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Il Sole 24 Ore
DOMENICA - 6 LUGLIO 2014
n. 183
Premio Viareggio Rèpaci: ecco le terne
Storia e storie
La giuria del Premio «Viareggio Rèpaci», presieduta da Simona Costa, ha stabilito le
terne dei vincitori del premio Giuria-Viareggio 2014: M.Mari. A.Pascale e F. Pecoraro
(narrativa), A. Fo, P. Ruffilli e E. Salibra (poesia), G.A. Ferrari, L. Mecacci e M. Raffaeli
(saggistica). I tre vincitori verranno proclamati il 30 agosto 2014 a Viareggio.
Riconoscimenti anche a P. Ginsborg. S. Chessa e S. Sandrelli (alla memoria)
riccardo perucolo
klemens von metternich
La cella del pittore eretico
Un conservatore
tra i rivoluzionari
In un romanzo
Romanelli rievoca
la straordinaria
scoperta dei graffiti
rinvenuti nei Pozzi
di Venezia
di Massimo Firpo
A
rrestato dall’Inquisizione a
Coneglianonel1567, etrasferito nelle terribili carceri veneziane dei Pozzi per essere
processato,RiccardoPerucolo fu interrogato, torturato e
condannato a morte l’anno dopo, nonostante all’ultimo momento si fosse dichiarato
pentito e disposto ad abiurare. Già processato nel 1549, quando gli era stata comminata
una pena tanto mite quanto umiliante, egli
era un recidivo, un relapso, per il quale i sacri
canoni prevedevano la sentenza di morte.
Per risparmiargli le atroci sofferenze del rogo,glifuconcesso ilprivilegiodiessere sgozzato prima di appiccare il fuoco. Non ancora
quarantenne, schierato su posizioni calviniste, ma con inflessioni anabattiste, Perucolo
era un modesto "maistro" pittore di provincia che poteva tuttavia compiacersi del fatto
chele sue cose andassero"prospere". Di luisi
conservano solo alcuni fregi decorativi a palazzo Sarcinelli nella sua città natale, sede
dellabellamostraappenaconclusa,«UnCinquecento inquieto da Cima da Conegliano al
rogodiRiccardoPerucolo»,acuradiGiandomenico Romanelli e Giorgio Fossaluzza.
Quanto sappiamo dellasua vita e del suo tragico epilogo è stato raccontato nel 1995 in un
affascinantelibrodiunostoricodell’artequale Lionello Puppi, Un trono di fuoco. Arte e
martirio di un pittore eretico del Cinquecento, frutto di un’accurata ricerca d’archivio.
A riaprire il caso è stata una scoperta fatta
durante i lavori di restauro dei Pozzi, dove in
una delle celle, la n. X, sono venuti alla luce
straordinarigraffiti: una Madonnacon bambinotra sanRoccoesanSebastiano, unaCrocifissione tra san Benedetto e sant’Antonio
abate sulle pareti e un angelo sulla volta, che
rivelanonon comuni competenze iconogra-
mano esperta | Il graffito ritrovato nella cella X delle prigioni di Venezia
fiche e la mano di un esperto disegnatore.
Anche da altre antiche prigioni (primo tra
tuttiloSteridi Palermo),raschiandodallepareti i ripetuti strati di calce volti a preservare
dalleepidemiequeicupiantriumidiemaleodoranti, sono emerse le scritte e i disegni dei
carcerati: grida di rabbia, di pentimento, di
disperazione, di paura, di speranza, ultimi
messaggi affidati al mare della storia da vinti e reietti d’ogni tipo. Ma nel caso della cella
X dei Pozzi si imponeva la qualità di alcune
partidi quel graffito,esoprattutto siimponeva la conoscenza del fatto che per oltre un
mese Perucolo era stato recluso in quelgirone dantesco. Di qui la decisione di Romanelli, allora direttore di Palazzo Ducale, di riprendere la ricerca, il cui percorso è tuttavia
approdato non tanto a nuovi documenti
quanto a un’intensa partecipazione emotiva alla drammatica vicenda attestata da
quell’ultimo abbozzo di affresco per cercare
di capirne il significato. Ne è scaturito un romanzo, tutto incentrato su personaggi e fatti reali, ma rievocato in punta di penna per
questione adriatica
La vittoria mutilata
di Emilio Gentile
L’
Italia entrò nella Grande guerra
il 24 maggio 1915, in seguito a un
patto con l’Intesa, firmato a Londra il 26 aprile. In caso di vittoria,
avrebbe ottenuto il Trentino e il Sud Tirolo fino al Brennero, Trieste, le contee di Gorizia e
Gradisca, l’Istria fino al Quarnaro, parte della
Dalmazia, e compensi coloniali. Il 30 ottobre
1918, il Consiglio nazionale italiano della città
di Fiume, già appartenente all’Impero austro-
ungarico, ma attribuita alla Croazia dal Patto
diLondra, decisel’unione all’Italiainnomedel
dirittoall’autodeterminazionedeipopoli,proclamato dal presidente Woodrow Wilson
quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel
1917. Il Consiglio nazionale dichiarava di mettere la sua decisione «sotto la protezione
dell’America,madredilibertàedellademocrazia, universale e ne attende la sanzione dal
Congresso della pace».
Maallaconferenza della pace, Wilson rifiutò di sanzionare la decisione degli italiani di
Fiume, che erano la maggioranza della popolazione, sostenendo che la città spettava al
nuovo Stato serbo-croato-sloveno, sorto do-
l’incontro
D’Annunzio
e l’ammiraglio
Enrico Millo
a bordo
dell’Indomito
nel 1919
tracciare i paesaggi, gli ambienti, i profili
umanicheaccompagnaronolavitadiRiccardo Perucolo. L’ex vescovo di Capodistria
Pier Paolo Vergerio, per esempio, di cui egli
custodiva una "scrittura", impegnatosi in
una vigorosa riforma della diocesi che aveva
accompagnato la sua evoluzione dottrinale
in senso riformato, fino alla fuga in Svizzera
nel 1549, proprio mentre il pittore di Conegliano incappava per la prima volta nei rigoridelSant’Ufficio; oppureGiovanni DellaCasa,ilnunzio aVenezia(e inquanto taleinquisitore deputato a procedere contro l’oscuro
pittore di Conegliano) la cui mancata nomina cardinalizia a causa di comportamenti e
scritti moralmente discutibili sarebbe stata
causa di disillusioni e amarezze sulle quali
Romanelli indaga in pagine penetranti.
C’è un punto però che a mio giudizio resta
irrisolto, un punto cruciale e tutt’altro che
elusodall’autore,chesichiedeesplicitamente come fosse possibile "che un lutheran dipingesse dei santi", anche perché nel 1547,
chiamato ad affrescare la loggia del palazzo
po lafine dellaguerra. Inoltre, con inflessibilità, Wilson si oppose alle richieste del presidente del ConsiglioVittorio EmanueleOrlando e del ministro degli Esteri Sydney Sonnino, di ottenere, secondo ilPatto di Londra, anche parte della Dalmazia, dove la popolazione italiana era una minoranza. Wilson motivò la sua opposizione con l’argomento che
l’Italia non poteva chiedere, in nome della sicurezzanazionale, l’annessione delSud Tirolo, abitato da tedeschi, e dell’Istria e della Dalmazia, abitate in maggioranza da slavi, mentrenellostesso tempo reclamava Fiume in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione. La contraddizione delle richieste italiane era palese, ma l’ostinazione di Wilson apparvepregiudizialmenteostile all’Italia:infatti, con il suo consenso, altre minoranze etniche, molto più numerose dei tedeschi e degli
slaviinclusi nei confini italiani, erano state assegnate con i loro territori a vecchi e nuovi
Statidell’Europa orientale.Sull’ostilitàdi Wilson non riuscì a spuntarla Orlando, che per
questo fu costretto a dimettersi il 19 giugno
1919, e neppure il successore Francesco Saverio Nitti. L’Italia non ottenne neppure i compensi coloniali previsti dal Patto di Londra.
Daquinacqueilmitonazionalistadella«vittoria mutilata» lanciato da Gabriele D’Annunzio,che il 12 settembre capeggiòuna sedizione
militaredi ufficiali e soldatidell’esercitoitaliano per occupare Fiume rivendicandone l’annessione all’Italia. Nel novembre, l’ammiraglio Enrico Millo, il governatore militare della
Dalmazia, si schierò con D’Annunzio e sfidò il
governo dichiarando di «aver agito da italiano
e da soldato». Furono queste le origini della
«questione adriatica», una delle più aggrovigliate e più gravi prodotte dagli antagonismi
fra le potenze vincitrici al momento di decidereilnuovo assetto dell’Europa.Suinobiliideali della democrazia e del diritto dei popoli
all’autodeterminazioneprevalseallafinelapolitica di potenza degli Stati vincitori più forti.
Di ciò si rese conto un esperto diplomatico, il
senatoreTommaso Tittoni,nominato nelgiugno successivo ministro degli Esteri, «Guai –
disse al Senato il 29 aprile 1919 – se dopo aver
combattutol’egemoniatedescadovessimo accorgerci che ad essa abbiamo sostituito altre
egemonie, meno brutali nelle apparenze, ma
egualmente tiranniche nella realtà; guai soprattutto se dietro questa egemonia di alcune
grandi nazioni dovesse nascondersi una formidabile coalizione plutocratica, un colossale
monopolio finanziario per lo sfruttamento
economico del mondo».
Perl’Italia,la gravitàdella«questione adriatica»fu nonsolointernazionale,masoprattut-
pretoriodiConeglianolostessoPerucolo(come spesso gli capitava) non era stato capace
di tenere a freno la lingua con i passanti che
gli chiedevano che cosa stesse dipingendo:
«Qua voio far doi santacci – era sbottato –
che le persone crede che i siano in paradiso,
che forse sono a casa del diavolo a scaldarse i
piè».SindalleoriginidelrestolaRiformaprotestanteaveva polemizzatoaspramentecontro le immagini sacre, sia con libri e libelli sia
con violente campagne iconoclaste. Anche
per questo in quei convulsi decenni non era
affattofacilefareilpittoreeprofessaredottrine ereticali, vista l’assoluta prevalenza della
committenzadisoggettireligiosi,lacui raffigurazione comportava il rischio di diventare
servi del demonio e strumenti dell’Anticristo. Di qui i miei dubbi sul fatto che l’autore
di quei graffiti, Perucolo o altri che fosse, vi
esprimesseilsuo"insopprimibileetragicobisogno di libertà", ricorrendo "a delle figure
che non gli imponessero un’abiura morale,
che non toccasero quel che aveva di più caro,
lasuadignitàelasuafede.Nésantinésantacci, nonCristofori o cavalieri difantasia, bensì
Nostra Signora e santi protettori e guaritori,
sofferenza e riscatto: salvezza, infine", come
scrive Romanelli. In realtà, proprio intorno
alle immagini dei santi, e in particolare di
quei santi protettori e guaritori, ai loro miracoli e alle loro grazie, si coagulava una miriade di cultisuperstiziosi e apotropaicisfruttati da un clero ignorante e corrotto per trarre
profitto da una devozione popolare alimentata dai timori, dalla perenne precarietà, dalle sovrumane fatiche di vite sempre ai limiti
della sopravvivenza ed esposte senza difese
a malattie e carestie. Mi sembra quindi più
probabile che le devote immagini tracciate
sulleparetidiquellacelladaRiccardoPerucolo(se davveroeglinefu l’autore)fossero piuttosto un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi al patibolo dimostrando il suo pentimento e la sua volontà di tornare in seno alla
Chiesa di Roma: una sorta di abiura visiva,
insomma, volta a corroborare la confessione
di fede del tutto ortodossa da lui sottoscritta
allafinedeisuoigiorni.Ilchenon escludeovviamentechenelsegretodelcuoreeglicontinuasse a professare le sue eresie: ma lo storico deve necessariamente arrestarsi su questa soglia dell’anima, valicabile invece da chi
hasceltolastradadellanarrazioneromanzesca con tutta la libertà che essa consente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Giandomenico Romanelli, Il pittore
prigioniero, Marsilio,Venezia, pagg.
208 , € 16,50
to interna,perché contribuìmolto, con la sedizione militare dannunziana, a indebolire l’autorità del governo parlamentare, esasperando
la crisi dello Stato liberale. Nel ricostruire con
perizia e chiarezza espositiva la storia della
«questione adriatica», Marina Cattaruzza, docente di storia contemporanea nell’Università
di Berna, ha messo in risalto il peso decisivo
che sulla sorte della democrazia parlamentare
ebbero la «delusione per i mancati frutti della
vittoria, così come il trascinarsi della questione adriatica fino al dicembre 1920, quando
D’AnnunziofufattosloggiaredaFiumedaGiolitti».Succeduto aNittinelgiugno1920, Giolitti riuscì col ministro degli Esteri Carlo Sforza a
giungere a un accordo con il governo jugoslavo, sottoscritto a Rapallo l’11 novembre 1920,
col quale furono definiti i confini fra i due Stati, e Fiume divenne uno Stato libero collegato
all’Italia. Il patto fu approvato anche da Benito
Mussolini, che fino ad allora, col movimento
fascista da lui fondato un anno prima, aveva
sostenuto l’occupazione dannunziana. L’Italia,disseSforzaalSenato,potevaessere soddisfattadella soluzionedella«questione adriatica», che le assegnava confini sicuri e le riconosceva il rango grande potenza. Tuttavia, come
osserva Marina Cattaruzza, «il prezzo pagato
dal Paese fu altissimo: per più di un anno l’Italiaassistette,consentimentiopposti,all’impotenza delle massime istituzioni nei confronti
di alcune migliaia di ammutinati».
Della stessa impotenza, le massime istituzioni diedero peggior prova due anni dopo,
quando lasciarono salire al potere Mussolini e
il partito armato fascista, sotto la minaccia di
un’insurrezione.Fuilprimoesperimento,tentatoinEuropaecoronatodasuccesso,perdelegittimareleistituzioniparlamentari«contrapponendo a esse la volontà nazionale o popolarerappresentata dal vate, dal condottiero o dal
capo carismatico di turno», come scrive il presidentedelSenatoPietroGrassonellaprefazioneallibrodellaCattaruzza.FucomunqueMussolinipresidentedel Consiglioa daresanzione
al voto degli italiani di Fiume il 27 gennaio
1924, siglando con la Jugoslaviaun nuovo trattato, col quale la città era annessa all’Italia. Ma
l’idillio durò poco: appena due anni dopo fra i
due Stati adriatici, fu di nuovo tensione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marina Cattaruzza, L’Italia e la questione
adriatica. Dibattiti parlamentari e
panorama internazionale (1918-1926),
Collana dei dibattiti storici in
Parlamento, a cura dell’Archivio Storico
del Senato della Repubblica, il Mulino,
Bologna, pagg. 592, € 35,00
di Francesco Perfetti
L’
uscita dalla scena politica del
principe Klemens von Metternich avvenne il 13 marzo
1848. La fiammata rivoluzionaria, che stava attraversando l’Europa,
da Parigi era giunta a Vienna. La folla aveva invaso le strade della capitale dell’impero asburgico, erano stati occupati posti
di polizia e abbattute le aquile bicipiti, manipoli di studenti maledicevano il cancelliere intonando strofe irriverenti: «Oh
Metternich, oh Metternich/Vorrei che
nella tempesta/La terra ti ingoiasse».
Quel giorno – era di lunedì – delegazioni
di insorti si recarono all’Hofburg per chiedere la liquidazione di Metternich. Il cancelliere, convocato a corte, imperturbabile, in marsina verde scuro, pantaloni grigio chiaro, cravatta di seta nera e un bastone dal pomo d’oro, tentò di convincere
l’imperatore e gli arciduchi a far intervenire le forze armate e alzare il livello dello
scontro per bloccare la rivoluzione. Fu costretto a rassegnare le dimissioni. Rientrato a palazzo, alla moglie Melanie che
gli domandò: «Dunque, siamo proprio
morti?», rispose con un sorriso amaro:
«Sì, mia cara, siamo morti». Il giorno successivo, al medico personale venuto a visitarlo, disse: «Caro dottore, sarebbe meglio che lei tastasse il polso all’Austria».
Per quasi quarant’anni Metternich aveva retto le redini del governo imperiale.
Adesso era diventato il capro espiatorio, la
bestia nera del liberalismo e della democrazia,il simbolo dellareazione da abbattere. Attorno al suo nome si creò una vera e
propria"leggenda nera",che ne ha tramandato un’immaginefosca e impietosa, di uomo retrivo e cinico, abbarbicato a un passato declinante, incapace di cogliere fermenti e istanze di un’epoca in movimento.
Questa "leggenda nera" si sarebbe rivelata dura da scalfire. Metternich lo previde: «tra cento anni gli storici mi comprenderanno meglio». Non passò un secolo,
ma quasi. Pochi studiosi – fra questi Albert Sorel che ne parlò come di «un diplomatico di altissimo livello, senza pari nel
suo tempo e nel suo tipo» – si mostrarono
benevoli nei suoi confronti.
Fu necessario attendere la seconda metà degli anni venti del secolo successivo
perché ne fosse rivista l’interpretazione
demonizzante propria della storiografia
di ispirazione liberale e democratica. Solo
nel 1925 apparve infatti la minuziosa biografia dedicatagli da Heinrich von Srbik:
un’opera importante che ebbe estimatori
anchein Italia, a cominciare da Franco Valsecchi, e che, lungi dallo scadere nell’apologia,si sforzò di comprenderne e spiegarne la politica. Ne emergeva una personalità non grettamente reazionaria né amante di un virtuosismo diplomatico teso a
bloccare il cammino della storia, ma preoccupata di ristabilire e conservare l’equilibrio fra gli Stati.
Al lavoro pionieristico di von Srbik rende omaggio anche la più recente e accurata biografia di Metternich dovuta alla penna di un ottimo studioso dell’Ottocento
europeo e in particolare dell’età napoleonica, Luigi Mascilli Migliorini. Questi tiene conto dei risultati e delle discussioni
della storiografia internazionale e riesce
ad offrire al lettore non solo la ricostruzione della biografia, umana e politica, di
Metternich ma anche un vivace affresco
di storia diplomatica di un periodo nel
quale – per usare un’espressione di Henry Kisssinger, anch’egli studioso di Metternich – si manifestò l’anomalia di un conservatore destinato a operare in un’epoca
rivoluzionaria, preoccupato di recuperare dal caos politico un nuovo senso del dovere e di sconfiggere la rivoluzione insistendo sulla "legittimità" in nome del
"principio di equilibrio".
Non a caso, Mascilli Migliorini sottolinea l’importanza della formazione culturale dello statista austriaco. Metternich fu
espressione del suo secolo o, per meglio
dire, di quell’ultimo scorcio del Settecento
durante il quale la monarchia degli Asburgo aveva raggiunto il massimo splendore.
Discendeva da una famiglia di antica nobiltà renana legata alla dinastia imperiale
e si era formato nel culto illuministico della ragione. Sostenitore dell’assolutismo illuminato era convinto che in uno Stato sano dovessero trovarsi in equilibrio le forze della stabilità e del movimento, della
staticità e del dinamismo, della conservazione e della rivoluzione. L’esigenza della
reazione nasceva, per lui, dalla necessità
di ristabilire l’equilibrio infranto dal prevalere degli elementi rivoluzionari: «Se
sui vostri terreni aveste un grande serbatoio d’acqua che ad ogni momento può inondare i vostri campi, e che, prima o dopo,
dovrà scaricarsi, cosa fareste? Rompereste forse le dighe per far irrompere un torrente d’acqua? O non piuttosto pratichere-
ste con prudenza delle aperture in modo
che l’acqua scorra tranquilla, e apporti, invece della distruzione, il benessere?». Nella rivoluzione egli non vedeva solo un pericolo per il regime politico verso il quale si
indirizzavano le sue simpatie, ma anche, e
soprattutto, una minaccia per una concezione di vita, che, alla luce delle categorie
mutuate dal razionalismo illuministico,
gli appariva migliore.
Il suo motto preferito era: «la forza nel
diritto». Tuttavia egli non poteva apprezzare il ristabilimento dell’ordine operato
da Napoleone dopo il ciclone rivoluzionario che aveva investito la Francia, abbattuto la monarchia, portato all’esecuzione
dei sovrani e al Terrore: non era, infatti,
quello di Napoleone, l’ordine legittimo,
l’ordine dell’antico regime, ma un ordine
nuovo che collegava la sovranità alla dittatura. Di Napoleone ebbe una pessima impressione quando, nominato ambasciatore a Parigi, gli presentò le credenziali. Bonaparte lo accolse in piedi, nel mezzo del
salone delle udienze di Saint-Cloud, circondato dai dignitari dellacorte, indossando l’uniforme delle guardie e tenendo in
testailcappello:per un uomo come Metternich, elegante fino al limite dello snobismo e attento all’etichetta, questa fu una
sconvenienza imperdonabile, rivelatrice
del parvenu. Col tempo il suo giudizio non
mutò ed egli non ne fece mistero annotando: «la sua figura bassa e tarchiata, il suo
modo di vestire trascurato e, insieme, il
suo sforzo di apparire imponente, finirono con l’attenuare molto, per me, quella
sensazione di grandezza, che necessariamente si provava dinanzi all’uomo che faceva tremare il mondo». Del resto, come
avrebbe mai potuto, questo aristocratico
raffinato, giudicare con indulgenza un Napoleone che, il giorno delle nozze con Maria Luisa d’Austria, attese fremente d’impazienza la novella sposa nel cortile del castellodi Compiègne, l’aiutò a scendere dalla carrozza, l’accompagnò in sala da pranzo, ma, dopo la prima portata, la condus-
Luigi Mascilli Migliorini
offre non solo la ricostruzione
della biografia del principe
ma anche un vivace affresco
di storia diplomatica
se, lasciando tutti gli ospiti, in camera da
letto per consumare il matrimonio?
Per un trentennio, dal 1809 al 1848, prima come ministro degli Esteri poi anche
come cancelliere di Stato, Metternich fu
l’arbitro della politica imperiale. Fu lui a
guidare la crociata dell’Europa dinastica
contro la Francia napoleonica. E fu ancora lui, dopo la sconfitta finale del condottiero venuto dalla rivoluzione, a disegnare nel Congresso di Vienna, il nuovo assetto della carta geopolitica europea all’insegna della restaurazione. Con ogni mezzo
si oppose al principio democratico e al
principio di nazionalità convinto che il loro successo avrebbe determinato la polverizzazione del continente e la fine del "sistema di equilibrio": la sovranità popolare si sarebbe convertita in sovranità nazionale e avrebbe portato all’affermazione del diritto delle nazioni a costituirsi come Stati indipendenti.
Per qualche tempo, dopo la sua uscita di
scena, lo statista che si era assunto il ruolo
di timoniere dell’Europa, lasciò la sua Austriae vagò in esilio tra l’Inghilterra e il Belgio. Quando nel settembre 1851, ormai settantottenne, tornò a casa, scortato da una
piccola folla di amici e servitori, gli fu recapitata una pasquinata scritta dal poeta
Franz Grillparzer, che per lui nutriva profonda antipatia. Il suo commento fu lapidario e sprezzante: «Per fortuna Grillparzer, questo seccante poeta, ha scritto anche qualcosa d’altro».
Negli ultimi anni Metternich continuò a
sostenere con vigore la necessità di opporsi a quelle che considerava le forze distruttive messe in moto dalla rivoluzione. Il
nuovo imperatore, Francesco Giuseppe,
dopo il suo rientro in Austria, si recò a rendergli omaggio e chiedergli consiglio. Ma
l’ora di Metternich era ormai trascorsa.
Agli occhi di Vienna rappresentava il passato. Si spense l’11 giugno 1859. Sullo scrittoio fu trovata la minuta di una lettera rimasta incompiuta: «Un nuovo ordine delle cose! È possibile che debba essere edificato su basi diverse da quei principi che
sono gli unici fondamenti dell’ordine?».
Qualche giorno prima, sui campi di Magenta, l’Austria aveva subito una grande
sconfitta. Era cominciato il processo che
avrebbe condotto, rapidamente, al crollo
dell’Europa del sistema di Metternich e alla nascita dell’Europa delle nazionalità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Luigi Mascilli Migliorini, Metternich,
Salerno Editrice, Roma, pagg. 432,
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