La storia dell`evoluzione dell`uomo

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La storia dell’evoluzione dell’uomo
Capitolo 2
Appunti a cura di Sandro Caranzano , riservati
ai fruitori del corso di archeologia presso
l'Università Popolare di Torino 2009-2010
(Lezioni tenute il 17 e 24 novembre / 1 dicembre 2009)
2.1 – La selezione naturale
I principali artefici dell'evoluzione sono due: le mutazioni casuali e la selezione
naturale. I geni contenuti nei cromosomi sono i responsabili della trasmissione delle
caratteristiche particolari di ogni specie dai progenitori ai propri figli. In questo
modo si salvaguardano le distinzioni tra le specie.
Questo meccanismo rende la realtà statica, "conservatrice", avversa ad ogni
cambiamento. Ma questo meccanismo non è perfetto. Ogni tanto si inceppa. Nella
trascrizione delle informazioni genetiche si verifica qualche errore di copiatura,
questo può portare a variazioni insignificanti oppure costituire la base per dare
inizio ad un'altra varietà della specie.
Questi errori sono chiamati “mutazioni” e sono assolutamente casuali. Su tutte le
specie interviene l'azione della natura che elimina quelle meno adatte all'ambiente
costituito. Le possibilità di sopravvivere dipendono dall’avere i geni giusti al
momento giusto. Una combinazione puramente casuale di fattori può determinare la
sopravvivenza di un individuo o della sua specie. Per gli uomini, il discorso è diverso,
non dipende soltanto dai suoi geni come negli altri animali. Alla trasmissione dei
geni, nel tempo si è aggiunta anche la trasmissione della conoscenza accumulata da
una generazione all'altra.
La storia dell'evoluzione dell'uomo così come quella degli altri mammiferi,
incomincia con il declino dei grandi rettili che avevano dominato ogni angolo della
terra. L'arma segreta di questi animali si dimostrò essere il sistema circolatorio
sanguigno che riusciva a tenere la temperatura del corpo più stabile, in modo da farli
sopravvivere e farli muovere liberamente entro una gamma di temperature molto
più ampia di quella dei rettili, sia di giorno che di notte.
I cambiamenti climatici, il clima più freddo e arido, si combinarono con l'aumento
delle specie vegetali, degli insetti e di funghi patogeni diffusori di malattie. Molto
probabilmente queste furono le cause della denatalità nei grandi rettili. Con la
scomparsa dei dinosauri, i mammiferi ebbero la possibilità di diffondersi ovunque e
soprattutto aumentò la loro varietà. Gli antenati delle proscimmie ebbero come
competitori i piccoli roditori. Questi si fecero un'accanita concorrenza sia sugli alberi
che sul terreno. Alcune specie di proscimmie si adattarono a vivere al suolo dove in
un primo momento proliferarono ma alla fine si estinsero. Quelle che scelsero la vita
sugli alberi ebbero maggiore fortuna ma non riuscendo ad eliminare i loro diretti
concorrenti, furono costretti a dividerne lo spazio.
Con il diffondersi delle foreste anche le piccole proscimmie si diffusero ovunque.
L'uomo è nato nelle foreste e quindi ogni componente del suo organismo si è
formato per rispondere alle esigenze della vita in questi luoghi. Più precisamente le
loro strutture di base, il cervello, gli organi di senso, gli arti e gli organi riproduttivi
si svilupparono nelle foreste. Il corso degli eventi successivi rese necessarie in genere
modifiche e rielaborazioni di quelle
Rispetto ai volatili, i mammiferi che scelsero la vita tra gli alberi o sulla terra
svilupparono corpi più grandi e cervelli più complessi. Questo perché a differenza
degli uccelli che insieme ad una corporatura piccola e molto leggera associarono un
comportamento routinario, le specie arboricole potevano evolversi con cervelli
abbastanza grandi da permettere loro una notevole attività di apprendimento ed
inoltre le dimensioni erano tali da contenere i tessuti celebrali in grado di generare
uno sviluppato potere visivo e una buona coordinazione sensoriale e muscolare. La
vita sugli alberi, con i suoi cambiamenti di condizione, bruschi ed imprevedibili,
generò una nuova e permanente insicurezza o incertezza. In questo modo si sviluppò
una notevole capacità di decisione e di apprendimento. I secondi necessari per
intraprendere una scelta, favorirono gli individui in grado di prendere decisioni
rapide. La conseguenza era che, quelli che avevano meno incidenti, vivevano più a
lungo.
2.2 – La “scimmia vestita”: Non esiste problema più complesso di quello di definire se stessi, di
stabilire chi siamo e da dove veniamo; ma, nel medesimo tempo, è difficile pensare
ad una questione più affascinante e ineludibile la cui soluzione stimoli
maggiormente la curiosità e muova l'intelligenza a cercare risposte sempre più
esaurienti.
La ricerca scientifica ci offre oggi i mezzi per riconoscere che l'uomo è un essere
inserito nel grande meccanismo della natura. Peraltro, attraverso l'uso costante di
manufatti l'uomo, unico tra gli animali, si è posto nella condizione non solo di
adattarsi all'ambiente, ma anche di modificarlo.
Si deve a Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) il merito di aver intuito il
concetto di evoluzione, a cui fa riferimento anche Charles Darwin (1809-1882).
Il primo ritiene che gli esseri viventi siano in grado di sviluppare gradatamente,
generazione dopo generazione, alcuni caratteri, in risposta al loro bisogno di
migliorarsi rispetto all'ambiente (la giraffa avrebbe allungato gradatamente il collo
per cibarsi delle foglie degli alberi più alti). Per Darwin invece all'interno di ogni
specie esistono differenze tra i singoli individui che la compongono; pertanto,
coloro che presenteranno caratteri più idonei all'ambiente in cui vivono saranno
facilitati nella sopravvivenza e nella riproduzione (le giraffe che avevano il collo più
lungo, potendo mangiare le foglie degli alberi più alti, si sarebbero affermate).
Darwin è inoltre il primo ricercatore a strappare il velo di imbarazzo che copriva
l'origine dell'uomo: egli afferma che noi non facciamo eccezione rispetto agli altri
esseri, che anche noi siamo inseriti nella grande catena dell'evoluzione della vita
sulla Terra e che anche l'uomo ha i suoi antenati fossili (antenati condivisi con
alcune scimmie contemporanee come i gorilla e gli scimpanzé). Oltre cento anni di
scoperte hanno permesso di riconoscere la sostanziale validità di questa posizione.
Sia le ipotesi di Lamarck che, soprattutto, quelle di Darwin pongono l'accento sulla
gradualità con cui si verificherebbe l'evoluzione, attraverso lente modificazioni in
generazioni successive di individui. Il «puntualismo», elaborato a livello teorico
proprio in questi ultimi anni, rappresenta una correzione a questa linea: in alcune
situazioni si verificherebbero delle trasformazioni rapide che porterebbero alla
nascita di nuove specie (ad esempio la capacità cranica dell'Homo habilis).
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In effetti è probabile che i meccanismi evolutivi siano piuttosto il frutto di
situazioni puntuali, intervallate da fasi di sviluppo più o meno graduali.
2.3 - Le origini del genere Homo: Le origini del genere Homo possono essere cercate attorno a
circa milioni di anni fa. E’ necessario innanzitutto avere un’idea di quello che poteva
essere il clima e la morfologia di Africa ed Europa in questo remoto periodo della
preistoria. L’orogenesi delle Alpi e della catena dell’Hymalaia erano giù in uno stadio
avanzato (quella delle Alpi è iniziata circa 25 milioni di anni fa per effetto dello
scontro delle “placche” della Paleoafrica con la Paleoeuropa) ed il clima era di tipo
continentale, ovvero caratterizzato dall’alternarsi di estate calde ed inverni freddi.
Circa 1 milione mezzo di anni dopo, si assistette ad un irrigidimento del clima; come
spesso accade in occasione dei fenomeni glaciali, grandi masse di acqua oceanica
rimasero come imprigionate ai poli portando ad un abbassamento di qualche metro
del mare sul livello delle coste. E’ quella che si chiama “regressione marina”.
I geologi l’hanno verificata con chiarezza sulle coste dell’attuale Liguria proprio in
questo periodo geologico. A causa di questo abbassamento del livello delle acque
l’istmo di Suez si prosciugò per ampi tratti permettendo, tra l’altro, la migrazione di
molte importanti specie animali dall’Africa in direzione dell’Asia.
L’Africa, a causa della sua latitudine, era caratterizzata dalla
presenza di foreste equatoriali attorno alle quali si erano
sviluppate aree di savana. Proprio la savana venne a costituire
un’importante fondale su cui si svolsero importanti eventi
legati all’evoluzione umana. Come noto, la savana è un bioma
tipicamente tropicale e subtropicale, caratterizzato da una
vegetazione a prevalenza erbosa, con arbusti e alberi
abbastanza distanziati da non dar luogo a una volta chiusa.
Le savane tropicali e subtropicali sono determinate
principalmente dalla scarsità e marcata stagionalità delle
precipitazioni. Precipitazioni inferiori ai 100-200 mm all'anno
sono infatti insufficienti allo sviluppo di alberi e arbusti, e
determinano regioni di sola prateria erbosa, quali si trovano
tipicamente ai margini dei deserti subtropicali. Spostandosi
gradualmente verso latitudini più piovose (ovvero verso
l'equatore) si osserva prima la comparsa di vegetazione
arbustiva (fino a 300 mm) e poi di alberi isolati (fra i 300 mm
e i 400 mm). Oltre i 400 mm annui, a meno che non
intervengano altri fattori ambientali, gli alberi sono
sufficientemente vicini e ricchi da formare una volta, che
blocca la luce del sole e riduce la presenza erbosa: la savana
cede quindi gradualmente il posto alla foresta.
I mammiferi che vivendo in questo particolare ambiente erano
obbligati a cibarsi di frutti coriacei dotati di guscio (come le
noci), capaci di resistere all’ambiente particolarmente caldo;
un’altra fonte di alimentazione poteva essere costituita da
rizomi, radici succulente con un buon valore nutritivo.
Probabilmente, fu proprio questo ambiente limite a mettere in moto un attività di
selezione naturale che avrebbe presto condotto all’enuclearsi dei cosiddetti ominidi.
I precursori degli ominidi (scimmie) vengono invece più correttamente chiamati
ominoidi. Facendo un piccolo passo indietro, nel Miocene recente (tra i 16 e i 10
milioni di anni fa) gli ominoidi erano presenti in Africa divisi in circa 15 specie. Tra
queste, particolare importanza vennero ad avere i Cercopitechi (kèrkos=coda /
pithekos = scimmia). Si trattava di scimmie erbivore che furono in grado di scendere
sempre più frequentemente dagli alberi procurandosi una più ampia varietà di cibo.
All’opposto i babbuini mantennero più a lungo il vecchio stile di vita, passando
molto più tempo sugli alberi. I cercopitechi erano quadrumani, ovvero avevano i
piedi sviluppati in modo tale da poter svolgere diverse funzioni simili a quelle
esercitati dalle mani; un indubbio vantaggio. Il gomito era sviluppato in senso più
moderno in modo da agevolare lo scavo di buche nel terreno per procurarsi del cibo
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e polso e caviglie erano più sviluppati. Una delle scimmie che per lungo tempo è
stata considerata un progenitore dell’uomo è il Ramapiteco. Al suo interno si
possono distinguere il Silvapitheco, il Gigantopitheco e il Kenyapitheco. Versatili,
questi ominoidi si muovevano sia sugli alberi che a terra. La loro non era una
semplice quadrumania ma una quadrumania di tipo acrobatico. La brachiazione è
infatti la capacità di muoversi di ramo in ramo sospendendosi a “penzoloni”. Si
tratta di un passo in avanti rispetto alle abilità già sviluppate dal Cercopiteco. I
Ramapitechi sono le uniche scimmie arboricole del Miocene capaci, anche se per
breve tempo, di reggersi in piedi sulle gambe. Recenti studi sembrano dimostrare
che questa specie era, tuttavia, poco più di un progenitore dell’Orang-Utan; visse in
India e in Pakistan e non sembra essere collegato con la linea evolutiva umana.
Il tipo di alimentazione, basata sulla raccolta di tuberi e frutti secchi, aveva indotto
in loro lo sviluppo di denti con spessi strato di smalto e, sicuramente, erano degli
ipermasticatori. La caratteristica di tutti questi ominoidi è comunque quella di
potersi reggere in piedi solo per breve tempo e, dunque, di non potere permettersi
lunghe deambulazioni come farà in seguito il genere Homo. In effetti, anche se può
sembrare curioso, è stato dimostrato che la discriminante tra il genere Homo e le
scimmie è proprio basato sulla postura eretta. Procedendo nel discorso sarà più
chiara la ragione di questo punto di vista della moderna ricerca scientifica.
Dai Ramapitechi, brachiatori, quadrumani, capaci di camminare brevemente anche
a terra e – finalmente – con una lunghezza delle braccia paragonabile a quella delle
gambe – si staccarono abbastanza presto il proto-gorilla e il proto-scimpanzè.
Il genere Homo è però qualcosa di diverso dunque il famoso “anello mancante” va
cercato in qualche altra direzione.
La cosiddetta nascita dell’uomo: Le prime tracce archeologiche di una sicura
posizione eretta vengono dalle famose orme di Laetoli, una località della Tanzania
posta lungo la Rift Valley. La Rift Valley è una spaccatura naturale della crosta
terrestre che si genera in prossimità del lago di Tiberiade, segue la valle del
Giordano, passa sotto un tratto del Mar Rosso e quindi segna fisicamente un ampio
tratto nord-sud di Etiopia, Tanzania e Kenya. La sua genesi è probabilmente legata
al movimento delle placche continentali e, anche se il processo geologico è molto
lento, è molto probabile che nei prossimi millenni si amplierà ulteriormente.
La Rift Valley è un luogo privilegiato per la ricerca antropologica perché si presenta
come un profondissimo canyon dove gli strati geologici scendono a ritroso per
milioni di anni e si presentano alla vista lungo le falesie naturali. Assieme ai reperti
geologici, le missioni scientifiche hanno qui avuto l’occasione di trovare anche le più
antiche tracce di ominidi.
Nel caso di Laetoli, 3,7 milioni di anni fa l’area era occupata da savana e vi si trovava
un vulcano. A seguito di un’eruzione un’ingente massa di cenere a lapilli venne a
depositarsi sul terreno basale. Su questo strato di ceneri ormai raffreddate
passeggiarono due individui le cui orme dimostrano che disponevano di una piena
postura eretta. Caso volle che poco dopo il loro passaggio si scatenasse un temporale
che trasformò le ceneri vulcaniche in fanghiglia. Infine una nuova eruzione vulcanica
sigillò le impronte fossili, restituendole allo sguardo allibito dei ricercatori negli anni
’70. Ma a chi appartenevano queste orme?
Nel 1974, nella regione dell’Hadar, in Etiopia, venne scoperto lo scheletro completo
di un vero e proprio ominide, una femmina di 20 anni. Lo scheletro venne
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soprannominato Lucy in onore della famosa canzone dei Beatles intitolata “Lucy in
the sky” che veniva frequentemente suonata dalla radiolina disposizione dei
paleontologi sul campo di scavo. Si trattava di uno individuo caratterizzato da
matura bipedìa, con mandibola pronunciata e dentatura molto sviluppata,
soprattutto al livello dei molari che erano necessari per masticare cibo molto
coriaceo. Lo scheletro era naturalmente ancora piuttosto gracile, le braccia più corte
di quelle dei Cercopitechi, le ali iliache abbastanza sviluppate per permettere
l’inserzione dei tendini e dei muscoli che permettevano loro di procedere con la
postura eretta. L’altezza era piuttosto modesta rispetto alla nostra e si aggirava su
1,30 m. con un peso corporeo di 35/40 kg. Il cervello aveva un volume stimabile in
350 cm3, molto meno del nostro che si aggira sui 1200 cm3. E ‘probabile che gli
autralopitechi disponessero di una pelle moderatamente nuda con parti glabre di
colorito scuro. Dal punto di vista dell’alimentazione dovevano essere per lo più
vegetariani ed erano essi stessi preda di animali carnivori. Non erano in grado,
almeno nelle prime fasi, di costruire strumenti e così sfruttavano rami e sassi che
raccoglievano nella savana. La masticazione prolungata era tanto più necessaria dal
momento che l’Australopiteco non conosceva il fuoco.
Riesaminando il complesso di resti ossei conservati nei diversi musei del mondo e
confrontando le diverse ricerche scientifiche è possibile risalire a ritroso fino al
primo esemplare mai scoperto che risale a oltre cinquant’anni prima. E’ noto infatti
che nel 1925, in una cava a Taung in Botswana, un anatomista di nome Raymond
Dart scoprì un cranietto infantile molto arcaico che fu presentato alla comunità
scientifica. Fu proprio Raymond Dart ad attribuirgli il nome convenzionale di
“australopiteco” (ovvero “scimmia del sud”) un nome che è rimasto in uso nella
comunità scientifica sino ad oggi.
Gli Australopiteci sopravvissero sino ad 1 milione di anni fa, dopo di che si estinsero
definitivamente lasciando spazio a diverse famiglie evolutive sparse su un ampio
territorio.
All’interno della specie austrolopitecina si possono distinguere alcune varianti di cui
diamo qui breve cenno. L’Australopiteco afarensis prende il nome dalla
depressione dell’Afar. Fa parte di questa variante la stessa Lucy. L’Australopitecus
africanus visse nello stesso periodo e si caratterizzava per un cervello più
sviluppato, di circa 500 cm3. L’Australopiteco robustus aveva un volume
celebrale leggermente maggiore, una cresta sagittale sul capo e potenti muscoli
masticatori. Secondo alcuni studiosi africanus e robustus rappresentano non due
diversi rami evolutivi ma, semplicemente, la manifestazione di un diformismo
sessuale. Il robustus corrisponderebbe dunque al maschio e l’africanus alla
femmina.
Una breve parentesi va anche riservata al cosiddetto Pitecantropo scoperto
nell’isola di Giava. Per lungo tempo fu considerato l’anello mancante ma si trattava
di un errore; il suo scheletro ha caratteri molto più moderni ed appartiene ad un
ominide del genere erectus, vissuto molto tempo più tardi.
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Naturalmente negli ultimi decenni sono fatte diverse piccole scoperte che sembrano
aiutarci a colmare quello che comunemente viene detto “anello mancante” ovvero
fossili compresi tra i 6 e gli 8 milioni di anni fa. In questo senso possiamo ricordare
la scoperta dell’Ardapithecus ramidus, i cui resti sono datati a 4,4 milioni di anni
fa o quella dell’Australopthecus anamensis. A questi potremmo aggiungere
molti altri tipi di Homo ma la brevità di questa trattazione non permette un
eccessivo livello di approfondimento.
2.4 - L’Homo Habilis e la capacità progettuale: L’Homo habilis è stato identificato sempre
nell’area africana nel corso degli anni ’70. Si tratta di una tipologia di ominide molto
interessante, caratterizzata da un corpo più gracile degli ominoidi, braccia e gambe
di lunghezza sempre più simile, maggiore sviluppo degli incisivi rispetto ai molari
che implicano una diete più diversificata, presenza del pollice opponibile e di una
buona capacità mentale (circa 700 cm3). Il nome di habilis gli è stato dato per il fatto
che a questo tipo di Homo si associa per la prima volta la capacità di produrre
strumenti scheggiati. Questo passo in avanti è molto importante perché sottintende
la capacità progettuale ovvero quella di immaginare astrattamente un prodotto finito
che verrà poi realizzato con una serie di operazioni meccaniche sequenziali.
Gli strumenti tipicamente associati all’Homo Habilis sono i cosiddetti chopper,
ciottoli fluviali che sono stati spaccati in alcuni punti ben definiti con l’azione di
percussione diretta per mezzo di un altro ciottolo. La percussione, in effetti, può
avvenire in due modi: in modo diretto (battendo un ciottolo – chiamato “percussore”
- su un altro – chiamato “nucleo”) o utilizzando una sorta di scalpello (percussione
indiretta). L’uso di uno scalpello poi colpito con un percussore per staccare schegge
da un nucleo sarà una conquista fatta dall’uomo molto più tardi e permetterà di
realizzare lame molto più ricercate, di forma e lunghezza voluta.
In realtà l’Homo Habilis non era ancora un cacciatore: capace di procurarsi tuberi e
radici approfittava delle carcasse di animali abbandonati per lo più da predatori (ad
es. felini) continuando a praticare lo scavening. Potremmo insomma dire che più
che predatore era egli stesso predato. I più antichi oggetti scheggiati dall’umanità
sembrerebbero in verità risalire a 2 milioni e mezzo di anni fa. Questo dovrebbe
quindi implicare che i primi ominidi “abili” furono gli stessi australopiteci; oppure la
datazione dell’habilis va portata ancora più indietro.
2.5 - Come si è evoluto il corpo umano: E’ ora opportuno fare un piccolo riepilogo dei caratteri
che contraddistinguono la specie umana nel corso della sua evoluzione. Come noto,
gli antropologi hanno a disposizione solamente i resti scheletrici che sono veramente
molto parziali. Tuttavia la conformazione delle parti ossee è sempre collegata alla
sua funzione di supporto ai tendini e ai muscoli. Così è possibile risalire a molti dati
sull’aspetto complessivo dei primi ominidi.
Un primo elemento da tenere in considerazione è la dentatura e il tipo di
masticazione. Abbiamo visto che lo sviluppo di molari molto grandi è caratteristico
delle prime fasi storiche dell’uomo perché con i molari è possibile disgregare e
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rendere digeribili tuberi e frutti secchi, tipici di quella alimentazione vegetariana
consentita agli autralopiteci. Con Homo Habilis osserviamo un avanzarsi del mento
e uno sviluppo accentuato di incisivi e canini. Questo permette di incidere e
strappare meglio, una cosa particolarmente utile soprattutto quando la dieta si fa
onnivora e comprende anche la carne. E’ inoltre chiaro che nel corso dell’evoluzione
il cervello umano andò ingrandendosi e con esso la scatola cranica. Molto
lentamente, la fronte si fece sempre più verticale (quella umana lo è molto di più di
quella delle scimmie) permettendo un migliore alloggiamento del cervello.
In realtà ci si potrebbe chiedere perché con l’evolversi della specie il cervello si sia
ingrandito. Che rapporto esiste tra la grandezza del cervello e l’intelligenza?
Possiamo ad esempio considerare che l’elefante ha un cervello quattro volte più
grande dell’uomo ma ha un peso corporeo molto più elevato. Se però teniamo in
considerazione il rapporto tra peso corporeo e peso cerebrale osserveremo che
nell’uomo il cervello rappresenta il 2% del peso corporeo e nel lemure raggiunge il
3%. Un risultato non molto prestigioso per la nostra specie. Sembra dunque che la
vera differenza tra i primati e gli altri mammiferi vada cercata nella fase prenatale.
Se infatti confrontiamo le dimensioni del cervello di un feto umano con quello di
una scimmia di pari peso, vedremo che il bimbo umano presenta un cervello molto
più sviluppato. La differenza verrà colmata nel corso della crescita postatale.
Una teoria molto interessante è che la crescita del cervello sia correlata alle
disponibilità energetiche che quella data specie si può permettere in un dato
ambiente. Le scimmie ragno, per es., sono frugifere e hanno una dieta più ricca delle
scimmie ragno che invece di nutrono di foglie raccolte sul terreno. Le prime hanno
una massa celebrale maggiore perché hanno una dieta più ricca mentre le seconde
impiegano molto più tempo nella masticazione e nella digestione con un apporto
calorico finale modesto. Questo ha permesso alle scimmie ragno di deambulare più
ampiamente e di avere relazioni sociali un po’ più complesse. Analogamente, il
genere Homo, nello stadio fetale, sembra consumare una grande quantità di risorse
energetiche che gli sono fornite dalla madre. Si pensi, a questo proposito, che i
bambini nella fase prenatale consumano il 60% dell’energia fornita dalla madre
sotto forma di attività cerebrale. Questa è una eccezione. Così il cervello umano, nei
millenni, ha continuato a crescere potendoselo permettere grazie al graduale
miglioramento della dieta. Negli ultimi millenni il cervello umano sta invece
andando incontro per la prima volta a una diminuzione delle dimensioni se è vero
che l’uomo di Neanderthal aveva un cervello più grande del nostro. A tutto questo si
può aggiungere l’osservazione che l’Australopiteco inventò i primissimi strumenti
quando il suo cervello non si era ancora distanziato di molto in dimensione da quello
delle scimmie. Come si vede il discorso è molto complesso e coinvolge anche la
forma della rete neuronale.
Il capitolo più interessante è invece quello che riguarda la deambulazione, il vero
elemento che distingue le scimmie dell’uomo. La posizione eretta comporta una
serie di svantaggi sperimentabili da ognuno di noi. I quadrupedi piegando la caviglia
tramite i flessori plantari hanno la possibilità di essere immediatamente proiettati in
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avanti e, anche distendendo il ginocchio, ottengono un effetto propulsivo. Tutto
questo dipende dal fatto che il loro baricentro è spostato in avanti. L’uomo invece ha
il baricentro verticale. Dunque quando piega i flessori plantari fa un semplice salto
sullo stesso posto e non procede di un millimetro. Per questo motivo i quadrupedi
hanno una deambulazione molto più veloce della nostra e non soffrono di quel mal
di schiena che affigge molti di noi, soprattutto nella vecchiaia.
L’uomo per spostarsi deve innanzitutto squilibrarsi in avanti: alziamo una gamba
che per un breve istante rimane sospesa nell’aria. Provvedono alla sua locomozione i
muscoli dei glutei e in particolare i bicipiti del femore che collegano le ali iliache del
bacino al retro del femore. La gamba mentre è sospesa in aria tende ad oscillare
anche lateralmente ed è quindi necessario fare intervenire dei muscoli che ne
controllino la posizione. Si tratta dei muscoli abduttori che si agganciano sulle ali
iliache e sono collegati al femore. Per permettere il loro funzionamento il bacino
umano, durante l’evoluzione, si è incurvato così che le nostre ali iliache sono
sporgenti. Quelle delle scimmie sono invece piatte. Sbilanciati in avanti, a questo
punto, siamo costretti ad appoggiare il tallone a terra. Per evitare di cadere è
necessario fare intervenire altri muscoli e cioè i quadricipiti del femore che
scavalcano la patella del ginocchio. Trovato un momentaneo equilibrio possiamo ora
sollevare l’altra gamba e continuare a camminare. E’ dunque evidente quanto
macchinosa e complessa sia la locomozione umana. Perché dunque i primi ominidi
si sforzarono di raggiungere questo stadio? Si crede innanzitutto per liberare le mani
e permettere la raccolta e il trasporto di cibo per sé e i propri figli e poi soprattutto
avere una migliore visione di ciò che li circondava. E’ anche per questo che gli occhi
si sono progressivamente avvicinati permettendo una visione stereometrica della
realtà. Gli ominidi presenteranno progressivamente una serie di evoluzioni
strutturali che sono funzionali alla deambulazione eretta: angolo del ginocchio
tendente ai 180°, rafforzamento del tallone per reggere il peso del corpo,
accorciamento delle braccia, perdita dell’opponibilità dell’alluce del piede che
originariamente era utile per appendersi ai rami degli alberi.
2.6 - Homo Erectus: Un esemplare rappresentativo del genere Erectus è il cosiddetto Uomo del
Turkana, scoperto nel 1985 ad ovest del Lago Turkana. Si tratta di un’adolescente
che avrebbe raggiunto, in età matura, l’altezza di 1,70 m.; il corpo era piuttosto
slanciato, le gambe più lunghe delle braccia, il cervello da 1000 cm3, aveva una
formidabile masticazione anteriore ed una scatola cranica piuttosto spessa.
All’Homo erectus, vissuto a partire da 1.600.000 anni fa, si associa
tradizionalmente la colonizzazione degli ambienti extra africani che fino a questo
momento – almeno fino a prova contraria - non avevano mai visto la presenza di
alcun tipo di genere umano. Da questo momento troviamo infatti ominidi in Cina
(da cui proviene un reperto battezzato “uomo di Pechino” di ben 500.000 anni,
attualmente, perduto), nell’isola di Giava, in Europa meridionale, in Francia, in
Germania (da cui proviene una delle più antiche scatole craniche d’Europa datata a
600.000 anni fa – loc. Mauer) e in Grecia (cranio di Petralona). Questo nuovo tipo
di ominide ebbe soprattutto la capacità di adattarsi ad ecosistemi e climi molto
differenti da quelli che si potevano trovare nella savana. Distribuendosi su territori
così estesi egli dette probabilmente il via anche alla genesi delle varie razze. A lui si
deve probabilmente l’invenzione di prime capanne usate per brevi periodi durante
gli spostamenti nei territori di caccia e l’accensione dei primi focolari.
Recentemente è stato osservato che l’Homo Erectus, diffusosi all’esterno dell’Africa,
non utilizzava la tecnica di scheggiatura più evoluta che convenzionalmente
chiamiamo acheuleana. Così gli archeologi si sono chiesti per quale ragione non
l’avesse portata con sé visto che nello stesso periodo la si trova nell’area africana.
La cosa è complicata dal fatto che recenti datazioni di reperti di ominidi scoperti
fuori dall’Africa (ad es. l’uomo di Giava e quello di Dmanisi scoperto in Georgia)
hanno offerto una datazione più antica di quanto supposto fino a poco tempo fa:
circa 1 milione e ottocentomila anni. Dunque l’esodo dall’Africa avvenne prima di
quanto ritenuto sino a ieri. Possiamo dunque dire che fu davvero l’Homo erectus il
responsabile di questa migrazione planetaria?
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Riosservando i reperti osteologici del periodo della migrazione si è dunque giunti
alla conclusione che sia più corretto attribuirli ad un precursore dell’Homo Erectus
che è stato denominato Homo Ergaster. Costui, vissuto in Africa circa 1.800.000
anni fa non era in grado di andare oltre la realizzazione dei choppers (come l’Homo
Habilis). Quando migro dall’Africa in Asia portò con sé questa tecnica di
scheggiatura primitiva. Solo 1 milione e 400.000 anni fa i suoi discendenti, sempre
in Africa, misero a punto quella tecnica che viene per l’appunto detta acheuleiana
e con cui fu possibile ricavare i primi strumenti a goccia. Il ramo di Erectus sembra
essere un ramo secco nella catena evolutiva. Probabilmente seguì lo stesso destino
dei Neanderthaliani europei che furono eliminati dai Sapiens
Ma che cosa accadeva in quegli anni in Europa? I più antichi resti osteologici sono
relativamente recenti perché non vanno oltre gli 800.000 anni. In particolare,
grandi passi in avanti sono stati fatti negli scavi della Gran Dolina, nella caverna di
Atapuerca, nel nord della Spagna, ad opera di Eudald Carbonell. Qui si sono
trovate tracce di individui che non sembrano conoscere la tecnica acheuluiana ma
che presentano caratteri fisici ancora diversi da quelli dall’erectus asiatico. Questi
ominidi europeisono stati battezzati Homo Rudolfensis. Questi ominidi pare
abbiano seguito un proprio modus evolutivo dando poi luogo, tempo dopo, al
famoso uomo di Neanderthal. Da dove proveniva l’Homo Rudolfenis? Sembra
anch’esso dall’Africa ove se ne sono trovati esemplari vecchi di circa 600.000 anni
fa. Dunque l’Europa sarebbe stata colonizzata da un’ondata differente da quella
asiatica (Erectus) e sviluppatasi ben più tardi.
Esistono molti interrogativi riguardo la possibilità che Homo erectus abbia avuto un
mondo di credenze e di pratiche rituali, per quanto abbastanza primitive.
Nell’ambito del dibattito che si è aperto sin dagli anni ’70, un ruolo significativo è
stato giocato dalla scoperta di un cranio frantumato in centinaia di pezzi nel 1976
nella valle del fiume Awash. (Etiopia) Nella zona degli zigomi e delle arcate orbitali
vi sono stati infatti riconosciute tracce di taglio molto sospette ed eseguite con l’aiuto
di una piccola selce. L’ipotesi è che, dopo la morte dell’individuo, esse siano state
praticate sul cranio per forme di cannibalismo rituale. L’osservazione ha facilitato il
riesame di alcune vecchie testimonianze relative al cosiddetto ominide di
Choukoutien (in Cina) i cui resti sono però andati perduti durante la seconda
Guerra Mondiale. Nella grotta cinese fu scoperta una quantità di crani
preponderante rispetto ai resti scheletrici, una cosa anomala che aveva indotto gli
studiosi a chiedersi se questi ultimi non fossero stati introdotti intenzionalmente
come “sepolture secondarie”. Tracce di rottura su alcune ossa facevano inoltre
pensare che si fosse tentato in qualche modo di raggiungere la massa cerebrale.
L’antropofagia è attestata tra popolazioni di età storica; gli esploratori hanno
riferito di gruppi umani che trattenevano le teste dei defunti come trofei
partecipando, dopo la loro essicazione, a forme di pasto rituale. Il cranio di Bodo
(così fu soprannominato il cranio scoperto ad Awash) si data tra 200 e 500 milioni
di anni fa e dunque potrebbe essere appartenuto ad un Homo ergaster, ma anche su
questo permangono dubbi.
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2.7 - La nascita delle prime capanne: Un luogo comune sulla preistoria, analogo all'etichetta di
«età della pietra», è sicuramente la definizione di «uomo delle caverne».
L'immagine dei nostri più lontani antenati che, abbandonata la foresta, cercano
disperatamente un rifugio nelle grotte e magari le contendono ad animali feroci ha
avuto un discreto successo; per la verità è una ricostruzione che dovrebbe far
sorridere. Prima di tutto bisogna riconoscere che la culla dell'umanità, in particolare le regioni vulcaniche del Kenia e della Tanzania, sono davvero povere di
caverne: quindi, se l'Homo habilis avesse abitudini cavernicole, dovrebbe sentire
più di noi il problema della casa, per quanto sia una specie ancora poco numerosa.
Né ci devono ingannare le tracce di esseri umani o di animali entrati in grotte per
cause naturali: è il caso degli inghiottitoi di Sterkfontein e di Swartkrans, in
Sudafrica; si tratta di caverne-pozzo che hanno svolto la funzione di imbuto,
inghiottendo quanto trasportato dalle acque di superficie o che comunque vi è
caduto, ossa di australopiteci e di Homo habilis comprese.
Le tracce archeologiche dei primi accampamenti umani sono tutte all'aperto e, fatto
ancora più sorprendente, rivelano resti di probabili capanne. La località di
riferimento è, ancora una volta, la gola di Olduvai: l'Homo habilis, circa 1800 000
anni fa, costruisce un cerchio di ciottoli di circa 4 metri di diametro ed alto sino ad
una trentina di centimetri; la struttura è interpretata come la base d'appoggio per
rami che formano l'ossatura di una capanna. Olduvai non è un caso isolato:
ammassi di ciottoli disposti ad ellisse od a cerchio e con dimensioni variabili tra 3 e
6 metri sono stati scoperti nel sito contemporaneo ad Olduvai di Melka Kunturé
(Etiopia). La base, sempre più o meno circolare, è dovuta al fatto che coincide con
il modo più semplice per costruire la capanna: i rami sono appoggiati
obliquamente uno contro l'altro e l'abitazione assume una forma conica. L'analisi
dei pollini ha inoltre dimostrato un'occupazione prevalentemente invernale delle
capanne, il che conferma la funzione anti-intemperie di queste strutture. Anche
l'Homo erectus mostra di preferire gli abitati all'aperto. È esemplare la serie di
grandi stanziamenti scoperta alla periferia di Isernia (località La Pineta): qui
le tribù di Homo rudolfenisis, circa 700 000 anni fa, si accampano sulle rive di
un fiume, occupando uno spazio di alcune migliaia di metri quadrati. Per la verità,
non mancano stanziamenti in caverna, concentrati soprattutto in Europa ed in
Asia settentrionale: tra questi, i più importanti sono quelli di Choukoutien, che
hanno rivelato i resti del cosiddetto Sinantropo.
La scelta dell'accampamento in caverna o all'aperto sembra così dovuta a più
fattori, come la disponibilità locale di rifugi naturali, il clima e la durata prevista
del soggiorno.
2.8 - La scoperta del fuoco: In alcuni siti esplorati nell'Etiopia e nel Kenia si individuano tracce
della presenza del fuoco, databili a partire da un milione e mezzo di anni fa. Ma si
tratta di indizi troppo incerti, che non permettono di asserire che l'uomo usasse già
così anticamente il fuoco.
In realtà, da quello che ci è dato sapere oggi, ben più tardi, meno di mezzo milione di
anni fa, l'Homo erectus scopre l'uso del fuoco: infatti non si conoscono tracce di
focolari precedenti alla glaciazione alpina Mindel. Quelli, ad esempio, degli accampamenti all'aperto di Terra Amata, ad est di Nizza, o degli abitati nella grotta
di Choukoutien, databili tra i 450 000 ed i 300 000 anni fa, sono dunque fra i più
antichi focolari tutt'oggi noti sulla Terra. Nel caso di Terra Amata (accampamento
datato a quasi 400 000 anni fa) si osserva che i focolari sono costruiti con cura: si
trovano dentro la capanna e vengono accesi o su un piccolo basamento di ciottoli o
su una conca scavata nel terreno; inoltre un mucchio di ciottoli tenuto insieme con
della sabbia protegge il fuoco dai venti di nord-ovest ancora oggi dominanti. Come
se non bastasse, l'Homo erectus a Terra Amata sa che il legno resinoso si incendia
più facilmente e lo predilige: così ci informa l'analisi dei carboni che provengono dai
focolari.
Non ci possono quindi essere dubbi sul fatto che l'uomo ha ormai raggiunto una
discreta confidenza con la fiamma: il che fa supporre che sia già trascorso molto
tempo dal primo impatto, dal primo uso del fuoco.
Una conferma sembra provenire dalla località di Torralba, circa 150 km a nord-est
di Madrid. È uno dei tanti giacimenti preistorici venuti in luce il secolo scorso per
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caso: nel 1888, gli operai che dovevano tracciare la strada ferrata si trovarono di
fronte ad ossa di elefante. Quasi cento anni di ricerche permettono una ricostruzione
abbastanza attendibile di battute di caccia avvenute 300 000 anni fa: l'Homo erectus
sarebbe riuscito a spingere mandrie di elefanti dalla prateria verso zone paludose, in
cui i pachidermi sarebbero sprofondati, diventando più facile preda dei cacciatori; lo
strumento usato per cacciare in trappola questi giganteschi animali sarebbe proprio
il fuoco (legni carbonizzati provengono dalle superfici su cui gli elefanti sono stati
uccisi e macellati).
Le tracce di combustione e i focolari veri e propri diventano numerosi solo più tardi,
a partire da giacimenti contemporanei alla glaciazione alpina Riss (200 000 anni fa)
e la loro varietà aumenta naturalmente man mano si procede verso tempi più
recenti. Qualunque sia il modo con cui l'uomo prende padronanza del fuoco e riesce
a produrlo, sta di fatto che questo prodotto migliora sensibilmente la qualità della
vita: oltre al vantaggio di disporre di cibo cotto, più tenero e più digeribile, va detto
che il calore e la sicurezza che la fiamma fornisce favoriscono la stabilità e la
coesione tra i membri delle comunità. Inoltre il dominio del fuoco è di grande utilità
in situazioni climatiche critiche e solo grazie al fuoco è possibile estendere la zona
d'influenza dell'uomo alle aree fredde. Anche il ritmo giorno/notte imposto dalla
luce solare è in parte superato: così si accresce l'attività giornaliera e, con essa,
l'opportunità per l'uomo di estendere i propri interessi ad un ventaglio ben più
ampio di operazioni (il che è uno stimolo alla creatività umana).
Il fuoco offre dei vantaggi ma impone anche qualche vincolo: la sorveglianza e
la cura continua di cui necessita implicano una più alta complessità ed
organizzazione delle mansioni di ogni individuo, conducendo a una maggiore
specializzazione del lavoro. La cottura degli alimenti ne è un esempio: una parte
del tempo disponibile deve essere speso per procurare il combustibile, per
approntare il focolare e quindi per cuocere.
2.9 - L’Homo Neanderthalenis: Nel 1856, alcuni operai all’opera nella Valle di Neander (presso la
grotta di Feldhofen), in Germania – non lontano da Dusserdolf – portarono alla luce
i resti di un ominide dai caratteri del tutto insoliti. Si trattava dei resti di un
individuo piuttosto robusto con una notevole capacità cranica ma caratteri piuttosto
arcaici: fosse orbitali molto segnate, zigomi inclinati verso il basso, fronte sfuggente,
eccezionale capacità cranica. Solo un anno dopo, William King, attribuiva a questo
individuo il nome di Homo neanderthalensis, denominazione che è rimasta
valida sino ad oggi.
Osservando questi resti umani l'anatomista H. Schaaffhausen si convinceva di
avere di fronte le ossa di una specie umana estinta. Ma Darwin avrebbe esposto le
sue idee sull'evoluzione degli esseri viventi solo due anni dopo: ne conseguì che per
lo studioso tedesco quelle ossa non potevano appartenere ad un nostro antenato.
Egli pensava piuttosto che si trattasse di un individuo di una razza particolarmente
selvaggia, vissuta nel nord Europa al tempo dei Romani.
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Uno studioso francese, Marcellin Boule, dopo aver analizzato ossa simili scoperte
presso il sito francese di Le Chapelle aux-Saint - nel 1908 - giunse alla
conclusione che si trattava di un essere involuto a metà strada tra la scimmia e
l’uomo moderno. Nelle ricostruzioni dell’epoca, effettivamente, l’uomo di
Neanderthal appare un po’ caricaturale, con la gobba, le gambe un po’ curve, i piedi
ruotati e modestissime possibilità di comunicare con il linguaggio. In questa
accezione l’uomo di Neanderthal appariva come un essere aberrante, una sorta di
mostruosità deforme frutto di una degenerazione genetica. In realtà, oggi sappiamo
che i neandertaliani furono abili cacciatori, che approfittarono dell’ampia
disponibilità di fauna in un particolare periodo climatico caratterizzato da un brusco
abbassamento delle temperatura. L’apogeo di Neanderthal coincide infatti con il
periodo delle glaciazioni. A livello strutturale presentavano scheletri robustissimi,
un cranio leggermente più basso del nostro, arcate sopraorbitali sporgenti, un
cervello addirittura più sviluppato volumetricamente di quello dell’uomo moderno
(1650 cm3), una fonte ancora abbastanza sfuggente all’indietro, mascella superiore
molto massiccia, narici larghe e un cranio sporgente lungo la linea mediana, cosa a
cui corrispondeva una certa specializzazione degli incisivi. Per quanto riguarda gli
arti, gli avambracci e le gambe erano molto corti se rapportati alle braccia ed alle
cosce: curiosamente questo carattere si riscontra ancora fra i Lapponi e gli
Eschimesi attuali e viene generalmente interpretato come una forma di
adattamento ad un clima più freddo. Infine, nonostante la struttura ossea e
muscolare nella zona orale fosse massiccia, vi sono buone ragioni per pensare che i
neandertaliani fossero in grado di esprimere una forma di linguaggio piuttosto
articolato.
In molte mandibole neanderthaliane si nota un diastema tra i molari abbastanza
insolito; per spiegarlo si ipotizzato che questi ominidi conciassero le pelli
masticandole. Le inserzioni dei muscoli sulle ossa sono molto segnate e questo fa
pensare che fossero molto forti. Come noto, l’apparato muscolare si aggancia
all’apparato scheletrico tramite i tendini ed i tendini lasciano sulle ossa segni ben
riconoscibili. Nel corso del lungo meccanismo evolutivo prevalgono quelle strutture
scheletriche conformate in modo da favore l’azione muscolare. Nel caso dei
Neanderthaliani l’astragalo – un osso della caviglia – era piatto per rinforzare la
caviglia stessa, anche l’arcata plantare e le dita dei piedi erano più robuste del
normale ed i polpastrelli avevano una protuberanza tuberosa che doveva conferire
alle dita una certa presa. Nelle scapole si nota un incavo che favorisce l’inserzione di
un muscolo chiamato rotondo piccolo – che lega scapole ed omero - ; esso viene
sfruttato soprattutto durante il getto. Il rotondo piccolo, contraendosi, avvicina
l’omero alle scapole e permette il controllo del braccio durante il lancio. Una cavità
sulle scapole facilita la funzione di questo muscolo; nei neanderthalani essa è molto
ben sviluppata.
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I neanderthalani avevano anche un arco superiore del bacino alleggerito che creava
un foro tra le ossa pelviche più sviluppato così da avvantaggiare il parto, tanto più
che, come abbiamo visto, le dimensioni del cranio erano intanto notevolmente
cresciute. I neanderthaliani hanno lasciato anche una cultura materiale di grande
livello. Producevano raschiatoi, punte di freccia, pugnali molto raffinati con una
capacità di progettazione che sottintende una certa capacità di astrazione.
L'industria musteriana costituisce, grosso modo, un aspetto della cultura materiale
prodotta dall’Uomo di Neanderthal. E come costui è una figura dai contorni un po'
sfumati, sia nello spazio che nel tempo, così sono altrettanto annebbiate le origini e
l'area di diffusione dell'industria musteriana. Certo è possibile riconoscere
soprattutto un aspetto che si diffonde con essa e che ne fa qualcosa di nuovo e
rivoluzionario rispetto ai prodotti dell'Homo erectus. Si tratta di una tecnica di
scheggiatura della pietra che aveva lo scopo di controllare la grandezza e la forma
della scheggia che si voleva estrarre, facendo subire al ciottolo una scheggiatura
preliminare (il ciottolo pre-lavorato assume la denominazione di nucleo).
Per procedere nella scheggiatura era necessario sezionare, a livello immaginario, il
ciottolo con una linea orizzontale e poi effettuare una serie di scheggiature di
preparazione. A seguito di questo, il blocco poteva dare molte schegge allungate
senza deteriorarsi ma anzi presentando sempre nuove superfici pronte per essere
lavorate. La grande importanza di questa tecnica sta nel fatto che i nuclei e le
schegge sono dei prodotti di forma e dimensioni standardizzate e, quindi,
estremamente funzionali. Questa tecnica viene definita levalloisiana, dal nome di
un sobborgo nordoccidentale di Parigi, Levallois-Perret, in cui già nel secolo scorso
si raccoglievano strumenti di selce lavorati in questo modo.
Oggetti di questo tipo si diffonderanno ben oltre la zona di sviluppo dei neandertaliani: sono attestati, ad esempio, in Cina, in India e in Sudafrica.
2.10 – La cura dei defunti: I neanderthalani sono anche responsabili dei primi atti di cura dei
defunti.La sepoltura - cioè la deposizione intenzionale di un cadavere nel terreno ed il
suo ricoprimento che ne esclude la vista agli altri uomini ed agli animali - può
motivarsi solo con la convinzione che la morte sia un fatto temporaneo, che esista un
Oltretomba; solo in questo caso, in vista di un eventuale ritorno alla vita, si impone
che il corpo sia protetto dagli agenti disgregatori che operano sulla superficie.
Come abbiamo detto, non si può affatto escludere che già tempo prima del sorgere
della cultura musteriana i cadaveri fossero oggetto di un trattamento specifico, di cui
può non è rimasta alcuna traccia. Tuttavia le molte sepolture di neandertaliani,
rinvenute a partire dal secolo scorso, non lasciano dubbi sul fatto che è solo con i
gruppi musteriani che questa pratica si diffuse.
A prima vista il quadro finora delineato potrebbe suggerire l'idea che la cultura
musteriana sia un fatto molto esteso nel tempo e nello spazio e, per di più, dotato di
grande omogeneità. In realtà essa è certamente contraddistinta da alcuni elementichiave comuni (ad esempio, la tecnica levalloisiana e la sepoltura dei morti), ma per
tutto il resto di omogeneo vi è assai poco.
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Già nel 1914, durante gli scavi presso la grotta di Le Moustier, furono individuate
due sepolture neanderthaliane in fossa terrigna (una di adulto e una di bambino) che
sembravano essere state volontariamente sigillate con alcune pietre poste di piatto.
Sei anni dopo, nel riparo francese di La Ferrassie, l’archeologo Denis Peyrony
portò alla luce una serie di sepolture in fossa spesso affiancate da piccoli monticelli
di terra o di scagliette di pietra. I corpi non disponevano di corredo – l’esistenza di
ricchi corredi, indice di una differenziazione sociale, è infatti attribuibile per la
prima volta solo all’Homo Sapiens Sapiens - ma alcune scagliette di osso e pietra
poste nella fossa sembrano essere stati una forma di omaggio al defunto.
A Shanidar, una grotta situata nell’Irak curdo nei Monti dello Zagros, sono state
trovate diverse sepolture. Alcune erano di individui morti a seguito del crollo di una
parte della grotta; alcune scagliette di pietra furono poste sopra le fosse sepolcrali
come segno di rispetto. Un altro individuo sembra sia stato colpito da una punta di
freccia al torace e morto di morte violenta. C’è chi ha visto in questo evento la prova
di una scontro tra i Sapiens che possedevano già l’arco e le frecce ed i neandertaliani,
in una competizione che avrebbe visto vittorioso il nostro ramo evolutivo ma… una
“rondine non fa necessariamente primavera”. Ciò che invece è significativo è che i
congiunti deposero fiori gialli e azzurri ai lati della tomba, (giacinto selvatico, altea
rosata, senecio) anticipando un comportamento che potremmo definire moderno. In
Uzbekistan a Tekis Tas, a 100 km da Samarcanda, dei palchi di cranio di stambecco
(ovis siberiensis) furono deposti in cerchio attorno alla sepoltura di un bambino di
8-9 anni.
Infine, possiamo citare il caso del sito di Kebara, in Israele, ove un neanderthaliano
fu sepolto in una fossa in posizione supina ma mutilato della testa (la mandibola
invece si trovava al suo posto), privo della gamba destra e con la gamba sinistra
incompleta. Secondo gli scopritori, il corpo fu inserito a forza contro una delle pareti
della roccia. E’ interessante che tutto il resto dello scheletro era ancora in
connessione anatomica, dunque le pratiche di mutilazione avvennero quando le
parti molli non si erano ancora decomposte.
Si tratta di tutti segni che dimostrano una sviluppata sensibilità del genere
Neanderthal. Anche in Tunisia, a El-Guettar è stato portato alla luce un cumulo di
pietre artificiale alto 75 cm e con un diametro di 1m e 35 cm., realizzato da
neanderthaliani facendo uso di pietre opportunamente arrotondate; fu costruito per
coprire resti ossei, denti e selci scheggiate parte di un qualche misterioso rito
religioso.
I neanderthalani si svilupparono nella fascia compresa tra Gibilterra e l’Estremo
Oriente tra 150.000 anni fa e 35.,000 anni fa. Durante tutta la loro permanenza in
questa fascia essi non incontrarono presumibilmente ne Erectus né Sapiens Sapiens.
E’ però certo che attorno ai 35.000 anni fa scomparsero lasciandoci ampio spazio.
Da tempo ci si chiede come questo sia potuto accadere. Secondo alcuni scienziati i
Neanderthal si sarebbero fusi con i nuovi venuti (Sapiens) e, avendo caratteri geetici
regressivi, avrebbero lasciato in noi un a modesta eredità. Se fossi così una parte di
sangue neanderthaliano scorrerebbe anche nelle nostre vene. Questa ipotesi però è
molto problematica da sostenere. Infatti lo spazio di tempo intercorso tra gli ultimi
individui noti del primo tipo ed i primi del secondo è troppo breve perché si sia potuta
verificare un'evoluzione sia graduale che puntuata dall'uno all'altro. Recenti analisi
sul DNA mitocondriale hanno recentemente dimostrato che l’ipotesi è molto remota.
Secondo un’altra teoria, i Sapiens Sapiens, già insediati in Africa e in Australia
avrebbero iniziato una lenta invasione dell’Europa sottomettendo e decimando i
Neanderthal che disponevano di armi meno sofisticate. L’ipotesi non è però
facilmente sostenibile dal momento che, abbiamo visto, i Neanderthal disponevano
di buone competenze tecnologiche. Alcuni puntano il dito sulle variazioni del clima e
in particolare sulla possibilità di carenze energetiche derivate dall’esaurirsi delle
glaciazioni, un fenomeno che certamente portò ad un precoce esaurimento della
fauna di grandi mammiferi che popolava l’Europa (mammuth, tigri dai denti a
sciabola, orsi Speleus etc). L’Homo Sapiens necessitando di minore risorse
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energetiche e capace di costruire archi e frecce (strumento micidiale e molto preciso,
capace di uccidere al primo colpo anche piccola selvaggina) avrebbe avuto la meglio.
Un’altra teoria è quella epidemiologica per cui i sapiens avrebbero avuto alcuni
anticorpi capaci di farli sopravvivere ad una epidemia particolarmente aggressiva.
Come dimostra la varietà delle teoria, la scomparsa repentina di Neanderthal dal
quadro europeo è un fitto mistero.
2.11 - Cro Magnon, L’uomo moderno: Quando nel 1868 si stava costruendo la ferrovia AgenPérigueux, mentre si lavorava a pochi metri dalle case di Les Eyzies de-Tayac (Francia
sudoccidentale), venivano portati alla luce i resti di cinque individui che furono
riconosciuti come appartenenti ad una razza fossile sconosciuta. In realtà quello di
Cro-Magnon non è che uno dei primi esemplari europei di uomo moderno,
dell'Homo sapiens sapiens. Il successo dell'Homo sapiens sapiens è veramente
straordinario. Tra i 40 000 ed i 30 000 anni fa, nel cuore dell'ultimo episodio glaciale,
alla fine del Pleistocene, egli conquista tutti i continenti, spingendosi con successo
anche in America ed in Australia e penetrando persino nelle regioni artiche. In realtà,
però, è tutt'altro che chiarito da quale continente o regione i sapiens sapiens abbiano
iniziato la loro straordinaria avventura. Gli studi più moderni hanno permesso di
mettere a punto due teorie: secondo la prima l’Homo sapiens sapiens sarebbe una
evoluzione dell’Homo Ergaster/Erectus. E’ però possibile che i nostri progenitori si
siano distinti evolutivamente in un periodo relativamente recente (150.000 anni fa)
sempre in Africa e da qui abbiano attuato una colonizzazione del mondo a spese
degli ominidi più vecchi: neanderthaliani in occidente, Erectus in Oriente.
Anche il Vicino Oriente spesso viene candidato a ruolo di punto di origine dei Sapiens
perché una delle poche regioni extraeuropee ad essere oggetto di importanti indagini.
In realtà sono state avanzate di recente ipotesi basate sullo studio del patrimonio
genetico delle popolazioni attuali: dalle somiglianze e differenze così emerse, si ritiene
che l'uomo moderno abbia la sua origine in Africa, secondo uno schema che quindi si
ripropone dai tempi dell'Homo erectus.
2.12 - La tecnologia dell’uomo moderno: L’Homo sapiens sapiens introdusse, indubitabilmente,
nuove tecniche di scheggiatura della pietra. Ferma restando la parentela di queste
tecnologie con la cultura musteriana, è comunque innegabile che la nuova tecnologia
di produzione delle schegge sia un aspetto rivoluzionario: lo si avverte soprattutto se
si considera che essa determina importanti conseguenze sulle abitudini dei gruppi
umani; inoltre si associa ad altri fatti che non coinvolgono soltanto il mondo della
tecnica, ma anche l'economia ed il pensiero. Insomma, ve n'è quanto basta per
definire una nuova fase delle culture umane, il paleolitico superiore
L'aspetto che più salta all'occhio osservando le schegge prodotte con la nuova tecnica
è che sono lunghe e strette e dal bordo piuttosto regolare. Per ottenere questo
risultato il nucleo di selce deve essere preparato in modo da raggiungere la forma di
una specie di prisma o di piramide; a questo punto, scheggiando il bordo a partire
dalla base del nucleo e seguendone il perimetro, si ottengono non una, ma più schegge
allungate (che sono definite «lame»).
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I vantaggi che derivano dall'uso di questa tecnica sono notevoli. Innanzitutto è
evidente il risparmio di materia prima: da un nucleo si ottengono più strumenti e
questo fatto costituisce un vantaggio non trascurabile, soprattutto nelle regioni in
cui rocce come la selce sono scarsamente a disposizione. Inoltre le lame sono dei
prodotti più utili delle semplici schegge perché, essendo più lunghe, possono essere
più facilmente inserite in manici o possono essere ritoccate alle due estremità (ad
esempio su un'estremità si può ottenere uno strumento utile a perforare e sull'altra
un oggetto atto a pulire le pelli). Per di più, dato che le lame mostrano i bordi più
rettilinei delle schegge, sono di per sé più adatte a fare da lame di coltelli e sono
invece più penetranti se sono state prodotte per farne punte di lance. Questa tecnica
di base è poi soggetta a continui perfezionamenti. Ma non è solo con l'industria in
pietra che si manifesta questa rinnovata ingegnosità perché contemporaneamente si
sviluppa e si diversifica la produzione di strumenti in osso. Stupefacenti sono gli
aghi,i punteruoli-pugnali, gli elementi di collane, ma soprattutto gli arpioni, prodotti
in corno e sorprendentemente simili a quelli della tradizione esquimese. Ad essi si
associano i propulsori, bastoni dotati di uncino ed utilizzati per gettare lance (così
si moltiplica la capacità di lancio del semplice braccio). Questi strumenti si adattano
particolarmente alla caccia di grossi animali su spazi aperti, su praterie, che devono
essere particolarmente estese in Europa settentrionale durante l'ultima espansione
dei ghiacci (la fase più acuta della glaciazione Wurm, secondo la serie definita sulle
Alpi).
Questo intenso utilizzo dell'osso è reso possibile grazie all'introduzione di un
attrezzo di pietra (che gli archeologi definiscono «bulino», per analogia
con l'omonimo strumento moderno), ottenuto appuntendo l'estremità di una lama.
Con questo strumento viene anche lavorato il legno, ma in questo caso i reperti sono
ovviamente scarsi. Inoltre, anche se mancano prove archeologiche dirette, deve
essere in uso una sorta di trapano perché pietre e conchiglie, denti di cervo o altri
oggetti di osso, con cui si producono collane, sono forati alla perfezione. Se non si
osserva nella tecnologia una netta cesura tra il mondo dei neandertaliani e quanto
segue, è pur vero che le novità sopra illustrate si affermano definitivamente solo fra
le comunità di uomini moderni. Un'ulteriore testimonianza dello straordinario
sviluppo culturale che sembra coincidere con l'affermarsi in Europa dell'uomo
moderno è costituita dalla cosiddetta arte rupestre.
2.13 – Epipaleolitico/Mesolitico e cacciatori post-glaciali:
L'esaurimento dell'ultimo fenomeno glaciale (glaciazione Wurm secondo la serie
definita sulle Alpi) determina importanti conseguenze anche sull'ambiente europeo.
Ad esempio, il paesaggio di tundra e di prateria, che doveva essere il più
caratteristico del nostro continente, viene progressivamente sostituito dalla foresta.
Di conseguenza tendono a ridursi gli spazi per le mandrie di grandi animali, come i
mammuth, i bisonti, i cavalli e le renne. L'adattamento dell'uomo a questi
mutamenti ambientali è una questione di sopravvivenza e coinvolge il campo delle
tecnologie, dell'organizzazione sociale ed anche le scelte alimentari. È un complesso
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di realtà nuove che ha portato molti archeologi a riconoscervi una specifica fase dello
sviluppo delle culture umane (Mesolitico).
Impossibilitate a condurre grandi battute di caccia ai branchi di mammiferi di grossa
taglia, le tribù trovano sostentamento nella caccia a selvaggina di piccola taglia o
comunque ad animali non gregari che abitano la foresta, nella raccolta di prodotti
vegetali, nella pesca e soprattutto nella raccolta di molluschi che assumono ora un
ruolo importante nell'alimentazione. È in pratica la prima volta che l'acqua (i fiumi, i
laghi ed i mari) attira l'attenzione dei cercatori di cibo. Una dimostrazione di cosa
significhi la raccolta dei molluschi per queste comunità è data dagli enormi accumuli
di conchiglie che costituiscono la «spazzatura» di accampamenti, soprattutto lungo
le coste atlantiche dell'Europa. A questi nuovi orientamenti dell'alimentazione corrispondono nuovi strumenti. Basterebbe pensare all'invenzione degli ami, delle reti e
delle trappole da pesca che si accompagnano a questo interesse per l'ambiente
acquatico. Ma il manufatto più caratteristico di questa fase è sicuramente l'arco. La
testimonianza più esplicita dell'uso dell'arco è costituita da una serie di piccole
pitture scoperte in caverne della Spagna orientale. Contrariamente alle precedenti
testimonianze di arte rupestre, le figure sono stilizzate, ma sono anche descritte delle
vere e proprie scene nelle quali, spesso, l'arco è il protagonista.
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L'arco è sicuramente uno strumento formidabile per i cacciatori: esso infatti è come
una molla che lancia un dardo ad una velocità di gran lunga superiore rispetto al
semplice braccio o al propulsore; in tal modo la freccia acquista una capacità di
penetrazione enorme e la possibilità di sorprendere la selvaggina diventa maggiore;
inoltre le frecce sono più piccole e leggere delle lance e quindi il cacciatore può
portarne con sé un numero elevato e lanciarne a ripetizione con velocità.
In base agli aspetti qui elencati, si può intuire che l'alimentazione di queste comunità
sia più varia rispetto a quella dei cacciatori delle praterie e della tundra glaciali. Ciò significa anche la capacità di sfruttare più sistematicamente le risorse offerte
dall'ambiente: questa tendenza è riscontrabile addirittura nella produzione di
strumenti in pietra, in cui si punta a realizzare oggetti con il minore spreco di selce e
quindi a ridurre la dipendenza dalle zone di affioramento della materia prima. La
logica conseguenza è che l'uomo dispone di mezzi ed effettua delle scelte che gli
consentono di spostarsi sempre meno, portandolo verso una forma di semisedentarietà.
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