Ma che cosa è quest`amore della sapienza? - "Ferraris"

Andrea Atzeni1
Ma che cosa è quest’amore della sapienza?
Ideai questa piccola indagine la prima volta che mi trovai a insegnare filosofia, l’ho poi
riproposta in casi simili per tutto il lustro che è seguito. Mi era stata affidata, tra le altre, una classe
alle prime prese con questa materia, e sia i programmi, sia il libro di testo, sia le consuetudini mi
invitavano a muovere da una introduzione preliminare. Tuttavia anche i ragazzi che non l’hanno
mai incontrata a scuola, hanno già sentito usare la parola “filosofia”. Le hanno dunque attribuito un
qualche significato e, nell’affrontare l’omonima materia, nutrono aspettative, timori, speranze e
pregiudizi. Come direbbe qualche filosofo, ne hanno una precomprensione. Ed ecco l’idea. Prima
ancora di addurre io stesso qualche chiarimento mi chiesi e chiesi loro: che cosa pensano sia la
filosofia gli studenti prima di intraprenderne lo studio scolastico?
Tiriamo allora un bel respiro e immergiamoci nel profluvio di pluriennali responsi studenteschi.
“La filosofia è una scienza” è una risposta non infrequente. Qualcuno precisa: “si distingue dalla
scienza in quanto non ha risposte esatte”, e impiega una metodologia “molto diversa dalla scienza,
quasi opposta”. Qualcun altro ribatte: “si occupa di studiare i problemi morali dell’uomo, i misteri
che la scienza convenzionale non riesce a spiegare” (ma, vien fatto di chiedersi: che cosa sarebbero
le scienze? e quali i “misteri” ad esse inaccessibili?). Altri stanno più sul generico: è “una
disciplina”, “un campo di studi”, banalmente “una materia scolastica”. Alcuni se la cavano
ricorrendo all’etimologia (espediente molto frequentato dai libri di testo): “amore per il sapere”,
“amicizia della conoscenza”, “amore di sapienza”. Appurato almeno che parliamo di una disciplina,
che disciplina è? È “un modo di interpretare le cose che ci circondano; studiandola ci dà nuovi punti
di vista per guardare le cose; secondo me essere filosofi vuol dire essere saggi”; “un’analisi
soggettiva di ciò che ci circonda e che si dà a volte per scontato”; un insieme di “interpretazioni,
1 E’ stato docente di filosofia e storia al Ferraris.
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strane, magari non accettabili da tutti, risposte a domande”; “diverse interpretazioni di fatti o cose”.
Più esattamente di che cosa (di quali “fatti” e “cose”) tratta? Della “vita”; “un ideale di vita”; “è un
ideale di vita, un modo di pensare e di trasmettere agli altri le proprie idee”; “risponde ai vari quesiti
sulla vita”; “le riflessioni umane basate su ogni aspetto della vita”; “privilegia soprattutto la
riflessione; i filosofi, infatti, esponevano dei concetti sulla vita”; è “studio della vita, una materia
che aiuta a capire meglio la realtà in cui ci troviamo”. Che quesiti si pone? “Le domande che
riguardano gli uomini”; “le domande esistenziali”; “quesiti esistenziali che da sempre attanagliano
l’uomo”; “spiega come affrontare la vita di ogni giorno”. La vita (umana) torna in tante risposte, ma
sotto prospettive diverse, dalle più generali e astratte a quelle più spicciole, quotidiane. Psicologiche
persino: oggetto della filosofia è “l’animo umano, indaga nella mente dell’uomo”; “il pensiero
umano”; “il pensiero degli uomini”; “i pensieri che una persona si pone nella vita”; “la natura e
l’essenza dello spirito dell’uomo, riguarda il pensiero umano”; e “riguarda tutto ciò che entra
nell’ambito mentale: pensieri, la psicologia; insomma, l’aspetto interiore dell’umano”. In altri casi
sembra chiaro che il pensiero di cui si parla non sia tanto un mero fatto psicologico (più o meno
nobilitato come “esistenziale”) quanto la ricognizione, forse più prosaica ma in fondo aderente alla
materia scolastica, dei risultati di certe attività intellettuali, magari in chiave storiografica (quanti
manuali si intitolano al “pensiero”, magari “occidentale”, o alla sua “storia”?): la filosofia “ti aiuta a
capire in che modo gli altri intendono certe cose”; studia “le forme di pensiero”; “il pensiero sul
mondo”, “le idee del sapere umano”, “le idee della gente e i modi di pensare”; “il pensiero
dell’uomo posto come idee ed opinioni”; “studio del pensiero e del sapere”; “gli ideali e le correnti
di pensiero umano”; “un modo di pensare e ragionare diverso da quello normale, dove uno riflette
sul significato delle parole e il messaggio che portano più profondo”; “è imparare a pensare in modo
diverso, per imparare ad aprire la mente”; “il pensiero nel corso delle epoche”; “i pensieri espressi
nel corso degli anni dall’uomo”; “pensiero di un uomo o anche il modo in cui qualcuno riesce a
concepire tutto quello che lo circonda cercando anche di dargli un senso”; “l’analisi delle riflessioni
umane”; “il modo di pensare delle persone”; “interpreta il pensiero di una persona”; “il pensiero ed
è utile materia di studio in quanto permette di conoscere le ideologie di altre persone”; “la
discussione delle idee maturate dall’osservazione e dal dubbio”; “come veniva interpretata e vista la
realtà”; “interpretazione del pensiero di vari autori attraverso le parole ed il linguaggio delle loro
parole”; “è fondata su una base di parole che vengono utilizzate per descrivere dei concetti legati
alla storia o alla scienza, che trascendono dalla materia stessa e ne raccontano la sua storia”; “studia
i testi e gli autori del periodo in cui si iniziò a formare la letteratura”; “raccoglie un insieme di
pensieri”; “l’insieme di idee e concetti dei diversi studiosi”; “un’idea, un modo di pensare scritto
diventato materia di studio in modo da trasmetterci emozioni e pensieri dell’autore che ha scritto”;
“l’esposizione teorica del pensiero di alcuni uomini”; “il pensiero a partire da diversi autori che si
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differenziano per i metodi di pensiero”; “i fatti storici avvenuti nel tempo che li studia in chiave di
pensiero” (anacoluto di un hegeliano in erba?).
Non uomini qualunque, ma filosofi, naturalmente: “forme di pensiero dei filosofi di maggiore
importanza”; “i pensieri e le idee, con le relative teorie, di persone (filosofi) che osservano gli
elementi naturali e situazioni di vita quotidiana”; “le interpretazioni, i pensieri, i modi di vivere dei
grandi filosofi”; “le idee e le correnti di pensiero di persone, ovviamente filosofi, riguardanti la vita
dell’uomo”; “studio di importanti filosofi e le loro scritture, anche nel contesto storico in cui
vivono”; “un movimento di pensiero, che ogni filosofo ha, uno diverso dall’altro”; “i filosofi e i loro
testi”; e “filosofi sono coloro che si pongono delle domande e sono a favore della ragione”; “i
pensieri di diversi studiosi cioè i filosofi”. Se talvolta si parla ancora genericamente di vita
(“spirito”, “pensiero” o anche mere “opinioni”), talaltra ci si riferisce invece alle vicende e alle
riflessioni più specifiche di alcuni personaggi ritenuti rilevanti per la disciplina e chiamati, appunto,
“filosofi” (definire la filosofia ricorrendo al termine “filosofo” senza definirlo a sua volta può
apparire viziosamente circolare, ma sarà davvero così?). E ancora: “l’analisi di pensieri pensati da
personaggi storici”; “un modo di pensare dei vari studiosi antichi”; “la scuola dei pensatori greci,
romani e di tutti gli autori classici”; “le varie correnti del pensiero del passato”; “le idee e il
pensiero degli antichi”; “il pensiero di autori che sono vissuti molto tempo prima di noi”; “le
ricerche dei filosofi che si sono susseguiti nel corso del tempo, dall’antica Grecia fino ai giorni
nostri”. Molte delle ultime formulazioni sembrano risentire di qualche conoscenza della forma che
la filosofia assume come materia scolastica: siamo abbastanza vicini all’usuale oggetto
dell’insegnamento in questione.
Quali sono, se ci sono, le specifiche domande cui cerca di rispondere la filosofia? Sono
“domande e pensieri sulla vita dell’uomo”; “le domande difficili sulla vita”; “i problemi
dell’umano, del suo aspetto interiore”; “domande che ci si pone sulla natura della vita e dell’uomo”;
“i grandi interrogativi”; “problemi quotidiani ma con osservazioni che siano una base di conoscenza
scientifica”; “domande che all’apparenza è impossibile rispondere, sul senso della vita e l’esistenza
di tutti noi”; “i problemi di natura umana, i vari pensieri ai quali una persona non riesce a dare una
risposta”; “i problemi della società”; “le grandi domande che si è posto l’uomo durante la storia”;
“domande esistenziali dell’uomo”; “studio di come un uomo dovrebbe vivere la propria vita”; “sulla
vita e sull’origine delle cose”; “sulla natura dell’uomo, sulla sua capacità di ragionare e altro
ancora, prima che la scienza naturale”; “sulla natura umana e sul perché dell’esistenza”; “su
concetti base per capire l’origine di qualcosa”; “su concetti ‘seri’, anche su diversi aspetti della
vita”; “cerca di dare un senso alla vita”; “sul perché delle cose”; “domande essenziali che spesso
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non hanno risposta definita, come: chi sono? perché sono qui?”; “ricerca il significato e l’origine
della vita e delle cose”; “cerca di capire il senso della vita, il suo significato”; “spiegazioni a
fenomeni come il tempo, il pensiero, la morte”; “i pareri o le tesi di importanti filosofi”; “i filosofi
attraverso studi, pensieri, cercano di ipotizzare il senso dell’esistenza e non si basano su esperimenti
ma solo su pensieri”. In buona parte non si tratta che della ripetizione di quanto abbiamo già visto, a
proposito della vita e dell’esistenza umana soprattutto, con circonlocuzioni leggermente diverse. Fa
capolino talvolta la presunta domanda delle domande: qual è il senso della vita?
Qualche esempio di grande domanda filosofica? “Come sappiamo quel che sappiamo?”; “Come
si può sapere? Come si può capire il mondo e la realtà?”; “perché viviamo?”; “Perché esisto? Posso
superare i miei limiti?”; “Cosa succederà dopo la fine di tutto? E altre domande di ordine morale ed
esistenziale, si pone domande sui grandi eventi; come mai è successo questo in un certo periodo e
luogo?”; “Domande essenziali come: che scopo ha la vita? Da dove veniamo? Chi siamo?”;
“Perché? Quali idee sulla vita e su come bisogna viverla?”; “La concezione materialistica della vita,
cosa ci sarà dopo la morte?”; “Se l’uomo è una semplice aggregazione di materia o se ci sarà una
vita dopo la morte”; “L’esistenza di Dio, del pensiero umano (conscio, subconscio)”; “Il perché
della vita e dell’uomo e il suo comportamento”; “Il perché dell’esistenza della forma di vita: essere
o non essere? è questo il dilemma”; “La creazione di tutto, non solo dell’uomo”; “La creazione
dell’uomo”; “L’universo, la vita, l’esistenza”; “Universo, esistenza, vita, religione”; “Religione,
universo, vita, esistenza”; “L’esistenza di Dio, chi siamo”; “Domande esistenziali, per esempio: chi
siamo? da dove veniamo?”; e da queste risposte cercare di spiegare qual è la nostra utilità nel
mondo”; “Concetti di vita e morte, la nostra esistenza, la creazione dell’uomo”; “Capire perché
l’uomo esiste, da dove viene e che cos’è l’uomo”; “Vita e scopo dell’uomo, la sua coscienza, il suo
pensiero, l’aldilà, se esiste o no, e cosa bisogna fare nella vita per realizzarsi, come è stato fatto e
creato tutto”; “Domande del tipo: chi siamo? Come mai siamo qui? Dove stiamo andando?”; “Il
senso della vita dell’uomo”. Lo confesso mi sarei aspettato una numero ben maggiore di occorrenze
di “senso della vita”: pare che molti continuino a ritenerla ancora la questione più tipicamente
filosofica, compresi anche tanti che hanno studiato la disciplina almeno al liceo.
Altri scopi dell’indagine filosofica? “Lo scopo è analizzare e dare delle ragioni che rispondano
alle domande che normalmente il genere umano si pone”; “Cerca di spiegare concetti che all’uomo
risultano difficili da comprendere o addirittura impossibili. Ad es. certi eventi che avvengono in
natura oppure il perché della vita”. Dunque ancora si occupa “della ricerca di una spiegazione vera
e accettabile del tempo, del pensiero e rende insicura ogni certezza presa in considerazione”; “del
pensiero, degli ideali, delle regole; un esempio carpe diem, mi limito ad aspettare delle occasioni”;
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“di questioni e argomenti che riguardano l’istruire la mente umana, dove è difficile dare una
risposta giusta a un problema in cui non c’è mai un colpevole, ma neanche un giusto”; “di dare
alcune spiegazioni alla natura morale dell’uomo, sulla sua vita, sulla sua morte e la natura che lo
circonda”; “di rendere astratto qualcosa di concreto, di ragionare su problemi comuni o personali, di
dare un’interpretazione a fatti o concetti e problemi, personali o politici”; “di ogni problema
osservabile, ma il tema più trattato è la vita”; “dei più svariati argomenti, principalmente nella storia
dell’uomo e la sua vita e l’universo e i suoi meccanismi, ma anche le varie forze del sapere”; “del
pensiero che ha l’uomo verso la vita”; “di concetti di tipo scientifico e fisico”; “di analizzare vari
aspetti di diverse materie… e ci insegna a descrivere ciò che vediamo con occhi diversi, con un
pensiero più dolce che freddo, con descrizioni filosofiche”; “dello studio di importanti tesi o pareri
di filosofi”; “di problemi esistenziali e anche semplici problemi che si verificano lungo il corso di
una giornata”; “di argomenti scientifici e morali”; “di problemi politici e nuove scoperte”; “dei
concetti riguardanti la vita e potrebbe aiutare a rispondere alle “domande esistenziali”; “dei
problemi e concetti riguardanti la vita”; “si occupa di concetti riguardanti la vita e i pensieri degli
scrittori”; “della vita, sul suo senso, sul modo di vedere la realtà magari sulla religione, alcuni
aspetti della società”; “di qualsiasi problema, da politico a pratico a scientifico”; “di concetti
profondi”; “di concetti astratti e concreti”; “di concetti scientifici e sociali, inoltre serve a spiegare e
a raccontare le situazioni sociali”; “di concetti e problemi astratti che non hanno applicazione
pratica che permettono però di sviluppare il pensiero”; “di concetti di tipo sentimentale”; “di
qualsiasi cosa dalla questione pubblica alla privata”; “di rispondere alle grandi domande della vita”;
“di analizzare la realtà sotto un punto di vista ideale”; “di concetti che scandiscono lo stile di vita
dal punto del pensiero, parlando di molti ‘perché’ umani”; “dei problemi di tutti i giorni: per
decidere il ‘vincitore’ di una causa legale; la geometria e la matematica”; “dei paradossi della nostra
esistenza: trovare il senso della vita”; “di concetti e problemi più storici e letterari, si occupa dei
pensieri dell’uomo e delle sue domande”; “dell’essere, di quesiti che almeno una volta nella vita
ogni uomo si chiede. Del perché e del come facciamo a esistere”; “principalmente dello studiare la
vita del singolo artista e di capirne gli avvenimenti che più hanno influito su quest’ultimo per poi
estrarre il pensiero e quindi la sua filosofia di vita”; “di tutti i problemi che si trovano davanti le
persone e di lì averne una soluzione plausibile”; “non so, ho sentito parlare di filosofia applicata alla
politica, o ai meccanismi della società, come ho sentito parlare anche della filosofia che cerca
risposte alle grandi domande della vita, sulla nostra esistenza e quella del cosmo”; “di risolvere i
problemi dell’uomo”; “dei problemi morali dell’uomo e si studiano concetti come l’esistenza e la
conoscenza”; “delle idee in fatto di cultura e di altri argomenti”; “di tutto ciò che porta le persone a
discutere e confrontarsi, quindi ogni argomento che ha modo di far porre dei dubbi a qualcuno;
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come la conoscenza del mondo, dell’essere”; “un po’ di tutto, dalla medicina alla condizione
umana”.
Come si è visto tutto sommato solo alcune risposte alludono al fatidico “senso della vita”. Il che
è confortante visto che spesso incontro adulti di buona cultura, che magari la filosofia l’hanno
studiata almeno a scuola e talvolta leggono quanto meno articoli o interviste a filosofi sui principali
quotidiani, che ancora dichiarano con sicumera che l’oggetto della filosofia è proprio il senso della
vita. Ma chi gliel’ha detto? Il ministero, probabilmente. Infatti è particolarmente grottesco leggere
nelle prime righe dei programmi ministeriali riguardanti l’insegnamento della storia della filosofia
che “Al termine del percorso liceale lo studente è consapevole del significato della riflessione
filosofica come modalità specifica e fondamentale della ragione umana che, in epoche diverse e in
diverse tradizioni culturali, ripropone costantemente la domanda… sull’esistenza dell’uomo e sul
senso dell’essere e dell’esistere”. Devo essere stato molto distratto durante le lezioni liceali di
filosofia: non saprei proprio dare alcuna risposta a queste domande, neppure in chiave storica.
Peggio, non capisco proprio le domande. Per brevità lasciamo pure perdere l’“essere” e le domande
sul suo senso, ma che cosa sarebbe “la domanda sull’esistenza dell’uomo”? e sul “senso
dell’esistere”? I filosofi nei secoli si sono occupati prevalentemente di rispondere a queste
domande? E ci hanno fornito delle risposte? Oppure i filosofi (per definizione, magari) passano il
proprio tempo a porsi domande stravaganti per il solo gusto di farlo, senza che importi tanto
pervenire a risposte plausibili?
Secondo Joshua Seachris (in un intervento che si può leggere anche sul web) è tipico dei non
filosofi ritenere che i filosofi discutano del senso della vita, mentre un filosofo ben difficilmente
dichiarerà qualcosa del genere. Il riferimento è ai filosofi angloamericani, ma anche nel continente
europeo, per quando pulluli di tromboni, ben pochi si concederebbero una sparata tanto grossolana.
A memoria rivado a certi volumetti letti due o tre decenni fa, come “Cosa fanno oggi i filosofi” o
“Dove va la filosofia italiana”, o anche a testi usciti più di recente, come quello sui Filosofi italiani
contempoanei (quattordicesimo volume della Storia della filosofia dalle origini a oggi della
Bompiani) nel quale costoro si presentavano da sé, e mi vengono in mente giusto un paio di sparuti
personaggi che potrebbero lasciarsi andare a simili dichiarazioni: che qualcuno di essi abbia
direttamente o indirettamente influito sulla stesura dei programmi ministeriali? Seachris osserva
anche che la domanda sul senso della vita, a seconda di chi la pone, può essere una delle domande
più profonde oppure una richiesta priva di senso costruita su una confusione concettuale, un po’
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come: “Che sapore ha il rosso?”. Non c’è bisogno di scomodare Wittgenstein per accorgersi che
gran parte delle presunte questioni filosofiche sono costruite proprio così, e naturalmente non solo
non hanno risposta, ma non hanno senso, specialmente quando sembrano fare un gran parlare del
senso.
Se si consultano i principali dizionari ed enciclopedie filosofici alla voce “senso”, i concetti
trattati sono ben altri che non la “vita” o l’“esistenza”. Possono comparire i sensi intesi come organi
umani alla base della sensibilità e della percezione, di sicuro interesse per la teoria della
conoscenza. Può comparire il senso come oggetto della semantica, sinonimo o meno di
“significato”, di fondamentale interesse per la linguistica e la semiotica. Inoltrandosi per la
fenomenologia e l’ermeneutica si può forse trovare qualcosa di più pertinente alla nostra domanda.
Magari restando comunque al modesto approccio lessicografico e psicologico, per convenire
senz’altro che “L’uomo, a differenza dell’animale, è originariamente aperto al senso, inteso come
orizzonte, al cui interno ognuno fissa determinati significati, in cui esprime la propria esistenza. Il
senso non è già dato, ma ogni volta conferito, ed è in questa accezione che la fenomenologia parla
dell’uomo come donatore di senso” (U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, lemma “Senso”). Il
senso allora è quello che chiunque cerca di dare alla propria esistenza attribuendo dei significati alle
cose e ai fatti che lo riguardano. Ma allora non si vede perché mai dovrebbe essere un oggetto
privilegiato che spetti al filosofo indagare specialisticamente.
Tuttavia sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy Thaddeus Metz firma un saggio sul senso
della vita, dove riconosce che questo tema è ben difficile da rintracciare in forma esplicita nella
storia della filosofia, ma molti dei principali filosofi hanno fornito una risposta alla “questione su
che cosa renda la vita significativa, se mai c’è qualcosa del genere”, benché tipicamente non
abbiano posto il problema in questi termini. Gli esempi sono naturalmente piuttosto diversi:
dall’esercizio della razionalità per Aristotele, alla visione beatifica in Tommaso e al sommo bene
secondo Kant. Come dire che nelle pagine di alcuni filosofi che si sono occupati di questioni
antropologiche o etiche compare talvolta il tentativo di rispondere a quella domanda che abbiamo
precedentemente visto solo sotto una luce soggettiva e psicologica, cercando invece di assumere
stavolta un punto di vista un po’ più universale, descrittivo, oggettivo. Sembra però che i tentativi di
innalzarsi a questo piano più elevato siano condizionati spesso da impostazioni finalistiche e
antropocentriche, magari culminanti nell’adesione a una prospettiva divina (impostazioni dalle
quali, religione a parte, un disincantato studio dello sviluppo del pensiero occidentale suggerirebbe
di accomiatarsi). Il senso non appare determinato da liberi progetti e scelte individuali, ma da un
disegno cosmico in cui l’individuo da un lato può così apparire onorato da una collocazione,
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appunto, “significativa”, tuttavia dall’altro è comunque ridotto a un piccolo dettaglio che deve fare
la parte che gli è più o meno generosamente assegnata.
Va sottolineato che se c’è un’altra materia scolastica cui i programmi del ministero (stavolta in
combutta con la CEI) riconoscono competenza in merito al “senso della vita”, essa è
l’insegnamento della religione cattolica, che “si collega, per la ricerca di significati e l’attribuzione
di senso, all’area scientifica, matematica e tecnologica”. Par di capire insomma che l’area
scientifica, matematica e tecnologica non risponda alla questione del senso, anzi che la susciti
insidiosamente nel cuore dell’uomo senza trovarne soluzione al proprio interno. Fa le pentole ma
non i coperchi, come il diavolo. Se poi ricordiamo che la filosofia, come si è visto, da secoli non
farebbe che “riproporre costantemente” ed esplicitamente la stessa domanda, ecco che finalmente
sappiamo dove trovare la risposta: l’insegnamento confessionale, che “promuove, attraverso
un’adeguata mediazione educativo-didattica, la conoscenza della concezione cristiano-cattolica del
mondo e della storia, come risorsa di senso per la comprensione di sé, degli altri e della vita”. La
risposta è allora quella che leggiamo nel Catechismo della Chiesa cattolica (e pazienza per quanti
non scelgono né il catechismo né l’insegnamento cattolico a scuola, che continueranno a brancolare
nel buio attanagliati dalle angosciose domande di senso!): “Dio, infinitamente perfetto e beato in se
stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l'uomo per renderlo partecipe della sua
vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all'uomo. Lo chiama e lo aiuta a
cercarlo, a conoscerlo e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha
disperso, nell'unità della sua famiglia, la Chiesa”. Amen.
Significativamente (e per fortuna) al di fuori della scuola pare esserci (almeno) un solo altro
ambito in cui la ricerca del senso della vita ha dato luogo ad una fiorente produzione: quello
umoristico. A quanti contro l’esigenza di porre a freno certe ispirate quanto vacue elucubrazioni
fanno valere ancora oggi lo spauracchio del comunismo, occorre ribattere che la migliore
confutazione resta invece pur sempre il marxismo, nel senso, si badi bene, del metodo approntato
non da Karl ma da Groucho Marx. Si pensi soltanto a quel capolavoro dei Monty Python che
s’intitola proprio Il senso della vita, oppure alle numerosissime incursioni filosofiche di Woody
Allen. O, restando in casa, come non ricordare i personaggi del nostro Guzzanti? Al santone di
Quelo chiedono il “segreto della vita”, e lui: “Se te lo dico che segreto è?”; oppure gli pongono altre
domande roboanti e vagamente filosofeggianti e lui, con aria assorta: “La risposta è dentro di te, e
però… è sbagliata!”. Anche a don Pizzarro, suo collega meno esotico, vengono posti analoghi
quesiti, e lui: “Il senso della vita è… la vita!”; “Il fine della vita è… la fine!”. Ma la chiusa
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migliore, almeno per chi scrive, resta quella di Douglas Adams: la risposta alla domanda definitiva
sulla vita, l’universo e ogni cosa è quarantadue!”.
Tornando alla filosofia non si può non notare anzitutto che i racconti mitici, come quello
catechistico sopra riportato, stando alle pagine introduttive dei manuali di storia della filosofia, sono
quanto di meno filosofico si possa prospettare. Tutti infatti prendono le mosse dall’origine della
filosofia in Grecia attraverso la contrapposizione tra mythos e logos, cioè tra le grandi narrazioni,
magari ammantate di deferenza religiosa, e la spregiudicata indagine razionale. La filosofia così
come viene insegnata a scuola avrebbe la sua origine storica proprio nella presa di distanza dai
racconti sacrali e illuminati tramandati e accolti in modo passivo e acritico, per privilegiare il
confronto, l’argomentazione e il dialogo. Questo non significa che la razionalità sia un’invenzione
della filosofia greca. Anche se forse l’uomo comune non è quel ragionatore sistematico che ci si è
voluti talvolta figurare, ad esempio in talune dottrine politiche ed economiche, sicuramente applica
e sempre ha applicato forme di razionalità alla vita spicciola. La filosofia si caratterizzerebbe per
porre questioni meno contingenti, più generali e complesse, magari le stesse che tradizionalmente
erano liquidate o rimosse (o forse addirittura inventate di sana pianta?) dalle costruzioni mitiche e
religiose, nel tentativo di sottrargliele.
Dice uno degli studenti interpellati che “per fare filosofia bisogna pensare in prima persona e
ragionare”. Molti sostengono che la filosofia “apra” la mente. Ma tipicamente si pensa in prima
persona quando si fa filosofia (a scuola)? Si ragiona molto? Più che in altre discipline? Più
realisticamente le risposte degli studenti che più risentono di qualche conoscenza dell’insegnamento
scolastico già chiariscono trattarsi anzitutto di una storia, di una storia del pensiero occidentale che
comincia con le civiltà classiche e che (forse) giunge fino ai giorni nostri. Si articola attraverso il
pensiero di singoli individui (più raramente di scuole e correnti) di cui non si manca mai di
tratteggiare la vita, insistendo in misura più o meno rilevante sul rapporto tra vita e pensiero
dell’autore. La filosofia sembra aver a che fare con la ragione, la scienza, la letteratura e soprattutto
con la storia. Pare vada cercata nelle parole, nei testi. E soprattutto nel passato più o meno remoto.
Forse hanno rilievo il contesto storico e le vicende storiche in cui si sono svolte le vite dei singoli
pensatori. Forse importano anche le loro personalissime vicende biografiche.
Anche le prime pagine dei manuali, l’abbiamo già notato, si sforzano di spiegare ai neofiti la
natura di questa disciplina. Intento che per le materie in qualche modo presenti fin dai primi anni di
scuola si preferisce schivare, nonostante non sia molto più facile dire che cosa sia la matematica o il
linguaggio o la storia. Forse è proprio la difficoltà a scoraggiare l’impresa, potendo confidare
nell’intuizione maturata con l’ingenua frequentazione dei rudimenti di quelle discipline durante i
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precedenti anni di studio dentro e fuori dalla scuola, e sperando che nessuno studente si ponga
troppe domande. Parafrasando le arguzie di Agostino sul tempo, potremmo dire che, se nessuno lo
chiede, gli studenti sanno bene che cosa siano queste materie e i loro oggetti, ma se volessero darne
una spiegazione, non lo saprebbero più. Talvolta anche di altre materie nuove per lo studente (dal
diritto all’informatica, dall’economia alla topografia) si ritiene preliminarmente utile chiarire il
significato, l’oggetto di studio, i metodi e gli scopi. Le risposte sono in genere sbrigative anche se
precise. Nel caso della filosofia, al contrario, ci si compiace spesso di dichiarare filosofica la stessa
domanda sul significato della filosofia (secondo alcuni, anzi, sarebbero filosofiche anche le
domande circa la natura della matematica, del linguaggio, della storia, e magari anche del diritto o
dell’economia), insistendo sulla difficoltà della questione e brancolando in un circolo che si
vorrebbe ineludibile e quanto mai tipicamente filosofico. La risposta non è né precisa né esauriente,
ha perlopiù carattere storico, ipotetico e non alieno da controversie. Forse la paradossale notazione
agostiniana circa il sapere di non sapere che seguirebbe, socraticamente, la formulazione di certe
domande vale per tutte quelle tipicamente filosofiche e ci aiuta a individuarle.
L’insistenza sulla vita, sulla vita umana in generale, di molte risposte degli studenti può apparire
ingenua, ma già i vecchi programmi scolastici caldeggiavano “un'introduzione la quale miri a porre
in luce che la filosofia non è qualcosa di avulso dalla vita, ma è anzi la vita stessa che vuol farsi
consapevole di sé, onde avviare gradualmente il processo verso la liberazione”. La “vita” stessa? In
che senso e in che modo si studierebbe qualcosa del genere? E cosa intendiamo qui per
“consapevolezza”? È qualcosa che manca a chi non studia la filosofia? Basta davvero il “volere”, la
buona volontà, il mero proposito, o si perviene a qualche risultato? Alla “liberazione”, forse? Ma la
liberazione da che cosa? Quella dal nazifascismo che da allora festeggiamo il venticinque aprile? O
qualcosa di più astorico, o perenne, eterno in cui culminerebbe lo studio in questione? Temo che
questa definizione potesse far sorgere negli studenti, se mai l’avessero letta, delle suggestive attese
destinate a venir subito deluse dal rispettivo insegnamento. L’alba della nuova era iniziava, anche in
ambito scolastico con le peggiori (e vecchissime) premesse: parole vaghe e altisonanti che
dovrebbero suonare edificanti e filosofiche all’orecchio del dotto e del profano. A leggere tante
delle risposte che ho sopra riportato, pullulanti di varie forme di “vita”, viene insomma da temere
che nel corso dei decenni questo indirizzo ministeriale (che ha senz’altro avuto i suoi suggeritori,
facilmente immaginabili e attivi anche ad altri livelli) debba aver prodotto i suoi frutti.
Quanto ai rapporti tra la filosofia e la vita umana in generale e quella dei filosofi in particolare,
sovviene la Prefazione del venerando manuale universitario di Abbagnano, croce e delizia di
generazioni di studenti universitari:
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Questa Storia della filosofia è intesa a mostrare l’essenziale umanità dei filosofi. Perdura ancora oggi il
pregiudizio che la filosofia si affatichi intorno a problemi che non hanno il minimo rapporto con l’esistenza
umana e rimanga chiusa in una sfera lontana e inaccessibile dove non giungano le aspirazioni e i bisogni degli
uomini… che la storia della filosofia sia il panorama sconcertante di opinioni che si accavallano e si
contrappongono, prive di un filo conduttore che serva di orientamento per i problemi della vita… [Mentre
invece] nulla di ciò che è umano è estraneo alla filosofia e… anzi questa è l’uomo stesso, che si fa problema a se
stesso e cerca le ragioni e il fondamento dell’essere che è suo. L’essenziale connessione tra la filosofia e l’uomo
è la prima base dell’indagine storiografica… Su tale base, questa indagine prende a considerare la ricerca che da
26 secoli gli uomini dell’occidente conducono intorno al proprio essere e al proprio destino.
Il generico riferimento alle vite e in particolare a quelle dei filosofi ha dunque sostenitori illustri,
anche se oggi può far storcere il naso a tanti che abitualmente dichiarano irrilevanti gli aspetti
biografici o più generalmente di contestualizzazione storica nello studio della filosofia, che
andrebbe invece incentrato sul primato del pensiero in se stesso. Al di là delle dichiarazioni di rito
tuttavia temo che l’equivoco biografico, proprio perché rimosso con negazioni di maniera, finisca
sempre per dominare la disciplina. L’uomo in generale, l’uomo che il filosofo è stato e l’uomo
odierno che è colui che si interessa di filosofia e che della filosofia è pure oggetto. Secondo
Abbagnano la sua sarebbe una difesa della storia, della storia della filosofia, ma talvolta si rischia
persino di cadere nell’equivoca difesa della biografia spicciola, sia pure al comprensibile scopo di
sfuggire alla storiografia di scuola idealistica o marxista. Qualcuno, conoscendo la produzione di
Abbagnano, parlerebbe di approccio esistenzialistico, e si è già notato come un uso generico del
termine “esistenziale” sia presente in tante risposte studentesche sopra riportate: si tratta di uno di
quei termini tecnici nati in filosofia e poi dilagati nel discorso quotidiano. Come nei casi già visti
anche qui si rischierebbe di imbellettare con un termine tecnico un approccio banalmente biografico
e psicologistico alla disciplina. Chi non ricorda la Storia di Abbagnano? Era scandito perlopiù in
capitoli consacrati a singoli autori. Ogni capitolo iniziava con la vita del pensatore, comprendente
qualche collocazione storica e, specie in conclusione, qualche curioso aneddoto rivelativo del
carattere del filosofo o dell’ironia delle sue vicende umane. Si articolava poi, secondo i casi, la
gnoseologia, la metafisica, poi il pensiero etico, politico, estetico eccetera. Una impostazione
storico-biografica che ha fatto scuola, è il caso di dire. La centralità della vita è negli indirizzi
ministeriali come nelle aspettative di tanti studenti. Ma non seguono più o meno questo schema tutti
i manuali ancora oggi in uso?
Scriveva ancora Abbagnano:
La storia della filosofia è profondamente diversa da quella della scienza. Le dottrine passate e abbandonate
non hanno più per la scienza significato vitale; e quelle ancora valide fanno parte del suo corpo vivente e non c’è
bisogno di rivolgersi alla storia per apprenderle e farle proprie. In filosofia la considerazione storica è invece
fondamentale; una filosofia del passato, se è stata veramente filosofia, non è un errore abbandonato e morto, ma
una fonte perenne di insegnamento e di vita.
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Veniamo al dunque. L’approccio della nostra scuola alla filosofia è storico, anzi direi
storiografico-storicistico. Pare soggiacervi l’idea di uno sviluppo razionale intrinseco della
disciplina che il singolo studente dovrebbe rivivere nelle sue tappe per farla sua. Da un lato si
prevede che per capire Cartesio si debba conoscere il pensiero medievale e che per capire il
pensiero medievale occorra aver prima studiato separatamente e in ordine Platone e Aristotele. Per
conoscere i problemi filosofici contemporanei (posto che ci si arrivi) necessita percorrere la catena
fino al termine. Eppure allo stesso tempo si sostiene spesso che non ci sia un vero accrescimento del
sapere, non perlomeno una cumulazione di risultati. Né un superamento di errori, per usare ancora
le parole di Abbagnano. Anche perché altrimenti tale sapere lo si potrebbe in buona parte esporre
prescindendo dall’ordine cronologico e tralasciando dettagli storici e biografici irrilevanti per le
argomentazioni in questione, come si fa per altre materie, tipicamente per quelle scientifiche. In
matematica o in fisica l’esposizione dei contenuti segue un ordine sistematico, dalle nozioni più
semplici a quelle più complesse la cui adeguata comprensione presuppone le prime. A scuola
talvolta questo approccio è adattato a esigenze didattiche e alle capacità degli studenti presupposte
dalla psicologia dello sviluppo. In ogni caso i risultati non sono riproposti nell’ordine cronologico
con cui sono stati storicamente ricavati. Biografie e contesti possono comparire solo in alcuni casi,
magari confinati nelle note. Un elemento storico può emergere nella menzione di “errori” poi
individuati e ritenuti a loro modo istruttivi (talvolta interessanti perché comprendenti tratti che sono
stati recuperati da teorie più recenti), oppure nell’illustrazione di cesure “rivoluzionarie” come la
comparsa delle geometrie non euclidee, della relatività o della fisica quantistica. Ma, al contrario di
quel che amano credere certi umanisti che così blandiscono la propria ignoranza scientifica, non
certo per suggerire epocali visioni del mondo alternative e incomunicabili fra loro, né per negare la
specificità del sapere scientifico, né la sua coerenza formale interna né l’accrescimento quantitativo
nella conoscenza della realtà. La fisica newtoniana non è studiata con intenti storiografici. Rispetto
alla fisica contemporanea è un’utilissima e correttissima approssimazione, e utile proprio perché
corretta. Se avesse solo una valenza storica, i fisici non la studierebbero affatto e la lascerebbero
alla storia della fisica. Allo stesso modo in cui l’alchimia e l’astrologia sono prese in esame dalla
storia della scienza, non dalla chimica e dall’astronomia in quanto tali.
La difesa dell’approccio scolastico tradizionale è piuttosto generalizzata. L’intellettuale italiano
medio ci si è evidentemente affezionato. Eco (nella sua Autobiografia filosofica, capitolo del già
citato volume sui Filosofi italiani contemporanei) al proposito ha scritto:
È ovvio che Eco non accetti la divisione tra storico della filosofia e filosofo, così radicale nei dipartimenti
americani. Naturalmente c’è chi ha dedicato tutta la vita soltanto a studi storici (pur senza lasciare capire quale
sia la sua visione teoretica) ma certamente non si può fare teoria senza partire da una conoscenza storica della
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questione. Ciò, come Eco spesso dice ai colleghi americani, è tipico della filosofia continentale, dell’influenza
dello storicismo, dal fatto che in Italia si è avuta la fortuna di studiare al liceo la storia della filosofia, mentre i
poveri studenti francesi si sentono di colpo assaliti da questioni teoretiche e morali di cui ignorano l’origine e
l’esistenza di visioni contrapposte. Ma essere stato educato da una visione storicistica non significa condividere
l’idea che nel corso della storia del pensiero ogni filosofia inveri e faccia maturare quella precedente. Al
contrario, riflettere sul passato significa anche pensare che certe soluzioni della filosofia di un tempo siano più
mature di quelle attuali e sia fruttuoso conoscerle – così come anche in tecnologia si può decidere in pieno XXI
secolo che appare più “avanzato” e volto al futuro il ritorno all’energia eolica.
Gli americani e i francesi sono filosofi peggiori di noi? C’è qualche indagine che documenti i
diversi effetti dell’insegnamento statunitense o francese della filosofia? Ma, prima ancora, che cosa
significa “partire da una conoscenza storica della questione”? Occorre (come si pretende spesso a
scuola) conoscere la biografia di quanti se ne sono occupati, gli autori che li hanno influenzati, i
confronti con altri indirizzi contemporanei o precedenti, i contesti politici in cui hanno operato, i
condizionamenti extrafilosofici che hanno subito? Perché un approccio alternativo dovrebbe
ignorare l’eventuale esistenza di visioni contrapposte? Che cosa significa conoscere l’“origine” di
una questione? Se la questione è ancora attuale, non sarà più opportuno porre in secondo piano il
radicamento storico “originario”? Se non c’è un progresso necessario, perché mai seguire la mera
successione cronologica? Per converso, con l’acqua sporca idealistica dell’“inveramento” non si
rischia di gettar via dissennatamente il più ragionevole bimbo della banale progressione del sapere,
ostacolandone anche l’ulteriore crescita? Se certe vecchie soluzioni filosofiche sono tuttora attuali e
più moderne di altre sorte successivamente, ha senso somministrarle in chiave storiografica?
L’analogia con antiche soluzioni tornate in auge tali e quali (motivo ricorrente in tutta la produzione
di Eco) non rischia quindi di porre l’accento solo su generiche visioni contrapposte piuttosto che
sulla pertinenza degli argomenti?
Evidentemente tanti ritengono che la storia della filosofia, o forse meglio la filosofia come storia
sia solo una rassegna di modi di vedere che testimoniano un elemento del proprio tempo da
incastonare tra gli altri e ivi abbandonare. Sulla base del fatto che dei filosofi ci dovrebbero
interessare le argomentazioni e non certo le testimonianze, che non occorre uscire
dall’argomentazione per stabilire se la sua conclusione sia credibile o no, che uscirne per occuparsi
dell’autore e delle circostanze storiche della sua vita e della sua epoca equivale a cadere nella
fallacia ad personam, Santambrogio ha più volte denunciato le concezioni “storicistiche” (ad es. nel
suo Manuale di scrittura):
Più in generale esiste una teoria filosofica… la quale sostiene che un’idea (filosofica ad esempio, ma anche
scientifica, morale, eccetera) reca traccia nel suo contenuto delle circostanze in cui è nata. In una forma o
nell’altra, questa teoria si trova alla base dell’idea diffusissima che lo studio della storia possa servire a farci
comprendere o anche solo a farci comprendere meglio, la filosofia, l’arte, le discipline scientifiche e molte altre
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cose… Senza lo storicismo, diremmo che per capire il contenuto di un’idea dobbiamo solamente afferrare le
ragioni a suo favore e quelle contrarie, le sue conseguenze e tutto ciò che entra nel gioco delle argomentazioni…
È sicuramente per un pregiudizio storicistico che nella scuola italiana si studia la storia e poco altro: storia della
letteratura italiana, storia della letteratura latina, storia della letteratura greca, storia della filosofia, storia
dell’arte, e naturalmente storia – politica, sociale, diplomatica, militare, e così via. (E qualcuno vorrebbe che si
studiasse anche la storia della scienza).
Purtroppo quella pudicamente racchiusa tra parentesi non è solo una battuta. Che cosa leggiamo
nelle prime righe dei programmi ministeriali a proposito della matematica nei licei? “Al termine del
percorso dei licei… lo studente conoscerà i concetti e i metodi elementari della matematica... Egli
saprà inquadrare le varie teorie matematiche studiate nel contesto storico entro cui si sono
sviluppate… Lo studente avrà acquisito una visione storico-critica dei rapporti tra le tematiche
principali del pensiero matematico e il contesto filosofico, scientifico e tecnologico”.
Marconi (nel suo Il mestiere di pensare) ha difeso piuttosto il modello, di origine giuridica
anglosassone, della storia della filosofia come repertorio di precedenti:
I teorici sono a volte inconsapevoli di alternative teoriche che sono state realizzate storicamente, e farebbero
bene a prenderle in considerazione, superando il disagio dovuto alle differenze di contesto, linguaggio ecc… La
storia della filosofia è, tra l’altro, un grande serbatoio di idee e argomentazioni e di discussioni di quelle idee e
argomentazioni, e la storiografia filosofica, o la sua parte migliore, è a sua volta un grande serbatoio di
ricostruzioni e analisi di tutto ciò. Ignorare questa tradizione, per un filosofo teorico, sarebbe come se un giudice,
in un sistema di common law, ignorasse i precedenti pertinenti alle decisioni che deve prendere. Un filosofo
siffatto potrebbe anche essere abile, ma sarebbe certamente inesperto. Tutti conosciamo i difetti dei dilettanti in
filosofia. Il dilettante “non sa di cosa parla”: non conosce le analisi a cui sono stati sottoposti i concetti di cui fa
uso, cade nelle trappole argomentative più ovvie (che l’esperto sa evitare), ignora distinzioni canoniche, scopre
continuamente l’acqua calda. Una comunità filosofica che ignorasse la storia della filosofia sarebbe una specie di
dilettante collettivo… Si fa riferimento alle argomentazioni dei filosofi del passato sia in positivo, per evitare di
ripercorrere, presumibilmente in modo meno ricco e meno convincente, un itinerario argomentativo già percorso,
sia – forse ancor più spesso – in negativo, per indicare sinteticamente le conseguenze di certe mosse
argomentative, di certe premesse o di certi usi concettuali.
Viene allora fatto di chiedersi, nella scuola italiana si apprende un tale repertorio di idee e
argomentazioni? Si impiega il pensiero dei filosofi del passato in positivo e in negativo nel senso
appena menzionato? L’approccio storico mira a padroneggiare i linguaggi e a familiarizzare coi
contesti delle discussioni stesse? Lo studente conosce le distinzioni canoniche, è in grado di
sfuggire alle trappole argomentative e alla riscoperta dell’acqua calda? È abituato a esaminare gli
argomenti senza timore reverenziale denunciando le fallacie nelle quali si imbatte? Non pare
proprio.
Un aspetto cruciale al quale ho già alluso è l’abitudine di somministrare i contenuti storici in
ordine cronologico. Non sarebbe molto più efficace in molti casi aggregare contenuti sulla base
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dell’affinità concettuale, dell’analogia di approccio, del livello di complessità e così via, al di là del
tempo che li separa? A chi ci vedesse un eccesso di scientismo si potrebbero ricordare la metafora
delle “vette” di Nietzsche o quella delle costellazioni di Heidegger, autori in genere cari a chi adotta
simili stigmatizzazioni. Per fare un paio di esempi banali, ha forse senso spiegare prima la
sillogistica aristotelica (che ricade nella logica predicativa quantificata come sua legittima parte) e
solo dopo e in genere più frettolosamente la sillogistica stoica (che tra l’altro ha qualche legame coi
Megarici che però in genere sono trascurati a favore del mainstream platonico), molto più semplice
ed elementare (ricadendo nella logica degli enunciati, che dà inizio a qualsiasi odierno manuale di
logica)? O, nel caso della riflessione morale, quanto è importante porre in luce la differente
impostazione teorica dell’etica del dovere rispetto a quella consequenzialistica e quanto invece
conta la contestualizzazione storica della contrapposizione originaria, poniamo, tra stoici ed
epicurei o tra Kant e Mill?
Paradossalmente proprio gli studenti alle prime armi si trovano ad aver a che fare con un
maggior aggravio di problemi sia filosofici sia più squisitamente storici. Filosofico in senso
generale può essere lo sforzo richiesto agli studenti di calarsi in mentalità di uomini vissuti in tempi
e contesti lontani e diversi dai propri: che senso ha che proprio chi inizia a studiare la disciplina per
la prima volta debba compiere la fatica maggiore, confrontandosi con pensatori vissuti
duemilacinquecento anni fa piuttosto che negli ultimi secoli? Storico è invece il problema della
ricostruzione di prodotti culturali tanto remoti di cui tipicamente ci restano nella gran parte dei casi
solo opere frammentarie e testimonianze tarde e variamente distorte (spesso riferite da chi intendeva
polemizzare con gli autori in oggetto) o successivi reimpieghi che ne hanno favorito ulteriori
deformazioni. Ma anche se prendiamo uno dei pochi autori di cui sostanzialmente ci è pervenuta
l’opera completa, al proposito si sollevano questioni allotrie di vario genere: quali sono i dialoghi
platonici autentici? quale l’ordine della loro stesura? quali dottrine sono originali, quali socratiche,
quali di altri? Platone va preso alla lettera quando ci parla di iperuranio? e che dire delle dottrine
non scritte? Tutti questi non sono problemi filosofici. Davvero è importante affrontare simili
problemi a scuola? Ed è forse meglio, come pure spesso si fa, far finta che questo problema non
esista, pur pretendendo di fare onestamente storia della filosofia?
La scansione inoltre avviene per singoli autori (solo dove non se ne può fare a meno, dei capitoli
sono dedicati a scuole – nonostante si dica, con qualche eccesso, che i risultati della filosofia, fin
dall’antichità sono risultati di scuole – o persino a dibattiti su questioni, che, vista la materia,
dovrebbero invece essere il parametro di riferimento), concedendo al biografismo, come si è già
notato, più di quanto si sia disposti ad ammettere. Si difende questa impostazione sostenendo che la
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filosofia è una disciplina umanistica (tesi che andrebbe a sua volta dimostrata o perlomeno chiarita)
e l’analogia è con la storia della letteratura o quella dell’arte. A parte il resto, occorre rilevare che
negli anni nell’ambito dell’insegnamento di queste altre discipline si è imposta la centralità del
testo, cioè l’idea che lo studente debba impossessarsi di un minimo di strumenti formali di analisi
testuale e che debba studiare un buon numero di testi o parti significative di essi. Si insegnano
quanto prima metodi formali di decodifica del testo letterario (analogo discorso si può fare per la
storia dell’arte), e sui manuali di letteratura i brani dei classici occupano una posizione centrale,
mentre il resto è costruito attorno ad essi. Non solo i testi significativi occupano buona parte delle
pagine, ma sono supportati da note e apparati per favorirne lo studio più efficace, in genere sono
antologizzati anche utili contributi critici. Nell’insegnamento della filosofia non si riscontra nulla
del genere. Nonostante si sia parlato a lungo dell’importanza dei testi, la loro posizione nei manuali
è marginale, in genere in coda ai capitoli, o servile all’esposizione, magari sotto forma di breve
citazione nel corpo del testo. Nella didattica è del tutto residuale. Nei casi migliori gli studenti sono
lasciati alla lettura solitaria di qualche breve brano oppure di opere da affrontare durante i giorni di
vacanza. Si noti anche che i docenti delle materie letterarie ritengono utile favorire una
consuetudine con la letteratura e con la lettura più in generale. Abitualmente non esitano a suggerire
opere letterarie, anche e soprattutto di autori contemporanei purché accessibili, anche a studenti che
non hanno iniziato a studiare la storia della letteratura o che comunque non sono giunti a studiare
l’autore in questione e i suoi contemporanei. In filosofia invece sembra che senza aver percorso, sia
pure nelle forme discutibili che stiamo esaminando, la storia della filosofia da Talete a Nietzsche
non sia il caso di leggere alcunché, specialmente di attuale.
In tutto questo le idee rilevanti e le argomentazioni a loro supporto, che pure tutti a parole
protestano essere il vero nucleo significativo della filosofia, si perdono in un discorso generale, di
impianto perlopiù narrativo o descrittivo, che deve ricalcare perlopiù un flusso temporale nel quale
si intende magari scorgere, anche se lo si nega a parole perché non è di moda dirsi idealisti anche
quando in fondo lo si è di fatto, una misteriosa razionalità intrinseca. I manuali scolastici degli
ultimi decenni hanno preso in generale le distanze dal culto dell’oscurità che era di moda fino a
pochi decenni fa, ma la ruminazione filosofica è tuttora dominante per iscritto e a voce, anche e
soprattutto tra i filosofi più noti, ospiti dei salotti televisivi, delle terze pagine culturali dei
quotidiani e dei festival per vacanzieri meditabondi. E che cosa succederà mai nelle aule
scolastiche?
Il contatto tra storia e filosofia è problematico anche sotto altre prospettive. Anzitutto la storia
della filosofia spesso non fa che ripetere miti prodotti dagli stessi filosofi, magari a proprio
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beneficio, per assegnarsi appunto un ruolo storicamente significativo. Nonostante il fenomeno sia
ben noto, l’insegnamento scolastico sembra più interessato a onorare le tradizioni che la verità
storica. La filosofia presocratica ad esempio è in buona parte un’invenzione degli ambienti socratici
e platonici per crearsi un retroterra rispetto al quale distaccarsi col rifiuto di principi meramente
materialistici. Che esistessero scuole filosofiche e che la filosofia fosse intesa come disciplina
specifica prima del confronto coi Sofisti è quanto meno dubbio. Eppure come si intitolano i primi
capitoli di tutti i manuali scolastici? Persino Democrito è ridotto a presocratico anche se l’etichetta è
ridicola già
dal solo punto di vista cronologico: ed è ridotto a uno tra gli altri, nonostante
l’originalità del pensiero e l’enorme mole di opere, non a caso perdute. Ben poco ci resta anche
delle scuole socratiche diverse dall’Accademia e, purtroppo, se mancano i documenti, non si può far
storia, rischiando però per scambiare per un realistico panorama fattuale il povero e spesso
interessato ritaglio che degli eventi ci è rimasto. Discorso simile vale per le scuole ellenistiche, a
partire dagli Stoici, dei quali pure abbiamo perso l’enorme produzione intellettuale. Più note sono le
tipiche ricostruzioni retrospettive di Aristotele che proietta sui presunti predecessori le proprie
categorie concettuali, come le quattro cause, ma la maggiore consapevolezza non induce
necessariamente un maggior senso critico e storico. Lasciamo perdere per brevità le manipolazioni
medievali dell’eredità filosofica greca, che anzi si sarebbe tentati di tentato di rivalutare per la
capacità di far proprie per svilupparle a piacimento le categorie teoriche altrui, senza troppi scrupoli
storiografici (naturalmente per mancanza di senso storico e per presunzione di fede, certo, ma,
ancora, facciamo storia o filosofia?). Alcuni manuali sembrano prendere ancora molto sul serio
l’articolazione del pensiero moderno (seicentesco in particolare) nelle due opposte correnti del
razionalismo e dell’empirismo, che troverebbero infine in Kant una mirabile sintesi (dove, di nuovo,
è la tappa finale a riscrivere a proprio piacimento il percorso precedente). La storiografia hegeliana
invece la paga per tutti, additato come unico colpevole, capro espiatorio di questo vizio secolare.
Vizio che infatti può così continuare ancora oggi più che mai. Affrontando i contemporanei è ancor
più difficile mantenere obiettività e rigore, ma è ben noto che certe discipline, correnti filosofiche e
costellazioni di autori non godono di buona fama nel nostro Paese. Giusto un esempio da Roberto
Casati (in Prima lezione di filosofia), che pure si mostra assolutamente indulgente sulla faccenda:
“Gottlob Frege, padre della logica e della filosofia del linguaggio contemporanee, non compare in
molti manuali di storia della filosofia”. È senz’altro così in gran parte di quelli scolastici: non ha un
capitolo a sé dedicato e, se va bene, è menzionato nei capitoli che trattano di Russell e di
Wittgenstein sempre che siano adeguati.
Nell’insegnamento liceale l’assimilazione di storia e filosofia è incoraggiata non soltanto
dall’impostazione storica dell’insegnamento della filosofia ma anche dall’associazione a esso, in
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una stessa classe concorsuale e dunque tramite la coincidenza delle figure professionali,
dell’insegnamento della storia genericamente intesa. Perché queste due materie dovrebbero essere
appaiate e gestite dagli stessi insegnanti? Si incoraggia non solo una trattazione esclusivamente
storica della filosofia, ma anche una trattazione filosofica della storia stessa, così come è stata
praticata da certi filosofi cari alla nostra tradizione ed evidentemente anche alla nostra scuola che
appare interessata a trasmetterne il retaggio alle giovani generazioni. Approcci come quelli ispirati
allo spiritualismo cattolico, all’idealismo storicistico o al materialismo storico sono oggi molto
meno diffusi che qualche decennio fa (ma tutt’altro che scomparsi, e il fatto che permangano in
maniera irriflessa non è meno insidioso). Piuttosto diffusa invece appare la tendenza a proiettare sul
passato le proprie categorie, a ordinarne gli eventi alla luce dei fatti che si intende privilegiare
nell’esaltazione o nell’esecrazione. Sembrano avere un certo successo certe grossolane metafore
semplificatorie come l’eredità culturale, le radici della civiltà, la figliolanza e la genitorialità
intellettuale eccetera, che poi permeano anche la mentalità di una classe dirigente cresciuta con
queste sollecitazioni. La stessa riflessione filosofica è genericamente presentata come madre di tutte
le scienze e di chissà che altro. I rovelli dei filosofi diventano fattori storici determinanti nel
caratterizzare epoche e svolte storiche cruciali, oscure fonti dello sviluppo storico. Così ancora una
volta la filosofia si trasforma nel suo opposto: il mito oracolare, la rinuncia alla verità e al valore,
l’abdicazione alla ragione e al senso critico, la mistificazione e la giustificazione a posteriori,
l’apologia dell’esistente.
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