La storia dell’evoluzione dell’uomo Capitolo 2 Appunti a cura di Sandro Caranzano , riservati ai fruitori del corso di archeologia presso l'Università Popolare di Torino 2009-2010 (Lezioni tenute il 17 e 24 novembre / 1 dicembre 2009) 2.1 – La selezione naturale I principali artefici dell'evoluzione sono due: le mutazioni casuali e la selezione naturale. I geni contenuti nei cromosomi sono i responsabili della trasmissione delle caratteristiche particolari di ogni specie dai progenitori ai propri figli. In questo modo si salvaguardano le distinzioni tra le specie. Questo meccanismo rende la realtà statica, "conservatrice", avversa ad ogni cambiamento. Ma questo meccanismo non è perfetto. Ogni tanto si inceppa. Nella trascrizione delle informazioni genetiche si verifica qualche errore di copiatura, questo può portare a variazioni insignificanti oppure costituire la base per dare inizio ad un'altra varietà della specie. Questi errori sono chiamati “mutazioni” e sono assolutamente casuali. Su tutte le specie interviene l'azione della natura che elimina quelle meno adatte all'ambiente costituito. Le possibilità di sopravvivere dipendono dall’avere i geni giusti al momento giusto. Una combinazione puramente casuale di fattori può determinare la sopravvivenza di un individuo o della sua specie. Per gli uomini, il discorso è diverso, non dipende soltanto dai suoi geni come negli altri animali. Alla trasmissione dei geni, nel tempo si è aggiunta anche la trasmissione della conoscenza accumulata da una generazione all'altra. La storia dell'evoluzione dell'uomo così come quella degli altri mammiferi, incomincia con il declino dei grandi rettili che avevano dominato ogni angolo della terra. L'arma segreta di questi animali si dimostrò essere il sistema circolatorio sanguigno che riusciva a tenere la temperatura del corpo più stabile, in modo da farli sopravvivere e farli muovere liberamente entro una gamma di temperature molto più ampia di quella dei rettili, sia di giorno che di notte. I cambiamenti climatici, il clima più freddo e arido, si combinarono con l'aumento delle specie vegetali, degli insetti e di funghi patogeni diffusori di malattie. Molto probabilmente queste furono le cause della denatalità nei grandi rettili. Con la scomparsa dei dinosauri, i mammiferi ebbero la possibilità di diffondersi ovunque e soprattutto aumentò la loro varietà. Gli antenati delle proscimmie ebbero come competitori i piccoli roditori. Questi si fecero un'accanita concorrenza sia sugli alberi che sul terreno. Alcune specie di proscimmie si adattarono a vivere al suolo dove in un primo momento proliferarono ma alla fine si estinsero. Quelle che scelsero la vita sugli alberi ebbero maggiore fortuna ma non riuscendo ad eliminare i loro diretti concorrenti, furono costretti a dividerne lo spazio. Con il diffondersi delle foreste anche le piccole proscimmie si diffusero ovunque. L'uomo è nato nelle foreste e quindi ogni componente del suo organismo si è formato per rispondere alle esigenze della vita in questi luoghi. Più precisamente le loro strutture di base, il cervello, gli organi di senso, gli arti e gli organi riproduttivi si svilupparono nelle foreste. Il corso degli eventi successivi rese necessarie in genere modifiche e rielaborazioni di quelle Rispetto ai volatili, i mammiferi che scelsero la vita tra gli alberi o sulla terra svilupparono corpi più grandi e cervelli più complessi. Questo perché a differenza degli uccelli che insieme ad una corporatura piccola e molto leggera associarono un comportamento routinario, le specie arboricole potevano evolversi con cervelli abbastanza grandi da permettere loro una notevole attività di apprendimento ed inoltre le dimensioni erano tali da contenere i tessuti celebrali in grado di generare uno sviluppato potere visivo e una buona coordinazione sensoriale e muscolare. La vita sugli alberi, con i suoi cambiamenti di condizione, bruschi ed imprevedibili, generò una nuova e permanente insicurezza o incertezza. In questo modo si sviluppò una notevole capacità di decisione e di apprendimento. I secondi necessari per intraprendere una scelta, favorirono gli individui in grado di prendere decisioni rapide. La conseguenza era che, quelli che avevano meno incidenti, vivevano più a lungo. 2.2 – La “scimmia vestita”: Non esiste problema più complesso di quello di definire se stessi, di stabilire chi siamo e da dove veniamo; ma, nel medesimo tempo, è difficile pensare ad una questione più affascinante e ineludibile la cui soluzione stimoli maggiormente la curiosità e muova l'intelligenza a cercare risposte sempre più esaurienti. La ricerca scientifica ci offre oggi i mezzi per riconoscere che l'uomo è un essere inserito nel grande meccanismo della natura. Peraltro, attraverso l'uso costante di manufatti l'uomo, unico tra gli animali, si è posto nella condizione non solo di adattarsi all'ambiente, ma anche di modificarlo. Si deve a Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) il merito di aver intuito il concetto di evoluzione, a cui fa riferimento anche Charles Darwin (1809-1882). Il primo ritiene che gli esseri viventi siano in grado di sviluppare gradatamente, generazione dopo generazione, alcuni caratteri, in risposta al loro bisogno di migliorarsi rispetto all'ambiente (la giraffa avrebbe allungato gradatamente il collo per cibarsi delle foglie degli alberi più alti). Per Darwin invece all'interno di ogni specie esistono differenze tra i singoli individui che la compongono; pertanto, coloro che presenteranno caratteri più idonei all'ambiente in cui vivono saranno facilitati nella sopravvivenza e nella riproduzione (le giraffe che avevano il collo più lungo, potendo mangiare le foglie degli alberi più alti, si sarebbero affermate). Darwin è inoltre il primo ricercatore a strappare il velo di imbarazzo che copriva l'origine dell'uomo: egli afferma che noi non facciamo eccezione rispetto agli altri esseri, che anche noi siamo inseriti nella grande catena dell'evoluzione della vita sulla Terra e che anche l'uomo ha i suoi antenati fossili (antenati condivisi con alcune scimmie contemporanee come i gorilla e gli scimpanzé). Oltre cento anni di scoperte hanno permesso di riconoscere la sostanziale validità di questa posizione. Sia le ipotesi di Lamarck che, soprattutto, quelle di Darwin pongono l'accento sulla gradualità con cui si verificherebbe l'evoluzione, attraverso lente modificazioni in generazioni successive di individui. Il «puntualismo», elaborato a livello teorico proprio in questi ultimi anni, rappresenta una correzione a questa linea: in alcune situazioni si verificherebbero delle trasformazioni rapide che porterebbero alla nascita di nuove specie (ad esempio la capacità cranica dell'Homo habilis). 4 In effetti è probabile che i meccanismi evolutivi siano piuttosto il frutto di situazioni puntuali, intervallate da fasi di sviluppo più o meno graduali. 2.3 - Le origini del genere Homo: Le origini del genere Homo possono essere cercate attorno a circa milioni di anni fa. E’ necessario innanzitutto avere un’idea di quello che poteva essere il clima e la morfologia di Africa ed Europa in questo remoto periodo della preistoria. L’orogenesi delle Alpi e della catena dell’Hymalaia erano giù in uno stadio avanzato (quella delle Alpi è iniziata circa 25 milioni di anni fa per effetto dello scontro delle “placche” della Paleoafrica con la Paleoeuropa) ed il clima era di tipo continentale, ovvero caratterizzato dall’alternarsi di estate calde ed inverni freddi. Circa 1 milione mezzo di anni dopo, si assistette ad un irrigidimento del clima; come spesso accade in occasione dei fenomeni glaciali, grandi masse di acqua oceanica rimasero come imprigionate ai poli portando ad un abbassamento di qualche metro del mare sul livello delle coste. E’ quella che si chiama “regressione marina”. I geologi l’hanno verificata con chiarezza sulle coste dell’attuale Liguria proprio in questo periodo geologico. A causa di questo abbassamento del livello delle acque l’istmo di Suez si prosciugò per ampi tratti permettendo, tra l’altro, la migrazione di molte importanti specie animali dall’Africa in direzione dell’Asia. L’Africa, a causa della sua latitudine, era caratterizzata dalla presenza di foreste equatoriali attorno alle quali si erano sviluppate aree di savana. Proprio la savana venne a costituire un’importante fondale su cui si svolsero importanti eventi legati all’evoluzione umana. Come noto, la savana è un bioma tipicamente tropicale e subtropicale, caratterizzato da una vegetazione a prevalenza erbosa, con arbusti e alberi abbastanza distanziati da non dar luogo a una volta chiusa. Le savane tropicali e subtropicali sono determinate principalmente dalla scarsità e marcata stagionalità delle precipitazioni. Precipitazioni inferiori ai 100-200 mm all'anno sono infatti insufficienti allo sviluppo di alberi e arbusti, e determinano regioni di sola prateria erbosa, quali si trovano tipicamente ai margini dei deserti subtropicali. Spostandosi gradualmente verso latitudini più piovose (ovvero verso l'equatore) si osserva prima la comparsa di vegetazione arbustiva (fino a 300 mm) e poi di alberi isolati (fra i 300 mm e i 400 mm). Oltre i 400 mm annui, a meno che non intervengano altri fattori ambientali, gli alberi sono sufficientemente vicini e ricchi da formare una volta, che blocca la luce del sole e riduce la presenza erbosa: la savana cede quindi gradualmente il posto alla foresta. I mammiferi che vivendo in questo particolare ambiente erano obbligati a cibarsi di frutti coriacei dotati di guscio (come le noci), capaci di resistere all’ambiente particolarmente caldo; un’altra fonte di alimentazione poteva essere costituita da rizomi, radici succulente con un buon valore nutritivo. Probabilmente, fu proprio questo ambiente limite a mettere in moto un attività di selezione naturale che avrebbe presto condotto all’enuclearsi dei cosiddetti ominidi. I precursori degli ominidi (scimmie) vengono invece più correttamente chiamati ominoidi. Facendo un piccolo passo indietro, nel Miocene recente (tra i 16 e i 10 milioni di anni fa) gli ominoidi erano presenti in Africa divisi in circa 15 specie. Tra queste, particolare importanza vennero ad avere i Cercopitechi (kèrkos=coda / pithekos = scimmia). Si trattava di scimmie erbivore che furono in grado di scendere sempre più frequentemente dagli alberi procurandosi una più ampia varietà di cibo. All’opposto i babbuini mantennero più a lungo il vecchio stile di vita, passando molto più tempo sugli alberi. I cercopitechi erano quadrumani, ovvero avevano i piedi sviluppati in modo tale da poter svolgere diverse funzioni simili a quelle esercitati dalle mani; un indubbio vantaggio. Il gomito era sviluppato in senso più moderno in modo da agevolare lo scavo di buche nel terreno per procurarsi del cibo 5 e polso e caviglie erano più sviluppati. Una delle scimmie che per lungo tempo è stata considerata un progenitore dell’uomo è il Ramapiteco. Al suo interno si possono distinguere il Silvapitheco, il Gigantopitheco e il Kenyapitheco. Versatili, questi ominoidi si muovevano sia sugli alberi che a terra. La loro non era una semplice quadrumania ma una quadrumania di tipo acrobatico. La brachiazione è infatti la capacità di muoversi di ramo in ramo sospendendosi a “penzoloni”. Si tratta di un passo in avanti rispetto alle abilità già sviluppate dal Cercopiteco. I Ramapitechi sono le uniche scimmie arboricole del Miocene capaci, anche se per breve tempo, di reggersi in piedi sulle gambe. Recenti studi sembrano dimostrare che questa specie era, tuttavia, poco più di un progenitore dell’Orang-Utan; visse in India e in Pakistan e non sembra essere collegato con la linea evolutiva umana. Il tipo di alimentazione, basata sulla raccolta di tuberi e frutti secchi, aveva indotto in loro lo sviluppo di denti con spessi strato di smalto e, sicuramente, erano degli ipermasticatori. La caratteristica di tutti questi ominoidi è comunque quella di potersi reggere in piedi solo per breve tempo e, dunque, di non potere permettersi lunghe deambulazioni come farà in seguito il genere Homo. In effetti, anche se può sembrare curioso, è stato dimostrato che la discriminante tra il genere Homo e le scimmie è proprio basato sulla postura eretta. Procedendo nel discorso sarà più chiara la ragione di questo punto di vista della moderna ricerca scientifica. Dai Ramapitechi, brachiatori, quadrumani, capaci di camminare brevemente anche a terra e – finalmente – con una lunghezza delle braccia paragonabile a quella delle gambe – si staccarono abbastanza presto il proto-gorilla e il proto-scimpanzè. Il genere Homo è però qualcosa di diverso dunque il famoso “anello mancante” va cercato in qualche altra direzione. La cosiddetta nascita dell’uomo: Le prime tracce archeologiche di una sicura posizione eretta vengono dalle famose orme di Laetoli, una località della Tanzania posta lungo la Rift Valley. La Rift Valley è una spaccatura naturale della crosta terrestre che si genera in prossimità del lago di Tiberiade, segue la valle del Giordano, passa sotto un tratto del Mar Rosso e quindi segna fisicamente un ampio tratto nord-sud di Etiopia, Tanzania e Kenya. La sua genesi è probabilmente legata al movimento delle placche continentali e, anche se il processo geologico è molto lento, è molto probabile che nei prossimi millenni si amplierà ulteriormente. La Rift Valley è un luogo privilegiato per la ricerca antropologica perché si presenta come un profondissimo canyon dove gli strati geologici scendono a ritroso per milioni di anni e si presentano alla vista lungo le falesie naturali. Assieme ai reperti geologici, le missioni scientifiche hanno qui avuto l’occasione di trovare anche le più antiche tracce di ominidi. Nel caso di Laetoli, 3,7 milioni di anni fa l’area era occupata da savana e vi si trovava un vulcano. A seguito di un’eruzione un’ingente massa di cenere a lapilli venne a depositarsi sul terreno basale. Su questo strato di ceneri ormai raffreddate passeggiarono due individui le cui orme dimostrano che disponevano di una piena postura eretta. Caso volle che poco dopo il loro passaggio si scatenasse un temporale che trasformò le ceneri vulcaniche in fanghiglia. Infine una nuova eruzione vulcanica sigillò le impronte fossili, restituendole allo sguardo allibito dei ricercatori negli anni ’70. Ma a chi appartenevano queste orme? Nel 1974, nella regione dell’Hadar, in Etiopia, venne scoperto lo scheletro completo di un vero e proprio ominide, una femmina di 20 anni. Lo scheletro venne 6 soprannominato Lucy in onore della famosa canzone dei Beatles intitolata “Lucy in the sky” che veniva frequentemente suonata dalla radiolina disposizione dei paleontologi sul campo di scavo. Si trattava di uno individuo caratterizzato da matura bipedìa, con mandibola pronunciata e dentatura molto sviluppata, soprattutto al livello dei molari che erano necessari per masticare cibo molto coriaceo. Lo scheletro era naturalmente ancora piuttosto gracile, le braccia più corte di quelle dei Cercopitechi, le ali iliache abbastanza sviluppate per permettere l’inserzione dei tendini e dei muscoli che permettevano loro di procedere con la postura eretta. L’altezza era piuttosto modesta rispetto alla nostra e si aggirava su 1,30 m. con un peso corporeo di 35/40 kg. Il cervello aveva un volume stimabile in 350 cm3, molto meno del nostro che si aggira sui 1200 cm3. E ‘probabile che gli autralopitechi disponessero di una pelle moderatamente nuda con parti glabre di colorito scuro. Dal punto di vista dell’alimentazione dovevano essere per lo più vegetariani ed erano essi stessi preda di animali carnivori. Non erano in grado, almeno nelle prime fasi, di costruire strumenti e così sfruttavano rami e sassi che raccoglievano nella savana. La masticazione prolungata era tanto più necessaria dal momento che l’Australopiteco non conosceva il fuoco. Riesaminando il complesso di resti ossei conservati nei diversi musei del mondo e confrontando le diverse ricerche scientifiche è possibile risalire a ritroso fino al primo esemplare mai scoperto che risale a oltre cinquant’anni prima. E’ noto infatti che nel 1925, in una cava a Taung in Botswana, un anatomista di nome Raymond Dart scoprì un cranietto infantile molto arcaico che fu presentato alla comunità scientifica. Fu proprio Raymond Dart ad attribuirgli il nome convenzionale di “australopiteco” (ovvero “scimmia del sud”) un nome che è rimasto in uso nella comunità scientifica sino ad oggi. Gli Australopiteci sopravvissero sino ad 1 milione di anni fa, dopo di che si estinsero definitivamente lasciando spazio a diverse famiglie evolutive sparse su un ampio territorio. All’interno della specie austrolopitecina si possono distinguere alcune varianti di cui diamo qui breve cenno. L’Australopiteco afarensis prende il nome dalla depressione dell’Afar. Fa parte di questa variante la stessa Lucy. L’Australopitecus africanus visse nello stesso periodo e si caratterizzava per un cervello più sviluppato, di circa 500 cm3. L’Australopiteco robustus aveva un volume celebrale leggermente maggiore, una cresta sagittale sul capo e potenti muscoli masticatori. Secondo alcuni studiosi africanus e robustus rappresentano non due diversi rami evolutivi ma, semplicemente, la manifestazione di un diformismo sessuale. Il robustus corrisponderebbe dunque al maschio e l’africanus alla femmina. Una breve parentesi va anche riservata al cosiddetto Pitecantropo scoperto nell’isola di Giava. Per lungo tempo fu considerato l’anello mancante ma si trattava di un errore; il suo scheletro ha caratteri molto più moderni ed appartiene ad un ominide del genere erectus, vissuto molto tempo più tardi. 7 Naturalmente negli ultimi decenni sono fatte diverse piccole scoperte che sembrano aiutarci a colmare quello che comunemente viene detto “anello mancante” ovvero fossili compresi tra i 6 e gli 8 milioni di anni fa. In questo senso possiamo ricordare la scoperta dell’Ardapithecus ramidus, i cui resti sono datati a 4,4 milioni di anni fa o quella dell’Australopthecus anamensis. A questi potremmo aggiungere molti altri tipi di Homo ma la brevità di questa trattazione non permette un eccessivo livello di approfondimento. 2.4 - L’Homo Habilis e la capacità progettuale: L’Homo habilis è stato identificato sempre nell’area africana nel corso degli anni ’70. Si tratta di una tipologia di ominide molto interessante, caratterizzata da un corpo più gracile degli ominoidi, braccia e gambe di lunghezza sempre più simile, maggiore sviluppo degli incisivi rispetto ai molari che implicano una diete più diversificata, presenza del pollice opponibile e di una buona capacità mentale (circa 700 cm3). Il nome di habilis gli è stato dato per il fatto che a questo tipo di Homo si associa per la prima volta la capacità di produrre strumenti scheggiati. Questo passo in avanti è molto importante perché sottintende la capacità progettuale ovvero quella di immaginare astrattamente un prodotto finito che verrà poi realizzato con una serie di operazioni meccaniche sequenziali. Gli strumenti tipicamente associati all’Homo Habilis sono i cosiddetti chopper, ciottoli fluviali che sono stati spaccati in alcuni punti ben definiti con l’azione di percussione diretta per mezzo di un altro ciottolo. La percussione, in effetti, può avvenire in due modi: in modo diretto (battendo un ciottolo – chiamato “percussore” - su un altro – chiamato “nucleo”) o utilizzando una sorta di scalpello (percussione indiretta). L’uso di uno scalpello poi colpito con un percussore per staccare schegge da un nucleo sarà una conquista fatta dall’uomo molto più tardi e permetterà di realizzare lame molto più ricercate, di forma e lunghezza voluta. In realtà l’Homo Habilis non era ancora un cacciatore: capace di procurarsi tuberi e radici approfittava delle carcasse di animali abbandonati per lo più da predatori (ad es. felini) continuando a praticare lo scavening. Potremmo insomma dire che più che predatore era egli stesso predato. I più antichi oggetti scheggiati dall’umanità sembrerebbero in verità risalire a 2 milioni e mezzo di anni fa. Questo dovrebbe quindi implicare che i primi ominidi “abili” furono gli stessi australopiteci; oppure la datazione dell’habilis va portata ancora più indietro. 2.5 - Come si è evoluto il corpo umano: E’ ora opportuno fare un piccolo riepilogo dei caratteri che contraddistinguono la specie umana nel corso della sua evoluzione. Come noto, gli antropologi hanno a disposizione solamente i resti scheletrici che sono veramente molto parziali. Tuttavia la conformazione delle parti ossee è sempre collegata alla sua funzione di supporto ai tendini e ai muscoli. Così è possibile risalire a molti dati sull’aspetto complessivo dei primi ominidi. Un primo elemento da tenere in considerazione è la dentatura e il tipo di masticazione. Abbiamo visto che lo sviluppo di molari molto grandi è caratteristico delle prime fasi storiche dell’uomo perché con i molari è possibile disgregare e 8 rendere digeribili tuberi e frutti secchi, tipici di quella alimentazione vegetariana consentita agli autralopiteci. Con Homo Habilis osserviamo un avanzarsi del mento e uno sviluppo accentuato di incisivi e canini. Questo permette di incidere e strappare meglio, una cosa particolarmente utile soprattutto quando la dieta si fa onnivora e comprende anche la carne. E’ inoltre chiaro che nel corso dell’evoluzione il cervello umano andò ingrandendosi e con esso la scatola cranica. Molto lentamente, la fronte si fece sempre più verticale (quella umana lo è molto di più di quella delle scimmie) permettendo un migliore alloggiamento del cervello. In realtà ci si potrebbe chiedere perché con l’evolversi della specie il cervello si sia ingrandito. Che rapporto esiste tra la grandezza del cervello e l’intelligenza? Possiamo ad esempio considerare che l’elefante ha un cervello quattro volte più grande dell’uomo ma ha un peso corporeo molto più elevato. Se però teniamo in considerazione il rapporto tra peso corporeo e peso cerebrale osserveremo che nell’uomo il cervello rappresenta il 2% del peso corporeo e nel lemure raggiunge il 3%. Un risultato non molto prestigioso per la nostra specie. Sembra dunque che la vera differenza tra i primati e gli altri mammiferi vada cercata nella fase prenatale. Se infatti confrontiamo le dimensioni del cervello di un feto umano con quello di una scimmia di pari peso, vedremo che il bimbo umano presenta un cervello molto più sviluppato. La differenza verrà colmata nel corso della crescita postatale. Una teoria molto interessante è che la crescita del cervello sia correlata alle disponibilità energetiche che quella data specie si può permettere in un dato ambiente. Le scimmie ragno, per es., sono frugifere e hanno una dieta più ricca delle scimmie ragno che invece di nutrono di foglie raccolte sul terreno. Le prime hanno una massa celebrale maggiore perché hanno una dieta più ricca mentre le seconde impiegano molto più tempo nella masticazione e nella digestione con un apporto calorico finale modesto. Questo ha permesso alle scimmie ragno di deambulare più ampiamente e di avere relazioni sociali un po’ più complesse. Analogamente, il genere Homo, nello stadio fetale, sembra consumare una grande quantità di risorse energetiche che gli sono fornite dalla madre. Si pensi, a questo proposito, che i bambini nella fase prenatale consumano il 60% dell’energia fornita dalla madre sotto forma di attività cerebrale. Questa è una eccezione. Così il cervello umano, nei millenni, ha continuato a crescere potendoselo permettere grazie al graduale miglioramento della dieta. Negli ultimi millenni il cervello umano sta invece andando incontro per la prima volta a una diminuzione delle dimensioni se è vero che l’uomo di Neanderthal aveva un cervello più grande del nostro. A tutto questo si può aggiungere l’osservazione che l’Australopiteco inventò i primissimi strumenti quando il suo cervello non si era ancora distanziato di molto in dimensione da quello delle scimmie. Come si vede il discorso è molto complesso e coinvolge anche la forma della rete neuronale. Il capitolo più interessante è invece quello che riguarda la deambulazione, il vero elemento che distingue le scimmie dell’uomo. La posizione eretta comporta una serie di svantaggi sperimentabili da ognuno di noi. I quadrupedi piegando la caviglia tramite i flessori plantari hanno la possibilità di essere immediatamente proiettati in 9 avanti e, anche distendendo il ginocchio, ottengono un effetto propulsivo. Tutto questo dipende dal fatto che il loro baricentro è spostato in avanti. L’uomo invece ha il baricentro verticale. Dunque quando piega i flessori plantari fa un semplice salto sullo stesso posto e non procede di un millimetro. Per questo motivo i quadrupedi hanno una deambulazione molto più veloce della nostra e non soffrono di quel mal di schiena che affigge molti di noi, soprattutto nella vecchiaia. L’uomo per spostarsi deve innanzitutto squilibrarsi in avanti: alziamo una gamba che per un breve istante rimane sospesa nell’aria. Provvedono alla sua locomozione i muscoli dei glutei e in particolare i bicipiti del femore che collegano le ali iliache del bacino al retro del femore. La gamba mentre è sospesa in aria tende ad oscillare anche lateralmente ed è quindi necessario fare intervenire dei muscoli che ne controllino la posizione. Si tratta dei muscoli abduttori che si agganciano sulle ali iliache e sono collegati al femore. Per permettere il loro funzionamento il bacino umano, durante l’evoluzione, si è incurvato così che le nostre ali iliache sono sporgenti. Quelle delle scimmie sono invece piatte. Sbilanciati in avanti, a questo punto, siamo costretti ad appoggiare il tallone a terra. Per evitare di cadere è necessario fare intervenire altri muscoli e cioè i quadricipiti del femore che scavalcano la patella del ginocchio. Trovato un momentaneo equilibrio possiamo ora sollevare l’altra gamba e continuare a camminare. E’ dunque evidente quanto macchinosa e complessa sia la locomozione umana. Perché dunque i primi ominidi si sforzarono di raggiungere questo stadio? Si crede innanzitutto per liberare le mani e permettere la raccolta e il trasporto di cibo per sé e i propri figli e poi soprattutto avere una migliore visione di ciò che li circondava. E’ anche per questo che gli occhi si sono progressivamente avvicinati permettendo una visione stereometrica della realtà. Gli ominidi presenteranno progressivamente una serie di evoluzioni strutturali che sono funzionali alla deambulazione eretta: angolo del ginocchio tendente ai 180°, rafforzamento del tallone per reggere il peso del corpo, accorciamento delle braccia, perdita dell’opponibilità dell’alluce del piede che originariamente era utile per appendersi ai rami degli alberi. 2.6 - Homo Erectus: Un esemplare rappresentativo del genere Erectus è il cosiddetto Uomo del Turkana, scoperto nel 1985 ad ovest del Lago Turkana. Si tratta di un’adolescente che avrebbe raggiunto, in età matura, l’altezza di 1,70 m.; il corpo era piuttosto slanciato, le gambe più lunghe delle braccia, il cervello da 1000 cm3, aveva una formidabile masticazione anteriore ed una scatola cranica piuttosto spessa. All’Homo erectus, vissuto a partire da 1.600.000 anni fa, si associa tradizionalmente la colonizzazione degli ambienti extra africani che fino a questo momento – almeno fino a prova contraria - non avevano mai visto la presenza di alcun tipo di genere umano. Da questo momento troviamo infatti ominidi in Cina (da cui proviene un reperto battezzato “uomo di Pechino” di ben 500.000 anni, attualmente, perduto), nell’isola di Giava, in Europa meridionale, in Francia, in Germania (da cui proviene una delle più antiche scatole craniche d’Europa datata a 600.000 anni fa – loc. Mauer) e in Grecia (cranio di Petralona). Questo nuovo tipo di ominide ebbe soprattutto la capacità di adattarsi ad ecosistemi e climi molto differenti da quelli che si potevano trovare nella savana. Distribuendosi su territori così estesi egli dette probabilmente il via anche alla genesi delle varie razze. A lui si deve probabilmente l’invenzione di prime capanne usate per brevi periodi durante gli spostamenti nei territori di caccia e l’accensione dei primi focolari. Recentemente è stato osservato che l’Homo Erectus, diffusosi all’esterno dell’Africa, non utilizzava la tecnica di scheggiatura più evoluta che convenzionalmente chiamiamo acheuleana. Così gli archeologi si sono chiesti per quale ragione non l’avesse portata con sé visto che nello stesso periodo la si trova nell’area africana. La cosa è complicata dal fatto che recenti datazioni di reperti di ominidi scoperti fuori dall’Africa (ad es. l’uomo di Giava e quello di Dmanisi scoperto in Georgia) hanno offerto una datazione più antica di quanto supposto fino a poco tempo fa: circa 1 milione e ottocentomila anni. Dunque l’esodo dall’Africa avvenne prima di quanto ritenuto sino a ieri. Possiamo dunque dire che fu davvero l’Homo erectus il responsabile di questa migrazione planetaria? 10 Riosservando i reperti osteologici del periodo della migrazione si è dunque giunti alla conclusione che sia più corretto attribuirli ad un precursore dell’Homo Erectus che è stato denominato Homo Ergaster. Costui, vissuto in Africa circa 1.800.000 anni fa non era in grado di andare oltre la realizzazione dei choppers (come l’Homo Habilis). Quando migro dall’Africa in Asia portò con sé questa tecnica di scheggiatura primitiva. Solo 1 milione e 400.000 anni fa i suoi discendenti, sempre in Africa, misero a punto quella tecnica che viene per l’appunto detta acheuleiana e con cui fu possibile ricavare i primi strumenti a goccia. Il ramo di Erectus sembra essere un ramo secco nella catena evolutiva. Probabilmente seguì lo stesso destino dei Neanderthaliani europei che furono eliminati dai Sapiens Ma che cosa accadeva in quegli anni in Europa? I più antichi resti osteologici sono relativamente recenti perché non vanno oltre gli 800.000 anni. In particolare, grandi passi in avanti sono stati fatti negli scavi della Gran Dolina, nella caverna di Atapuerca, nel nord della Spagna, ad opera di Eudald Carbonell. Qui si sono trovate tracce di individui che non sembrano conoscere la tecnica acheuluiana ma che presentano caratteri fisici ancora diversi da quelli dall’erectus asiatico. Questi ominidi europeisono stati battezzati Homo Rudolfensis. Questi ominidi pare abbiano seguito un proprio modus evolutivo dando poi luogo, tempo dopo, al famoso uomo di Neanderthal. Da dove proveniva l’Homo Rudolfenis? Sembra anch’esso dall’Africa ove se ne sono trovati esemplari vecchi di circa 600.000 anni fa. Dunque l’Europa sarebbe stata colonizzata da un’ondata differente da quella asiatica (Erectus) e sviluppatasi ben più tardi. Esistono molti interrogativi riguardo la possibilità che Homo erectus abbia avuto un mondo di credenze e di pratiche rituali, per quanto abbastanza primitive. Nell’ambito del dibattito che si è aperto sin dagli anni ’70, un ruolo significativo è stato giocato dalla scoperta di un cranio frantumato in centinaia di pezzi nel 1976 nella valle del fiume Awash. (Etiopia) Nella zona degli zigomi e delle arcate orbitali vi sono stati infatti riconosciute tracce di taglio molto sospette ed eseguite con l’aiuto di una piccola selce. L’ipotesi è che, dopo la morte dell’individuo, esse siano state praticate sul cranio per forme di cannibalismo rituale. L’osservazione ha facilitato il riesame di alcune vecchie testimonianze relative al cosiddetto ominide di Choukoutien (in Cina) i cui resti sono però andati perduti durante la seconda Guerra Mondiale. Nella grotta cinese fu scoperta una quantità di crani preponderante rispetto ai resti scheletrici, una cosa anomala che aveva indotto gli studiosi a chiedersi se questi ultimi non fossero stati introdotti intenzionalmente come “sepolture secondarie”. Tracce di rottura su alcune ossa facevano inoltre pensare che si fosse tentato in qualche modo di raggiungere la massa cerebrale. L’antropofagia è attestata tra popolazioni di età storica; gli esploratori hanno riferito di gruppi umani che trattenevano le teste dei defunti come trofei partecipando, dopo la loro essicazione, a forme di pasto rituale. Il cranio di Bodo (così fu soprannominato il cranio scoperto ad Awash) si data tra 200 e 500 milioni di anni fa e dunque potrebbe essere appartenuto ad un Homo ergaster, ma anche su questo permangono dubbi. 11 2.7 - La nascita delle prime capanne: Un luogo comune sulla preistoria, analogo all'etichetta di «età della pietra», è sicuramente la definizione di «uomo delle caverne». L'immagine dei nostri più lontani antenati che, abbandonata la foresta, cercano disperatamente un rifugio nelle grotte e magari le contendono ad animali feroci ha avuto un discreto successo; per la verità è una ricostruzione che dovrebbe far sorridere. Prima di tutto bisogna riconoscere che la culla dell'umanità, in particolare le regioni vulcaniche del Kenia e della Tanzania, sono davvero povere di caverne: quindi, se l'Homo habilis avesse abitudini cavernicole, dovrebbe sentire più di noi il problema della casa, per quanto sia una specie ancora poco numerosa. Né ci devono ingannare le tracce di esseri umani o di animali entrati in grotte per cause naturali: è il caso degli inghiottitoi di Sterkfontein e di Swartkrans, in Sudafrica; si tratta di caverne-pozzo che hanno svolto la funzione di imbuto, inghiottendo quanto trasportato dalle acque di superficie o che comunque vi è caduto, ossa di australopiteci e di Homo habilis comprese. Le tracce archeologiche dei primi accampamenti umani sono tutte all'aperto e, fatto ancora più sorprendente, rivelano resti di probabili capanne. La località di riferimento è, ancora una volta, la gola di Olduvai: l'Homo habilis, circa 1800 000 anni fa, costruisce un cerchio di ciottoli di circa 4 metri di diametro ed alto sino ad una trentina di centimetri; la struttura è interpretata come la base d'appoggio per rami che formano l'ossatura di una capanna. Olduvai non è un caso isolato: ammassi di ciottoli disposti ad ellisse od a cerchio e con dimensioni variabili tra 3 e 6 metri sono stati scoperti nel sito contemporaneo ad Olduvai di Melka Kunturé (Etiopia). La base, sempre più o meno circolare, è dovuta al fatto che coincide con il modo più semplice per costruire la capanna: i rami sono appoggiati obliquamente uno contro l'altro e l'abitazione assume una forma conica. L'analisi dei pollini ha inoltre dimostrato un'occupazione prevalentemente invernale delle capanne, il che conferma la funzione anti-intemperie di queste strutture. Anche l'Homo erectus mostra di preferire gli abitati all'aperto. È esemplare la serie di grandi stanziamenti scoperta alla periferia di Isernia (località La Pineta): qui le tribù di Homo rudolfenisis, circa 700 000 anni fa, si accampano sulle rive di un fiume, occupando uno spazio di alcune migliaia di metri quadrati. Per la verità, non mancano stanziamenti in caverna, concentrati soprattutto in Europa ed in Asia settentrionale: tra questi, i più importanti sono quelli di Choukoutien, che hanno rivelato i resti del cosiddetto Sinantropo. La scelta dell'accampamento in caverna o all'aperto sembra così dovuta a più fattori, come la disponibilità locale di rifugi naturali, il clima e la durata prevista del soggiorno. 2.8 - La scoperta del fuoco: In alcuni siti esplorati nell'Etiopia e nel Kenia si individuano tracce della presenza del fuoco, databili a partire da un milione e mezzo di anni fa. Ma si tratta di indizi troppo incerti, che non permettono di asserire che l'uomo usasse già così anticamente il fuoco. In realtà, da quello che ci è dato sapere oggi, ben più tardi, meno di mezzo milione di anni fa, l'Homo erectus scopre l'uso del fuoco: infatti non si conoscono tracce di focolari precedenti alla glaciazione alpina Mindel. Quelli, ad esempio, degli accampamenti all'aperto di Terra Amata, ad est di Nizza, o degli abitati nella grotta di Choukoutien, databili tra i 450 000 ed i 300 000 anni fa, sono dunque fra i più antichi focolari tutt'oggi noti sulla Terra. Nel caso di Terra Amata (accampamento datato a quasi 400 000 anni fa) si osserva che i focolari sono costruiti con cura: si trovano dentro la capanna e vengono accesi o su un piccolo basamento di ciottoli o su una conca scavata nel terreno; inoltre un mucchio di ciottoli tenuto insieme con della sabbia protegge il fuoco dai venti di nord-ovest ancora oggi dominanti. Come se non bastasse, l'Homo erectus a Terra Amata sa che il legno resinoso si incendia più facilmente e lo predilige: così ci informa l'analisi dei carboni che provengono dai focolari. Non ci possono quindi essere dubbi sul fatto che l'uomo ha ormai raggiunto una discreta confidenza con la fiamma: il che fa supporre che sia già trascorso molto tempo dal primo impatto, dal primo uso del fuoco. Una conferma sembra provenire dalla località di Torralba, circa 150 km a nord-est di Madrid. È uno dei tanti giacimenti preistorici venuti in luce il secolo scorso per 12 caso: nel 1888, gli operai che dovevano tracciare la strada ferrata si trovarono di fronte ad ossa di elefante. Quasi cento anni di ricerche permettono una ricostruzione abbastanza attendibile di battute di caccia avvenute 300 000 anni fa: l'Homo erectus sarebbe riuscito a spingere mandrie di elefanti dalla prateria verso zone paludose, in cui i pachidermi sarebbero sprofondati, diventando più facile preda dei cacciatori; lo strumento usato per cacciare in trappola questi giganteschi animali sarebbe proprio il fuoco (legni carbonizzati provengono dalle superfici su cui gli elefanti sono stati uccisi e macellati). Le tracce di combustione e i focolari veri e propri diventano numerosi solo più tardi, a partire da giacimenti contemporanei alla glaciazione alpina Riss (200 000 anni fa) e la loro varietà aumenta naturalmente man mano si procede verso tempi più recenti. Qualunque sia il modo con cui l'uomo prende padronanza del fuoco e riesce a produrlo, sta di fatto che questo prodotto migliora sensibilmente la qualità della vita: oltre al vantaggio di disporre di cibo cotto, più tenero e più digeribile, va detto che il calore e la sicurezza che la fiamma fornisce favoriscono la stabilità e la coesione tra i membri delle comunità. Inoltre il dominio del fuoco è di grande utilità in situazioni climatiche critiche e solo grazie al fuoco è possibile estendere la zona d'influenza dell'uomo alle aree fredde. Anche il ritmo giorno/notte imposto dalla luce solare è in parte superato: così si accresce l'attività giornaliera e, con essa, l'opportunità per l'uomo di estendere i propri interessi ad un ventaglio ben più ampio di operazioni (il che è uno stimolo alla creatività umana). Il fuoco offre dei vantaggi ma impone anche qualche vincolo: la sorveglianza e la cura continua di cui necessita implicano una più alta complessità ed organizzazione delle mansioni di ogni individuo, conducendo a una maggiore specializzazione del lavoro. La cottura degli alimenti ne è un esempio: una parte del tempo disponibile deve essere speso per procurare il combustibile, per approntare il focolare e quindi per cuocere. 2.9 - L’Homo Neanderthalenis: Nel 1856, alcuni operai all’opera nella Valle di Neander (presso la grotta di Feldhofen), in Germania – non lontano da Dusserdolf – portarono alla luce i resti di un ominide dai caratteri del tutto insoliti. Si trattava dei resti di un individuo piuttosto robusto con una notevole capacità cranica ma caratteri piuttosto arcaici: fosse orbitali molto segnate, zigomi inclinati verso il basso, fronte sfuggente, eccezionale capacità cranica. Solo un anno dopo, William King, attribuiva a questo individuo il nome di Homo neanderthalensis, denominazione che è rimasta valida sino ad oggi. Osservando questi resti umani l'anatomista H. Schaaffhausen si convinceva di avere di fronte le ossa di una specie umana estinta. Ma Darwin avrebbe esposto le sue idee sull'evoluzione degli esseri viventi solo due anni dopo: ne conseguì che per lo studioso tedesco quelle ossa non potevano appartenere ad un nostro antenato. Egli pensava piuttosto che si trattasse di un individuo di una razza particolarmente selvaggia, vissuta nel nord Europa al tempo dei Romani. 13 Uno studioso francese, Marcellin Boule, dopo aver analizzato ossa simili scoperte presso il sito francese di Le Chapelle aux-Saint - nel 1908 - giunse alla conclusione che si trattava di un essere involuto a metà strada tra la scimmia e l’uomo moderno. Nelle ricostruzioni dell’epoca, effettivamente, l’uomo di Neanderthal appare un po’ caricaturale, con la gobba, le gambe un po’ curve, i piedi ruotati e modestissime possibilità di comunicare con il linguaggio. In questa accezione l’uomo di Neanderthal appariva come un essere aberrante, una sorta di mostruosità deforme frutto di una degenerazione genetica. In realtà, oggi sappiamo che i neandertaliani furono abili cacciatori, che approfittarono dell’ampia disponibilità di fauna in un particolare periodo climatico caratterizzato da un brusco abbassamento delle temperatura. L’apogeo di Neanderthal coincide infatti con il periodo delle glaciazioni. A livello strutturale presentavano scheletri robustissimi, un cranio leggermente più basso del nostro, arcate sopraorbitali sporgenti, un cervello addirittura più sviluppato volumetricamente di quello dell’uomo moderno (1650 cm3), una fonte ancora abbastanza sfuggente all’indietro, mascella superiore molto massiccia, narici larghe e un cranio sporgente lungo la linea mediana, cosa a cui corrispondeva una certa specializzazione degli incisivi. Per quanto riguarda gli arti, gli avambracci e le gambe erano molto corti se rapportati alle braccia ed alle cosce: curiosamente questo carattere si riscontra ancora fra i Lapponi e gli Eschimesi attuali e viene generalmente interpretato come una forma di adattamento ad un clima più freddo. Infine, nonostante la struttura ossea e muscolare nella zona orale fosse massiccia, vi sono buone ragioni per pensare che i neandertaliani fossero in grado di esprimere una forma di linguaggio piuttosto articolato. In molte mandibole neanderthaliane si nota un diastema tra i molari abbastanza insolito; per spiegarlo si ipotizzato che questi ominidi conciassero le pelli masticandole. Le inserzioni dei muscoli sulle ossa sono molto segnate e questo fa pensare che fossero molto forti. Come noto, l’apparato muscolare si aggancia all’apparato scheletrico tramite i tendini ed i tendini lasciano sulle ossa segni ben riconoscibili. Nel corso del lungo meccanismo evolutivo prevalgono quelle strutture scheletriche conformate in modo da favore l’azione muscolare. Nel caso dei Neanderthaliani l’astragalo – un osso della caviglia – era piatto per rinforzare la caviglia stessa, anche l’arcata plantare e le dita dei piedi erano più robuste del normale ed i polpastrelli avevano una protuberanza tuberosa che doveva conferire alle dita una certa presa. Nelle scapole si nota un incavo che favorisce l’inserzione di un muscolo chiamato rotondo piccolo – che lega scapole ed omero - ; esso viene sfruttato soprattutto durante il getto. Il rotondo piccolo, contraendosi, avvicina l’omero alle scapole e permette il controllo del braccio durante il lancio. Una cavità sulle scapole facilita la funzione di questo muscolo; nei neanderthalani essa è molto ben sviluppata. 14 I neanderthalani avevano anche un arco superiore del bacino alleggerito che creava un foro tra le ossa pelviche più sviluppato così da avvantaggiare il parto, tanto più che, come abbiamo visto, le dimensioni del cranio erano intanto notevolmente cresciute. I neanderthaliani hanno lasciato anche una cultura materiale di grande livello. Producevano raschiatoi, punte di freccia, pugnali molto raffinati con una capacità di progettazione che sottintende una certa capacità di astrazione. L'industria musteriana costituisce, grosso modo, un aspetto della cultura materiale prodotta dall’Uomo di Neanderthal. E come costui è una figura dai contorni un po' sfumati, sia nello spazio che nel tempo, così sono altrettanto annebbiate le origini e l'area di diffusione dell'industria musteriana. Certo è possibile riconoscere soprattutto un aspetto che si diffonde con essa e che ne fa qualcosa di nuovo e rivoluzionario rispetto ai prodotti dell'Homo erectus. Si tratta di una tecnica di scheggiatura della pietra che aveva lo scopo di controllare la grandezza e la forma della scheggia che si voleva estrarre, facendo subire al ciottolo una scheggiatura preliminare (il ciottolo pre-lavorato assume la denominazione di nucleo). Per procedere nella scheggiatura era necessario sezionare, a livello immaginario, il ciottolo con una linea orizzontale e poi effettuare una serie di scheggiature di preparazione. A seguito di questo, il blocco poteva dare molte schegge allungate senza deteriorarsi ma anzi presentando sempre nuove superfici pronte per essere lavorate. La grande importanza di questa tecnica sta nel fatto che i nuclei e le schegge sono dei prodotti di forma e dimensioni standardizzate e, quindi, estremamente funzionali. Questa tecnica viene definita levalloisiana, dal nome di un sobborgo nordoccidentale di Parigi, Levallois-Perret, in cui già nel secolo scorso si raccoglievano strumenti di selce lavorati in questo modo. Oggetti di questo tipo si diffonderanno ben oltre la zona di sviluppo dei neandertaliani: sono attestati, ad esempio, in Cina, in India e in Sudafrica. 2.10 – La cura dei defunti: I neanderthalani sono anche responsabili dei primi atti di cura dei defunti.La sepoltura - cioè la deposizione intenzionale di un cadavere nel terreno ed il suo ricoprimento che ne esclude la vista agli altri uomini ed agli animali - può motivarsi solo con la convinzione che la morte sia un fatto temporaneo, che esista un Oltretomba; solo in questo caso, in vista di un eventuale ritorno alla vita, si impone che il corpo sia protetto dagli agenti disgregatori che operano sulla superficie. Come abbiamo detto, non si può affatto escludere che già tempo prima del sorgere della cultura musteriana i cadaveri fossero oggetto di un trattamento specifico, di cui può non è rimasta alcuna traccia. Tuttavia le molte sepolture di neandertaliani, rinvenute a partire dal secolo scorso, non lasciano dubbi sul fatto che è solo con i gruppi musteriani che questa pratica si diffuse. A prima vista il quadro finora delineato potrebbe suggerire l'idea che la cultura musteriana sia un fatto molto esteso nel tempo e nello spazio e, per di più, dotato di grande omogeneità. In realtà essa è certamente contraddistinta da alcuni elementichiave comuni (ad esempio, la tecnica levalloisiana e la sepoltura dei morti), ma per tutto il resto di omogeneo vi è assai poco. 15 Già nel 1914, durante gli scavi presso la grotta di Le Moustier, furono individuate due sepolture neanderthaliane in fossa terrigna (una di adulto e una di bambino) che sembravano essere state volontariamente sigillate con alcune pietre poste di piatto. Sei anni dopo, nel riparo francese di La Ferrassie, l’archeologo Denis Peyrony portò alla luce una serie di sepolture in fossa spesso affiancate da piccoli monticelli di terra o di scagliette di pietra. I corpi non disponevano di corredo – l’esistenza di ricchi corredi, indice di una differenziazione sociale, è infatti attribuibile per la prima volta solo all’Homo Sapiens Sapiens - ma alcune scagliette di osso e pietra poste nella fossa sembrano essere stati una forma di omaggio al defunto. A Shanidar, una grotta situata nell’Irak curdo nei Monti dello Zagros, sono state trovate diverse sepolture. Alcune erano di individui morti a seguito del crollo di una parte della grotta; alcune scagliette di pietra furono poste sopra le fosse sepolcrali come segno di rispetto. Un altro individuo sembra sia stato colpito da una punta di freccia al torace e morto di morte violenta. C’è chi ha visto in questo evento la prova di una scontro tra i Sapiens che possedevano già l’arco e le frecce ed i neandertaliani, in una competizione che avrebbe visto vittorioso il nostro ramo evolutivo ma… una “rondine non fa necessariamente primavera”. Ciò che invece è significativo è che i congiunti deposero fiori gialli e azzurri ai lati della tomba, (giacinto selvatico, altea rosata, senecio) anticipando un comportamento che potremmo definire moderno. In Uzbekistan a Tekis Tas, a 100 km da Samarcanda, dei palchi di cranio di stambecco (ovis siberiensis) furono deposti in cerchio attorno alla sepoltura di un bambino di 8-9 anni. Infine, possiamo citare il caso del sito di Kebara, in Israele, ove un neanderthaliano fu sepolto in una fossa in posizione supina ma mutilato della testa (la mandibola invece si trovava al suo posto), privo della gamba destra e con la gamba sinistra incompleta. Secondo gli scopritori, il corpo fu inserito a forza contro una delle pareti della roccia. E’ interessante che tutto il resto dello scheletro era ancora in connessione anatomica, dunque le pratiche di mutilazione avvennero quando le parti molli non si erano ancora decomposte. Si tratta di tutti segni che dimostrano una sviluppata sensibilità del genere Neanderthal. Anche in Tunisia, a El-Guettar è stato portato alla luce un cumulo di pietre artificiale alto 75 cm e con un diametro di 1m e 35 cm., realizzato da neanderthaliani facendo uso di pietre opportunamente arrotondate; fu costruito per coprire resti ossei, denti e selci scheggiate parte di un qualche misterioso rito religioso. I neanderthalani si svilupparono nella fascia compresa tra Gibilterra e l’Estremo Oriente tra 150.000 anni fa e 35.,000 anni fa. Durante tutta la loro permanenza in questa fascia essi non incontrarono presumibilmente ne Erectus né Sapiens Sapiens. E’ però certo che attorno ai 35.000 anni fa scomparsero lasciandoci ampio spazio. Da tempo ci si chiede come questo sia potuto accadere. Secondo alcuni scienziati i Neanderthal si sarebbero fusi con i nuovi venuti (Sapiens) e, avendo caratteri geetici regressivi, avrebbero lasciato in noi un a modesta eredità. Se fossi così una parte di sangue neanderthaliano scorrerebbe anche nelle nostre vene. Questa ipotesi però è molto problematica da sostenere. Infatti lo spazio di tempo intercorso tra gli ultimi individui noti del primo tipo ed i primi del secondo è troppo breve perché si sia potuta verificare un'evoluzione sia graduale che puntuata dall'uno all'altro. Recenti analisi sul DNA mitocondriale hanno recentemente dimostrato che l’ipotesi è molto remota. Secondo un’altra teoria, i Sapiens Sapiens, già insediati in Africa e in Australia avrebbero iniziato una lenta invasione dell’Europa sottomettendo e decimando i Neanderthal che disponevano di armi meno sofisticate. L’ipotesi non è però facilmente sostenibile dal momento che, abbiamo visto, i Neanderthal disponevano di buone competenze tecnologiche. Alcuni puntano il dito sulle variazioni del clima e in particolare sulla possibilità di carenze energetiche derivate dall’esaurirsi delle glaciazioni, un fenomeno che certamente portò ad un precoce esaurimento della fauna di grandi mammiferi che popolava l’Europa (mammuth, tigri dai denti a sciabola, orsi Speleus etc). L’Homo Sapiens necessitando di minore risorse 16 energetiche e capace di costruire archi e frecce (strumento micidiale e molto preciso, capace di uccidere al primo colpo anche piccola selvaggina) avrebbe avuto la meglio. Un’altra teoria è quella epidemiologica per cui i sapiens avrebbero avuto alcuni anticorpi capaci di farli sopravvivere ad una epidemia particolarmente aggressiva. Come dimostra la varietà delle teoria, la scomparsa repentina di Neanderthal dal quadro europeo è un fitto mistero. 2.11 - Cro Magnon, L’uomo moderno: Quando nel 1868 si stava costruendo la ferrovia AgenPérigueux, mentre si lavorava a pochi metri dalle case di Les Eyzies de-Tayac (Francia sudoccidentale), venivano portati alla luce i resti di cinque individui che furono riconosciuti come appartenenti ad una razza fossile sconosciuta. In realtà quello di Cro-Magnon non è che uno dei primi esemplari europei di uomo moderno, dell'Homo sapiens sapiens. Il successo dell'Homo sapiens sapiens è veramente straordinario. Tra i 40 000 ed i 30 000 anni fa, nel cuore dell'ultimo episodio glaciale, alla fine del Pleistocene, egli conquista tutti i continenti, spingendosi con successo anche in America ed in Australia e penetrando persino nelle regioni artiche. In realtà, però, è tutt'altro che chiarito da quale continente o regione i sapiens sapiens abbiano iniziato la loro straordinaria avventura. Gli studi più moderni hanno permesso di mettere a punto due teorie: secondo la prima l’Homo sapiens sapiens sarebbe una evoluzione dell’Homo Ergaster/Erectus. E’ però possibile che i nostri progenitori si siano distinti evolutivamente in un periodo relativamente recente (150.000 anni fa) sempre in Africa e da qui abbiano attuato una colonizzazione del mondo a spese degli ominidi più vecchi: neanderthaliani in occidente, Erectus in Oriente. Anche il Vicino Oriente spesso viene candidato a ruolo di punto di origine dei Sapiens perché una delle poche regioni extraeuropee ad essere oggetto di importanti indagini. In realtà sono state avanzate di recente ipotesi basate sullo studio del patrimonio genetico delle popolazioni attuali: dalle somiglianze e differenze così emerse, si ritiene che l'uomo moderno abbia la sua origine in Africa, secondo uno schema che quindi si ripropone dai tempi dell'Homo erectus. 2.12 - La tecnologia dell’uomo moderno: L’Homo sapiens sapiens introdusse, indubitabilmente, nuove tecniche di scheggiatura della pietra. Ferma restando la parentela di queste tecnologie con la cultura musteriana, è comunque innegabile che la nuova tecnologia di produzione delle schegge sia un aspetto rivoluzionario: lo si avverte soprattutto se si considera che essa determina importanti conseguenze sulle abitudini dei gruppi umani; inoltre si associa ad altri fatti che non coinvolgono soltanto il mondo della tecnica, ma anche l'economia ed il pensiero. Insomma, ve n'è quanto basta per definire una nuova fase delle culture umane, il paleolitico superiore L'aspetto che più salta all'occhio osservando le schegge prodotte con la nuova tecnica è che sono lunghe e strette e dal bordo piuttosto regolare. Per ottenere questo risultato il nucleo di selce deve essere preparato in modo da raggiungere la forma di una specie di prisma o di piramide; a questo punto, scheggiando il bordo a partire dalla base del nucleo e seguendone il perimetro, si ottengono non una, ma più schegge allungate (che sono definite «lame»). 17 I vantaggi che derivano dall'uso di questa tecnica sono notevoli. Innanzitutto è evidente il risparmio di materia prima: da un nucleo si ottengono più strumenti e questo fatto costituisce un vantaggio non trascurabile, soprattutto nelle regioni in cui rocce come la selce sono scarsamente a disposizione. Inoltre le lame sono dei prodotti più utili delle semplici schegge perché, essendo più lunghe, possono essere più facilmente inserite in manici o possono essere ritoccate alle due estremità (ad esempio su un'estremità si può ottenere uno strumento utile a perforare e sull'altra un oggetto atto a pulire le pelli). Per di più, dato che le lame mostrano i bordi più rettilinei delle schegge, sono di per sé più adatte a fare da lame di coltelli e sono invece più penetranti se sono state prodotte per farne punte di lance. Questa tecnica di base è poi soggetta a continui perfezionamenti. Ma non è solo con l'industria in pietra che si manifesta questa rinnovata ingegnosità perché contemporaneamente si sviluppa e si diversifica la produzione di strumenti in osso. Stupefacenti sono gli aghi,i punteruoli-pugnali, gli elementi di collane, ma soprattutto gli arpioni, prodotti in corno e sorprendentemente simili a quelli della tradizione esquimese. Ad essi si associano i propulsori, bastoni dotati di uncino ed utilizzati per gettare lance (così si moltiplica la capacità di lancio del semplice braccio). Questi strumenti si adattano particolarmente alla caccia di grossi animali su spazi aperti, su praterie, che devono essere particolarmente estese in Europa settentrionale durante l'ultima espansione dei ghiacci (la fase più acuta della glaciazione Wurm, secondo la serie definita sulle Alpi). Questo intenso utilizzo dell'osso è reso possibile grazie all'introduzione di un attrezzo di pietra (che gli archeologi definiscono «bulino», per analogia con l'omonimo strumento moderno), ottenuto appuntendo l'estremità di una lama. Con questo strumento viene anche lavorato il legno, ma in questo caso i reperti sono ovviamente scarsi. Inoltre, anche se mancano prove archeologiche dirette, deve essere in uso una sorta di trapano perché pietre e conchiglie, denti di cervo o altri oggetti di osso, con cui si producono collane, sono forati alla perfezione. Se non si osserva nella tecnologia una netta cesura tra il mondo dei neandertaliani e quanto segue, è pur vero che le novità sopra illustrate si affermano definitivamente solo fra le comunità di uomini moderni. Un'ulteriore testimonianza dello straordinario sviluppo culturale che sembra coincidere con l'affermarsi in Europa dell'uomo moderno è costituita dalla cosiddetta arte rupestre. 2.13 – Epipaleolitico/Mesolitico e cacciatori post-glaciali: L'esaurimento dell'ultimo fenomeno glaciale (glaciazione Wurm secondo la serie definita sulle Alpi) determina importanti conseguenze anche sull'ambiente europeo. Ad esempio, il paesaggio di tundra e di prateria, che doveva essere il più caratteristico del nostro continente, viene progressivamente sostituito dalla foresta. Di conseguenza tendono a ridursi gli spazi per le mandrie di grandi animali, come i mammuth, i bisonti, i cavalli e le renne. L'adattamento dell'uomo a questi mutamenti ambientali è una questione di sopravvivenza e coinvolge il campo delle tecnologie, dell'organizzazione sociale ed anche le scelte alimentari. È un complesso 18 di realtà nuove che ha portato molti archeologi a riconoscervi una specifica fase dello sviluppo delle culture umane (Mesolitico). Impossibilitate a condurre grandi battute di caccia ai branchi di mammiferi di grossa taglia, le tribù trovano sostentamento nella caccia a selvaggina di piccola taglia o comunque ad animali non gregari che abitano la foresta, nella raccolta di prodotti vegetali, nella pesca e soprattutto nella raccolta di molluschi che assumono ora un ruolo importante nell'alimentazione. È in pratica la prima volta che l'acqua (i fiumi, i laghi ed i mari) attira l'attenzione dei cercatori di cibo. Una dimostrazione di cosa significhi la raccolta dei molluschi per queste comunità è data dagli enormi accumuli di conchiglie che costituiscono la «spazzatura» di accampamenti, soprattutto lungo le coste atlantiche dell'Europa. A questi nuovi orientamenti dell'alimentazione corrispondono nuovi strumenti. Basterebbe pensare all'invenzione degli ami, delle reti e delle trappole da pesca che si accompagnano a questo interesse per l'ambiente acquatico. Ma il manufatto più caratteristico di questa fase è sicuramente l'arco. La testimonianza più esplicita dell'uso dell'arco è costituita da una serie di piccole pitture scoperte in caverne della Spagna orientale. Contrariamente alle precedenti testimonianze di arte rupestre, le figure sono stilizzate, ma sono anche descritte delle vere e proprie scene nelle quali, spesso, l'arco è il protagonista. 19 L'arco è sicuramente uno strumento formidabile per i cacciatori: esso infatti è come una molla che lancia un dardo ad una velocità di gran lunga superiore rispetto al semplice braccio o al propulsore; in tal modo la freccia acquista una capacità di penetrazione enorme e la possibilità di sorprendere la selvaggina diventa maggiore; inoltre le frecce sono più piccole e leggere delle lance e quindi il cacciatore può portarne con sé un numero elevato e lanciarne a ripetizione con velocità. In base agli aspetti qui elencati, si può intuire che l'alimentazione di queste comunità sia più varia rispetto a quella dei cacciatori delle praterie e della tundra glaciali. Ciò significa anche la capacità di sfruttare più sistematicamente le risorse offerte dall'ambiente: questa tendenza è riscontrabile addirittura nella produzione di strumenti in pietra, in cui si punta a realizzare oggetti con il minore spreco di selce e quindi a ridurre la dipendenza dalle zone di affioramento della materia prima. La logica conseguenza è che l'uomo dispone di mezzi ed effettua delle scelte che gli consentono di spostarsi sempre meno, portandolo verso una forma di semisedentarietà. 20