Scrivere di economia, per farsi leggere
Roberta Carlini
“E' dovere dell'attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e
controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel
paese. Tutti. Cioè con l'esclusione appena di quelli che hanno un carattere
arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono
essere per lo meno registrati”.
(A. Gramsci, Il giornalismo. Dai Quaderni dal carcere. Editori riuniti, 1991).
“Uno degli indici più preoccupanti dell'accrescersi, nel nostro paese, della
situazione di 'regime' è costituito dall'aggravarsi del conformismo
dell'informazione: con riguardo particolare a quella economica. Questo
conformismo si manifesta, soprattutto, con la selettività dell'informazione”.
“Liberarsi dalla suggestione delle affermazioni che finiscono per essere
accettate per il solo fatto di essere ripetute non è una cosa agevole. Tuttavia,
occorre far appello a un vigile senso critico e a una lunga memoria che,
nell'efficace collegamento tra il presente e il passato, trovi il miglior antidoto al
sottile veleno delle presunte certezze”. “I numeri, pur necessari, non potranno
mai sostituire le capacità di cogliere ciò che è ripetitivo e ciò che è innovativo
nel fluire della storia”.
(F. Caffè, “Il pallottoliere dell'informazione e le mode della politica”, febbraio
1981, il manifesto).
Il conformismo dell’informazione
Caffè parlava di conformismo dell'informazione in apertura dei terribili anni '80, e certamente aveva
dei buoni motivi per farlo. Ma il terribile trentennio del conformismo economico doveva ancora
cominciare, e sui giornali italiani si trovavano firme e pareri diversi, che facevano intravedere, a chi
avesse voglia di informarsi, che di pensiero economico non ce n'è uno solo, e tutto sommato si
approssimavano all'invito di Gramsci a seguire tutti i centri intellettuali. Il manifesto pubblicava –
sia pure in solitudine – un riformista come Caffè, su Repubblica campeggiavano Sylos Labini e
Ruffolo e tanti altri economisti progressisti (offrendo un panorama di pensiero e opinioni ben
diverso da quello che oggi domina sullo stesso giornale come in altri), le riviste legate all'ex Pci
ospitavano dibattiti a tutto campo; e poi i centri studi sindacali, e tanto altro.
Adesso, il conformismo dei media mainstream è maggiore, ma – allo stesso tempo – possiamo dire
che la possibilità di “bucarli” è più aperta, con i new media. Che però, per le loro caratteristiche
tecnologiche e materiali, sono anche a maggior rischio di propagare conformismo, diffondere false
profezie che si auto-avverano solo per il fatto di ripeterle, restare in superficie e non andare nel
profondo, galleggiare nel presente e non fare i confronti col passato.
Prima però di arrivare a questo – al presente, ai new media e alle potenzialità del pensiero
economico di servirsene per la propria divulgazione – è opportuno chiedersi quale ruolo ha avuto il
sistema dei media nell'ultimo trentennio dell'economia. Quanto ha contato nella costruzione di un
consenso, di un luogo comune, di un'opinione dominante, di quel che si è chiamato Washington
consensus, o pensiero unico o neoliberismo: in tutto ciò, l'università e la ricerca con i loro
meccanismi e strumenti sono decisivi ma non bastano. Nella formazione e diffusione di quelle idee
che hanno seguito gli interessi costituiti, o che con essi hanno camminato a braccetto, il mondo dei
media è stato ed è fondamentale. Così, oggi che quel castello è crollato, sono i media (o una loro
parte) a fare resistenza e impedire che se ne prenda atto a livello globale, universale e conclamato.
Lo devono fare, quando vanno a raccontare i disastri greci o il movimento del 99%: ma non si
rendono conto del fatto che essi stessi, noi stessi avevamo modo di vedere quei numeri del 99%.
Perché? Ci sono ovviamente diversi indizi, e sono diversi per l'Italia e per il mondo. Da noi si
aggiunge sempre un tocco di tradizione (malvagia) in più, un che di corrotto, di opaco.
− condizioni materiali. Proprietà dei media, e concentrazione finanziaria-industriale. Anche
l'industria dell'informazione ha assistito a una sempre maggiore concentrazione della
proprietà, e anche in essa ha operato quel conflitto di interessi endemico, per citare Guido
Rossi, al capitalismo contemporaneo. Questo non vale solo nel paese dei Berlusconi e del
“padrone in redazione” (G. Bocca), ma in tutto il mondo occidentale. Più difficile dunque, in
questo contesto, che le redazioni economiche dei giornali operino in piena autonomia di
scelte, nei temi da trattare e nel modo in cui trattarli. Anche quando non esplicito e brutale, il
condizionamento può essere indiretto e per questa via anche più efficace.
− condizioni culturali. Da dove vengono i giornalisti economici? Dove e con chi hanno
studiato economia? Su quali testi? Questa osservazione è vera per l'Italia solo da un certo
punto in poi, ma diventerà via via più urgente rispondere: se dall'economia è espunta la
società, se si può essere brillanti studenti di economia senza essere tenuti a conoscere un po'
di storia del pensiero economico, se si esce da facoltà a insegnamento unico, come avere poi
in sé quel germe della critica che – se è essenziale per lo studioso – è vitale per il
giornalista? (va ricordata, in proposito, la campagna appena partita, su sbilanciamoci.info,
“Lezioni diverse per imparare l'economia”; e un'altra discussione, di quale anno fa, sulla
quale la sottoscritta ebbe una piccola polemica con Palazzi, a proposito del furore contro i
libri 'tossici')
− condizioni di mercato: do ai lettori quello che vogliono. Se vogliono pane e spread, metto a
tavola pane e spread. Il che aprirebbe un capitolo lunghissimo, e ricco di richiami a studi
raffinatissimi, sull'opinione pubblica e la sua formazione. Mi limito a ri-citare Gramsci,
quando parla di “giornalismo integrale”, ossia “quello che non solo intende soddisfare tutti i
bisogni del suo pubblico, ma intende di creare e sviluppare questi bisogni e quindi di
suscitare, in un certo senso, il suo pubblico e di estenderne progressivamente l'area” (ib.).
− condizioni organizzative delle redazioni. La separazione tra giornalismo economico e
giornalismo politico. C'è un aneddoto che si racconta nella redazione nella quale ho
lavorato: ossia che la sera delle elezioni servivano “gli economici” per fare le tabelle.
Adesso, con le alchimie del Porcellum, forse non è più così. Però è rimasta la separazione di
linguaggi, stili, fonti, anche di stanze. Se ci pensate, un corrispondente che va in un paese
straniero e debba raccontarlo, per prima (o almeno seconda) cosa si informerà del livello di
PIL, occupazione, settori industriali, insomma di com'è fatta l'economia di quel paese. La
specializzazione del lavoro giornalistico in Italia fa sì che queste connessioni non siano
richieste. E il giornalista economico è a sua volta un “tecnico” che porta i numeri dentro la
politica. Quando poi la politica è debole, i numeri si sostituiscono, e fine del discorso.
− “le parole sono importanti”. C'è poi un aspetto più generale, che non riguarda solo la
divulgazione dell'economia ma tutto il giornalismo, ma che affligge soprattutto la narrazione
dell'economia, per il suo progressivo allontanarsi dalla dimensione sociale e politica. E' il
problema del linguaggio. Dell'usare un discorso semplice ma non semplificatorio; del
tradurre concetti teorici complicati in parole accessibili anche a chi non segue quegli studi;
del farlo in spazi e tempi ridotti. Insomma: dello scrivere (per noi, per quel che posso dire io
qui: poi c'è il giornalismo video, e il multimedia, ma meglio non parlare di quel che si sa
poco). Man mano che l'economista viene visto come un oracolo, chiamato a dettare leggi e
ricette di per sé buone che solo la perversione della politica del momento può rifiutarsi di
mettere in pratica, non c'è bisogno di spiegare l'oracolo. Ma solo di rendere di uso comune
alcune sue locuzioni, o sigle, o tic; evitare di spiegarle, viene visto non come un fallimento
del giornalista (del suo mestiere), ma come sua assunzione nei cieli degli iniziati a quel
linguaggio. Ai quali, con magnanimità, solleva anche i suoi – sempre minori – lettori.
Ecco, i lettori sempre minori. C'è un mio collega che dice che i direttori dei quotidiani leggono ogni
giorno con angoscia, per prima cosa, la rubrica dei necrologi: tutti lettori che se ne vanno. Non
rimpiazzati dai nuovi, i giovani che si informano per mille vie che non sono i giornali. Di tutte le
rivoluzioni tecnologiche del capitalismo, ne abbiamo una sotto gli occhi, che è quella dell'industria
della carta stampata, e più in generale delle notizie in vendita dietro pagamento di corrispettivo. Noi
giornalisti siamo al centro di una distruzione, non sappiamo quanto sarà creativa: dovremmo essere
considerati come i minatori nei paesi ricchi, o come gli amanuensi ai tempi di Gutenberg – invece
non ci si fila proprio nessuno, forse perché tutti sono convinti che tanto, con tutte le protezioni
politiche che abbiamo, ce la caveremo.
Blog, siti, new media e nuova economia
Anche qui, va detto che il cambiamento riguarda tutti i settori dell'informazione, e non nello
specifico quella economica. Non è questa la sede (né io sono la persona adatta) per affrontare tutta
la complessità del new journalism, le sue potenzialità e rischi, la sua ineluttabilità. Diamo solo
qualche titolo, appunti per un discorso collettivo al quale in molti stanno contribuendo in Italia e nel
mondo, e al quale vorrei chiamare anche la bella fetta di pensiero critico dell'accademia italiana qui
presente.
1) è un capitolo dell'economia della conoscenza, dunque ne ha tutte le caratteristiche anche in
termini di mutamento delle condizioni lavorative (a partire dalla sparizione del luogo fisico
della redazione, per molti di coloro che pure fanno l'informazione)
2) i casi di successo sono legati per ora a modelli partecipativi e innovativi su informazione
generalista (non specialistica)
3) è in piena trasformazione dall'entusiasmo dei pionieri all'inserimento nel mainstream del
business economico
4) giornalismo indipendente e informazione economica. Il nuovo giornalismo ha tre
caratteristiche essenziali per piacere a chi ha a cuore l'indipendenza dell'informazione: bassi
costi fissi (che riducono le barriere all'ingresso), rapidità della circolazione della
conoscenza, possibilità di partecipazione dal basso. (nel nostro piccolo, lo testimoniano
anche i successi di sbilanciamoci.info e di inGenere.it). Ma ha un piccolo difetto: non riesce
a vendere il suo prodotto. E' gratis. Così come le grandi corazzate dell'informazione, anche il
giornalismo indipendente è ancora alle prese con il dilemma non risolto dell'era del “gratis”
di internet: come si garantisce la sostenibilità economica?
5) I new media aprono poi la possibilità del rapporto diretto, senza intermediazioni, tra il
giornalista e i suoi lettori, ma anche tra l'economista e i suoi – ormai possiamo chiamarli
così - “fan”. Si veda il caso di Nouriel Roubini, che twitta quotidianamente a 207.799
follower (guidando la nuova generazione di quelli che sono stati chiamati economisti-guru)
Proposta finale
A partire dall'articolo di Paolo Palazzi, “La quattordicesima di Bini Smaghi”, (v. riquadro), offro
rubrica su sbilanciamoci.info. I media sono pieni di affermazioni non provate, numeri sparati a caso,
balle dei potenti. Diamo un numero al giorno, per sbugiardare quelli falsi (fact-checking), restituire
un piccolo pezzo di verità quotidiana, fare un contraltare e controcanto, che diventerebbe un piccolo
corso di economia in pillole, sul campo.
“Leggo su La Repubblica del 7 gennaio 2009, da una intervista di Lorenzo Bini Smaghi, che:
"..grazie al calo dell'inflazione, chi oggi ha un lavoro si trova più soldi a disposizione rispetto
all'anno scorso. Il calo della bolletta energetica dovrebbe portare circa 1500 euro nelle tasche delle
famiglie. Una sorta di quattordicesima".
Questa affermazione riprende pari pari le dichiarazioni che il presidente Berlusconi da tempo ama
fare in ogni occasione.
Cerchiamo di capire meglio che cosa i due importanti economisti ci vogliono dire:
1) Prima ipotesi. L'anno scorso va inteso come confronto fra inizio anno e fine anno 2008. No, non
è possibile, il tasso di inflazione nel 2008 è stato del 3,3%. Il mio stipendio è rimasto costante in
termini monetari e quindi niente quattordicesima, ma anzi una riduzione del mio potere d'acquisto.
2) Seconda ipotesi. L'anno scorso va inteso come confronto fra il reddito medio del 2008 e quello
del 2009. Ma per avere nel 2009 più reddito rispetto al 2008 bisognerà ipotizzare un aumento di
reddito reale, e quindi un aumento monetario maggiore di quello dell'inflazione. Ma questo nessun
economista che non si rifaccia all'astrologia può prevederlo, vedremo cosa sarà successo alla fine
dell'anno.
3) Terza ipotesi. Il maggior reddito deriverebbe dal "calo dell'inflazione", cioè se l'inflazione non
fosse calata avremmo avuto meno soldi, o meglio ancor meno soldi rispetto alla decurtazione
comunque avuta grazie all'inflazione.
La terza ipotesi mi sembra la più sensata, ma la frase "chi ha un lavoro oggi si trova più soldi a
disposizione rispetto all'anno scorso", se può essere in qualche modo giustificata quando espressa
da Berlusconi, le cui barzellette hanno fatto il giro del mondo, è inaccettabile se espressa da un
economista con importanti incarichi istituzionali come Bini Smaghi, che per onestà avrebbe
soltanto dovuto dire "che chi ha un lavoro oggi si troverà ad avere sicuramente meno soldi a
disposizione con un decremento forse inferiore rispetto all'anno scorso" (Paolo Palazzi, da
sbilanciamoci.info, 7-01-2009)