In palcoscenico
UN IRRIVERENTE TEATRO DELL’AMNESIA STORICA
“Risorgimento pop”, di e con Daniele Timpano e Marco Andreoli, è un
caleidoscopico spettacolo ‘sull’Italia rinata e risorta, che c’è e non c’è o che forse un
giorno ci sarà’, giocato su registri beffardi e di sempre divertita intelligenza. “Le voci
di fuori” di Dario Aggioli è un lavoro imperniato sulla poetica figura di un
ventriloquo, ricco di perizia e di fantasia creativa. Non convince, invece, “Pali” della
celebrata coppia Scimone e Sframeli in cui la metafora blocca la drammaturgia e
lascia lo spettatore senza veri stimoli.
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di Alfio Petrini
Consorzio Ubusettete
La marginalità fa centro. In un sistema teatrale che sta di fatto in poche mani e che si rigira
continuamente su se stesso, le Compagnie del Consorzio Ubusette sono ormai una realtà viva e
interessante. Unità nella diversità. Il passo che con il tempo si è fatto sicuro. Contenuti non banali.
Processi di formalizzazione credibili e innovativi. Nel corso del tempo la fatica di fare teatro non è
stata vana. Anno dopo anno il lavoro ha prodotto sempre migliori risultati artistici. L’auspicio è che
arrivino riconoscimenti più ampi e più concreti, soprattutto sul versante distributivo, quindi
economico.
Al Teatro Palladium ho visto gli spettacoli del Teatro Forsennato e di Amnesia Vivace. Nella
programmazione erano presenti anche Appunti per un teatro politico di Fabio Massimo
Franceschelli (OlivieriRavelli) e Ciao bella di Elvira Frosini (Ktaklisma), che spero d’incontrare in
una prossima occasione.
Le voci di fuori, spettacolo ideato, diretto e interpretato da Dario Aggioli è stata la prima piacevole
sorpresa della serata. Aurelio Fuori è il protagonista. Un ventriloquo di grande successo, con una
esistenza dedicata all’arte, che è finito con i suoi pupazzi agli angoli della strada. L’arte gli ha
succhiato la vita e, ora, la vita pretesa dai pupazzi - le poche cose che gli rimangono – mette a
margine il flusso dei ricordi e delle riflessioni postume. I pupazzi non gli danno pace, prendono il
sopravvento e diventano i protagonisti della storia.
Un cappello, la bambola della madre, un calzino, un proiettore di diapositive, due pupazzi, una
vecchia radio, una pedaliera midi, un computer, un mixer audio e un convertitore dmx/usb
convertito – assieme agli altri elementari strumenti tecnologici – alla funzione espressiva, sono le
cose di cui si serve Aggioli per raccontare in modo grottesco il conflitto tra Aurelio e i suoi pupazzi.
E se ne serve per svolgere al meglio le sue funzioni di attore/narratore e di grande manovratore
della macchina teatrale. Sta lì, seduto dietro un velario che rivela la sua figura, a lottare con i
compagni di strada che per sua fortuna non pretendono di stare a libro paga, solo, facendo di
necessità virtù. Di questi tempi non è proprio il caso di sbilanciarsi in cast numerosi e in allestimenti
costosi. La marginalità distributiva impone una marginalità produttiva ridotta ai minimi termini, che
ha tuttavia la forza di trasformare la necessità in ricchezza. Un attore/manovratore e due tecnici
fanno un teatro povero che è ricco di perizia e di fantasia creativa. Fanno un teatro di poesia. Fanno
poesia con il sorriso sulle labbra. Fanno un sorriso sulle labbra che ci salva dalla vita. Non è poco.
Stupenda miscela di azioni è Risorgimento pop, di Daniele Timpano e Marco Andreoli. Un crepitio
d’invenzioni linguistiche. Una girandola di battute. Un caleidoscopio di situazioni assurde,
comiche, surreali, che trovano il pieno e divertito accoglimento del pubblico. Lo spettacolo, in cui
lo stesso Timpano è in scena con Gaetano Ventriglia, è un’opera sull’Italia che è rinata con il
Rinascimento, che è risorta con il Risorgimento dopo essere rinata con il Rinascimento, il che
lascerebbe intendere che è morta rinascendo o che è rinata morendo per poter poi risorgere. Ma è
veramente risorta? Forse muore e rinasce in continuazione. Chi lo sa? Il che non sarebbe una brutta
cosa (anzi), se la morte implicasse una vera rinascita, uno sviluppo come reale progresso umano.
Insomma, Risorgimento pop è uno spettacolo sull’Italia rinata e risorta, che c’è e non c’è o che forse
un giorno ci sarà.
L’opera è ben lontana dall’essere uno spettacolo storico e celebrativo. Non è teatro della memoria.
Semmai è teatro dell’amnesia storica. Non relaziona un futuro luminoso ad un passato glorioso. È
uno spettacolo irriverente e smemorato, non didattico, non ideologico, non edificante, e perciò utile.
Fatti, avvenimenti e personaggi di riferimento, quando sono complessi e seri come in questo caso,
possono essere trattati solo da artisti di raffinata sensibilità artistica, totalmente liberi, trasgressivi,
privi di memoria storica, capaci d’ironia e di leggerezza barbarica, artefici di azioni che non sono
profanazione della storia patria. Dunque, lontano dalla strada della ricostruzione storica
(solitamente noiosa), lo spettacolo conferma una regola: taluni fatti, quando accadono, sono
tragedie, a distanza di tempo diventano farse. Ecco un buon motivo per desiderare che gli attori si
divertino, seducendo gli spettatori. Sono artisti, non sono storici e non sono educatori. Tradiscono la
storia, ma non il senso della storia. Il loro compito è provocare, sorprendere, raccontare il più
soggettivamente possibile un determinato fatto o personaggio, stando alla larga dalla presunta o
reale verità storica. Se ne allontanano, sapendo che solo allontanandosene hanno la possibilità di
poterla sfiorare.
Nello spettacolo si coglie un efficace rapporto di collaborazione tra testo e scena. La scrittura
scenica favorisce il flusso delle energie vitali e va dritta al cuore e alla mente degli spettatori,
stimolandone l’autonomia critica. Due attori e pochi oggetti in scena. Anche in questo caso un
teatro che fa della povertà la sua ricchezza: fatta d’immagini, di suggestioni, di significati di
rimbalzo, di emozioni e di divertimento intelligente. Tra gli oggetti che hanno contribuito a creare
due momenti di grande teatro vanno ricordati il cadavere di Mazzini che “s’incontra” con le ceneri
di Garibaldi per una vana quanto impossibile riappacificazione e un sacchetto di savoiardi che
finiscono nelle fauci di Gaetano Ventriglia e di Daniele Timpano: il primo impegnato ad esaltare il
ritorno al Regno dei Borboni, il secondo ad opporsi ferocemente all’ipotesi.
Che dire di questi due straordinari interpreti? Ventriglia, che appare più meditativo e razionale del
compagno, offre un saggio di recitazione performativa, confermando non comuni possibilità
attoriali. Timpano è una furia. Invade il palcoscenico con un corpo frammentato e prorompente che
lo fa sembrare una marionetta. (Ha dichiarato che il corpo gli fa schifo. Non lo ama, però lo usa. Lo
usa con ottimi risultati da un paio di anni a questa parte, ma sarebbe meglio che lo facesse con
maggiore controllo). Ventriglia e Timpano rifiutano la mediazione del personaggio e si rivolgono
direttamente agli spettatori, accendendo gli animi di fertile ilarità. Li provocano in continuazione.
Entrano nella loro mente. Ci giocano. Giocano a fare il teatro. Le azioni sceniche sono attraversate
da una benefica follia, sinonimo di verità e di saggezza. Sono paradossali, grotteschi, comici,
surreali e involontariamente tragici. Sono individui. Sono uomini. Ventriglia e Timpano sono, non
sembrano. Sono, non appaiono. Che si vuole di più da una coppia di attori-performers?
Una scena di Pali, della compagnia Scimone-Sframeli
PALI
Nell’ambito delle “Monografie di scena”, al Teatro Valle è stato presentato Pali, testo di Spiro
Scimone, regia di Francesco Sframeli. In scena solo tre pali. In cima ai pali stanno La Bruciata e
Senzamani. La visione accende la drammaturgia dello spettatore, suggerendo la metafora.
Predispone alla speranza di qualche brandello di poesia. Siccome piove, i due personaggi si
proteggono con ombrellini colorati. Poi, non piove più. Allora chiudono gli ombrellini e guardano
verso il mare, che è un male. Un brutto male è il mare. È un mare di merda, dicono i due
personaggi, e ripetono diverse volte la frase.
La battuta ha un effetto micidiale. Distrugge la metafora e il sogno dello spettatore accorto. L’una
e l’altro affogano in una battuta. Come fa ad esserci sviluppo? Come fa ad esserci futuro per la
metafora appena nata e per la poesia? Se il grande male del mare è un mare di merda, se l’uomo e
la donna che l’osservano sono scappati in cima ai pali, vuol dire che quella merda è la merda della
società che quell’uomo e quella donna hanno rifiutato in modo radicale. Questo è il messaggio.
Questo c’è da capire. E quando si è capito questo, non c’è più nulla da capire. Il rifiuto – detto,
enunciato, rivelato –, genera un aborto stupefacente. Arresta definitivamente la drammaturgia
dello spettatore e vanifica l’arrivo degli altri due personaggi. Anche Il Nero e L’Altro si
arrampicano in cima al terzo palo e, da lassù, vedono la stessa cosa: il grande male che è il mare
di merda. Che ci stiamo a fare, si chiedono subito dopo. Pioverà, è la risposta. Cosa pioverà?
Qualcosa pioverà. Qualcosa pioverà? Qualcosa pioverà. Di fronte alla visione del mondo saturo,
dove tutto è irreversibilmente inutile, non resta dunque che l’attesa di una pioggia che verrà.
Locandine.
Teatro Forsennato
presenta
LE VOCI DÌ FUORI
Ideato e diretto da Dario Aggioli
con Dario Aggioli
Scenografie Sergio Lo gatto e Dario Aggioli
Puppets Sergio Lo Gatto
Sound designer Lucio Leoni
Software audio e luci Francesco (Franz) Rosati
Foto di scena Iacopo Quaranta
Aiuto regia Susan El Sawi
Coproduzione con Associazione OZ di Trento
Compagnia Amnesia Vivace
RISORGIMERNTO POP
Memorie e amnesie conferite ad una gamba
Drammaturgia e regia di Daniele Timpano e Marco Andreoli
Con Daniele Timpano e Gaetano Ventriglia
Disegno luci Marco Fumarola
Musiche originali Marco Maurizi
Collaborazione artistica Elvira Frosini
Produzione Amnesia Vivace, Circo Bordeaux, Rialto Santambrogio, Voci di Fonte .
Sostegno di Scenari Indipendenti - Provincia di Roma
Collaborazione di Ozu, Area 06, Centro di Documentazione Teatro Civile, Armunia – Festival Costa degli
Etruschi.
Teatro Palladium , Roma, 30 gennaio 2010.
Compagnia Scimone/Sframeli
PALI
di Spiro Scimone
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Salvatore Arena, Gianluca Cesale
regia di Francesco Sframeli
scene e costumi di Lino Fiorito
disegno luci di Beatrice Ficalbi
regista assistente Roberto Bonaventura
coproduzione Espace Malraux, Scène nationale de Chambery et de la Savoie
in collaborazione con Astiteatro 31.
Roma, Teatro Valle, dal 24 novembre al 6 dicembre 2009.