post-storia”). Ciò a cui si assiste, ha fatto notare Bodei, è piuttosto lo sgretolamento della congiunzione tra storia e utopia realizzatasi alla fine del Settecento, quando, con l’ “ucronia” (2440, di Louis-Sébastien Mercier, è il primo romanzo ucronico), la società perfetta viene collocata nel futuro, nella storia. Questa trasformazione dette alla storia un telos e all’utopia l’aggancio alla realtà. Oggi, che l’orizzonte storico si presenta contratto, il futuro, per Bodei, appare più come una minaccia che come una promessa. Per stabilire ciò che è rilevante, ciò che conserva il suo significato nella tradizione, Francesco Moiso (“Storiografia e ermeneutica filosofica”) ha proposto una concezione “morfologica” e sistemica, in cui il concetto di “forma” indica una struttura auto-riferita in interazione con altro, che nella sua permanenza porta con sé molteplici possibilità di cambiamento. Da ciò conseguirebbe anche una risimbolizzazione della conoscenza. Del simbolo, inteso non come segno arbitrario, forma retorica o pura metafora, ma come potenza capace di strutturare un campo di forze, ha parlato anche Giuseppe Limone (“Figure del simbolo e figure della simbolica”). Aldo G. Gargani (“La revisione critica della tradizione metafisica nel neo-pragmatismo di Richard Rorty”) ha illustrato il pensiero Rorty, la sua concezione dell’uomo come intreccio di desideri e il suo concetto di razionalità in quanto partecipazione ad una comunicazione tollerante. Per il neopragmatista Rorty, ha osservato Gargani, la verità non presuppone un rispecchiamento del mondo, bensì la coerenza tra enunciati del nostro linguaggio e la scienza è ricerca di quegli enunciati veri che meglio servono a risolvere i problemi degli uomini. Come ha mostrato Salvatore Veca (“Paradigmi e versioni del mondo: da Nelson Goodman a Hilary Putnam”), Nelson Goodman (Vedere e costruire il mondo, 1988) rifiuta, da una posizione nominalista, il “mito” della riducibilità di una varietà di versioni del mondo ad una sola vera e valida, che consentirebbe di guardare al mondo così come esso si dà. Secondo tale prospettiva, ha notato Veca, la filosofia deve allora occuparsi non di “un” mondo, ma dei modi di fabbricare mondi, delle versioni del mondo (artistiche, scientifiche o morali che siano). Qui la verità diventa una sottospecie, valida per i soli sistemi enuncitivi, della rightness (correttezza, giustezza, congruenza), quale criterio per distinguere versioni reali da versioni spurie o “fallite”. A proprosito delle trasformazioni nella sfera dell’estetica, Aldo Trione (“L’estetica contemporanea come problema”) ha preso spunto dall’opera di Mallarmé, in quanto in essa si esplicita poeticamente l’assunzione del destino di finitezza dell’opera umana. Franco Volpi (“La filosofia pratica contemporanea”) ha parlato invece della riabilitazione della filosofia pratica e in particolare del modello aristotelico. Successivamente Enrico Berti (“La presenza della tradizione classica nel dibattito filosofico contemporaneo”) è tornato sulle “appropriazioni” novecentesche di Aristotele, ma ha soprattutto inquadrato il ritorno del Platone delle “dottrine non scritte”, prendendo atto della relazione con la linea neoplatonica e con l’entusiasmo per la metafisica dell’Uno, pur rilevando una certa reticenza circa i motivi teoretici che hanno spinto in tale direzione. Nel sostenere un incontro necessario tra etica e ontologia, Saverio Maffettone (“L’ontologia nel dibattito etico contem65 poraneo”) ha invitato al sospetto nei confronti del pensiero antimetafisico, che confonde nel giudizio negativo la metafisica “speculativa”, dogmatica e portatrice di una presunta autenticità ristretta a pochi, e la metafisica “pubblica”, a cui è legata la difesa del “pluralismo” dalla totale relativizzazione, facendo appello ai principi primi che uniscono le nostre conoscenze con quelle degli altri, o che governano i nostri atteggiamenti in rapporto a quelli degli altri. Evandro Agazzi (“Scienza e metafisica”) ha invece proposto una riabilitazione della metafisica in senso classico, aristotelico, alla luce del fallimento delle tesi neopositivistiche che l’avevano condannata al non-senso. L’impossibilità di eliminare dalla scienza i termini teorici, la necessità di inventare nella scienza modelli interpretativi portano a concludere che non si può negare, almeno in linea di principio, la legittimità della ricerca metafisica, il cui punto di vista è quelo dell’ “intero”. Sulle vicende della scienza e dell’epistemologia novecentesca si è soffermato anche Domenico A. Conci (“Realtà e oggettività nel pensiero cognitivo contemporaneo”), rilevando i limiti della altermativa popperiana tra epistéme e doxa. La struttura linguistica della scienza mostra come l’applicazione della matematica e della logica alla fisica sia un procedimento di traslazione con cui si veicolano semanticamente elementi astratti per enti concreti. L’oggettività è dunque una valenza traslata: non si dà il reale “in carne e ossa”, ma una affermazione di esistenza; questa situazione è propria della cultura occidentale. Infine, il problema di una ridefinizione del senso della filosofia è stato affrontato da Carlo Sini (“Il problema della pratica filosofica”) e Vincenzo Vitiello (“Filosofia e topologia”). Sini ha sottolineato come la filosofia, nell’interrogarsi su se stessa, sulla sua “soglia”, ovvero sul luogo dal quale il filosofo parla, non possa che reiterare la sua pratica. L’evento del domandare socratico instaura la filosofia, che resta strutturalmente nell’assenza di risposta: questa paradossalità è propria dell’età del trionfo moderno della scienza; né il soggetto, né il logos hanno trovato posto nell’enciclopedia del sapere, poiché essi sono un limite, un orlo. Occorre quindi ridare la parola al soggetto, che sa di non sapere, attraverso un diverso modo di atteggiarsi ed una diversa formazione del filosofo. Nel quadro delle ragioni che motivano la sua topologia filosofica, Vitiello ha chiarito che, a differenza della parola del sophos e di quella del sofista, la parola “sempre seconda” del filosofo si caratterizza originariamente come parola “della” verità, nel senso che la verità è in essa, senza però esaurirvisi. Stando in questo “frammezzo”, il problema della filosofia è di riconoscere l’ “alterità” dell’altro che essa dice; essa ripete in qualche modo, il gesto originario della nascita dell’autocoscienza, ed in questo rimane la sua dignità. C.T. CONVEGNI E SEMINARI Parmenide e dopo Parmenide Il poema filosofico di Parmenide venne a costituire un punto di confronto obbligato per i pensatori che, dopo di lui, indirizzarono la loro riflessione a visioni totalizzanti del mondo o anche a temi più circoscritti. La tensione ed articolazione argomentativa del suo poema ‘Sulla natura’ ne fecero una sorta di passaggio obbligato per intellettuali che, da Zenone a Gorgia, «dovettero definire la loro identità culturale in rapporto a lui». Sul tema: “IL DIBATTITO SU PARMENIDE. ASPETTI DELLA FILOSOFIA GRECA TRA V E IV SECOLO”, Maurizio Migliori, dell’Università di Macerata, e Livio Rossetti, dell’Università di Perugia, hanno organizzato un convegno che si è svolto a Macerata e successivamente a Perugia dal 24 al 26 marzo 1994. Ha aperto i lavori Giovanni Casertano (“Chi è il sofista? Gorgia e il peri tou me ontos”), che ha analizzato il rapporto tra realtà e linguaggio-pensiero nello scarto che assume tra Parmenide e Gorgia. Quest’ultimo individua la difficoltà insita nella formalizzazione della realtà empirica, affermando che il discorso è altro rispetto agli oggetti di cui abbiamo esperienza, e la significazione non è semplice sovrapposizione o appiattimento del discorso sugli oggetti: c’è una dialettica sempre reversibile fra essere e logos. Per questo i discorsi sono “tutti falsi”; ma perciò stesso - in quanto esiste solo una verità dei discorsi che non è quella della realtà a cui essi si riferiscono - sono “tutti veri”. La verità del discorso è quella della coappartenza di pensiero e realtà esterna. A Zenone hanno rivolto la loro attenzione Livio Rossetti (“Sui primi detrattori di Parmenide e sulla fedeltà di Zenone all’ortodossia parmenidea”) e Rafael Ferber (“Lo ‘Stadio’ di Zenone”). Rossetti si è interrogato su quanto Zenone, da allievo di Parmenide, sia stato fedele al paradigma parmenideo e quanto invece, da apologista di Parmenide, sia stato intellettuale subalterno rispetto al maestro. Se negare spazio, tempo, molteplicità è un’ardua proposta, Zenone li avrebbe negati per “proteggere” Parmenide, nonostante l’ “anonimo antieleata” che si oppose al maestro eleata (presumibilmente in opposizione a quanto espresso nel fr. 8, 38-40), lo facesse indubbiamente in nome di un’esperienza immediata di oggetti in movimento, nello spazio e nel tempo. Zenone, ha rilevato Rossetti, cercò una contro-mossa che fosse pari alla sfida, mettendo in discussione il mondo dei fenomeni; in questo, la provocazione dell’anonimo anti-eleata si può dire sia una delle sollecitazioni che hanno “reso possibile” il pensiero zenoniano. Ferber ha proposto una nuova “difesa” filosofica del tema dello “stadio” di Zenone contro l’esposizione datane da Aristotele. Nello stadio le due masse devono muo- versi in direzione differente; ma entrambe devono percorrere infiniti punti. Nell’infinito non c’è più differenza; il mezzo e l’intero sono uguali e le due masse, così, non si potranno mai incontrare. In questo IV paradosso, ha osservato Ferber, si deve riconoscere non una mechane banale, bensì il rafforzamento, e quasi il culmine, degli altri tre precedenti. Come per Achille e per la freccia, anche nello stadio lo spazio totale “non è percorribile”, e lo spostamento è sempre e solo “puntuale”; il paradosso fondamentale è che i punti infiniti di un segmento non hanno dimensione. In rapporto a Parmenide, per il quale l’essere, finito, è dappertutto uguale a se stesso e le differenze di spazio e di tempo sono solo apparenza, anche per Zenone, che pur ha introdotto nell’essere la nozione di infinito, le differenze di spazio e di tempo sono apparenti, se la metà è uguale all’intero. Per Nestor L. Cordero (“Dall’esti all’essere uno: il Parmenide ‘parmenidizzato’ di Melisso”) la “linea eleatica” procede piuttosto per fratture che per continuità. In Parmenide, il “cuore della verità” è in quell’esti, esperienza primaria, originaria, espresso senza soggetto per non minarne l’universalità. Esti ed einai convivono nel participio presente eon (“ciò che è adesso”): l’essere è la “presenza assoluta” che non viene mai meno, una realtà totale che si presenta nelle sue manifestazioni. L’unità dell’essere non è così un fantasma. Con Zenone, però, si perviene alla negazione del molteplice attraversando la paradossalità propria della “dimensione”, della “grandezza”: l’unità residua, per essere unità, dovrebbe essere “indivisibile”. Per Melisso l’essere non è negabile, perché ne abbiamo continuamente esperienza, e il vuoto non esiste; dunque l’essere è infinito e la sua comparazione a una sfera è solo un’immagine; essendo infinito è dunque “uno”. Con Mario Vegetti (“Katabasisis”), la linea del discorso si è spostata dalla scansione storico-temporale a quella storicotematica, nell’esame del senso della Katabasis, a partire dalla prima parola, kateben, presente nella Repubblica di Platone, dove il termine katabainein comporta il senso di una “discesa”: di Socrate, in un Ade sociale e ambientale, di Gige o di Er nelle viscere della terra, della dialettica dalle ipotesi. Lo spazio culturale della katabasis, ha notato Vegetti, ha una sua dimensione nella necromanzia (così con Odisseo, con Orfeo) e, fra i suoi tratti dominanti, comporta l’incontro con una figura femminile (la deamadre), legata alla conoscenza della verità: Epimenide incontra Aletheia e Dike, Pitagora trova Themis. La storia di Parmenide, nel suo poema, è quella di un’iniziazione-rivelazione corrispondente non, come spesso si crede, a una anabasis verso la luce, bensì proprio ad una katabasis. Attraverso Parmenide la katabasis raggiunge Platone: quella di Socrate nella Repubblica non è solo un viaggio agli Inferi, analogo a quello di Odisseo, ma ha a che fare con la tradizione 66 sciamanico-sapienziale. La Repubblica è dunque, ha concluso Vegetti, un racconto di formazione; la struttura del dialogo segna la continuità e la cesura fra la tradizione sapienziale e la conoscenza dialettica. Indagando il rapporto fra theoi e arche, e indicando in Senofane un disegno di teologia sostitutiva del pantheon olimpico con un dio-persona diverso (un dio “maschile”: ho theos), Ileana Chirassi Colombo (“Theos/thea. Il politeismo e l’indifferenza del divino nella ricerca sull’essere tra Parmenide e Platone”) ha messo a fuoco in Parmenide una riformulazione, tutta al femminile, del politeismo, ma con un uso ridottissimo del termine thea (l’unità del divino) a favore di sue manifestazioni-denominazioni particolari, come Nux, Dike, Themis, Ananke, Peitho, Aletheia, Moira, Daimon. In generale, ha sottolineato Chirassi Colombo, la divinità femminile greca si trova espressa col sostantivo maschile preceduto dall’articolo femminile: he theos. Renato Laurenti (“La componente geometrica della teologia di Empedocle”) ha richiamato l’attenzione sulla non separabilità, in Empedocle, della dimensione scientifica da quella religiosa, evidente nel fatto che nel Peri phuseos le “radici”, o elementi fondamentali, sono indicati coi nomi delle divinità dell’Olimpo e nei Katharmoi si ripresentano i medesimi elementi come costitutivi del tutto. Nella religione greca in generale, e nell’orfismo e pitagorismo in particolare, Apollo era dio dei vaticinii e della poesia, dio risanatore, dio della luce: prerogative che ritornano in Empedocle, il quale considera Apollo quasi l’espressione del divino. In Empedocle, tuttavia, il divino lo si incontra a più livelli: lo sfero, momento del divenire del tutto, è anche dio: sphairos è divino; sphaira, invece, rimanda a Parmenide (e, prima, ad Omero: la sfericità porta con sé la perfezione), così come le nozioni di uno, di tutto, di proporzione. In Empedocle, ha concluso Laurenti, la geometria aiuta a capire la perfezione: il dio supremo, che è fondamentalmente phren, abbraccia il tutto con i suoi pensieri, rispondendo alla formula più caratteristica della fisica empedoclea, l’uno-molti. Lo sviluppo scientifico dei presupposti parmenidei è stato affrontato da Filippo Mignini (“Il concetto di vuoto, e i suoi correlati, nel dibattito post-eleatico”) e da Conrado Eggers Lan (“Parmenide e la nascita della matematica scientifica”). Nel IV libro della Fisica di Aristotele, ha notato Mignini, il vuoto è inteso come luogo privo di corpi, non esiste, poiché se fosse separato dai corpi, e perciò diverso dalla materia prima, renderebbe impossibile il movimento: esso non è dunque “il luogo” in cui avviene lo spostamento, bensì “la sua materia”. In Parmenide, l’essere, assoluto, immobile, è indifferente ad ogni determinazione di estensione e di temporalità. L’essere di Melisso è invece eterno e illimitato (perché altrimenti confinerebbe con il vuoto): unico; il vuoto come intervallo non CONVEGNI E SEMINARI Testa di filosofo identificato con Parmenide 67 CONVEGNI E SEMINARI esiste. Così, se l’essere eleatico è principio di tutte le cose, ha osservato Mignini, esso è anche indifferente alle loro determinazioni e modificazioni, tanto che essere e vuoto (cioè l’indeterminato indifferente ad ogni determinazione) si possono identificare. Concorde con C. H. Kahn nel riconoscere come fattore decisivo per il progresso della matematica la prova deduttiva, Eggers Lan ha rilevato come il ragionamento deduttivo compaia per la prima volta in Parmenide, quando questi, per confermare che l’essere è ingenerato, utilizza una dimostrazione indiretta, per assurdo (anche se il ragionamento deduttivo del poema di Parmenide non è certo di impronta matematica). Alcuni, come Cornford, ritennero che la “dimostrazione” sia nata prima di Parmenide, con i Pitagorici; in tal senso, il primo documento sicuro per noi è probabilmente il Menone di Platone (82c ss.). Prima dell’introduzione della prova deduttiva il metodo di dimostrazione usato dai matematici consisteva nell’epharmozein, nella verifica di coincidenza (la sovrapponibilità) come criterio di uguaglianza. Ad un certo momento, l’epharmozein risultò insufficiente per la dimostrazione di problemi matematici più complessi (come, ad esempio, quello della trasformazione delle aree, affrontato nel Menone, 83a ss.), per i quali era necessario un ragionamento. Secondo Maurizio Migliori (“La filosofia dei Sofisti: un pensiero post-eleatico”), uno degli esiti del percorso aperto da Parmenide e da Melisso può essere ravvisato nel pensiero dei Sofisti, in quanto contrapposizione alla crisi dell’eleatismo. L’opera di Gorgia, Del non ente o della natura, riprende visibilmente quello della maggiore opera eleatica; il relativismo di Protagora può essere inteso come una reazione, vestita con abiti eleatici, alla scuola fisica. Anche per Platone il senso filosofico della sofistica risiede nell’eleatismo. Platone individua sei definizioni del sofista, delle quali è possibile determinare in alcuni casi il riferimento individuale: di una - il sofista cacciatore dei giovani ricchi: parla della virtù ma pensa ai soldi - è Prodico; di un’altra - le varie possibilità di commercio per conquistare l’anima - Ippia e Protagora. Protagora è considerato ancora da Platone un filosofo; mentre Gorgia, che ha messo in circolazione i peggiori argomenti, aprendo la strada alla peggiore sofistica, va subito confutato nei suoi argomenti. Ha concluso il convegno Tomás Calvo Martínez (“Il linguaggio dell’ontologia: da Parmenide a Melisso”), osservando come in Parmenide l’opposizione, entro la conoscenza, tra Aletheia (verità, che compare sempre al singolare: è un’ipostasi, una divinità) e doxa (le opinioni della gente, in rapporto a cosmologie e ontologia), non corrisponde a quella tra ragione e sensi, un’opposizione che non compare nel poema parmenideo. L’opposizione principale è fra due tipi di linguaggio, quello discorsivo, logos, e quello narrativo, epos, che sviluppando opinioni, le svolge in cosmogonie e cosmologie. In Melisso restano espressioni parmenidee, ma si perde l’opposizione logos-epos, come anche quella tra Aletheia e doxa. In più, in Parmenide il verbo dokein ha sempre valore attivo, e ta dokounta sono le opinioni, non le apparenze; in Melisso il verbo dokein è costruito in forma passiva, e questo induce a pensare che il dokein sia l’esperienza sensibile, il “ci sembra” (neutro, esente da ogni attribuzione negativa o di falsità), che in rapporto alla molteplicità deriva da quello che stiamo a vedere, in rapporto all’unità, dall’argomentazione razionale. S.N.P. Melantone e il suo tempo Su invito di Stefan Rhein, custode del Melanchthonhaus di Bretten (RFT), città natale di Melantone, dal 20 al 22 febbraio 1994 un folto gruppo di studiosi ha preso parte al convegno: “MELANTONE E LE SCIENZE DELLA NATURA DEL SUO TEMPO ”, con l’intento di dare una valutazione all’opera del riformatore e filosofo alla luce delle più recenti indagini sul rapporto tra riforma e scienze della natura. Raramente si è dato pieno conto del fatto che Melantone abbia svolto un ruolo di primo piano nello stabilire il sostrato dal quale ha poi preso avvio la rivoluzione scientifica del Seicento. Assai numerose sono state invece le analisi affrettate del rifiuto - già chiaro, peraltro, negli anni tra il 1539 ed il 1541 - dell’ipotesi eliocentrica, dapprima da parte di Lutero, che si oppose a Copernico per motivi di natura strettamente teologica, e poco dopo da parte di Melantone. Le più recenti ricerche hanno chiarito che l’opposizione di Melantone riguardava non solo e non tanto la portata speculativa dell’ipotesi eliocentrica, quanto la possibilità di valutarla criticamente rispetto alla sua fruibilità nell’ambito dell’insegnamento nelle università riformate della Germania protestante. Nella conferenza introduttiva, Wolfgang E. Eckart ha riferito delle numerose declamazioni di argomento medico tenute da Melantone a Wittenberg. Tra gli interventi che hanno affrontato i rapporti tra teologia e scienze della natura, Wolfgang Maaser ha particolarmente insistito sull’uso fatto da Lutero e da Melantone dell’enthymema in quanto strumento euristico comune alla teologia, alla logica ed alle scienze della natura. Günter Frank ha sostenuto invece che la scienza della natura melantoniana sarebbe il risultato in primo luogo di una disontologizzazione della scienza aristotelica e in secondo luogo di una teologizzazione della scienza profana. A Dino Bellucci è toccato misurarsi con una serie di definizioni del concetto di mens, date da Melantone, rispetto alle quali è difficile non pensare al complesso di temi che nel 68 Seicento sarebbe poi stato trattato sotto il titolo di theologia naturalis. Ralph Keen ha infine messo in luce una serie di punti, relativi, in particolare, alla teologia pastorale, che permettono di configurare l’intellettualismo di fondo dell’approccio melantoniano alle scienze della natura e dunque anche la plausibilità, oggi, di una sua ripresa anche da parte dei cattolici. Altri interventi si sono occupati di storia della matematica e dell’astronomia. Con riferimenti puntuali alla storia della matematica rinascimentale e con interessanti accenni sulle città di Norimberga e Wittenberg come luoghi di stampa di libri di innovazione e divulgazione scientifica, è intervenuto Karin Reich; mentre il rapporto tra Melantone e l’astrologia è stato trattato da Wolf-Dieter Müller-Jahncke, rispetto alle fonti mediche e astronomiche, e da Barbara Bauer, che ha presentato un attento studio dei carmina astrologica, individuando almeno quattro topoi attorno ai quali Melantone era solito articolare la materia. Nell’ambito della storia della medicina, Wolfgang E. Eckart è intervenuto di nuovo, mettendo in evidenza come le ricerche mediche, sviluppatesi a Wittenberg, rivelino conoscenze molto dettagliate di anatomia vesaliana; mentre Theodor Koch ha ricostruito la storia della facoltà medica di Wittenberg tra il 1455 ed il 1750. Jürgen Helm (Halle) si è infine occupato dell’elaborazione del concetto galenico di spiritus da parte di Melantone. Le scienze della terra sono state oggetto di un altro gruppo di interventi. Uta Lindgren ha ricostruito il programma di politica culturale delineato da Melantone a proposito dell’astronomia e della geofisica, mettendo in evidenza, tra l’altro, l’enorme valore didattico attribuito dal riformatore al Liber de sphaera di Giovanni di Sacrobosco. Eberhard Knobloch si è soffermato su Gerhard Mercator, con particolare riferimento all’interpretazione melantoniana dei concetti di simpatia, forza e armonia. Su aspetti della storia dell’incidenza di Melantone sono intervenuti infine Riccardo Burigana, che ha riferito sull’interpretazione estremamente difficile dei documenti contenuti nelle disputazioni melantoniane, e Riccardo Pozzo, che si è invece occupato delle fonti, della struttura e della ricezione degli Initia doctrinae physicae, il manuale melantoniano di fisica, che, ben al di là dei modelli aristotelici e platonici e pur restando fedele all’ipotesi geocentrica, ha posto le linee lungo le quali si sarebbe poi sviluppata la filosofia della natura nelle università tedesche fino al Settecento inoltrato. L’intervento conclusivo è stato tenuto da Günther Mahal, che ha parlato del nesso esistente al tempo di Melantone tra indagine scientifica e storia del territorio. Nella discussione sono intervenuti Richard Toellner, Paul-Richard Blum e Heinz Scheible. Gli atti usciranno tra breve, a cura di Stefan Rhein, per i tipi l’editore Jan Thorbeke di Sigmaringen. R.P. CALENDARIO Si è concluso il ciclo di conferenze seminariali, organizzato dalla Casa della Cultura di Milano nel mese di novembre 1994 con il titolo: Il pen- CALENDARIO siero della natura. Filosofie dell’Ottocento e del Novecento. Tra i relatori sono intervenuti: giovedì 3, S. Natoli: “La natura nella filosofia di Schopenhauer”; martedì 8, R. Massa: “Foucault, la formazione di sé e il sadomasochismo”; giovedì 10, Felice Mondella: “La filosofia della natura del positivismo”; giovedì 17, G. Semerari: “Heidegger: tecnica e natura”; giovedì 24, C. Sini: “Galileo, Husserl e l’immagine della natura”; martedì 29, F. Cambi e A. Granese: “Dalla ‘Paideia’ alla ‘Bildung’”. ● Informazioni: Casa della Cultura, via Borgogna 3, 20122 Milano, tel. 02/795567 Presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli e con il patrocinio dell’Ambasciata tedesca in Italia, si è tenuto, dal 10 al 12 novembre 1994, un convegno internazionale dal titolo: Max Stirner e l’individualismo moderno. Questo il calendario degli interventi: giovedì 10, C. Cesa: “Il caso Stirner”; D. Mc Lellan: “The influence of Der Einzige und sein Eigentum on Karl Marx”; C. Menghi: “La socieà civile da Hegel a Stirner”; W. J. Brazill: “Max Stirner and the Terrorism of Pure Theory”; F. Bazzani: “Stirner e Feurbach”; F. Andolfi: “La posizione di Stirner nella storia dell’individualismo”; E. Ferri: “La rivolta stirneriana contro il moderno”; A. Punzi: “Fichte-Stirner: ordine della libertà ed egoismo proprietario”; T. Hünefeldt: “Beobachtungen zu Ich und Nicht-Ich bei Stirner und Fichte”. Venerdì 11, A. Negri: “Sirner e l’anarchismo borghese”; C. RRoehrssen: “Stirner e l’anarchismo”; M. La Torre: “Stirner tra anarchismo e non cognitivismo”; M. Cossutta: “Ribellione e rivoluzione: note su un possibile confronto tra Bakunin e Stirner”: G. Berti: “Max Stirner filosofo dell’anarchismo”; J. E. Bauer; “Das Ende des Heiligen”; B. A. Laska;”Katechon und anarch, Carl Schmitts und Ernst Jüngers Reaktionen auf Stirner”; L. L. Rimbotti: “Max Stirner visto da destra”; M. Milli: “Stirner, Nietzsche e la critica dello Stato: alcune considerazioni”; E. Castana: “Aspetti del pensiero liberale in Stirner”. Sabato 12, G. Penzo: “Interpretazione esistenziale del pensiero di Stirner”; R. W. Paterson: “Der Einzige and L’Etre et le Neant”; B. Romano: “Stirner e l’esistenzialismo”; A. Signorini: “Decostruzione e differenza in Max Stirner”; P. Vandrepote: “Max Stirner et la poétique de la rupture”; G. Modica: “La dialettica della libertà in Stirner e in Kierkegaard”; C. Scilironi: “Il sacro in Dostoevskij e Stirner”. Nei giorni 1, 2, 3 dicembre 1994, l’Istituto ha organizzato, presso la sua sede di Napoli, un convegno su: Giambattista Vico. La Scienza Nuova, a 250 anni dalla “Terza impressione”, articolato in quattro a cura di Luisa Santonocito sessioni: “Interpretazioni recenti di Vico”, “La ricezione di Vico nel primo Ottocento italiano ed europeo”, “Vico nella tradizione della filosofia pratica e della retorica”, “Vico nel pensiero italiano ed europeo del suo tempo”. Tra i relatori: M. Agrimi, A. Battistini, J. Bermudo, F. Botturi, G. Cacciatore, G. Cantelli, G. Costa, G. Crifò, B. De Giovanni, T. De Mauro, M. Fumaroli, E. Garin, A. Giuliani, T. Gregory, M. Lilla, V. Mathieu, C. Miller, M. Mooney, S. Oto, M. Papini, A. Pieretti, V. Placella, L. Pompa, A. Pons, J. M. S., G. Tagliacozzo, M. Torrrini, M. Veneziani, V. Vitiello. ● Informazioni: Istituto Suor Orsola Benincasa, Via Suor Orsola 10, 80135 Napoli, tel. 081 412908 Elias e Michel Foucault . Sono pre- visti interventi di S. Tabboni, C. Ossola, A. Roversi, M. Vegetti, P. Pasquino, A. Ferrara, A. Honneth. Il Centro Studi Religiosi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena ha organizzato a partire dal mese di ottobre 1994 una serie di incontri sul tema: Le Voci della Preghiera. Forme della invocazione religiosa nelle culture dell’Occidente. Que- sta la serie degli interventi: giovedì 6 ottobre, A. Terrin: “La dimensione antropologica della preghiera”; lunedì 14 novembre, G. Cova: “La Bibbia e la preghiera”; giovedì 1 dicembre, M. Cantilena: “Appunti sulla preghiera nella Grecia Antica”; giovedì 15 dicembre, E. Mazza: “Preghiera e ritualità”; giovedì 12 gennaio 1995, E. Bartolini: “Il dinamismo della benedizione nello ‘Shema Israel’”; giovedì 2 febbraio, P. Stefani: “Il ‘Padre Nostro’, le parole di Gesù e le parole dei credenti”; giovedì 16 febbraio, A. Scarabel: “I nomi più belli nella tradizione islamica”; giovedì 2 marzo, G. Moretto: “Preghiera e Filosofia”; marzo 1995 (data da definire), M. Luzi: “Preghiera e Poesia” e S. Natoli: “Preghiera e Modernità”. In continuità con il ciclo di lezioni su “Il grande codice” e il successivo convegno su “Le provocazioni di Giobbe”, il Centro Studi Religiosi ha anche organizzato, nei mesi di ottobre, novembre e dicembre 1994, un seminario di studi dal titolo: Il viag- Prosegue il ciclo di lezioni su Tecnica e Cultura. Come le tecnologie fanno il mondo, organizzato dal Centro Culturale della Fondazione Collegio San Carlo di Modena a partire dal mese di ottobre 1994. Questo il calendario delle lezioni: venerdì 28 ottobre, M. Nacci: “Immagini della tecnica nella cultura contemporanea”; venerdì 18 novembre, S. Latouche: “La ‘megamacchina’, la ragione tecnico-scientifica e la crisi del legame sociale”; venerdì 25 novembre, R. Ceserani: “I rapporti tra tecnica e letteratura. L’esempio della fotografia”; venerdì 16 dicembre, F. Bianco: “La tecnica tra disincanto del mondo e ritorno del mito”; venerdì 27 gennaio 1995, P. Bozzi: “La tecnica modifica la percezione? Sull’arte di inventare esperimenti”; venerdì 24 febbraio, P. Odifreddi: “Visioni letterarie e miraggi tecnologici. Considerazioni su intelligenza artificiale, realtà virtuale e altro”; venerdì 10 marzo, M. Perniola: “Sentire naturale e sentire artificiale. Verso una teoria del corpo tecnologico”; venerdì 5 maggio , D. Noble: “La questione tecnologica e le differenze di classe, religione, genere”; venerdì 19 maggio, M. Augé: “E’ possibile un’antropologia del mondo contemporaneo?”. Parallelamente alle lezioni si terrà una serie di incontri di lettura e discussione dei testi indicati dai vari relatori. Il Centro Culturale organizza anche da gennaio ad aprile 1995 un seminario di studi su: Modelli per la teoria gio di Giona, effetti di senso di una figura biblica. Sono intervenu- ti: lunedì 10 ottobre, P. Lombardini: “Giona, ovvero la difficoltà di essere ebreo. Per un primo approccio al testo”; lunedì 7 novembre, A. Bodrato: “Parmenide e Giona”; mercoledì 23 novembre G. Limentani: “La lettura ebraica di Giona”; lunedì 5 dicembre, M. Gay: “Il compito di Giona. Una lettura psicoanalitica”; lunedì 12 dicembre, M. E. Notari,: “Gli effetti artistici del libro di Giona”. ● Informazioni: Fondazione Collegio San Carlo, Segreteria dei Centri, via San Carlo 5, 41100 Modena, tel. 059 222315. Mercoledì 19 ottobre1994, nella Sala Crociera dell’Università degli Studi di Milano si è si è tenuto un seminario su: Linguaggio, Arte e Filosofia, a e la storia delle culture. Norbert 69 cui hanno partecipato: M. Cacciari, S. Givone, C. Sini e V. Vitiello. L’incontro è stato anche l’occasione per presentare l’ultimo numero della rivista «Paradosso», di cui hanno parlato M. Donà, R. Gasparotti, M. Petranzan, F. Tomatis. ● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Via Festa del Perdono 7, 20100 Milano, tel: 02 58307671. Organizzato dalla Biblioteca Fardelliana di Trapani, con il patrocinio della Provicia Regionale e del Comune di Trapani, il 22 ottobre 1994 si è svolto un convegno di studi su: Giovanni Gentile, filosofo europeo?, con la partecipazione di G. D’Aleo (“Giovanni Gentile studente del Liceo Classico Ximenes di Trapani”), J. Kelemen (“Il ruolo di Gentile nella filsofia europea”), G. Nicolaci (“Gentile e il compimento dell’idealismo”), A. Infranca (“Gentile dalla cultura siciliana alla cultura nazionale”). ● Informazioni: Biblioteca Fardelliana, Largo S. Giacomo 18, Trapani. Per il ciclo: “Libri in cerca di gloria”, organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, in collaborazione con il Centro Culturale Polivalente di Cattolica, P. Bozzi ha tenuto il 27, 28, 29 ottobre 1994, presso la Biblioteca Comunale di Cattolica, un seminario di lettura dedicato alle Osservazioni sulla filosofia della psicologia , di L. Wittgenstein. Il ciclo prosegue, in collaborazione con l’Istituto di Scienze dell’Uomo “J. Maritain” di Rimini, con una serie di letture di testi delle religioni monoteiste e orientali dal titolo: Il libro e le sue religioni. Questo il calendario degli incontri: 23 novembre 1994: P. Stefani: “Dalla Bibbia ebraica: Dio parla la lingua degli uomini”; 24 novembre, D. Pazzini: “Dalla Bibbia cristiana: risurrezione e rivelazione”; 25 novembre, K. Fouad Allam: “Dal Corano: l’ermeneutica della verità”; 30 novembre, G. G. Pasqualotto: “Dhammapada: insostanzialità e impermanenza di tutte le realtà”; 1 dicembre, A. N. Terrin: “Bhagavad-Gita: praticare il vero yoga”; 2 dicembre, L. V. Arena: “Tao Te Ching: la via e i nomi, l’essere e il non-essere”. Concludono il ciclo tre seminari di lettura che avranno il seguente svolgimento: 16-17 dicembre 1994, D. Mainardi: Storia del Celacanto, di K. S. Thomson; 18-20 gennaio 1995, A. Caronia: La mostra delle atrocità, ovvero Crash, di James Ballard; 28 febbraio e 1-2 marzo, U. Cerroni: De Monarchia, di Dante Alighieri. ● Informazioni: Centro Culturale Polivalente di Cattolica, Piazza della Repubblica 31, Cattolica (FO), 0541967802. In occasione della pubblicazione del volume di Vincenzo Vitiello Elogio CALENDARIO dello Spazio. Ermeneutica e topologia (Bompiani, Milano 1994), giovedì 20 ottobre 1994, presso la Sala Incontri dell’Istituto per il Diritto allo Studio Universitario (I.S.U.) dell’Università degli Studi di Milano, si è tenuto un incontro sul tema: L’interpretazione filosofica dello spazio, a cui hanno partecipato U. Galimberti, P. A. Rovatti, C. Sini e V. Vitiello. ● Informazioni: I.S.U., Ufficio Cultura, tel. 02 809431. Promosso dall’Istituto Internazionale ‘Jacques Maritain’ di Roma, in collaborazione con la Fondazione Mondo Unito della Città del Vaticano e la Fondazione Konrad Adenauer di Bonn e con il patrocinio di Jacques Delors, presidente della Commissione Europea, dal 20 al 22 ottobre 1994, presso la sede dell’Istituto Filosofico Aloisianum di Gallarate, si è svolto un convegno sul tema: La pace etni- e la questione delle arti figurative nell’ultimo Settecento”; F. Fanizza: “Vedere e toccare: Herder e le belle arti”. Informazioni: Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale delle Scienze, Palermo, tel. 091 6570187. gennaio, J. Greisch: “Hermeneutique et metaphisique”; giovedì 9 febbraio, M. Henry: “Phenomenologie de la vie”; giovedì 9 marzo, J. F. Courtine: “La philosophie pratique des recherchez philosophiques de Shelling; giovedì 30 marzo, P. J. Labarrière: “Hegel a l’épreuve de la deconstruction”. ● Informazioni: Centre Culturel Francais, tel. 011 5623313; oppure: Segreteria del Dipartimento di Ermeneutica Filosofica, tel. 011 8125780. Promosso dal Centre Culturel Francais di Torino, dal Dipartimento di Ermeneutica Filosofica dell’Università degli Studi di Torino e dall’Assessorato per le Risorse Culturali e la Comunicazione, venerdì 11 novembre 1994 si è aperto il ciclo: Incontri Organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce, il 15 e 16 dicembre 1994 si è tenuto all’Università di Lecce un convegno dal titolo: Gentile e la filosofia dell’Occidente. Questa la serie degli interventi: 15 dicembre, A. Negri: “L’attualismo o il destino dell’Io”; F. Fanizza: “Gentile e la filoso- con la Filosofia Francese Contemporanea. Presso la sede del Centro, J. L. Nancy ha tenuto una conferenza su: “De l’existence et de la verité”. Per giovedì 19 gennaio 1995 è previsto invece un incontro con J. Derrida presso la Sala Congressi dell’Istituto Bancario S. Paolo. Seguiranno: lunedì 23 ca, politica, economia, cultura e religione nei Balcani. Su “Le radici 2-5 gennaio 1995 Aldo Masullo della conflittualità”, sono intervenuti: R. Petrovic, R. Lovrencic, A. Biagini, V. Dimitrijevic. M. Orsolic e G. E. Rusconi sono intervenuti sul tema: “Dalla conflittualità ad un ordine di pace”. Infine, alla tavola rotonda su: “Il costo della guerra e ipotesi di ricostruzione: il ruolo della cooperazione internazionale e di quella regionale”, hanno partecipato B. Andreatta e G. Politakis. ● Informazioni: Istituto Internazionale Jacques Maritain, Via Quintino Sella 33, 00187 Roma. Tel: 06 4874601; fax: 06 4825188. Il fantasma della comunità e lo scandalo politico Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio 14, Napoli La «comunità», o il modello antropologico del «primitivismo» - Il neocomunitarismo e la maturità etica della teoria politica liberale - L’intersoggettività originaria tra dialettica e fenomelogia - Il «comunismo letterario» dell’ermeneutica decostruzionistica Il fantasma della comunità: rassicurazione e terrore. La comunità paradossale e la «cura» emancipatrice. Genova, 5-9 febbraio 1995 Xavier Tilliette Bibbia e Filosofia In collaborazione col Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova Genesi. I primi giorni della creazione. Creazione dell’uomo e della dona. Peccato originale e paradiso terrestre - Abramo. il sacrificio di Isacco, la lotta di Giacobbe - Mosè. La rivelazione del roveto ardente. L’esodo - Il lamento di Giobbe. La Sapienza. Il servo sofferente - Bibbia e filosofia: il Libro assoluto. 9-12 gennaio 1995 Alberto Burgio Soggettività e coscienza nel pensiero politico contemporaneo L’Istituto di Filosofia della Facoltà di Lettere e della Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Perugia hanno organizzato per il 14 e 15 novembre 1994, nella Sala Convegni Pro Civitate Christiana di Assisi, il XII Incontro del «Giornale di Metafisica” sul tema: Metafisica e logica del principio. Al convegno sono intervenuti: N. Incardona, P. Faggiotto, U. Perone, E. Mirri, Università di Perugia. ● Informazioni: Università degli Studi di Perugia, tel: 075 5851. In occasione della pubblicazione dei Pensieri sull’Imitazione, di Winckelmann, della Lettera sulla Scultura, di Hemsterhuis, e della Plastica, di Herder, nei giorni 9 e 10 dicembre 1994 il Centro Internazionale Studi di Estetica e l’Università degli Studi di Palermo, con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali e dell’Assessorato ai Beni Culturali della Regione Siciliana, hanno promosso un seminario su: Il sogno di Pigmalione. La riscoperta della scultura in Winckelmann, Hemsterhuis, Herder. All’incontro hanno partecipato, in qualità di relatori: G. Cusatelli: “Winckelmann: le ombre bianche”; G. Morpurgo Tagliabue: “Hemsterhuis Coscienza servile e storia della libertà - La coscienza e la totalità: Lenin lettore di Hegel - Coscienza, contradizione e dialettica: Gramsci lettore di Hegel - Tra libertà e necessità: il problema del senso della storia. 13-17 febbraio 1995 La costruzione dell’immagine scientifica del mondo. Mutamenti nella concezione dell’uomo e del cosmo dalla scoperta dell’America alla meccannica quantistica 9-13 gennaio 1995 Giovanni Bonacina In collaborazione col Dipartimento di Matematica dell’Univ. di Perugia U. Bartocci: “Dal mondo capovolto di Cristoforo Colombo all’universo senza centro di Galileo Galilei” - T. Tonietti: “Verso la matematizzazione della scienza: armonia e matematica nei modelli del cosmo fra Seicento e Settecento” - G. Sermonti: “Il posto dell’uomo nell’universo: da Aristotele a Darwin a oggi” - M. Mamone Capria: “La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e tempo: l’avvento della relatività” - E. Caccese: “La dissoluzione della realtà: irrealismo e indeterminismo nella fisica del microcosmo”. Storia universale e storia della filosofia in Hegel La storia della filosofia come storia del mondo in nucleo - La bella eticità greca e la Repubblica platonica - La solitudine del filosofo nel mondo romano infelice - La stagione degli scopritori e l’aurora della modernità - La rivoluzione nella forma del pensiero. 16-20 gennaio 1995 Saverio Ricci Filosofia e vita civile a Napoli nella seconda metà del Settecento Ultimi roghi, prime luci - Antonio Genovesi: la filosofia «tutte cose» La scuola di Antonio Genovesi - Gaetano Filagieri - Francesco Mario Pagano e la generazione rivoluzionaria. 20-24 febbraio 1995 Romeo De Maio Leonardo e l’Umanesimo incompiuto 30 gennaio - 2 febbraio 1995 Girolamo Cotroneo La caverna di Leonardo - Leonardo e la domanda umanistica - Leonardo e l’enigma della verità - Leonardo e lo Stato rinascimentale Leonardo religioso. Gli ‘Scritti sulla Storia’ di I. Kant La polemica con Herder - Le razze umane e l’origine della storia - La storia universale - L’illuminismo, il progresso, la pace. 70 fia dell’arte: tentativi di dis-lettura”; S. Giametta: “Gentile e Croce”; G. A. Roggerone: “Gentile e l’oltrepassamento della democrazia nello stalinismo”; A. Signorini: “Il divenire in Gentile e Stirner; G. Invitto: “La presenza di Gentile nel dibattito italiano sull’esistenzialismo”; F. Fistetti: “La secolarizzazione dello storicismo italiano: Guido Calogero”; 16 dicembre, C. Vigna: “Attualismo, problematicismo, ontologia metafisica: una sequenza storico-speculativa”; M. Signore: “Il ‘Kant’ di Gentile”; H. A: Cavallera: “Gentile e Spinoza”; N. Emery:” L’attualismo come ‘terremoto metafisico’: l’ambivalente rapporto RensiGentile”; P. Birtolo: “Un appassionato interprete di Gentile: Vito A. Bellezza”; M. Simonetta: “Un inquieto allievo di Gentile: Ernesto Grassi”. ● Informazioni: Dipartimento di Filosofia, Via V. M. Stampacchia, Lecce, tel. 0832 406624. 20-24 febbraio 1995 Ezequiel de Olaso Leibniz y el escepticismo La tradición escéptica y Leibniz. Problemas de interpretación: el escepticismo antiguo y el moderno. Escepticismo y platonismo - Los textos polémicos de Leibniz: el arte de disputar. Leibniz y los escépticos de su tiempo - Leibniz contra la concepcion biográfica de la razón humana: Montaigne y Descartes. Conocimiento y juicio. La polémica con Foucher: el conocimiento hipotético y la existencia del mundo exterior. Un texto inédito de Leibniz contra Sexto Empirico. Las criticas a Enesidemo y a Agrippa - Leibniz y el escepticismo sobre los principios. Limitaciones de la respuesta de Leibniz y las soluciones de Kant y Hegel. 13 ottobre 1994 - 10 febbraio 1995 Introduzione alla filosofia greca Incontri di aggiornamento per la scuola a cura di A. Gargano Il termine «filosofia» - I problemi della filosofia - La visione del mondo dei poemi omerici e della tragedia Talete, Anassimandro, Anassimene Eraclito - Pitagora - Parmenide - I sofisti - Socrate - Platone. 21 ottobre 1994 - 17 febbraio I995 Il pensiero italiano del Quattrocento e Cinquecento Incontri di aggiornamento per la scuola a cura di A. Gargano L’Umanesimo civile - Il neoplatonismo italiano: Marsilio Ficino e Pico della Mirandola - Leonardo da Vinci Niccolò Machiavelli - Francesco Guicciardini - Bernardino Telesio - Giordano Bruno - Tommaso Campanella. 6 dicembre 1994 - 23 marzo 1995 Classici della filosofia dell’età contemporanea Incontri di aggiornamento per la scuola a cura di A. Gargano Immanuel Kant - Johan Gottlieb Fichte - Georg Wilhelm Friedrich Hegel Karl Marx. DIDATTICA DIDATTICA a cura di Riccardo Lazzari La filosofia insegnata L’insegnamento della filosofia nella scuola è un problema complesso che non può essere lasciato all’improvvisazione e allo spontaneismo, come è avvenuto finora. Perdurando l’assenza di una soluzione istituzionale nella formazione dei docenti, che chiama in causa il ruolo strategico dell’università, Pietro Biancardi, Laura Bolognini, Lucia Marchetti e Giuseppe Deiana in una recente pubblicazione: LA FILOSOFIA INSEGNATA. ESPERIENZE E RIFLESSIONI TRA INSEGNANTI PER L ’ INNO VAZIONE E LA RICERCA (Pagus Edizioni, Treviso 1994) hanno voluto proporre quattro percorsi individuali che, pur nella diversità delle persone e dei luoghi di realizzazione, si riconoscono in un’idea comune del fare filosofia a scuola. Nella sua “Introduzione” Giuseppe Deiana sottolinea come gli autori intendano presentare, in questo volume, un’ipotesi di modello di didattica della filosofia realistico, aperto e discutibile, integrabile e correggibile, ma con la valenza di proposta complessiva unitaria. Il volume intende rispondere ad alcuni degli interrogativi più ricorrenti fra i docenti delle scuole secondarie superiori e raccoglie alcuni brevi saggi sul tema della didattica della filosofia. Perdurando lo stato di relativa arretratezza in cui ancora si trova l’insegnamento della filosofia, Pietro Biancardi, Laura Bolognini, Lucia Marchetti e Giuseppe Deiana hanno tentato, dall’interno del sistema scolastico, di aprire percorsi di innovazione per una didattica intesa come ricerca. La proposta è quella di far convergere, in una nuova prospettiva progettuale, le due istanze sottese ad un’azione didattica razionale e produttiva: quella del lavoro effettivo, organizzato e attuato a scuola e in classe, e quella del dibattito teorico, che si sviluppa attraverso i libri, le riviste e i convegni. Si tratta di esperienze che obbediscono ai criteri di una programmazione didattica creativa e critica, aperta alla problematizzazione e alla valutazione pubblica, ricca sotto l’aspetto epistemologico e formativo e, come tale, trasferibile, pur senza la pretesa di presentarsi come un progetto completo, ma come un progetto praticabile secondo condizioni scolastiche possibili e una chiara idea di ricercasperimentazione e di progettazione-programmazione della filosofia nel curricolo. La proposta di questo itinerario nasce sulla scorta delle trasformazioni sociali, culturali e politiche degli anni ’70 e ’80, maturate nella società e nella scuola italiana, e nella consapevolezza della possibilità di realizzare diverse strategie didattiche, che si avventurano in quel tipo di ricerca e di sperimentazione che procede sui binari paralleli e strettamente connessi della teoria epistemologico-conoscitiva e dell’esperienza scolastico- lavorativa, coniugando teoria e pratica didattica. Il compito che gli autori si sono prefissi è determinare gli obiettivi cognitivi e socio-relazionali, i contenuti disciplinari e il metodo sotteso all’organizzazione didattica in funzione, da un lato, della specificità della disciplina, dall’altro dell’apprendimento dello studente, e fra questi, della mediazione dell’insegnante. La riflessione teorica e le esperienze sono state di volta in volta raccolte, sistemate e ripensate nel farsi del lavoro, per dar conto dei processi di pensiero e dei procedimenti che sono stati attivati nelle classi. Per questo gli autori hanno deciso di raccogliere i risultati e di ripresentarli nella forma originale. Quattro sembrano i “guadagni” - come li definisce Deiana - derivanti da tale dibattito. Il primo, relativo all’organizzazione del lavoro scolastico, consiste nella convinzione che un buon insegnamento della filosofia passa per una strutturazione didattica “forte”; il secondo, relativo agli assetti disciplinari, consiste nell’affermazione della tesi estensiva, cioè della filosofia per tutti, a seguito del riconoscimento delle sue potenzialità formative e trasversali; il terzo, presupposto dei primi due, consiste nel riconoscimento della specificità della filosofia, cioè dello statuto epistemologico della disciplina; infine il quarto consiste nello spostamento della riflessione e della sperimentazione dalla filosofia insegnata alla filosofia appresa. 71 Filosofia per ragazzi L’uso del gioco e di esemplificazioni concrete e semplici da comprendere sembra essere uno strumento didattico di felice riuscita. E‘ questa la struttura che regge due recenti pubblicazioni che intendono “divulgare” la filosofia ad uso di ragazzi e adolescenti. Si tratta di RITRATTINO DI KANT AD USO DI MIO FIGLIO (Mondadori, Milano 1994), di Massimo Piattelli Palmarini, e de IL MONDO DI SOPHIE (trad. it. di ***, Longanesi, Milano 1994), di Jostein Gaarder. Pensato come “storia” che fosse in grado di spiegare, in termini semplici, ad un ragazzo di tredici anni la filosofia di Kant, il Ritrattino di Kant ad uso di mio figlio costituisce uno strumento piacevole ed efficace in grado di essere di aiuto anche ai meno giovani. La caratteristica portante del testo è data dall’uso frequente di esempi ispirati al mondo concreto delle cose e, per questo, di facile comprensione. L’elemento didattico si realizza, allora, non tanto nella sistematicità dell’esposizione del pensiero kantiano, quanto nel continuo richiamo ad aneddoti e a casi concreti che illustrano al giovane lettore, spesso in maniera ludica, la struttura del pensiero kantiano. L’esposizione della vita dell’autore, realizzata in base ad episodi spesso divertenti e accattivanti, accompagna l’illustrazione del pensiero kantiano,. Così, vengono citati aneddoti, come quello che vede gli abitanti di Königsberg regolare il proprio orologio in funzione delle puntualissime passeggiate di Kant, o come quello secondo cui Kant, alla morte del servitore Lampe, avrebbe appeso davanti al tavolo di lavoro un cartello con scritto “dimenticare Lampe”! L’elemento intorno al quale ruota l’intero volumetto, poco più di ottanta pagine, è l’importanza decisiva che Kant attribuisce alla ragione umana. Descritta come “il colletto bianco inamidato del padre”, in grado di insegnare al bambino a camminare da solo, la ragione kantiana e illuminista è posta come quell’elemento in grado di fornire all’uomo la capacità di trovare le proprie possibilità e i propri limiti nel DIDATTICA campo della conoscenza, della morale e della religione. Abbandonando la tipica partizione del pensiero kantiano nelle tre critiche, Massimo Piattelli Palmarini illustra il valore della ragione nei diversi campi dell’attività umana. Così, sia la conoscenza sia la morale sono descritte come quegli ambiti in cui la capacità autonoma dell’individuo formula i giudizi sintetici a priori e gli imperativi categorici, con cui gestire razionalmente la scienza e l’etica. Sempre attraverso esempi concreti e immediati Piattelli Palmarini sottolinea più volte l’autonomia della critica razionale con cui arginare il “pericolo” dell’ideologia (molto dura la critica al marxismo), e della religione che, oltrepassati i limiti della ragione, diventa fanatismo e idolatria. L’apologia kantiana non è, comunque, priva di senso critico e di analisi. Nonostante il fervore che accompagna Palmarini durante tutto il suo excursus, infatti, non manca la consapevolezza da parte dell’autore di un limite nell’opera kantiana e cioè della totale assenza dell’esplorazione, o anche solo della presa d’atto, di quella zona della psiche, l’inconscio, dove la ragione, strutturalmente, non è in grado di arrivare. Il mondo di Sophie racconta invece, attraverso il gioco e l’esemplificazione, la storia della filosofia nella forma di una fiaba e di un romanzo epistolare. La protagonista, Sophie, riceve, ogni mattina, nella cassetta delle lettere, messaggi con domande del tipo: “Chi sei tu?”; o “Da dove viene il mondo?”, alle quali seguono le risposte formulate in filosofia dai pensatori occidentali più noti, dai presocratici fino a J. P. Sartre. L’intento di Jostein Gaarder con quest’opera è quello di presentare la filosofia non tanto come insieme di concetti seriosamente accademici, bensì come continua interrogazione e stupore di fronte ai misteri della vita. Pensato per adulti e scritto per ragazzi, il romanzo mette in gioco la filosofia con i sentimenti e l’immaginazione all’interno di quel mondo privilegiato che è l’infanzia. In questo modo, rappresentando, ad esempio, l’atomismo di Democrito attraverso il gioco del “Lego” e facendo sfilare Kant e Hegel di fianco ai personaggi di Walt Disney, Gaarder si pone due intenti realizzati entrambi attraverso l’aspetto ludico. In primo luogo riportare la filosofia in piazza; di fronte all’intellettualismo, a volte quasi esoterico, che pervade le università, infatti, Il mondo di Sophie costituisce uno strumento divertente ed efficace in grado di divulgare le domande e le risposte più frequenti nella storia dell’uomo. In secondo luogo, il romanzo si propone anche come strumento didattico che, attraverso l’intreccio tra fantasia e immagine, può realizzare il primo “assaggio” di filosofia anche per i più giovani. A.S. Charles Bell, Manikin Monkey (1972, particolare) 72 DIDATTICA Per diventare cittadini Il diritto di cittadinanza è un valore che dobbiamo acquisire se vogliamo contribuire direttamente alla costruzione di una società democratica e se vogliamo diventare soggetti politici a pieno titolo: da questa convinzione Susanna Creperio Verratti, in collaborazione con Vanna Lora, Lino Rizzi e Tommaso Arenare, ha tratto l’idea di organizzare un corso di filosofia politica, rivolto a un pubblico di giovani, che si articolerà in nove incontri a carattere seminariale sul tema: “LE FONTI DELLA LIBERALDEMOCRAZIA”. Scopo del corso, che si svolgerà a Milano da febbraio a maggio 1995, presso l’Istituto G. Pascoli (via C. Poerio 14, Milano) è di sollecitare i giovani a riflettere intorno ai grandi problemi di natura teorica della politica e a praticare nella realtà quotidiana i loro diritti di cittadini. Il progetto è scaturito dalla convinzione della necessità, nel mondo contemporaneo, di discutere temi etico-politici di ampio respiro, che riguardano da un lato i Paesi di più solida tradizione democratica e dall’altro il passato e il presente del nostro Paese, alla ricerca di quei momenti nodali in cui il liberalismo si è aperto alle istanze democratiche, intese sia come allargamento del suffragio sia come partecipazione alla politica della società civile. Il corso è articolato in tre cicli di tre incontri ciascuno: una prima parte storico-conoscitiva, tesa a presentare i classici del pensiero liberal-democratico, quali De Tocqueville (nel contesto di un raffronto tra la democrazia americana e la realtà della Francia a lui contemporanea); e J. Stuart Mill e la sua battaglia per difendere la libertà come principio e come valore in Inghilterra; quindi una seconda parte, dedicata al ‘900, dove saranno analizzati un periodo particolarmente critico nella storia delle democrazie europee, la Repubblica di Weimar, e la risposta di Hans Kelsen, filosofo e giurista, fatta di impegno politico inteso kantianamente come imperativo categorico. Si procederà poi all’attualità del dibattito sulla democrazia liberale con lo sviluppo del tema del rapporto tra etica e politica, ovvero, tra libertà individuale e giustizia sociale, con riferimento a J. Rawls. L’ultima parte del corso si sofferma sulla situazione italiana e pone la domanda fondamentale : perché in Italia non è decollata la liberal-democrazia? Si cercherà nel passato della storia d’Italia e in particolare nel periodo dell’Unità la presenza di una tradizione liberale e democratica, ravvisandone le fonti anche poco conosciute e individuando nel federalismo una delle risposte più concrete per la realizzazione di una democrazia liberale. L’ultima parte del corso ha infatti lo scopo di aprire il dibattito sul caso italiano; la Tavola rotonda conclusiva dovrebbe costituire un momento di riflessione, ma anche di apertura sulle prospettive, nel nostro Paese, di una teoria e di una pratica della democrazia liberale. Ogni incontro, in tutto nove, della durata di due ore circa ciascuno, si articola in due fasi: una prima fase espositiva, vede la presenza di uno o più relatori che si alternano; una seconda fase, interattiva, è dedicata alla lettura delle pagine più significative degli autori proposti, al dialogo, alla riflessione ed alla discussione democratica. Questa seconda fase, condotta con tecniche opportune, dovrebbe abituare il giovane corsista ad una pratica civile del confronto con gli altri: si tratta di educazione civile o, per meglio dire, del cittadino. Prima e dopo il corso, verrà messo a disposizione il materiale di lavoro: all’inizio di ciascun ciclo verrà consegnata ad ogni corsista la traccia degli argomenti che verranno sviluppati oralmente, corredata dai passi più significativi degli autori citati; questa sorta di guida conterrà la bibliografia essenziale come rimando necessario alla lettura dei testi integrali. Alla fine del corso gli argomenti, gli interventi e le proposte più significativi verranno resi pubblici come Atti. Questo il calendario degli incontri: 1 febbraio, “Finalità, obiettivi e metodo”, presentazione dei docenti e degli argomenti del corso; 8 febbraio, Lino Rizzi: “Liberalismo e democrazia in De Tocqueville”; 15 febbraio, Vanna Lora: “Libertà e individualità in John Stuart Mill”; 15 marzo, Tommaso Arenare: “Libertà, mercato, istituzioni”; 22 marzo, Vanna Lora: “Libertà, uguaglianza ed impegno politico in Kelsen”; 29 marzo, Susanna Creperio Verratti: “Libertà ed equità in Rawls”; 26 aprile, Lino Rizzi: “Le due vie dell’unità politica italiana”; 3 maggio, Susanna Creperio Verratti, Tommaso Arenare: “Liberismo e tradizione liberaldemocratica in Italia”; 10 maggio, Tavola rotonda: “Le prospettive di una teoria e di una pratica democratico-liberale in Italia” (per informazioni: Susanna Creperio Verratti, Istituto G. Pascoli, via Poerio 14, 20129 Milano, tel. 02/29518327). S.C.V. Durata e finalità del Corso di laurea; art. 3 - Organizzazione degli studi; art. 4. - Norme generali e transitorie; art. 5 - Curriculum didattico; art. 6 - Ripartizioni disciplinari), presenta alcuni punti di novità indubbiamente positivi, fra i quali: la divisione del quadriennio in due bienni, rispettivamente propedeutico e specialistico; l’elevazione del numero complessivo degli insegnamenti, previsti nel piano di studio, dagli attuali 19 a 21, con l’inclusione tra essi di un insegnamento di lingua straniera e l’aggiunta d’una prova scritta su testi filosofici; la previsione di esercitazioni di pratica testuale coordinate dal Consiglio di corso di laurea. Altri punti suscitano invece, secondo Enrico Berti, alcune perplessità. In particolare l’individuazione del «secondo nucleo di discipline» del primo biennio tra quelle «appartenenti ad altri settori umanistici, che consentano ... il mantenimento dell’intersettorialità con gli altri corsi di laurea incardinati nelle facoltà di Lettere» (art. 2) appare ingiustificata alla luce del fatto che anche in Italia gli studi filosofici hanno sempre più sostituito il rapporto intrattenuto in passato con gli studi storico-letterari con un’attenzione rivolta in egual misura a tutti gli ambiti culturali. Ma ciò che più sconcerta, secondo Berti, è il fatto che il numero degli insegnamenti filosofici obbligatori per la laurea in Filosofia verrebbe ad essere, secondo la proposta del C.U.N., complessivamente di 10 su 21, cioè meno della metà, per via dell’inclusione, nel secondo biennio, di ben 5 insegnamenti a scelta in un area non filosofica, individuati soprattutto nell’ambito delle Scienze umane, della Storia o delle Scienze del linguaggio e della comunicazione e da aggiungersi a quelli già previsti per il primo biennio. E’ invece auspicabile, secondo Berti, che tale gruppo di insegnamenti venga ridotto, nel secondo biennio, da 5 a 3, individuabili indifferentemente in qualsiasi altra area non filosofica, compresa dunque quella delle scienze matematiche, fisiche e naturali, che finora, stante la proposta in discussione, sarebbero eleggibili solo con l’approvazione del Consiglio di corso di laurea. Altre perplessità sono poi suscitate, per Berti, dalle restrizioni che rendono estremamente rigido e poco duttile il curriculum del corso di laurea in Filosofia. Interventi, proposte, ricerche Sul «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 152, maggio-agosto 1994) viene pubblicata una Proposta di riordino del Corso di laurea in Filosofia, elaborata dal C.U.N. e inviata al Comitato consultivo. Alcune osservazioni sul merito di questa proposta sono avanzate, sullo stesso «Bollettino», da Enrico Berti, del Consiglio Direttivo della S.F.I. La proposta, che si divide in cinque articoli (art. 1 - Istituzione ed accesso; art. 2 73 Fra i recenti interventi sull’insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie superiori si segnalano i contributi di Mario Pinotti e di Mario Trombino sul «Bollettino della Società Filosofica Italiana» (n. 152, maggio-agosto 1994) e, su «Paradigmi» (n. 35, maggio-agosto 1994), una nota di Maria De Rose sul Convegno di didattica della filosofia del 1993, organizzato dalla S.F.I., e le risposte date da Giuseppe Semerari a quattro domande poste da Franca Pinto Minerva. DIDATTICA Nell’articolo: La filosofia tra senso comune ed argomentazione, Mario Pinotti cerca di affrontare la questione del notevole numero di studenti che «prima o poi nel corso del triennio rinunciano alla frequentazione (sia pure scolastica) della filosofia, come se ne fossero o impermeabili o rassegnati, davanti alle difficoltà che essa presenta». Questa rinuncia dipende, secondo l’autore, dalla «diffusa incomprensione del legame che intercorre tra le sue problematiche, il suo linguaggio, la sua sintassi e le problematiche, il linguaggio, la sintassi del senso comune». Partendo da questa «intuizione generale», l’autore cerca di delineare una credibile strategia didattica capace di stabilire un nesso di circolarità tra presente e passato nell’apprendimento della filosofia. In particolare l’insegnante «deve presentare la filosofia come un punto di riferimento, dal quale attingere le risposte a quelle domande che la prospettiva interna al senso comune ha necessariamente deluso». Di particolare interesse sono due esempi di materiale elaborato da studenti, come esito finale di un lavoro condotto sul Fedone di Platone. L’articolo di Mario Trombino, dal titolo: A proposito di una nuova idea per insegnare filosofia a scuola, si presenta come un’accurata recensione del libro di Mario De Pasquale, Didattica della filosofia. La funzione egoica del filosofare (Franco Angeli, Milano 1994; cfr. «Informazione Filosofica», n. 17/18, febbraio/aprile 1994). Elemento saliente della recensione di Trombino è il rilievo secondo cui «il modello proposto da De Pasquale non è compatibile con la nostra scuola, così com’è». Esso infatti, per essere attuato, esige un’organizzazione del tempo e dello spazio molto diversa da quella attualmente in vigore nella scuola. Quanto poi al problema della valutazione, osserva Trombino, tale modello «è forse troppo radicale anche per una scuola riformata, che consenta tempi e modi diversi». Per quanto riguarda poi la praticabilità complessiva del modello proposto da De Pasquale, Trombino sostiene che «se insegnare filosofia significa creare una comunità di ricerca, aderirvi o meno deve essere in ogni momento frutto di un atto di libertà. Si può fare, ma la riforma della scuola... deve recepire questo principio. Nella scuola oggi questo non è possibile». Nel suo intervento su «Paradigmi», dal titolo Un convegno nazionale sulla didattica della filosofia, Maria de Rose, oltre a svolgere alcune considerazioni iniziali, offre un bilancio del convegno “La didattica della filosofia nell’università e nella scuola secondaria superiore”, tenutosi a Treviso dal 25 al 27 novembre 1993 a cura della Società Filosofia Italiana (cfr. «Informazione Filosofica», n. 16, dicembre 1993). Secondo De Rose è nella prospettiva di realizzazione di una sempre più proficua «convergenza tra didattica ed epistemologia disciplinare» che va rivolto lo sguardo innovatore dei docenti di filosofia. Vale a dire: la didattica non si connota come mera tecnica, ma come «ambito problematico complesso», che coinvolge, oltre ai problemi legati allo «specifico statuto epistemologico delle diverse discipline», molteplici questioni d’ordine psicologico-cognitivo, docimologico, interdisciplinare. Secondo De Rose il convegno organizzato dalla S.F.I. non è stato capace di rispondere in modo adeguato ai temi di ampio respiro e alle questioni che erano state annunciate. Nonostante alcuni interventi particolarmente stimolanti, i lavori del Convegno «sono stati rivolti o all’evidenziazione di problemi o all’esposizione di programmi, aspetti entrambi già noti alla maggior parte dei docenti di scuola superiore coinvolti in prima persona nel processo di rinnovamento già in atto». Ancora sullo stesso fascicolo di «Paradigmi», Giuseppe Semerari risponde ad alcune domande di Franca Pinto Minerva sullo “stato di salute” della filosofia, sulla possibile metodologia (unica e neutrale o, viceversa, pluralistica) della ricerca filosofica, sul significato dell’allargamento dell’insegnamento filosofico agli istituti tecnici, sulla possibilità di insegnare alcuni elementi del pensiero filosofico sin dalla scuola di base. Si segnala infine un contributo di Maria Giovanna Delfino, apparso su «Sensate esperienze» (n. 23, giugno 1994), relativamente al tema: Fra Scienza e Filosofia: organizzazione e svolgimento di un progetto didattico fondato sulla Bioetica. Il progetto, articolato in senso logico-cronologico e corredato dagli itinerari di Scienza, Filosofia e Religione Cattolica, è stato introdotto nel Liceo «Pacinotti» della Spezia allo scopo di innovare il curricolo tradizionale di Scienze e Filosofia, di avviare una modularità avente come perno discipline aferenti aree diverse, di “rompere” lo schema rigido della partizione per anno dei contenuti disciplinari. Già da alcuni anni, la Società Filosofica Italiana ha condotto, con il patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione, un’inchiesta sull’insegnamento della filosofia nelle scuole sperimentali. Questa inchiesta, di cui abbiamo già anticipato i contenuti (cfr. «Informazione Filosofica», n. 15, settembre/ottobre 1993), è ora apparsa nelle librerie con il volume: L’ INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA NELLE SCUOLE SPERIMENTALI. RAPPORTO DELLA SOCIETÀ FILOSOFICA ITALIANA (a cura di C. Lanzetti e C. Quarenghi, Laterza, Roma-Bari 1994). La ricerca su L’insegnamento della filosofia nelle scuole sperimentali, condotta Clemente Lanzetti e Cesare Quarenghi, si inserisce in un programma di lavoro promosso dalla S.F.I. alla metà degli anni 74 Ottanta, che prevedeva due studi di carattere empirico sull’insegnamento della filosofia in Italia: uno nei licei a ordinamento normale e uno nelle scuole secondarie superiori di tipo sperimentale. Il primo è stato effettuato negli anni 1985-86 e i risultati sono stati raccolti nel volume: L’insegnamento della filosofia. Rapporto della Società filosofica italiana (a cura di L. Vigone e C. Lanzetti, Laterza, RomaBari 1987); il secondo è stato realizzato tra il 1990 e il 1992 e viene presentato nel volume in questione. Lo scopo che accomuna i due lavori, come specificano i curatori del secondo rapporto, è quello di fornire dati oggettivi su come nella pratica didattica i docenti di filosofia esercitano la loro professione, sui problemi e le difficoltà che incontrano nel loro effettivo contesto di lavoro, sulle attese che hanno e i suggerimenti che propongono in ordine sia alla didattica che alla loro formazione. In particolare, per la ricerca relativa alle scuole sperimentali sono state adottate due strategie diverse di rilevazione dei dati: l’una prevalentemente qualitativa, che si rifà ai metodi dell’analisi socio-organizzativa e alla tecnica del case-study, e l’altra di tipo quantitativo che si basa sull’uso del questionario. Con la prima, che prevede un’analisi globale e longitudinale dell’esperienza, utilizzando interviste in profondità a testimoni privilegiati, è stata fatta un’analisi dettagliata di quattro esperienze esemplari di sperimentazione, realizzate in modo di avere contesti differenziati e il più possibili significativi. Le scuole prese in considerazioni sono state l’ITIS Cobianchi di Verbania, l’Ist. tecnico commerciale a indirizzo linguistico di Paderno Dugnano, l’Ist. magistrale di Mestre (a indirizzo biologico, giuridico, sociale e letterario), l’ITIS di Bollate, che prevede l’insegnamento della filosofia nell’area comune. Sulla base dell’analisi condotta in questi quattro istituti, il gruppo di ricerca ha selezionato gli aspetti che meritavano d’essere poi indagati su vasta scala, mediante l’approntamento di un questionario inviato ai docenti di filosofia e ai presidi delle scuole sperimentali di tutta Italia. Il volume riporta anche una tavola rotonda, sui risultati dell’indagine, con interventi di Enrico Berti, Carlo Lazzerini, Virgilio Melchiorre, Pietro Rossi e Carlo Sini, ed è corredato da una “Prefazione” di Girolamo Cotroneo, da una “Introduzione” di Luciana Vigone, e da una “Nota finale” di Cesare Quarenghi. STUDIO STUDIO Filosofia anglo-sassone LA PHILOSOPHIE ANGLO -SAXONNE (La filosofia anglosassone, Puf, Parigi 1994), opera collettiva diretta da Michel Meyer, filosofo belga allievo e successore di Perelman all’Université Libre de Bruxelles, nonché direttore della «Revue Internationale de philosophie», è la prima opera di lingua francese a render conto in maniera sistematica dell’insieme di problematiche, temi, autori, correnti e ambiti di ricerca che «da Locke a Rorty, da Bacone a Rawls, da Hobbes a Popper e Feyerabend, hanno consacrato l’originalità e la sostanza del pensiero anglosassone», mettendo fine al rigetto che il pensiero francofono ha a lungo dimostrato nei confronti della filosofia analitica. Per la sua struttura, quest’opera si pone come strumento di lavoro e di riferimento anche per gli anni a venire: in seicento pagine, viene offerto il panorama di quattro secoli di filosofia inglese; ciascun saggio, redatto da un noto specialista, è seguito da una bibliografia aggiornata; note e indici sono molto ricchi. Viene così messa a disposizione del lettore una somma di conoscenze indispensabili alla comprensione di autori ancora frequentemente ignorati in area francese, malgrado il recente moltiplicarsi delle traduzioni. Il pensiero anglosassone - il cui ambito non coincide puramente e semplicemente con quello della filosofia analitica - viene definito in base a criteri “patriottici”, geografici, metodologici, addirittura stilistici. La “patria” teorica è rappresentata dall’empirismo, che trova la propria fonte remota nell’idea che «non vi è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi», e, a partire dalla critica di Locke alla nozione cartesiana di idea innata, attraversa il pensiero di Berkeley per arrivare allo scetticismo radicale di Hume. La “regione” d’origine è la Polonia, vengono poi i paesi scandinavi, gli Stati Uniti, l’Austria e naturalmente la Gran Bretagna, terra degli «esuli delle persecuzioni tedesche, che preferirono vivere nel paese di Locke piuttosto che morire in quello di Heidegger». Ma è un certo “stile” a permettere di radunare sotto un’unica denominazione correnti speculative abbastanza differenti tra loro: la maniera di considerare la ricerca filosofica come un’indagine di tipo scientifico; la propensione a un minuzioso lavoro di chiarificazione; la priorità accordata ai “fatti” e all’ “argomentazione”; la volontà di porre i problemi teorici nel modo più “obbiettivo” possibile; il privilegiamento della logica e delle analisi linguistiche, sia del linguaggio formalizzato delle scienze, che di quello comune. Gli ambiti presi in esame da Michel Meyer e dai suoi collaboratori sono quelli tradizionali: filosofia morale e politica, filosofia del linguaggio, filosofia della logica, filosofia dell’azione, filosofia della scienza. Il volume si apre con un saggio sulla Nascita dell’empirismo, redatto dallo stesso Meyer e si chiude con un saggio consacrato alla Filosofia dello Spirito, a firma dello studioso e traduttore di Davidson Pascal Engel, e uno ai più recenti sviluppi di Intelligenza artificiale e scienze cognitive, illustrati da Jacques Riche. Manuel Maria Carrilho fa il quadro della filosofia della scienza (da non confondere con l’epistemologia, dato che epistemology in inglese designa piuttosto quella che sul continente viene chiamata teoria della conoscenza) da Bacone e Mill, dal Circolo di Vienna fino a Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend. Jean Pierre Cometti risale alle origini del pragmatismo americano (Peirce, Dewey) per meglio mettere in luce gli apporti di Putnam e di Rorty, di cui peraltro ha da poco tradotto in francese Obbiettivismo, relativismo e verità. Simone Goyard-Fabre fornisce una visione panottica delle grandi tematiche morali e politiche elaborate in ambito anglosassone. Inizia dall’ “orribile Hobbes” - come lo chiamava Rousseau - e da Locke, passando alle filosofie che “valorizzano i percorsi della tradizione e della storia (Hume e Burke), prima di delineare i tratti della corrente utilitarista (Bentham, Mill, Sidgwick) in polemica con la quale si è formato il neocontrattualismo di Rawls, all’origine di quasi tutti i dibattiti che animano l’attuale filosofia morale e politica (Nozick, Hart, Buchanan, Nagel, Larmore, Taylor, Walzer, MacIntyre, Williams...) nonché quella del diritto. Ma, naturalmente, è la filosofia del lin75 guaggio a fare la parte del leone all’interno del volume. Che la filosofia debba consacrarsi all’analisi logica del linguaggio e abbia come compito essenziale la chiarificazione del suo senso: è questo il programma della filosofia analitica. Ma cosa significa analizzare il linguaggio? Tradurne gli enunciati in una lingua formale? Studiare il modo in cui le proposizioni hanno senso? Vedere a quali condizioni “dire è fare”? Le indagini si sviluppano in tutte le direzioni: logica, sintattica, semantica, pragmatica. François Rivenc inizia dalla teoria delle “descrizioni definite” di Russel per arrivare a Carnap; il pensiero di Wittgenstein è esposto da Jacques Bouveresse, massimo specialista francese di questo autore; Paul Gochet analizza la riflessione di Quine in un capitolo che è stato rivisto da Quine medesimo; Pascal Engel si occupa dei successori di Quine (Smart, Armstrong, Lewis, Kripke, Davidson, Dummet); Carrilho espone la teoria degli atti linguistici di Searle e Austin. A quasi un secolo dai Principia Mathematica di Russell, considerati gli importanti cambiamenti che la filosofia anglosassone ha introdotto nella speculazione, anche in ambito francese il dibattito filosofico si sposta dal tradizionale asse franco-tedesco e ci si rende conto finalmente di quanto fosse un vano sarcasmo l’affermazione comune riportata da Bouveresse: «se le questioni filosofiche fossero, come crede Wittgenstein, essenzialmente questioni linguistiche, non potrebbero che essere superficiali, prive di interesse e di conseguenze». D.F. Felicità e piacere nei greci (a cura di P. Cosenza e R. Laurenti, Loffredo Editore, Napoli 1993) è il titolo di un’ampia antologia che racchiude, in uno spazio compatto e fruibile, un ambito vastissimo di posizioni, di idee, di analisi teoriche sul problema della felicità, in particolare nella sua connessione con il piacere. IL PIACERE NELLA FILOSOFIA GRECA Sin dalle sue origini, la filosofia greca ha usato moltissimo il termine hedoné, tanto STUDIO che sono state classificate come edonistiche filosofie che pur riponendo il télos della vita nell’hedoné, intendono per essa concetti molto diversi tra loro, sia per quanto riguarda la genesi e la natura fisica del fenomeno, sia per ciò che ne concerne il valore morale. E’ questo il caso dell’indirizzo cirenaico e del Giardino epicureo. Del resto, questo risponde pienamente ad uno degli scopi dichiarati dai curatori dell’antologia, Paolo Cosenza e Renato Laurenti: «Sarebbe segno di scarsa cautela critica credere che [formazioni concettuali] che hanno origine in correnti filosofiche caratterizzate, in linea di massima, da orientamenti diversi, siano in ogni caso, per tale loro origine, da classificare come filosoficamente incompatibili. Come l’esperienza largamente insegna, scuole diverse [...] talvolta danno luogo, a dispetto delle più accreditate etichette, a conclusioni convergenti o almeno non contrastanti». L’antologia è strutturata in modo da facilitare il più possibile il compito di reperire le necessarie fonti bibliografiche mediante indice bibliografico, nel quale compaiono le abbreviazioni con cui nelle note vengono menzionate le opere più frequentemente citate. Le traduzioni (tutte opera dei due curatori) delle testimonianze dei vari filosofi sono precise e rimandano molto spesso, in nota, alla scelta di lezioni particolari riguardo ad alcuni passi, spiegandone sempre le motivazioni; compaiono poi, sempre in nota, quando si tratta di passi di particolare importanza teoretica, le citazioni dal testo greco, e i ternini più filosoficamente significativi vengono riportati con spiegazioni etimologiche e storiche. L’antologia è articolata in dieci capitoli. Nel I si analizza la tematica del piacere da Omero ai Presocratici; si passa poi ai Sofisti, a Socrate e alle scuole socratiche minori (capp. II-III-IV); seguono Platone e i suoi successori accademici Speusippo e Eudosso, poi Aristotele, del quale si esaminano i luoghi concernenti il piacere delle due Etiche (capp. V-VI). La trattazione dell’argomento prosegue con le tre grandi scuole dell’Ellenismo: Epicuro, Stoici e Scettici, comprendendo nell’esame di questi ultimi anche gli sviluppi scettici dell’Accademia (capp. VII-VIII-IX); l’ultimo capitolo è interamente occupato dall’esposizione del tema del piacere nelle Enneadi plotiniane. Il tutto copre un arco cronologico che va dalle origini del pensiero greco al III secolo d.C. Accurate sono, all’inizio dei suddetti capitoli, le introduzioni, nelle quali, prima di riportare le testimonianze, si discutono e si puntualizzano i principali problemi su cui si sono soffermati, nell’ambito del tema del piacere, una certa scuola o un certo pensatore e le più importanti conclusioni a cui sono giunti. Ovviamente lo spazio più vasto viene offerto, da questo punto di vista, a Platone e al suo Filebo, che rappresenta la più ampia trattazione sul piacere a noi integralmente giunta dal pensiero greco. A.E. Atene. Kore 682 (particolare) 76 RASSEGNA DELLE RIVISTE RASSEGNA DELLE RIVISTE a cura di Silvia Cecchi VERIFICHE Anno XXIII, n. 1-2, gennaio-giugno 1994 Verifiche, Trento Bonum e Summum Bonum nell’Etica di Spinoza, di F. Biasutti: la critica al finalismo in Spinoza si inscrive all’interno di una posizione epistemologica propria del pensiero moderno, ma se ne distingue per la radicalità delle posizioni. Tempo e storia in Hegel, di F. Chiereghin: nel sistema hegeliano il tempo raffigura, in modo emblematico, la funzione che il filosofo assegna alla natura, l’essere altro dell’idea, ma anche il presupposto per il pieno dispiegarsi dello spirito. Esso viene ad avere una funzione mediatrice tra divenire e storia. Diritto ed eticità della famiglia nella ‘Rechtsphilosophie’ di Hegel, di M. Tomba. La mimesis nell’antichità, di H. Koller: l’articolo è un’antologia tratta dal fondamentale saggio di Koller del 1954, Die Mimesis in der Antike, in cui si sostiene che il centro della mimesis si trova nella danza e che questo concetto non coincide con la passiva imitazione. Filosofia e Mimesis, di J. Bompaire: vengono qui presentate le quattro diverse accezioni di mimesis: in senso generale, come riproduzione dei caratteri di qualcuno o qualcosa; in senso filosofico, come imitazione della realtà da parte di uno scrittore; in senso retorico e letterario, come reazione da parte del pubblico, quando l’oggetto dell’imitazione del letterato è la “cosa letteraria”. Naturalità del diritto e universali giuridici, di G. Cosi: l’indagine sull’esistenza di universali del diritto attraverso il rilevamento di tempo, spazio e costanti del diritto. Montesquieu e il problema della diversité, di C. P. Courtney: l’analisi di Montesquieu della diversité anche attraverso l’illustrazione della posizione dei predecessori: Grozio, Pufendorf, Barbeyrac. Una conversione della teoria critica? Sulla teoria del diritto e dello Stato di Habermas, di O. Hoffe. Dimensione transculturale dei fenomeni giuridici nella ricerca antropologica, di L. Scillitani. Interpretatio, imitatio, aemulatio, di A. Reiff: l’imitatio latina e lo sforzo terminologico compiuto dai Romani. IDEE Il mondo di Galileo: l’oggetto del suo sapere fisico-matematico. Diffalcare gli impedimenti della materia (parte II) di L. Congiunti: la matematizzazione del mondo naturale; il ruolo dell’esperimento; il progetto scientifico e filosofico di Galileo. Bios politikos e bios theoretikos secondo Hannah Arendt, di J. Taminiaux. Linee interpretative per una storia del neotomismo e della neoscolastica di A. La Russa: recensione di L. Malusa: Neotomismo e intransigentismo cattolico (Milano 1986-1989). La teoria classicistica della mimesis, di H. Flashar: una storia della nozione antica di mimesis. Anno VIII, n. 24/1993 Milella, Lecce Laudatio per F. Tenbruk, di M. Signore. La mimesis nella teoria contemporanea, di M. Spariosu: nel dibattito contemporaneo questo concetto compare nelle dimensioni onto-epistemologico, bio-antropologico, psicologico, linguistico, letterario. Intertestualità e retorica delle citazioni, di V. Kapp. La mimesis in Auerbach, di G. Gebauer e C. Wulf. Edith Stein e la rielaborazione del pensiero scolastico di G. A. Roggerone: pur avendo grandemente contribuito al movimento femminile, la filosofia della Stein non ha un contenuto diverso dalle filosofie in genere. Amore, comunità umana e giustizia nel pensiero di Paul Ricoeur, di E. Pucci. Una ricerca giuridico-politica in prospettiva fenomenologica di A. Rizzacasa: osservazioni su Una ricerca sullo Stato di E. Stein. STUDI DI ESTETICA Anno XXI, n. 7-8, 1993 Clueb, Bologna Il presente fascicolo ha carattere monografico ed è dedicato al tema: “Mimesis”. A completamento del tema, nel corso del 1994 usciranno altri due fascicoli dal titolo: “Ragioni della mimesis” e “Poetiche della mimesis”. RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA DEL DIRITTO Anno LXXI, n. 2, 1994 Giuffré, Milano Uberto Scarpelli, giurista e filosofo, di M. Jori. Il significato del cuore nella filosofia giuridica di S. Agostino e di Marsilio da Padova, di E. Ancona. 77 Bernhard Welte - Sören Kierkegaard, di O. Tolone: l’interesse, comune ai due pensatori, circa la costituzione ontologica dell’uomo. RASSEGNA DELLE RIVISTE RIVISTA DI FILOSOFIA NEOSCOLASTICA Anno LXXXVI, n. 2, aprile-giugno 1994 Vita e Pensiero, Milano Potere e ragione nel ‘Dialogus’ di Pietro Alfonsi (Mosè Sefardi), di M. L. Arduini: il profilo “bifronte” di Piero Alfonsi nella sua dimensione storica, biografica e geografica. L’analogia dell’ente in Domenico di Fiandra, di F. Riva: la figura di Domenico Fiandra, possibile mediatore tra il dibattito inglese e francese e il mondo universitario italiano tra XIV e XV secolo, è interessante in rapporto all’evoluzione del concetto di analogia nelle scuole post-tomistiche e post-scotistiche. Finito e infinito e l’idealismo della filosofia. La logica hegeliana dell’essere determinato (II), di G. Movia. Il predicato di dimostrabilità e la nozione di consistenza: alternative alla formulazione classica, di A. Ballarino. IRIDE RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA Anno VII, n. 11, aprile 1994 Il Mulino, Bologna Anno XLIX, n. 2/1994 Franco Angeli, Milano Postmoderno letterario. Sguardo epocale retrospettivo su una controversa “soglia epocale”, di H. R. Jauss. Confutazione di Spinoza e pirronismo. La via al senso comune di A. M. Ramsey, di M. Baldi: la posizione di Ramsey (1686-1743) rispetto al pirronismo, posizione debitrice in parte alla reazione anticartesiana e antispinoziana nell’Inghilterra della seconda metà del Seicento. Razionalità deliberativa e modelli di legittimità democratica, di S. Benhabib: in linea con il “costruttivismo kantiano” di Rawls e l’idea di “ricostruzione” di Habermas, viene esaminata la relazione esistente tra i presupposti normativi della deliberazione democratica e il contenuto idealizzato della razionalità classica. L’amore di sè in Adam Smith: verso una teoria pluralistica della motivazione, di E. Lecaldano: la nozione di amore di sé è presente nella riflessione etica del XVII e XVIII secolo e la trattazione che ne fa Smith nella Teoria dei sentimenti morali, da un lato, porta a compimento le analisi precedenti, dall’altro le trasforma. L’io contro se stesso. Il soggetto moderno e l’amore di sé, di E. Pulcini. STUDI KANTIANI Anno VII, 1994 Giardini Editori e Stampatori, Pisa Analogia, bellezza e moralità nel 59 della ‘Critica del Giudizio’, di S. Marcucci: per comprendere pienamente il tema del rapporto kantiano tra bellezza e moralità, per cogliere la vera natura del concetto di analogia anche relativo al giudizio riflettente ed al giudizio determinante, vengono analizzati i primi quattro capoversi del 59, attraverso cui Kant arriva ad affermare che “il bello è il simbolo del bene morale”. Kant e le lezioni di psicologia, ovvero la scienza dell’anima, di M. Paschi: le Lezioni di psicologia, anteriori alla pubblicazione della Critica della ragion pura, rivelano non solo il rapporto tra didattica e ricerca filosofica, ma ci sono utili per capire l’origine e l’impostazione dei problemi kantiani relativi all’analisi della conoscenza umana. Canguilhem, Kant e la filosofia trascendentale, di M. Marianetti. Il Kant teoretico in Cesare Luporini, di R. Torzini. Alcune osservazioni storico-critiche sul rapporto morale felicità-religione in Kant, di S. Marcucci: una lettura delle prime tre pagine de La religione nei limiti della semplice ragione sul legame tra moralità e religione. Biologia ed etica dell’amor proprio, di F. Savater. Egoismo, utilitarismo, Moore, di M. Vacatello: il ruolo, nell’utilitarismo, dei principi di prudenza e benevolenza. “Il Machiavelli del proletariato”. Violenza e solidarietà nella tradizione del marxismo, di R. Bodei: il realismo politico in Marx ed alcune interpretazioni di Marx da parte di Lenin, Brecht e del giovane Croce. Liberalismo e marxismo nella cultura anglosassone, di F. S. Trincia: antiprogressismo e socialismo in Wallerstein; pluralismo e individualismo in Berlin e Elster; libertà marxiana e libertà individuale secondo la tesi di J. Gray. Dal liberalismo al nazionalismo, di J. Haldane: la filosofia politica e il dibattito sul liberalismo in rapporto ad un nazionalismo moderato, a partire da Rawls. Crisi nazionale e consolidamento dell’ordine politico, di J. R. Recalde. Identità e interculturalità, di S. Moravia: il problema dei cosiddetti extracomunitari e della convivenza culturale a partire dalla sostituzione dell’immagine dell’uomo come identità singola all’immagine dell’uomo come identità plurima. Cattiveria come esercizio spirituale, di P. Virno. La Cassirer Renaissance in Europa di M . Ferrari. 78 De communi vinculo: body, mind and other scottish concordances, di C. Stewart-Robertson. Il tema della crisi dell’arte nel pensiero di A. Banfi, di G. Scaramuzza: il tema della crisi dell’arte in Banfi come riflessione su aspetti di un ampio processo culturale e come presa di posizione rispetto all’arte a lui contemporanea. Una lettera ritrovata: Campanella a Peiresc, 19 giugno 1636, a cura di G. Ernst e E. Canone: nella lettera Campanella rievoca i suoi trascorsi telesiani. Due lettere di Walter Benjamin a Alexander Pfänder, a cura di G. Scaramuzza. PARADIGMI Anno XII, n. 35, maggio-agosto 1994 Schena, Brindisi Nichilisno e oltre..., di P. Miccoli. La filosofia contemporanea in Brasile, di A. Paim: le due tradizioni più solide, su cui si innesta il pensiero brasiliano contemporaneo, sono il tradizionalismo e lo scientismo. Persona e natura: il limite dell’etica, di M. A. La Torre: il problema del limite e l’azione di “demarcazione” all’interno della vita morale. Eredità europee: la memoria del plurale, di F. Merlini: l’articolo intende analizzare se la cultura europea disponga di una tradizione in grado di attribuire un contenuto produttivo all’esperienza della diversificazione e della pluralizzazione delle identità sociali all’interno di un’unica comunità. L’estetica del primo Wittgenstein, di M. Rinaldi. Lo schema estatico-orizzontale dell’avvenire e la ricerca di Heidegger sulla temporalità, di G. Biondi: attraverso i testi delle lezioni è possibile ripensare la nozione heideggeriana di tempo anche in relazione al senso della “svolta”. RASSEGNA DELLE RIVISTE MAN AND WORLD NOUS Vol. 27, n. 2, aprile 1994 Kluwer Academic Publ., Dordrecht Vol. XXVII, n. 4, dicembre 1993 Blackwell Publ., Oxford-Cambridge Silence, being and the between: Picard, Heidegger and Buber, di R. E. Wood: i tre concetti di silence, being e between, pur non coincidendo perfettamente, hanno origine dalla stessa regione di esperienza. Motive and obligation in Hume’s ethics, di S. Darwall: l’articolo intende collocare Hume all’interno del dibattito relativo alla normatività della morale che si è sviluppato tra Seicento e Settecento. Who owns the lie? The problem of presentation in Troilus and Cressida, di D. Price. Empty names, di D. Braun. Re-thinking ethical naturalism. Nietzsche’s open question argument, di L. F. Kerckhove: un confronto tra Nietzsche e MacIntyre sul problema etico. Space perception and the fourth dimension, di S. H. Kellert. The improvisational problem, di R. P. Crease: filosofia dell’improvvisazione e rappresentazioni artistiche. The philosophical curriculum and literature culture: a response to Rorty, di J. Stewart. Logic purified, di T. Yagisawa: nell’articolo si prende posizione contro l’ortodossia logica corrente relativa alla definizione della verità come proposizioni definite. Numbers can be just what they have to, di C. Mc Larty. Partial denotations of theoretical terms, di K. Bedard: i limiti teretici secondo Lewis. Vol. 25, n. 2, maggio 1994 University of Manchester, Manchester Tema della rivista: “Gadamer, Sartre e Deleuze”. Phenomenology, hermeneutics, metaphysics, di H. G. Gadamer. n. 1, gennaio- marzo 1994 PUF, Parigi Tema della rivista: “Spinoza, la quinta parte dell’Ethica”. Remarques sur la I proposition de la V partie de l’ ‘Éthique’ di W. Bartuschat. Sur le mode infini médiat dans l’attribut de la pensée, di J. M. Beyssade: il problema classico, nella lettera 64, di che cosa sia, all’interno dell’attributo del pensiero, il modo infinito indiretto e la soluzione proposta in Ethica V, 36. La vie éternelle et les corps selon Spinoza, di A. Matheron: analisi della proposizione 39 in Ethica V. Sub specie aeternitatis. Notes sur ‘Éthique’ V, 22-23, 29-31, di F. Mignini. REVUE INTERNATIONALE DE PHILOSOPHIE Vol. 48, n. 2, 1994 Universa, Wetteren J. B. S. P. REVUE PHILOSOPHIQUE DE LA FRANCE ET DE L’ETRANGER Tema della rivista: “Leibniz”. Il fascicolo si occupa della riflessione epistemologica del pensatore tedesco, pur collocando tale riflessione all’interno dell’originale meditazione metafisica. Métaphysique de la gloire. Le scolie de la proposition 36 et le “tournant” du livre V, di P. F. Moreau. Acquiescentia dans la cinquième partie de l’ ‘Éthique’ de Spinoza, di G. Totaro: uno studio del campo semantico del termine acquiescenza. Le texte de la cinquième partie de l’ ‘Éthique’, di P Steenbakkers. Leibniz et le problème de la “science moyenne”, di J. Bouveresse: le critiche di Leibniz all’idea di una scienza mediana. ARCHIVES DE PHILOSOPHIE Yorck Von Wartenburg and the problem of historical existence, di H. Ruin: la figura di Yorck Von Wartenburg viene qui tratteggiata dal punto di vista biografico, mettendo in luce anche la sua riflessione sui problemi della comprensione storica, soprattutto in rapporto a Dilthey, e la ricezione postuma. Heidegger, Caputo and the ethical question re-visited, di R. M. Capobianco: la critica rivolta ad Heidegger da Caputo circa la povertà della sua riflessione etica. Sartre, reciprocity, sexuality and solipsism, di A. Mirvish: l’analisi sartreana dell’autentico desiderio sessuale in Essere e nulla. Metamorphic-logic: bodies and powers in a Thousand Plateaus, di P. Patton. Before the other; genesis, structure and development in Piaget, di J. Joffer. Die mathematisch-physikalische Schönheit bei Leibniz, di H. Breger. Vol. 57, n. 2, aprile-giugno 1994 Beauchesne, Parigi Leibniz on the principle of continuity, di F. Duchesneau: il principio di continuità come strumento di analisi dei fenomeni. Les intuitionnistes d’Oxford, di D. D. Raphael: gli intuizionisti di Oxford hanno sostenuto una teoria etica vicina, per alcuni aspetti, a quella di Kant. From Galileo to Leibniz: motion, qualities and experience at the foundation of natural science, di A. G. Ranea: dalla scienza del moto di Galileo alla giustificazione leibniziana dei principi della dinamica. Les axiomes de l’identité et la démonstration des formules arithmétiques: 2+2 = 4, di M. Fichant. Leibniz’s Konzeption der characteristica universalis zwischen 1677 und 1690, di M. Schneider. Leibniz and the logic of life, di C. Wilson: il ruolo del pensatore tedesco nella nascita della biologia. 79 Sur l’universalité de la logique, di J. Largeault: la pluralità della teorie logiche dal 1930 ad oggi. Du champ du sol d’une “esthétique transcendentale”, di J. Benoist: l’autore dimostra come l’avvento di un’estetica trascendentale comporti un cambiamento di senso della stessa ontologia; ciò pone anche il problema del ruolo della logica all’interno di questa nuova configurazione. Le réalisme scientifique: une métaphysique tronquée, di M. Espinoza: il solo realismo coerente è il realismo metafisico, estensione razionale del senso comune e della scienza. Il realismo scientifico è quindi una metafisica “troncata”, che conduce al realismo metafisico. RASSEGNA DELLE RIVISTE REVUE DE METAPHYSIQUE ET DE MORALE Anno 99, n. 2, aprile-giugno 1994 A. Colin, Parigi Tema della rivista: “La filosofia morale in lingua inglese”. La valeur de l’inviolabilité di T. Nagel: sulla questione dell’inviolabilità, che si pone al centro delle recenti teorie morali, relative allo statuto dei diritti dell’uomo. Philosophie et conflit, di R. Hare: la funzione comunicativa della “buona filosofia” al fine di risolvere i conflitti umani più radicali. La fortune morale, di B. Williams: una riflessione sull’idea di giustificazione razionale della morale. Les multiples visages de la moralité, di A. Oksenberg Rorty. Conséquentialisme et psychologie morale, di P. Petit: sulle principali tesi psicologiche adottate contro il consequenzialismo in campo morale, ammettendo le quali questa teoria diventa moralmente verosimile. La valeur intrinsèque, di G. Harman: il concetto di valore intrinseco fondamentale, con particolare riferimento alla teoria del valore, propria dell’edonismo attuale, nell’odierno dibattito filosofico. Éthique et médiation, di M Hunyadi. PHILOSOPHISCHES JAHRBUCH VERIFICHE (Anno XIX, n. 2, giugno 1994, 1/1994 Karl Alber, Friburgo-Monaco di Baviera Glossa, Milano) presenta un articolo di M. Vergottini: Un caso estremo dei rapporti filosofia/teologia in epoca contemporanea: il dibattito H. Gollwitzer-W. Weischedel. Die Einheit der aristotelischen Metaphysik, di F. Inciarte: l’unità dell’ontologia aristotelica sulla base dell’ontologia della sostanza. Abstraktion und Universalien bei Thomas von Aquin, di U. Meixner. IDEE (Anno VIII, n. 22, e n. 23 , Milella, Lecce) presenta due fascicoli a carattere monografico sul tema: “Filosofia e politica” (n. 22) e “Filosofia e scienza” (n. 23). PROSPETTIVA PERSONA (Anno III, n. 8, Göttliches Gebot und Gutheit Gottes nach Wilhelm von Ockham, di R. Wood: la moralità in Ockham: il comando divino, e la rappresentazione di Adamo. Der Begriff der causa sui bei Spinoza und Whitehead, di R. Kather. aprile-giugno 1994, Demian Edizioni, Teramo) presenta due interventi su P. Ricoeur: Ermeneutica e liberazione. Il dialogo di Dussel con Ricoeur, di A. Savignano, e Il Kerigma della speranza in Paul Ricoeur, di P. Cugini. FEERIA (Anno II, n. 4/5, giugno 1994, Die paradoxale Struktur der Absoluten in Schellings Identitätssystem, di M. Bachmann: aspetti ontologici, epistemici, funzionali e strutturali dello sviluppo concettuale dell’Assoluto in Schelling. Cultura nuova editrice, Firenze) presenta un intervento di S. Givone dal titolo: La bellezza salverà il mondo?, in cui viene indicata una possibile via estetica per la riscoperta del sacro attraverso la bellezza. Die Transzendentale Phänomenologie und die philosophische Mystik, di E. WolzGottwald: la mistica come apertura di una nuova sfera di pensiero nella tarda filosofia di Husserl. TELLUS (n. 12, Morbegno-SO) presenta il Philosophisches Sprechen über Kunst in Traditionen des Bilderverbots und der negativen Theologie, di W. Oelmüller: il dibattito sui libri di G. Steiner: Von realer Gegenwart (München 1990) e H. Belting: Bild und Kult (München 1990). tema: “Identità d’Europa”, con saggi di G. Simmel, L’idea di Europa, e di M. Heidegger, L’Europa e la filosofia tedesca. Il n. 13 è invece dedicato al tema “Immagini della Natura. Oriente e Occidente”. FILOSOFIA (Anno XLV, n. 1, gennaio- aprile 1994, Mursia, Milano) presenta gli interventi al convegno: “Augusto Guzzo a cent’anni dalla nascita”, tenutosi all’Università di Torino il 12-13 aprile 1994. LES ÉTUDES PHILOSOPHIQUES (genna- io-giugno 1994, PUF, Paris) presenta un fascicolo monografico su Marin Marsenne. REVUE PHILOSOPHIQUE DE LOUVAIN Tomo 92, n. 1, febbraio 1994 Institut supérieur de philosophie Louvain La Neuve D’un style de la pensée, di P. J. Labarrière: la prima di una serie di dodici lezioni, in cui il proprio progetto viene posto sotto il segno di Dante, Eckhart e Hegel. L’appel infini à l’interprétation, di F. Ciaramelli: riflessioni sull’arte e sulla poesia in Levinas. Heidegger, lecteur de Husserl, di P. Kontos: l’analisi dell’opera heideggeriana Interpretazione fenomenologica della ‘Critica della ragion’ pura di Kant contribuisce a chiarire la natura del rapporto con Husserl, in quanto vengono qui seguite le medesime tappe, individuabili nel percorso dell’husserliana Logica formale e logica trascendentale. Penser l’Autre. Psychanalyse lacanienne et philosophie, di S. Lofts e P. W. Rosemann. ZEITSCHRIFT FÜR PHILOSOPHISCHE FORSCHUNG Vol. 48, n. 3, luglio-settembre 1994 Vittorio Klostermann, Frankfurt a/M Spontaneität, di W. Vossenkuhl: indipendenza genetica, logica, cognitiva. Probleme der Wirtschaftsethik, di W. Kersting. Skepsis und Praxis, di B. Sitter-Liver: il primato della prassi nello scetticismo. Malancholie. Skizze zur epistemologischen Deutung eines Topos, di S. Krämer: il concetto di malinconia in filosofia da Aristotele a Marsilio Ficino e all’Illuminismo e in rapporto alle scienze. Was leistet die semantische Interpretation der Wahrheit, di J. Padilla-Galvez. Parfit und die Theorie C, di C. Nimtz: recensione di D. Parfit, Reasons and persons (Oxford 1989). 80 NOVITÀ IN LIBRERIA AA.VV Metzler Philosophen Lexikon. Dreihundert biographisch-werkegeschichtliche Porträts von den Vorsokratikern bis zu den neuen Philosophen Metzler, agosto-settembre 1994 pp. 858, DM 39,80 AA.VV. Non-verbal Communication in Science prior to 1900 Leo S. Olschki, ottobre 1994 pp. 622, L. 98.000 I numerosi contributi che il libro raccoglie ruotano intorno a un tema innovativo: il ruolo giocato, nella costruzione della scienza moderna, da una serie di mezzi comunicativi non verbali. AA.VV. Zum Naturbegriff der Gegenwart. Kongreßdokumentation zum Projekt ’Natur im Kopf’, Stuttgart, Juni 1993 Frommann-Holzboog agosto-settembre 1994 pp. 812, DM 48 La documentazione di questo congresso, tenutosi a Stoccarda nel giugno del ’93 e relativo al progetto Natur im Kopf, è suddivisa in due volumi. Nel volume I, figurano i seguenti temi: “la natura come oggetto delle scienze naturali”; “la natura come materia prima”; “la natura come paesaggio e giardino”; nel secondo volume: “la natura come avvenimento estetico”; “la natura come costruzione sociale e tecnica”. Adinolfi, Massimo La deduzione trascendentale e il problema della finitezza in Kant Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 190, L. 28.000 Pensata come risposta alla questione capitale della Critica della ragion pura, la deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto è in realtà uno dei luoghi più tormentati dell’opera. Le tensioni che l’attraversano non vengono qui comprese e risolte a partire dall’esito gnoseologico ed epistemologico del criticismo, ma ricondotte piuttosto alla loro radice. Albert, Hans Kritik der reinen Hermeneutik. Der Antirealismus und das Problem des Verstehens Mohr, agosto-settembre 1994 pp. 272, DM 54 Hans Albert difende il realismo critico contro l’ermeneutica che risale a Heidegger e Gadamer. Alberti, Antonina (a cura di) Realtà e ragione Leo S. Olschki, ottobre 1994 pp. 222, L. 44.000 Studi di autori vari sul problema della realtà esterna (ontologia e fisica) e della razionalità nel pensiero antico (in Platone, Aristotele, Epicuro e nello scetticismo antico). NOVITÀ IN LIBRERIA una condizione di valore per le risoluzioni. I lavori che compaiono in questa raccolta devono essere considerati nella prospettiva di ricerca orientata alla riflessione. Bloch, Ernst La Philosophie de la Renaissance Payot, settembre 1994 pp. 196, F 48 Nel Rinascimento, il filosofo tedesco non vede solamente il rinascimento dell’Antichità, ma anche la nascita di un uomo nuovo e di una società nuova: la società borghese. Egli illustra questo aspetto tramite la storia della filosofia del Rinascimento, gli inizi delle scienze matematiche, la filosofia del diritto e dello Stato. Andersson, Gunnar Criticism and the History of Science. Kuhn’s, Lakato’s and Feyerabend’s Criticism of Critical Rationalism Brill, agosto-settembre 1994 pp. 160, FOL 110 Bartling, Heinz-M. Theorie der Lebenskunst Junghans, agosto-settembre 1994 pp. 100, DM 28 Battaglia, Luisella Il dilemma della modernità Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 212, L. 28.000 Il dilemma della modernità nasce dal fatto che la libertà individuale è un prodotto sociale. La cultura italiana costituisce un caso paradigmatico di tale dilemma: dai positivi, ai portatori della protesta individualista, come D’Annunzio. Bachelard, Gaston L’Intuition de l’instant LGF, settembre 1994 pp. 154, F 32 Secondo Bachelard, il tempo è una realtà che corrisponde all’istante e si trova sospesa tra due néants, due non essere. Il pensiero del filosofo si concentra intorno a tre idee: l’istante, il tempo discontinuo e la questione dell’abitudine; l’idea del progresso; l’intuizione del tempo discontinuo. Baumgartner, H.M. - Becker, W. (a cura di) Grenzen der Ethik Fink/Schöningh agosto-settembre 1994 DM 29,80 Bacone, Francesco Saggi Tea, agosto 1994 pp. 206, L. 25.000 I cinquantotto saggi trattano i più disparati aspetti della morale comune e individuale, tra gli altri: l’arte del governo, le virtù e i vizi, la ricchezza, la verità, il matrimonio, l’invidia, l’amore e la morte. Becchi, Paolo Il tutto e le parti Organicismo e liberalismo in Hegel Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 206, L. 30.000 La tesi che provocatoriamente si intende qui sostenere è che la contrapposizione tra individualismo e organicismo sia, tutto sommato, di scarsa utilità. L’organicismo moderno non comporta un puro e semplice ritorno a concezioni premoderne; al contrario, come mostra l’applicazione al campo politico che ne fa Hegel, la distanza che separa l’organicismo dal liberalismo è tutt’altro che incolmabile. Balducci, Ernesto L’uomo planetario ECP, ottobre 1994 pp. 176, L. 20.000 Nuova edizione di un saggio di successo che esprime la tesi secondo cui o l’uomo riuscirà a farsi planetario oppure sarà destinato all’estinzione, il volume di Balducci si basa su una rassegna puntuale e aggiornata delle grandi religioni per dimostrare che si è definitivamente chiusa una fase antropologica. Beelmann, Axel Heimat als Daseinsmetapher. Weltanschauliche Elemente im Denken des Theologiestudenten Martin Heidegger Passagen, agosto-settembre 1994 pp. 80, ÖS 140 Balibar, E. (a cura di) Freiheit und Notwendigkeit. Ethische und politische Aspekte bei Spinoza und in der Geschichte des (Anti-)Spinozismus Königshausen & Neumann agosto-settembre 1994 pp. 262, DM 48 Benseler, F. - Blanck, B. et al. Alternativer Umgang mit Alternativen. Aufsätze zu Philosophie und Sozialwissenschaften Westdeutscher, agosto-sett.1994 pp. 287, DM 49 Fino ad ora non esistono tradizioni di ricerca che considerino l’importanza delle alternative non solo rispetto alla genesi delle soluzioni, ma anche come Baltzer, Ulrich Erkenntinis als Relationengeflecht. Kategorien bei Charles S. Peirce Schöningh, agosto-settembre 1994 pp. 300, DM 78 81 Boezio, Severino La consolazione della filosofia a cura di Claudio Moreschini Laterza, ottobre 1994 pp.366, L. 60.000 Il tema del rovesciamento dell’umana fortuna (nel caso di Boezio, console e legato alla corte del re Teodorico, si tratta della più rovinosa caduta di un potente), è lo spunto per un itinerario alla ricerca del vero bene, cui solo la filosofia può condurre. Bösch, Michael Soeren Kierkegaard. Schicksal Angst - Freiheit Schöningh, agosto-settembre 1994 pp. 424, DM 48 Boss, Gilbert (a cura di) Esquisses de dialogues philosophiques Grand-Midi, settembre 1994 pp. 274, FS 28,50 Nel volume ci si propone di addolcire qualche brusco confronto tra il pensiero di Hobbes, di Cartesio e di altri filosofi e quello di Nietzsche e Austin, di accostarsi a questi autori secondo delle prospettive nuove e di riflettere sulla natura della filosofia. Boss, Gilbert (a cura di) La Philosophie et son histoire Grand-Midi, settembre 1994 pp. 356, FS 45 L’argomento di questo volume, nel quale sono contenuti contributi di Pierre Macherey, Yvon Lafrance, Michel Malherbe ed altri, viene affrontato attraverso alcune domande, come: in quale pratica viene generata la storia della filosofia? Oppure: la diversità delle filosofie porta con sé una forma di scetticismo? Bouinois, Olivier (a cura di) La Puissance et son ombre: de Pierre Lombard à Luther Aubier, settembre 1994 pp. 432, F 150 I testi qui riuniti sono in rapporto con la figura di Perre Lombard, vescovo di Parigi dal 1150 al 1160, autore delle Sentences, un libro che fece epoca e che diede luogo a più di 1400 commenti e che fu alla base di tutta la riflessione teologica nel corso di oltre tre secoli. Il volume costituisce anche un’introduzione alla filosofia medioevale. NOVITÀ IN LIBRERIA Brianese, Giorgio (a cura di) Meditazioni sulla filosofia prima di René Descartes Mursia, settembre 1994 pp. 264, L. 13.000 Quest’opera scritta in latino fra il 1628 e il 1629, pubblicata nel 1641 e tradotta in francese nel 1647, è l’esposizione più ampia e complessa della dottrina di Descartes; è dedicata alla Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi da cui sperava di ricevere l’approvazione ufficiale alla sua filosofia. Brogi, Stefano Il cerchio dell’universo Libertinismo, spinozismo, e filosofia della natura in Boulainvillers Leo S. Olschki, ottobre 1994 pp. 322, L. 55.000 Uno spaccato dell’età della crisi della coscienza europea attraverso il pensiero di uno dei suoi inquietanti protagonisti. Cohen, Hermann Etica della volontà pura Esi, ottobre 1994 pp.462, L. 70.000 Saggio di filosofia neokantiana sui temi etico-sociali. Dämmerich, Heinz P. Prekäres Selbstbewußtsein. Studien zu Kant, Fichte und Dilthey Haag & Herchen agosto-settembre 1994 pp. 156, DM 34 Confucio Entretiens avec ses disciples tr. dal cinese e a cura di André Lévy Flammarion, settembre 1994 pp. 258, F 31 Si tratta di una raccolta di aforismi che riflettono l’insegnamento di Confucio. Dastur, Françoise La Mort: essai sur la finitude Hatier, settembre 1994 pp. 79, F 27 La coscienza di essere mortali è alla base dell’esperienza che l’uomo ha di se stesso. Ma la morte non è oggetto di esperienza... Come è possibile concepire questo paradosso, questo limite che la realtà della morte impone alla ragione? Brunet, Philippe Cagliostro Rusconi, ottobre 1994 pp. 400, L. 39.000 Conte, Domenico Catene di civiltà Studi su Spengler Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 388, L. 58.000 Mai prima di oggi si era tentato di collegare Il tramonto dell’Occidente con il resto della produzione spengleriana, soprattutto con le grandi opere postume pubblicate negli anni sessanta. Il libro colma questa lacuna, offrendo di Spengler un’immagine inedita. Buchheim, Thomas Die Vorsokratiker. Ein philosophisches Porträt C.H. Beck, agosto-settembre 1994 pp. 260, DM 48 Il pensiero filosofico precedente a Socrate ha una sua forma filosofica, anche se essa non è sempre facilmente comprensibile. Chi intende spiegare questo pensiero filosofico come una precomprensione filosofica dell’epoca moderna, non può che andare incontro a dei malintesi. Coppieters, Bruno Kritik einer reinen Empirie. Hegels Jenaer Kommentar zu Montesquieus Theorie des Politischen Akademie, agosto-settembre 1994 pp. 254, DM 98 L’argomentazione e la ricerca di Coppieters si riferiscono all’interpretazione ed alla verifica del giudizio, dato da Hegel in Vom Geist der Gesetze, sul metodo empirico di Montesquieu. Casati, R. (a cura di) Philosphy and the Cognitive Sciences. Proceedings of the 16th International Wittgenstein Symposium, August 1993, Kirchberg am Wechsel (Austria) Hölder-Pichler-Tempsky agosto-settembre 1994 pp. 472, ÖS 890 Si tratta di una raccolta degli interventi tenuti durante il sedicesimo International Wittgenstein Symposium, tenutosi in Austria, a Kirchberg am Wechsel, nell’agosto del ’93. Cormier, Philippe Généalogie de personne pr. di Jean-Luc Marion Critérion, settembre 1994 pp. 220, F 119 Da filosofo, l’autore riflette sulla nozione di persona. Esplorando l’epopea di Omero, la tragedia greca, i testi di Sofocle e di Cicerone ed anche quelli dei Padri della Chiesa, Cormier decifra, analizza e racconta come si è arricchita di significati la parola greca outis, “persona”. Casati, Roberto - Dokic Jérôme La Philosophie du son J. Chambon, settembre 1994 pp. 212, F 160 Il volume sviluppa una teoria originale della natura del suono e dell’orientamento del campo percettivo. Mostra anche l’interesse filosofico ad uno studio della percezione uditiva, troppo sovente trascurata dalla tradizione filosofica. Cayley, David Conversazioni con Ivan Illich Un profeta contro la modernità Eleuthera, settembre 1994 pp. 220, L. 28.000 Una biografia sulla vita “eretica” del vicerettore dell’università di Puerto Rico e fondatore del Centro di Documentazione Interculturale du Guernavaca. De Deyn, P.P. (a cura di) Ethics of Animal and Human Experimentation. Proceedings of the Symposium on Ethical Considerations Concerning Biomedical Experimental Methods and Techniques John Libbey, agosto sett. 1994 pp. 300, £ 40 Si tratta degli atti del convegno Ethical Considerations Concerning Biomedical Experimental Methods and Techniques, tenutosi ad Anversa il 10 e l’11 settembre del ’93. De Maria, Amalia Propedeutica filosofica Utet, ottobre 1994 pp. 190, L. 24.000 Che cos’è la filosofia? A questa e altra domande di fondo risponde il saggio in analisi che completa la trattazione con uno studio storico sullo sviluppo della filosofia occidentale. Dell’Io, Salvatore Jacques Lacan Istruzioni per l’uso Raffaello Cortina, ottobre 1994 pp. 220, L. 16.000 Derrida, Jacques Otobiographies L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio Il poligrafo, ottobre 1994 pp. 96, L. 22.000 Questa conferenza fu tenuta da Derrida nel 1976 a Charlottesville, presso l’università della Virginia negli USA. L’occasione era data dal bicentenario della Dichiarazione d’Indipendenza, ma da questa Derrida procedeva con un commento sull’incipit di Ecce homo fino alle conferenze nietzscheane Sull’avvenire delle nostre scuole, per terminare poi sul problema della libertà accademica. Un testo che può dunque apparire stravagante nella sua eterogeneità, e pur tuttavia reso coerente da un unico filo conduttore: il rapporto tra nome e istituzione che Derrida sintetizza nel problema della firma. Cotroneo, Girolamo Questioni crociane e post-crociane Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 220, L. 33.000 Il volume affronta alcuni aspetti del pensiero di Benedetto Croce di natura teoretica (le caratteristiche del suo “idealismo”), metodologia (il problema della storia della filosofia) ed etica (il primato di quest’ultima sulla politica) e illustra alcuni problemi di analoga natura posti dal pensiero contemporaneo e letti dall’autoe alla luce delle conclusioni a suo tempo raggiunte dal filosofo napoletano. Descartes, René Opere filosofiche a cura di Lojacono Ettore Utet, ottobre 1994 pp. 1712, L. 235.000 Raccolta dei testi più importanti del filosofo e, nel secondo volume, gli Dami, Roberto I tropi della storia La narrazione nella teoria della storiografia di H. White FrancoAngeli, ottobre 1994 pp. 192, L, 26.000 82 scritti che ruotano intorno ai temi centrali del cosmo e dell’uomo. Desttut de Tracy, Antoine L. Traité de la volonté et de ses effets Fayard, settembre 1994 s.p., F 240 Il volume costituisce la quarta e la quinta parte degli Eléments d’idéologie, un’opera che si situa tra la fisiocrazia del XVIII secolo ed il liberalismo del XIX secolo. Diderot, Denis Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient Corps 16, agosto 1994 pp. 120, F 80 Questa lettera, che si situa nel punto di confluenza tra filosofia, letteratura e scienza, occupa un posto centrale all’interno dell’opera dell’autore. Nella sua analisi del comportamento di due ciechi dalla nascita, Diderot conferma la sua posizione di convinto materialista. Diprose, Rosalyn The Bodies of Women. Ethics, Embodiment and Sexual Differences Routledge, agosto-settembre 1994 pp. 176, £ 12 L’autrice analizza criticamente sia i tentativi, da parte dell’etica femminista ed anche non femminista, di riconoscere il ruolo della differenza sessuale che le argomentazioni biomediche, le cui descrizioni mascherano una costituzione ed una regolazione del “corpo”. Dogbe, Yves-Emmanuel Réflexions sur le bien-être: essais philosophiques Akpagnon, settembre 1994 pp. 68, F 40 Il libro raccoglie quattro saggi sul senso della vita, l’essere interiore, il benessere e la morte. Eckhardt, Wolfgang Michail A. Bakunin (1814-1876). Bibliographie der Primärund Sekundärliteratur in deutscher Sprache Libertad, agosto-settembre 1994 DM 28 Elsässer, Michael Friedrich Schlegels Kritik am Ding Felix Meiner, agosto-sett. 1994 DM 68 Epitteto Le Manuel tr. dal greco Marcel Caster pref. Giacomo Leopardi Rivages, agosto 1993 Il filosofo latino di lingua greca non ha mai scritto. E’ stato il suo discepolo, Arriano di Nicomedia, che ci ha trasmesso il suo insegnamento sulla base degli appunti da lui presi assistendo alle sue lezioni o in seguito a conversazioni con Epitteto. Il risultato è quindi lo stile naturale del Manuale, ciò che è stato chiamato il “parlare franco” di Epitteto. NOVITÀ IN LIBRERIA Fimiani, Filippo La sovranità dell’evento Saggio su Charles Péguy Guerini, ottobre 1994 pp. 144, L. 22.000 Saggio su uno dei rappresentanti del pensiero francese dei primi anni del Novecento, sulla centralità dell’evento nella nascita e nella vita dell’opera d’arte. Flach, Werner Grundzüge der Erkenntnislehre. Erkenntniskritik, Logik, Methodologie Königshausen & Neumann agosto-settembre 1994 pp. 780, DM 186 Frederking, Volker Durchbruch von Haben zum Sein. Erich Fromm und die Mystik Meister Eckharts Schöningh, agosto-settembre 1994 pp. 350, DM 78 Fruchon, Pierre L’Herméneutique de Gadamer: platonisme et modernité, tradition et interprétation Cerf, agosto 1994 pp. 534, F 245 L’autore di questo volume, colloca deliberatamente nell’insieme del progetto filosofico di Gadamer l’ermeneutica propriamente detta. In effetti Gadamer comincia praticando l’interpretazione prima di formularne concettualmente la teoria nella sua opera fondamentale, Verità e metodo (1960). Gadamer, Hans-Georg Il movimento fenomenologico Laterza, ottobre 1994 pp. 144, L. 18.000 Sintesi della parabola del movimento fenomenologico: precursori, origini, storia e dibattiti. Gadamer, Hans-Georg Dove si nasconde la salute Raffaello Cortina, ottobre 1994 pp. 200, L. 32.000 La cura della salute è per l’uomo un “fenomeno originario”. Ma cosa comporta questo richiamo alle origini? Che cosa significa guarire e quali sono i presupposti dell’arte medica? Gadamer indaga il luogo in cui si “nasconde” la salute, condizione particolare di equilibrio e armonia, a partire dal mondo greco fino a toccare le problematiche della medicina moderna. Galimberti, Umberto Parole nomadi Feltrinelli, ottobre 1994 pp. 352, L. 35.000 Galimberti rielabora in questo volume i suoi articoli originariamente apparsi sul supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore”, ordinati alfabeticamente per argomenti. Spaziando dalla religione alla politica, dai sentimenti alla filosofia, dall’estetica alla psicologia, ci offre un modello dinamico di interpretazione della realtà. Garcia, Joseph Theologie für Atheisten. Die Überwindung des Gegensatzes zwischen Naturwissenschaft und Glauben intr. di Raimon Panikkar Lit, agosto-settembre 1994 pp. 80, DM 19,80 Gardner, Howard Intelligenze creative Feltrinelli, ottobre 1994 pp. 576, L. 65.000 Con Formae mentis Gardner ha dimostrato che esiste una molteplicità di intelligenze e che la fisionomina cognitiva degli individui è unica e irripetibile come la combinazione delle intelligenze che possiedono. Con Intelligenze creative argomenta la tesi che a ogni intelligenza corrisponde una forma particolare di creatività. Garin, Eugenio L’umanesimo italiano Laterza, ottobre 1994 pp. 288, L. 13.000 Saggio sul pensiero filosofico italiano tra il 1440 e il 1500. Il volume presenta più di cinquecentoquaranta filosofi antichi o testimoni importanti del movimento filosofico nell’Antichità. Si tratta del secondo volume di un’opera che consterà di sei tomi e di due o tre volumi di supplementi. Heinz, Marion Sensualistischer Idealismus. Untersuchungen zur Erkenntnistheorie des jungen Herder (1763-1778) Meiner; agosto-settembre 1994 pp. 204, DM 88 Greisch, Jean Ontologie et temporalité: esquisse d’une interprétation intégrale de ‘Sein und Zeit’ PUF, settembre 1994 pp. 528, F 288 La pubblicazione degli insegnamenti impartiti tra il 1919 e il 1928, il decennio fenomenologico di Heidegger , per mette di f ar si un’idea precisa della genesi delle sue concezioni in quel periodo e del libro Essere e tempo. Vengono anche forniti nuovi criteri per un moderno lavoro interpretativo. Held, Klaus Guida filosofica del Mediterraneo Guanda, ottobre 1994 pp. 350, L. 35.000 Viaggio attraverso il pensiero antico: la storia della filosofia antica, da Talete fino agli autori cristiani del IV-V secolo, collegata ai luoghi, alle esperienze dei singoli pensatori, alle relazioni, agli scambi, agli incroci tra diverse scuole e centri di sapere collocati nell’area del Mediterraneo. Haarscher, Guy (a cura di) Chaïm Perelman et la pensée contemporaine Bruylant, agosto 1994 pp. 491, F 487 A trentacinque anni di distanza dalla pubblicazione del Traité de l’argumentation, specialisti di tutti i continenti verificano le tesi di Perelman adottando il punto di vista della filosofia, del diritto e delle scienze umane in generale. Questo avviene all’alba degli anni ’90, nello spirito di un’apertura critica e del libero esame. Il volume contiene contributi in lingua francese e inglese. Geyer, Carl-Friedrich Einführung in die Philosophie der Kultur Wiss. Buchvlg. agosto-settembre 1994 pp. 214, DM 39,80 Questa introduzione informa sullo sviluppo della filosofia della cultura partendo dal XIX secolo e discute criticamente l’attuale tesi che vede la filosofia della cultura come l’unica possibilità rimasta di discorso filosofico. Hansen, Frank-Peter Hegels ‘Phänomenologie des Geistes’. ’Erster Teil’ des ‘Systems der Wissenschaft’. Dargestellt an Hand der ‘System-Vorrede’ von 1807 Königshausen & Neumann agosto-settembre 1994 pp. 360, DM 86 Gillies, Donald - Giorello, Giulio La filosofia della scienza nel XX secolo Laterza, settembre 1994 pp. 432 Nel delineare il percorso della filosofia della scienza nel Novecento, Gilles articola la trattazione attorno ad argomenti-chiave mentre Giorello presenta le concezioni dei maggiori filosofi della scienza dopo Popper. Hastedt, Heiner Aufklärung und Technik. Grundprobleme einer Ethik der Technik Suhrkamp, agosto-settembre 1994 pp. 336, DM 24,80 Goth, Christian Initation aux sciences humaines: philosophie, psychologie, psychanayse, sociologie, ethnologie C. Goth, settembre 1994 pp. 128, F 240 Ogni disciplina viene presentata in un capitolo del volume. Christian Gott, laureato in psicologia ha effettuato degli studi completi nel campo delle scienze umane, soprattutto in quello della sociologia, dell’etnologia e della criminologia. Egli è stato influenzato dalle teorie di Palo Alto ed è stimato per i suoi studi sulla scrittura e sulla comunicazione. Heaton, John - Groves, Judy Wittgenstein. Per cominciare Feltrinelli, ottobre 1994 pp. 176, L. 12.000 Una guida chiara e accessibile sia al lavoro principale di Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus che al suo successivo Ricerche filosofiche. Heideggere, Martin Nietzsche Adelphi, ottobre 1994 pp. 1100, L. 120.000 Un vasto e serrato confronto che Heidegger ingaggia con Nietzsche, interrogandone insistemente i testi al fine di scoprire il filo conduttore che lega in una trama unitaria le sue dottrine fondamentali. Goulet, Richard (a cura di) Dictionnaire des philosophes antiques vol. 2: Babelyca d’Argos à Dyscolius pref. Pierre Hadot CNRS-Editions, agosto 1994 pp. 1024, F 525 83 Hobbes, Thomas Léviathan: traité de la matière, de la forme et du pouvoir de la république ecclesiastique et civile trad. dall’inglese e a cura di François Tricaud Sirey, settembre 1994 pp. 780, F 220 Si tratta della ristampa di questa edizione ampiamente commentata, nella quale il testo inglese viene anche paragonato al testo latino. Hofmann, Johann Nepomuk Wahrheit, Perspektive, Interpretation. Nietzsche und die philosophische Hermeneutik de Gruyter, agosto-settembre 1994 pp. 456, DM 242 Alla base di questo studio sistematico-comparativo sulla filosofia dell’interpretazione di Nietzsche c’è la tesi tenuta da Hofmann a Tubinga nel ’93. Holz, Harald Geist in Geschichte. Idealismus-Studien Königshausen & Neumann agosto-settembre 1994 pp. 354, DM 68 Il volume contiene, nella prima parte: “Immanuel Kant, l’idea centrale sistematica nella storia”; nella seconda: “Fichte, Schelling, Hegel, la forza delle idee nel monologo consistematico.” Honnefelder, L. (a cura di) Die Einheit des Menschen. Zur Grundfrage der philosophischen Anthropologie Schöningh, agosto-settembre 1994 pp. 181, DM 36 Horn, Hans-Jürgen Studien zum Dritten Buch der aristotelischen Schriften ’De anima’ Vandenhoeck & Ruprecht agosto-settembre 1994 pp. 200, DM 58 NOVITÀ IN LIBRERIA Huisman, Bruno - Ribes, François (a cura di) Les Philosophes et le pouvoir Dunod, settembre 1994 pp. 368, F 168 Il volume si rivolge agli allievi delle classi preparatorie della HEC, la Haute Ecole Commerciale. Hull, R.T. (a cura di) A Quarter Century of Value Inquiry. Presidential Addresses before the American Society for Value Inquiry Editions Rodopi agosto-settembre 1994 pp. 400, FOL 200 Questo volume contiene tutti i discorsi presidenziali tenuti alla American Society for Value Inquiry, dalla sua prima riunione, nel 1970. Si tratta di una testimonianza unica di indagine sui valori nel corso degli ultimi venticinque anni. Jäger, Christian Michel Foucault, das Ungedachte denken. Eine Untersuchung der Entwicklung und Struktur des kategorischen Zusammenhangs in Foucaults Schriften Fink, agosto-settembre 1994 pp. 206, DM 48 James, William Das pluralistische Universum. Vorlesungen über die gegenwärtige Lage der Philosophie Wiss. Buchvlg., agosto-sett. 1994 pp. 263, DM 49,80 Con la riedizione di questo lavoro riassuntivo di William James, il più importante filosofo del pluralismo, uno dei principali fondatori del pragmatismo, si può accedere ad un classico del pensiero filosofico, che colpisce per la sua lingua chiara ed estremamente viva. James, William Der Pragmatismus. Ein neuer Name für alte Denkmethoden intr. a cura di Kl. Oehler Meiner, agosto-settembre 1994 pp. 200, DM 32 Si tratta della seconda edizione di quest’opera, con nuove indicazioni bibliografiche. Jean, Paul Il comico, l’umorismo e l’arguzia Arte e artificio del riso in una “Propedeutica dell’estetica” del primo Ottocento a cura di Eugenio Spedicato Il poligrafo, ottobre 1994 pp. 222, L. 30.000 L’estetica del riso viene affrontata da Jean Paul (pseudonimo di Johann Paul Friedrich Richter, 1763-1825) in quattro capitoli della Propedeutica dell’estetica, un’opera di vasto respiro, frutto di un’attrezzatissima officina filosofica e letteraria, una summa del pensiero del suo autore, ma anche un documento essenziale della storia dell’estetica e più in generale della storia della cultura tedesca tra Sette e Ottocento. Jolivet, Pierre (a cura di) Abélard ou la Philosophie dans le langage Cerf Ed. univers. de Fribourg agosto 1994 pp. 214, F 139 Il volume presenta Abélard (10791142) ed il suo pensiero, la sua biografia e le sue principali dottrine filosofiche e teologiche, nella prima parte; mentre, nella seconda, figurano delle traduzioni di testi tratti dalle sue opere. Lamarra, Antonio Pimpinella, Pietro Metitationes philosophicae Leo S. Olschki, ottobre 1994 pp. 228, L. 59.000 Pubblicata nel 1734, questa breve dissertazione contiene la prima menzione del termine “estetica” e costituisce il primo tentativo di inserire organicamente nella riflessione filosofica la disciplina che ancor oggi porta quel nome. Kämpf, H. - Schott, R. (a cura di) Der Mensch als homo pictor? Die Kunst traditioneller Kulturen aus der Sicht von Philosophie und Ethnologie Bouvier, agosto-settembre 1994 pp. 256, DM 58 Questo volume, che raccoglie i contributi ad un simposio, tenutosi a Münster nel ’92, dimostra che il dialogo finora interrotto tra filosofi ed antropologi può essere ripreso, nella prospettiva della domanda di tipo antropologico, posta da Hans Jonas, riguardo all’essere umano come homo pictor. Larroque, Michel Volonté et involonté dans la pensée occidentale et orientale L’Harmattan, settembre 1994 pp. 199, F 110 Nel pensiero occidentale, l’esistenza morale realizza la volontà. Lo spirito acquista la propria autonomia imponendo la sua legge alla natura. Il pensiero orientale, invece, propone una definizione completamente diversa della vita spirituale, con la condanna della riflessione, il rifiuto di usare il pensiero per diventare padroni del corso del tempo, l’abolizione dell’io cosciente e proponendo quindi la involonté, la “non volontà”. Kant, Immanuel Théorie et pratique; D’un pretendu droit de mentir par l’humanité; la Fin de toute chose trad. dal tedesco e a cura di Françoise Proust Flammarion, settembre 1994 pp. 196, F 28 I primi due testi sono le risposte di Kant ai detrattori della sua teoria morale. Come è noto, egli rispose ai suoi detrattori: “Può essere che ciò sia giusto dal punto di vista teorico, ma in pratica non vale niente.” Il terzo testo tratta del rapporto tra la verità e l’eternità. Leibniz, Gottfried Wilhelm Le Droit de la raison a cura di René Sève Vrin, settembre 1994 pp. 256, F 60 L’autonomia degli individui, dei popoli e dei sovrani si basa non tanto sulla libertà nazionale o convenzionale, quanto sull’incapacità pratica della ragione di determinare ogni cosa. Tutte queste idee, compresa anche la loro espressione critica rispetto al diritto naturale, fanno di Leibniz un teorico fedele ai principi della politica classica. Kant, Immanuel La religione nei limiti della ragione Rusconi, ottobre 1994 pp. 450, L. 16.000 Saggio sull’interpretazione della teologia cattolica e luterana da parte dell’idealismo. Leibniz, Gottfried Wilhelm Philosophische Schriften und Briefe 1663-1676 a cura di U. Goldenbaum Akademie, agosto-settembre 1994 pp. 480, DM 86 Kersting, Wolfgang Die politische Philosophie des Gesellschaftsvertrags. Von Hobbes bis zur Gegenwart Wiss. Buchvlg., agosto-sett. 1994 pp. 380, DM 58 Lo scopo del libro è di mostrare la varietà storica e concettuale e la differenziazione sistematica della filosofia politica del contratto sociale, inquadrandole all’interno della prima presentazione completa della storia del contrattualismo moderno. Lescourret, Marie-Anne Emmanuel Levinas Flammarion, settembre 1994 pp. 414, F 150 Il volume ripercorre il cammino del filosofo e della sua opera. Emmanuel Levinas, che si situa all’incrocio tra quattro culture (ebraica, russa, tedesca, e francese), è rimasto sempre lontano dai percorsi battuti, che passano attraverso l’ENS e l’insegnamento universitario. La sua opera è composta da una parte confessionale che è distinta da quella puramente filosofica. Kofman, Sarah Le Mépris des juifs: Nietzsche, les juifs, l’antisémitisme Galilée, settembre 1994 pp. 95, F 82 Nietzsche era antisemita? Oppure il suo supposto antisemitismo non sarebbe stato altro che un errore di gioventù, trasmesso dal suo ambiente, dai suoi maestri e modelli, e di cui doveva liberarsi per diventare se stesso? Lévi-Strauss, Claude Guardare ascoltare leggere Il Saggiatore, settembre 1994 pp. 176, L. 29.000 Scritto in tono colloquiale, questo libro apre nella pittura, nella musica, nella letteratura prospettive che si intersecano giungendo a conclusioni inaspettate. 84 Locke, John Lettera sulla tolleranza Laterza, ottobre 1994 pp. 128, L. 9.000 Uno dei primi scritti sulla tolleranza e la libertà di pensiero, alla base della moderna cultura europea. Loegstrup, Knud Ejler Methaphysik Vol. 3: Ursprung und Umgebung. Betrachtungen über Geschichte und Natur Mohr, agosto-settembre 1994 pp. 328, DM 98 Lorenz, Ulrich Das Projekt der Ideologie. Studien zu einer ’Ersten Philosophie’ bei Destutt de Tracy Frommann-Holzboog agosto-settembre 1994 pp. 263, DM 82 La “Filosofia prima” è in realtà un insieme di questioni e di domande che aprono l’orizzonte a temi che possono essere trattati dal punto di vista scientifico. In questo contesto, l’ideologia risulta essere una filosofia della coscienza orientata in senso antropologico. Lüdeking, Karl-Heinz Einführung in die analytische Kunstphilosophie UTB (W. Fink) agosto-settembre 1994 pp. 230, DM 24,80 Il volume propone una pianta del labirinto argomentativo, in cui rimane intrappolato chiunque si chieda come sia possibile capire e motivare il fatto che alcune cose vengano chiamate opere d’arte e che vengano loro ascritte delle qualità estetiche. Lyotard, Jean-François Dérive à partir de Marx et Freud Galilée, settembre 1994 pp. 200, F 180 A distanza di ventidue anni, viene ripubblicato il diario di bordo di un veterano, come testimonianza e memoria e con una prefazione inedita dell’autore. I giovani manifestavano allora contro il lavoro, adesso manifestano in favore dell’occupazione. Allora si gridava: Liberation! Adesso noi mormoriamo “resistenza”. Il volume indaga su che cosa significhino una cosa ed il suo contrario. Marx insegnava questa contraddizione, Freud questa ambivalenza. Adesso più che mai, questi due autori la insegnano. Marchianò, Grazia Sugli orienti del pensiero La natura illuminata e la sua estetica Rubbettino, ottobre 1994 pp. 160, L. 15.000 Saggio sull’estetica che si apre alle tradizioni filosofiche e religiose orientali, a partire dal mondo indù, comprendendo la Cina e il Giappone. NOVITÀ IN LIBRERIA Masullo, Aldo Struttura soggetto prassi Esi, ottobre 1994 pp. 330, L. 28.000 Mathisen, Steinar Transzendentalphilosophie und System. Zum Problem der Geltungsgliederung Bouvier, agosto-settembre 1994 pp. 211, DM 68 Il volume si occupa delle differenze tra principi scientifici, pratici ed estetici nella recente filosofia trascendentale. Meier, Heinrich Die Lehre Carl Schmitts. Vier Kapitel zur Unterscheidung Politischer Theologie und Politischer Philosophie J.B. Metzler, agosto-sett. 1994 pp. 263, DM 38 Minnigerode, Bernhard Reflexionen eines Zuschauers zum Thema ‘evolutionäre Erkenntnistheorie’ Kramer, agosto-settembre 1994 pp. 85, DM 20 Misrahi, Robert Le Bonheur: essai sur la joie Hatier, settembre 1994 pp. 79, F 27 I filosofi giudicarono spesso la felicità come qualcosa di impensabile. Questo significava dimenticare un filone che attraversa tutto il pensiero, da Aristotele a Ernst Bloch, passando per Spinoza, per il quale la felicità deve essere realizzata partendo dalla vita terrena. Sulla base del loro esempio, è agli atti concreti della gioia che bisogna pensare, al fine di eliminare molti sofismi. Monde, Le (Paris) (a cura di) Les Grands entretiens du Monde vol. 1: Penser la philosophie, les sciences, les religions pref. di Thomas Ferenczi Le Monde éditions, settembre 1994 pp. 208, F 85 In questa raccolta, diversi intellettuali, invitati ad esprimersi sul quotidiano Le Monde dall’autunno del 1991, filosofi, storici, studiosi, teologi si sforzano di ricostruire un discorso che si rivolga a tutti e che, nelle differenze delle discipline e degli argomenti, cerchi di ridare un senso all’esistenza individuale e collettiva. Morin, Edgar Il paradigma perduto Feltrinelli, ottobre 1994 pp. 224, L. 20.000 Ormai da molti anni introvabile in italiano, questo volume è una appassionata resa dei conti con il preteso valore conoscitivo delle scienze umane. Morin si propone di capire e di spiegare l’articolazione tra biologia e antropologia. Contro l’opposizione di Natura e Cultura, mostra che le chiavi della nostra cultura sono nella nostra natura e viceversa. Müller, Max Auseinandersetzung als Versöhnung. Gespräche über ein Leben mit der Philosophie a cura di Wilhelm Vossenkuhl Akademie, agosto-settembre 1994 pp. 400, DM 68 Max Müller racconta e descrive la sua storia nel corso delle conversazioni con il suo allievo Wilhelm Vossenkuhl, che attualmente è il suo successore alla cattedra di Filosofia dell’Università di Monaco. In queste conversazioni, Müller rende conto della continuità e delle interruzioni nella tradizione filosofica tedesca. Negri, Antonio Spinoza subversif: variations (in)actuelles Kimé, agosto 1994 pp. 160, F 130 In questo saggio, A. Negri approfondisce la sua interpretazione del concetto di potenza di Spinoza e la confronta con le letture di Spinoza da parte di Deleuze, Matheron, Macherey o Balibar, soffermandosi anche sul concetto di democrazia. Nicolescu, Basarab L’Homme, la science et la nature: regards transdisciplinaires a cura di Michel Cazenave Mail, settembre 1994 pp. 280, F 148 Non ci possono essere, per definizione, degli esperti transdisciplinari, ma solamente dei ricercatori animati da uno spirito di transdisciplinarietà. Le ricerche qui condotte non possono far altro che poggiare sulle diverse attività dell’arte, della poesia, della filosofia e possono dar luogo ad una rinnovata visione della natura. Müller-Tuckfeld, J. Chr. et al. (a cura di) Interventionen im Anschluß an Althusser Argument, agosto-settembre 1994 pp. 240, DM 29 Si tratta di una rivalutazione complessiva di Althusser. Senza la ricezione critica di questo teoreta, molti discorsi portati avanti nel segno del post-moderno restano incompresi. Nietzsche, Friedrich Le Monde te prend tel que tu te donnes: écrits de jeunesse trad. dal tedesco e a cura di Jean-Louis Backes Cherche-Midi, settembre 1994 pp. 216, F 110 Il volume contiene i principali scritti giovanili, in particolare degli importanti testi autobiografici scritti tra il 1854 ed il 1864, nel periodo che va quindi dal quattordicesimo al ventesimo anno di età di Nietzsche. Munster, Arno La Pensée de Franz Rosenzweig: actes/colloque parisien organisé à l’occasion du centenaire de la naissance du philosophe PUF, agosto 1994 pp. 240, F 148 Il volume contiene gli atti del convegno tenutosi in occasione del centenario della nascita di Franz Rosenzweig, nel corso del quale sono stati analizzati il legame tra il filosofo e Hegel ed i suoi rapporti con altre grandi figure del pensiero contemporaneo. Nel volume vengono mostrate le ripercussioni di questo pensieroguida sull’etica e la religione, la politica e l’estetica. Nietzsche, Friedrich L’Antéchrist trad. dal tedesco e a cura di Eric Blondel Flammarion, settembre 1994 pp. 232, F 31 Per Nietzsche, l’Anticristo designa l’anticristiano. In questo saggio polemico, egli denuncia il peso che nel cristianesimo viene attribuito al credere ciecamente, andando contro alla verità. Qualche mese dopo la redazione di quest’opera (1888), Nietzsche non esiterà a firmare i suoi testi con il proprio nome. Nagl-Docekal, H. (a cura di) Feministiche Philosophie Oldenburg, agosto-settembre 1994 pp. 284, DM 48 Il volume mette in evidenza i tratti patriarcali della storia della filosofia e rivela la necessità di una trasformazione delle singole discipline, dalla teoria della scienza fino all’etica. Nancy, Jean-Luc La partizione delle voci verso una comunità senza fondamenti a cura di Alberto Folin Il poligrafo, ottobre 1994 pp. 118, L. 20.000 Questo breve saggio risale al 1982: quattro anni prima che uscisse La comunità inoperosa, opera tradotta in moltissime lingue, e alla quale rispose Maurice Blanchot con la La communauté inavouable. La tesi che vi veniva sostenuta, destinata a rivelare Nancy come uno dei più originali pensatori della generazione succesiva a Derrida, Faucault, Lacan, Deleuze, trova le sue radici nel testo che qui si presenta, nato per circostanze fortuite. Nietzsche, Friedrich Introductions aux leçons sur l’Oedipe-roi de Sophocle: été 1870, trois heures par semaine Introduction aux études de philologie classique: été 1871, trois heures par semaine pres. Michel Haar trad. dal tedesco di Françoise Dastur e Michel Haar Encre marine, settembre 1994 pp. 133, F 100 All’interno dei corsi che Nietzsche tenne a Bâle tra il 1869 ed il 1875, quello sull’Edipo re di Sofocle preannuncia in modo addirittura folgorante, e con quasi due anni di anticipo, la maggior parte dei temi che verranno sviluppati nella Nascita della tragedia greca. Nel secondo testo, Nietzsche traccia una sua lettura critica della modernità. 85 Oelmüller, Willi Philosophische Aufklärung. Ein Orientierungsversuch Fink, agosto-settembre 1994 pp. 172, DM 38 Owen, David Maturity and Modernity. Nietzsche, Weber, Foucault and the Ambivalence of Reason Routledge, agosto-settembre 1994 pp. 272, DM 40 Si tratta del primo libro che analizza Nietzsche, Weber e Foucault rintracciando in essi tradizione di teorizzazione. Inoltre il volume evidenzia lo sviluppo della genealogia come parametro critico. Paul, Jean-Marie Dieu est mort en Allemagne: des Lumières a Nietzsche Payot, settembre 1994 pp. 190, F 190 Il pensiero tedesco mette in campo, nella battaglia contro Dio, le armi della filosofia e della teologia. La sua violenza è distruttrice e non superficialmente polemica o anticlericale. I grandi sistemi idealisti, le correnti pessimiste e i loro sviluppi nella teoria nietzschiana sono i tre momenti in cui si delinea la morte di Dio. Penco, Carlo Le vie della scrittura FrancoAngeli, ottobre 1994 pp. 340, L. 40.000 Il volume si propone di dare una ricostruzione della filosofia del linguaggio di Frege letta in relazione alla tradizione filosofica e agli sviluppi contemporanei. Si hanno così gli elementi essenziali per capire dove e come i nostri strumenti concettuali sono effettivamente cambiati. Perec, Georges L’infra-ordinario Bollati Boringh., ottobre 1994 pp. 112, L. 15.000 L’arte di sorprendere parlando delle cose comuni e del quotidiano. Pfohl, Gerhard Medicina perennis. Philosophie der Medizin und Medizin der Philosophie. Mit der Abschiedtsvorlesung Charles Lichtenthaelers Ecomed, agosto-settembre 1994 pp. 180, DM 48 Philonenko, Alexis Relire Descartes: le génie de la pensée française Grancher, settembre 1994 pp. 472, F 119 In questo saggio, l’autore si prefigge di ricostruire la figura di Cartesio, filosofo ed erudito, ma anche uomo che spera ardentemente di poter prolungare la vita. Gradualmente Cartesio vide questa speranza crollare, fino al punto di scrivere a Chanut che invece di vincere la morte egli aveva trovato, nella sua morale, il modo di non temerla. NOVITÀ IN LIBRERIA Platone Phédon tr. dal greco antico e a cura di Mario Meunier pref. Agnès Nordman Pocket, agosto 1994 F 33 L’opera appartiene al gruppo di dialoghi in cui Platone sviluppa la sua dottrina per bocca di Socrate. Qui, Socrate, condannato a morte, si interroga sull’immortalità dell’anima e sulla sua destinazione dopo la morte del corpo. Popper, Karl Poscritto alla logica della scoperta scientifica Il Saggiatore, settembre 1994 pp. 448, L. 16.000 Con il saggio Logica della scoperta scientifica Popper muove contro le tesi principali del Circolo di Vienna, del quale egli stesso era membro: al principio di “verificabilità” oppone quello di “falsificabilità” contestando così ogni possibilità di verifica di una proposizione scientifica che sussiste perciò soltanto come ipotesi sempre confutabile da altri controlli. Popper, Karl R. Alles Leben ist Problemlösen. Über Erkenntnis, Geschichte und Politik Piper, agosto-settembre 1994 pp. 256, DM 38,90 In questo volume, Popper raccoglie avvenimenti e saggi che coprono un arco di più di quarant’anni, molti di questi scritti sono disponibili per la prima volta in una raccolta. Popper, Karl R. Ausgangspunkte. Meine intellektuelle Entwicklung Campe, agosto-settembre 1994 pp. 384, DM 28 Il “padre del razionalismo critico” ha compiuto novantadue anni nel luglio scorso. Nella sua “autobiografia intellettuale”, Popper ha illustrato il lungo percorso da apprendista falegname a Vienna, a maestro di scuola elementare a marxista nobile, fino a diventare il più grande pensatore del nostro secolo. Portales, Gonzalo Hegels frühe Idee der Philosophie Fromann-Holzboog agosto-settembre 1994 pp. 220, DM 88 Questo lavoro apre delle nuove prospettive per l’interpretazione filosofica, dal punto di vista storico e del suo sviluppo. Nel volume si indaga sul particolare interesse filosofico che guidò Hegel, fin dall’inizio, ad unificare religione e politica. Probst, Peter Kant - bestirnter Himmel und moralisches Gestz. Zum geschichtlichen Horizont einer These Immanuel Kants Königshause & Neumann agosto-settembre 1994 pp. 160, DM 38 Si tratta della tesi di abilitazione alla docenza, tenuta da Peter Probst presso l’Università di Gießen nel ’93. Puig, Jaume de Les sources de la pensée philosophique de Raimond Sebond (Ramon Sibiuda) Champon, settembre 1994 pp. 324, F 270 L’autore, partendo da numerosi documenti d’archivio, presenta qui uno studio che esamina l’opera di questo teologo e filosofo umanista, le sue origini, i suoi fondamenti e la sua specificità. Rousseau, Jean-Jacques Sull’origine dell’ineguaglianza a cura di Gerratana Valentino Ed. Riuniti, ottobre 1994 pp. 232, L. 22.000 Un’appassionata condanna della proprietà privata all’origine di tutte le successive teorie socialiste e comuniste, ma anche una delle fonti maggiori della riflessione antropologica. Un’anticipazione delle più recenti suggestioni dell’ecologia. Quillen, Jean (a cura di) La Réception de la philosophie allemande en France aux XIXe et XXe siècles Presses universitaires de Lille agosto 1994 pp. 302, F 105 Gli scambi, dal punto di vista culturale, tra la Germania e la Francia sono stati costanti. In ogni caso, l’influenza della filosofia tedesca sul pensiero francese è stata diversa a seconda delle epoche ed è stata esercitata con differenze e salti più o meno grandi. Questi studi, che sono i risultati di un convegno tenutosi a Lille nel ’91, hanno lo scopo di approfondire le diverse sfaccettature di questa ricezione. Rovatti, Pier Aldo Trasformazioni del soggetto Un itinerario filosofico Il poligrafo, ottobre 1994 pp. 144, L. 26.000 Il testo consente l’approfondimento di alcune delle tematiche più preganti della filosofia contemporanea. I saggi che compongono il volume hanno al loro centro la discussa proposta di un “pensiero debole”. Questa proposta, formulata nel 1983, si articolava intorno al nome di Nietzsche; ma accanto a questo nome era sottinteso quello di Husserl: si trattava del problema di un luogo diverso da dare alla soggettività, dinanzi a una modificata descrizione del potere. Rancière, Jacques Le parole della storia Il Saggiatore, settembre 1994 pp. 160, L. 18.000 Il rapporto tra scienza storica e narrazione e ciascuno di questi due aspetti del sapere storico e le forme della politica, sono al centro del libro di Rancière. Schart, Franz-Friedrich Friedrich Nietzsche Das Subversive als Denkansatz in seiner Philosophie. Ein Beitrag zur Interpretation Gardez, agosto-settembre 1994 pp. 240, DM 49,80 Si tratta della tesi di laurea, tenuta da Schart presso l’Università di Bochum nel ’93. Robinet, André G.W. Leibniz: le meilleur des mondes par la balance de l’Europe PUF, settembre 1994 pp. 352, F 198 Nel volume l’autore analizza le implicazioni giuridico-politiche delle posizioni metafisiche di Leibniz, mostrando come egli inaugurò un cammino teorico che portò poi al dispotismo illuminato del XVIII secolo. Schmidinger, Heinrich Der Mensch ist Person. Ein christliches Prinzip in theologischer und philosophischer Sicht Tyrolia, agosto-settembre 1994 pp. 152, ÖS 248 Schmidt, Hermann Joseph Nietzsches absonditus oder Spurensuche bei Nietzsche IBDK, agosto-settembre 1994 pp. 2515, DM 275 Quest’opera, che viene ora pubblicata interamente in quattro volumi, è la prima monografia sul giovane Nietzsche e sulle sue prime opere, la cui conoscenza è imprescindibile se si desidera comprendere adeguatamente anche le opere successive. Rohnheimer, Martin Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. Handlungstheorien bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik Akademie, agosto-settembre 1994 pp. 611, DM 120 L’autore argomenta come segue: l’etica aristotelica si limita alla condizione affettiva dell’agire ragionevole. Tommaso d’Aquino fornisce una risposta ai problemi rimasti insoluti nella teoria delle azioni di Aristotele. Searle R., John La riscoperta della mente Bollati Boring., settembre 1994 pp. 272, L. 40.000 Contro gli eccessi del materialismo, dell’odierna “filosofia della mente” e del cognitivismo, l’autore invita a riscoprire l’esperienza irriducibile della coscienza. Rossi, Pietro Lo storicismo tedesco contemporaneo Comunità, ottobre 1994 pp. 500, L. 58.000 Mappa delle idee centrali dello storicismo tedesco, dei problemi che hanno portato alla nascita delle scienze sociali. Severino, Emanuele Sortite. Contributi e interventi sul pensiero e la letteratura Rizzoli, ottobre 1994 pp. 350, L. 38.000 86 Raccolta di brevi saggi e articoli sulle forme del pensiero e sulle sue espressioni. Shea, William R. La magia dei numeri e del moto René Descartes e la scienza del Seicento Bollati Boringhieri, ottobre 1994 pp. 432, L. 75.000 Nel libro di Shea seguiamo Descartes dalla prima formazione, presso i gesuiti, fino al viaggio in Olanda, dove conobbe quell’Isaac Beechman che suscitò il suo interesse per la matematica, la musica, la caduta dei gravi e i problemi dell’idrostatica. Sladek, M. (a cura di) Östliches - Westliches. Studien zur vergleichenden Religions und Geistesgeschichte Manutius, agosto-settembre 1994 pp. 320, DM 68 Steinvorth, Ulrich Warum überhaupt etwas ist. Kleine demiurgische Metaphysik Rowohlt, agosto-settembre 1994 DM 18,90 Hanno un senso le domande sul significato della vita e del mondo? E’ possibile rispondere a queste domande? Anche la filosofia contemporanea spera di poter contribuire a far luce su queste questioni. Thurnherr, Urs Die Ästhetik der Existenz. Über den Begriff der Maxime und die Bildung von Maximen bei Kant Francke, agosto-settembre 1994 pp. 182, DM 58 Si tratta della tesi di laurea tenuta da Thurnherr presso l’Università di Basilea nel ’93. Titze, Hans Das philosophische Gesamtwerk vol. 7: Zur Grundlegung der Ethik Schäuble, agosto-settembre 1994 pp. 160, DM 64 Tommaso d’Aquino Contre Averroès trad. dal latino e a cura di Alain de Libera Flammarion, settembre 1994 pp. 384, F 48 Si tratta di un’opera che scatenerà una battaglia di cui il Medioevo non vedrà la fine: la lotta contro l’averroismo che invase l’università parigina e che minacciò l’egemonia del cristianesimo. Dal punto di vista filosofico, l’averroismo rimanda alla tesi della “unità dell’intelletto”. Vattuone, Giuseppe Libero pensiero e servo arbitrio Esi, ottobre 1994 pp. 132, L. 18.000 Il tentativo di spiegare il perché della propria esistenza e delle proprie azioni nei secoli. NOVITÀ IN LIBRERIA Vieillard-Baron, Jean-Louis (a cura di) De saint Thomas à Hegel/journée organisée par le Centre de recherche de documentation sur Hegel et Marx PUF, agosto 1994 pp. 160, F 58 E’ Dio il filo conduttore delle analisi contenute in questo libro: l’essere, la fede in San Tommaso, il confronto di Hegel con Kant e Fichte su Dio, l’anima e la volontà libera, le prove dell’esistenza di Dio in Hegel, sono alcuni degli argomenti trattati nella giornata organizzata dal Centre de recherche de documentation sur Hegel et Marx. Vigna, Carmelo (a cura di) L’etica e il suo altro FrancoAngeli, ottobre 1994 pp. 272, L. 38.000 L’etica sembra un’esigenza assoluta del nostro tempo. Ad essa si affida un compito che gli uomini ormai dubita- no di poter eseguire: il compito di convivere intorno ad alcunché di comune. In ogni caso, la condizione generale da rispettare prima di ogni altra è che l’etica resti fermamente rapportata al proprio “altro”, ossia che non sia isolata astrattamente dalla contestualità che le compete. Voltaire Zadig e altri racconti a cura di Lorenzo Bianchi Feltrinelli, settembre 1994 pp. 176, L. 10.000 Particolare attenzione viene data alla particolarità del linguaggio filosofico di Voltaire, ammantato da uno stile letterario degno di un grandissimo scrittore. Vollmer, Gerhard Evolutionäre Erkenntnistheorie. Angeborene Erkenntnisstrukture im Kontext von Biologie, Psychologie, Linguistik, Philosophie und Wissenschaftstheorie S. Hirzel, agosto-settembre 1994 pp. 226, DM 29 Vollmer ha contribuito notevolmente allo sviluppo della teoria della conoscenza evoluzionistica. In questa sua opera classica, Vollmer spiega le prestazioni e le mancanze del nostro apparato conoscitivo. Wilhelm, Karl Werner Zwischen Allwissenheitslehre und Verzweiflung. Der Ort der Religion in der Philosophie Schopenhauers Olms, agosto-settembre 1994 pp. 184, DM 39,80 Wils, Jean-Pierre Die große Erschöpfung. Kulturethische Probleme vor der Jahrhundertwende Schönigh, agosto-settembre 1994 pp. 180, DM 38 87 Wilson, Colin Rudolf Steiner Tea, ottobre 1994 pp. 182, L. 13.000 Saggio divulgativo sull’opera di Steiner, uno dei fondatori dell’antroposofia. Wittgenstein, Ludwig Remarques sur la philosophie de la psychologie a cura di G.E.M. Anscombe tr. dal tedesco Gérard Granel TER, agosto 1994 pp. 142, F 129 Questo testo del ’48 (presentato qui in edizione bilingue francese-tedesca) permette di capire l’asserzione dell’ultimo capitolo delle Investigazioni, secondo cui le ricerche di Wittgenstein sulla psicologia non sono più psicologiche di quanto le sue ricerche sulla matematica non siano matematiche. NOVITÀ IN LIBRERIA Yakira, Ethanam La Causalité de Galilée à Kant PUF, settembre 1994 pp. 128, F 45 Il volume traccia la storia della nozione di causalità, come essa venne problematizzata nel momento in cui scienza e filosofia erano unite, nel XVII e nel XVIII secolo. Young-Bruehl, Elisabeth Hanna Arendt Bollati Boringhieri, ottobre 1994 pp. 639, L. 40.000 La vita di Hanna Arendt, che si intreccia con quelle di Heidegger, Jaspers, Anders, Benjamin e altri ancora, esigeva una “biografia filosofica” come questa, documentata e sensibile, attenta a situare il pensiero della protagonista sullo sfondo delle vicende storiche, ma anche dei rapporti personali. Zahrnt, Heinz Mutmaßungen über Gott. Die theologische Summe meines Lebens Piper, agosto-settembre 1994 pp. 288, DM 39,80 L’autore dichiara: “in questo libro cerco di riprodurre il mio percorso di pensiero teologico, come fede e comprensione, esperienza religiosa e riflessione teologica abbiano fatto riferimento una all’altra e si siano corrette reciprocamente per me, con molte tensioni e spesso in maniera recalcitrante.” Zarone, Giuseppe (a cura di) La città come destino dell’uomo Ed. Scientifiche, ottobre 1994 pp. 166, L. 22.000 Nel volume si affronta la questione dal compimento nihilistico della modernità. Attraverso un’analisi del fenomeno più vistoso del mondo storico del nostro tempo, la “grande città” 88 appunto, si cerca di interpretare il destino esistenziale dell’uomo contemporaneo. Duncker und Humblot agosto-settembre 1994 pp. 287, DM 118 Zeidler, Kurt W. Kritische Dialektik und Tanszendentalontologie. Das Ende des Neukantismus und die post-neukantianische Systematik Bouvier, agosto-settembre 1994 pp. 380, DM 98 Il volume presenta una discussione critica delle forme di sistema postneokantiane, all’interno degli studi di R. Hönigswald, W. Cramer, B. Bauch, H. Wagner, R. Reininger, E. Heintel. Zinov’ev, Aleksandr L’impero del male Bollati Boringhieri, ottobre 1994 pp. 160, L. 20.000 E’ un phamphlet sulla fine dell’Unione Sovietica, dell’ “impero del male”; ma è anche un’occasione per lo spietato e sarcastico autore di Cime abissali di ripensare in modo originale il tema perenne del rapporto tra Occidente e Russia, tra efficenza mercantile e tecnologia e “anima” millenaria di un popolo. Ziemke, Alex Was ist Wahrnehmung? Versuch einer Operationalisierung von Denkformen der Hegelschen ’Phänomenologie’ für kognitionswissenschaftliche Forschung (a cura di A.M.; trad. it. di L.T.)