Martina Pamich La regina delle stelle

Martina Pamich
La regina delle stelle
N
el bosco la neve gelida mi arrivava fino alle ginocchia; dovevo raccogliere tutte le mie forze per alzare la gamba, successivamente allungarla e fare un passo. In alto, potevo scorgere a tratti il blu oceano del cielo, illuminato solo dalla luna che quella notte splendeva insieme alle stelle.
Un grande cartello troneggiava su una collinetta davanti a me; ero di fronte
ad un bivio. Presi il sentiero tortuoso che andava verso sinistra, in direzione della Guaritrice di Ringmont.
Tutto quello che dovevo fare era trovare in fretta la sua baracca, farmi dare
delle erbe o delle bacche guaritrici, e portarle velocemente a mia sorella che da
giorni era gravemente ammalata.
Avevo paura. Quasi urlai quando un gufo mi passò a pochi centimetri dal
capo, facendomi ruzzolare a terra; sentii qualcosa di duro, forse un sasso, perforare i miei guanti di pelle e fendere la mia mano. Dopo essermi tolta il guanto,
controllai la ferita. Il sangue rosso scivolava sulla mia carnagione bianca come
un serpente si muove velocemente giù per una collina. Presi dal mio zainetto un
pezzo di garza, che mi legai malamente attorno alla mano. Il gufo aveva degli
affascinanti occhi verdi, con pagliuzze dorate che vorticavano nell'iride. Appena
feci un passo nella sua direzione, esso spiccò il volo, come per vantarsi del fatto
che lui sapeva volare ed io no; poi sparì nel buio.
Ripresi a camminare con foga, stanca e spossata. Un rumore e mi girai di scatto; un urlo maschile e poi un’ombra che si spostava velocemente dietro gli alberi. Iniziai a tremare di paura, immobile nella mia posizione. Un respiro affannoso dietro di me e le mie urla: questo era tutto ciò che sentii nel buio.
Mi svegliai tra le braccia di qualcuno che camminava lesto. Appena riuscii ad
aprire gli occhi, vidi un viso; pelle marmorea, labbra carnose e invitanti, guance
arrossate e occhi dalla forma dolce, ma dalla mia posizione non riuscivo a vedere il loro colore. Mi guardò e quando vidi i suoi occhi verdi tempestati da pagliuzze dorate rimasi senza parole. Lui mi sorrise, forse intuendo ciò che stavo
pensando. Eppure era così: lui era il gufo.
Solo ora ricordavo un pomeriggio passato dalla nonna, solo ora ricordavo le
storie che mi aveva raccontato sul bosco e su alcuni esseri magici che lo abitavano. Non ci avevo dato molto peso, giravano molte voci in città riguardanti mia
nonna: alcune dicevano che era pazza, non che io lo cedessi veramente, ma mi
erano venuti parecchi dubbi dopo quei racconti.
In lontananza incominciai ad intravedere una casetta in legno e sperai ardentemente fosse quella della Guaritrice; poco dopo scoprii che era così. Eravamo
arrivati, finalmente. Fu lui a prendere l'iniziativa e con le sue grandi mani aprì
quel portone, fece per entrare ma lo trattenni per il braccio.
“Non credo dovresti entrare”. Ma le mie parole scatenarono in lui una grande
risata.
“Mia madre non ti mangerà credimi, perciò smettila di tremare e rilassati”.
Sua madre? Da quello che si raccontava in città la Guaritrice era piuttosto anziana, senza figli né marito: una donna sola, in compagnia delle sue passioni
per la botanica e nient'altro.
“Non fare quella faccia, quello che si racconta a Ringmont non è mai la verità” disse sorridendo. Riuscii a vedere i suoi denti bianchi anche al buio.
Egli schioccò le dita e le candele si illuminarono grazie ad un fuoco leggero. Il
ragazzo avanzò e fu avvolto all'improvviso da delle lucciole, pensai, ma poi mi
resi conto che non erano insetti, bensì piccole fatine che gli tolsero il cappotto.
Lui scomparve dietro ad una porta. Mi accasciai sulla poltrona di fronte al caminetto, mi tolsi gli scarponcini e presi sonno.
“La Guaritrice tornerà tra qualche ora. Mettiti comoda: se vuoi puoi farti una
doccia, i tuoi capelli sono umidi, ti prenderai un malanno!”.
Fui svegliata da queste parole, seguite da una mano che si intrufolava tra i
miei capelli biondo cenere e un dolore che partiva dalle scapole e arrivava fino a
metà schiena.
Mi indicò il bagno, informandomi del fatto che avrei trovato degli asciugamani puliti e dei vestiti; lo ringraziai e me ne andai in bagno senza guardarlo.
Mi scrutai allo specchio, dopo essermi assicurata d'aver chiuso bene la porta
per evitare spiacevoli inconvenienti; ero più pallida del solito, sentivo gli occhi
pulsare, credetti fosse stanchezza. Lasciai scorrere l'acqua della doccia, attendendo fosse più calda. Continuavo a guardarmi intorno, cercando quei piccoli
esserini che avevo visto interagire con naturalezza con il ragazzo, ma non ne
vidi. Mi spogliai velocemente ed entrai in doccia, poi, asciugatami, mi vestii velocemente, ma il dolore alla schiena, specialmente alle scapole, fu così forte che
dovetti aggrapparmi al lavandino per non cadere a terra. Un altro spasmo alle
spalle mi fece accasciare a terra; la mia guancia a contatto con il pavimento freddo, le mie mani tremanti. Poi una luce proveniente dalla serratura e la porta che
si apriva, ed eccolo lì il ragazzo dai capelli ramati. Mi prese tra le sue braccia.
“Che mi succede?” chiesi spaventata.
“Presto lo vedrai”.
Mi distese su un letto, poi un dolore lancinante mi fece affondare i denti sul
cuscino e urlare con tutto il fiato che avevo. Due secondi dopo uno schiocco,
una luce abbagliante, e tutto era finito; mi sentivo bene. Una nuova me stessa.
Mi sentivo più leggera, più bella, più potente, più tutto.
Il ragazzo-gufo mi guardò adorante e si inchinò davanti a me; arrossii violen-
temente quando mi prese la mano e me la baciò.
Il mio sguardo si posò sullo specchio di fronte a me e fu così che intravidi ,
dietro le mie spalle, delle sottili e graziose ali azzurrine. Tutto in me era cambiato, eppure non ero spaventata, né stupita: dentro di me c'era la consapevolezza
che ogni cosa era al posto giusto, come se da tempo io stessi aspettando solo
questo per essere veramente me stessa.
Poi guardai la stanza con occhi diversi, riuscivo a vedere ogni singolo spigolo.
Tutto era più chiaro, più luminoso; tutto dava più mostra di sé.
Improvvisamente pensai a mia sorella e uscii. Fuori, la notte era ancora buia e
tetra. Lui mi seguì.
“Come mai ci sono così tante fate qui? Perché loro sono così piccole ed io
così… normale?”
“Cara Elv. – si bloccò; poi mi guardò e riprese a parlare – perché loro sono
anime buone, ma non hanno rischiato la loro vita come hai fatto tu. Vedi, spesso
venivano qui donne, giovani e anziane, a pretendere aiuto per un loro parente
malato o un figlio morente. Solo tu sei venuta qui con la tua umiltà e povertà,
senza pretendere niente e mettendo in pericolo la tua vita in cerca di qualche
bacca per tua sorella, sebbene la strada per arrivare fin qui fosse tanto difficoltosa. Tua sorella è salva grazie a te: mia madre era già da lei quando tu eri a metà
strada. Non ti sei tirata indietro, mai hai pensato di farlo. Ecco… parte della
loro anima buona è dentro a quei corpicini, ma la tua parte buona era troppo
grande per essere destinata ad un corpo così piccolo. Tu sei destinata a grandi
cose!
Sai cosa significa ‘Elenie’?”
Elenie era la mia dolce sorella, ma risposi di non conoscere il significato del
suo nome.
“Significa stella, cara Elvereth”.
“Non mi chiamo Elvereth.” dissi scocciata.
“Da quando hai preso la decisione di venire fin qui rischiando tutto, il tuo
nome è questo. Sai cosa significa?”.
Dissi di no, ansiosa di saperne il significato.
“Sei una regina, Elvereth, la regina delle stelle”.
Spalancai gli occhi per la sorpresa, poi li alzai al cielo ed una stella cadente segnò il blu di quella notte con la sua scia luminosa, quasi come per rendermi i
suoi doni ed esaudire tutti i miei desideri; e poi le notai tutte le stelle, lì, allineate come per magia sotto il mio sguardo. Mi bastò allungare la mano verso di
loro e desiderare che esse si spargessero, ed eccole, in movimento, per prendersi
il posto con la vista migliore.
Poi dei passi, una voce e una donna con dei capelli ramati simili a quelli del
figlio:
“Ti abbiamo aspettato per tanto tempo Elvereth”.