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SVILUPPO ECONOMICO
Volume 4, Numero 2
maggio - agosto 2000
pp. 9 - 34
LO SVILUPPO ECONOMICO, LA CULTURA
E LA MUSICA COLTA
J.E.L.: Z10
Pasquale Lucio Scandizzo
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Sintesi: Tra le attività culturali, la musica appare come una componente dominante sia
della pratica delle cosiddette “arti viventi”, sia dell’immaginario individuale e collettivo che è alla base del consumo e della produzione di ogni forma artistica. La natura essenziale ed emblematica della musica e le sue proprietà di bene pubblico hanno forti
implicazioni dal punto di vista economico e consentono di utilizzarne caratteristiche e
manifestazioni come fenomeni rappresentativi del rapporto più generale tra economia,
società ed espressione artistica. Questo articolo esamina alcuni di questi fenomeni e ne
considera le possibili connessioni con i mercati e la politica economica, con l’obiettivo
di delineare nuove ipotesi di governance e nuovi ruoli del settore pubblico e privato.
Abstract: Among the cultural activities, music appears as a dominant component both
of the practice of the performing arts, and of the individual and collective imaginary at
the base of consumption and production of every art form. The essential and emblematic nature of music and its public goods properties bear strong economic implications.
They allow us to utilize its characteristics and manifestations as phenomena that are
representative of the more general relation between economy, society and artistic expression. This article examines some of these phenomena and considers its possible
connections with the markets and the economic policies, with the objective to identify
new hypotheses of governance and new roles for the public and the private sectors.
1. La musica e la cultura musicale
La quintessenza delle arti e della cultura è, in qualche modo, rappre-
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sentata dalla musica. Per molti aspetti, infatti, questa incarna una attività
con aspetti ludici, la cui fruizione, che spesso ha aspetti di godimento in
assoluta solitudine, appare, allo stesso tempo, di intensa socialità e sembra preesistere e trascendere ogni altra attività culturale. La “patria nascosta”, rivelata dalla paradossale sensazione di “estranea familiarità”,
fa della musica il primo e più antico strumento di globalizzazione. In
questo, essa non omologa gli individui l’uno con l’altro, ma ne scopre
un comune denominatore, evocando una forma di socialità ulteriore, come una cittadinanza comune di un mondo oscuramente conosciuto.
Schopenhauer (Vigliani, 1989) ha descritto questa capacità evocativa
come la risonanza drammatica, ma impersonale di un paradiso di emozioni disincarnate: “L’ineffabile senso intimo di ogni musica, in grazie
del quale essa ci passa davanti come un paradiso a noi ben familiare e
pure eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro essere più segreto, ma
senza la realtà loro, e tenendosi lungi dal loro tormento”.
La musica ci dà quindi la sensazione di appartenere ad un universo ineffabile, in cui l’individualità esce da se stessa in virtù della scoperta di
un linguaggio così universale da vincere ogni barriera del sé. Schopenhauer, ancora, congettura che la musica sia “[…] guardata come espressione del mondo - un linguaggio in altissimo grado universale, che
addirittura sta all’universalità dei concetti pressappoco come i concetti
stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto quell’universalità vuota dell’astrazione, bensì ha tutt’altro carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia in ciò alle figure geometriche e ai numeri che, quali forme universali di tutti i possibili oggetti dell’esperienza e a tutti applicabili, non sono tuttavia astratti,
ma intuitivi e sempre determinati”.
Ma perché, dal punto di vista economico, la musica appare particolarmente rilevante? Oltre alla sua caratteristica di linguaggio universale e
di stimolo emotivo che consente di trascendere l’individualità, la musica
presenta, per l’economista, un paradosso. Essa è una espressione culturale che, nella grande tradizione dell’Occidente (ma il fenomeno sembra
avere caratteri universali), appare interessata da una curva di crescita
che ha, già da tempo, raggiunto il suo massimo. Più che ogni altra forma
d’arte, quindi, la fruizione musicale colta appare connotata da una doppia natura, effimera e museale, ove la caducità della produzione ne minaccia continuamente spessore e continuità e la rappresentazione del
passato prevale in maniera quasi assoluta sulla celebrazione del presente. Perché la produzione di musica colta si assottigli sempre di più e per-
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ché pochi secoli di creazione musicale condizionino in maniera così cruciale gusti e forme espressive moderni è un duplice puzzle difficile da
spiegare. Esso ricorda, nella sua mancanza di cause apparenti e di assoluta autoreferenzialità, le difficoltà che spesso abbiamo nel comprendere
perché certe comunità, o certe culture, si sviluppino più di altre, e perché esse seguano un sentiero temporale definito, per cui raggiungono,
dopo un periodo di crescente splendore, un unico massimo; dopodiché
generalmente declinano, più o meno lentamente, in uno stato stazionario
di livello inferiore.
Dal punto di vista della formazione delle preferenze dei singoli, la effimera musealità moderna della musica colta è una caratteristica che non
può non preoccupare, soprattutto tenendo conto della ulteriore peculiarità che la musica presenta rispetto alla “mente come organo che consuma” (Schelling, 1991). Anche se l’udito appare in prima linea come organo mediatore, non c’è dubbio, infatti, che la musica sia oggetto di
consumo della mente, in senso molto più diretto e travolgente di qualunque altro consumo in cui l’accumulazione culturale, l’interpretazione e il
gusto sembrano predominanti. Nella musica, infatti, la mente sembra
fruire direttamente della produzione artistica e, per giunta, gli elementi
di sorpresa, di rivelazione, di appartenenza, che costituiscono il godimento ricavato da tale fruizione, sembrano intensificarsi con il consumo, e non abbisognano della interpretazione per essere amplificati.
Una fruizione di reperti museali che però rinnovano continuamente il
proprio potere di incantare, evocando una patria spirituale, intuita in modo compiuto e, forse, definitivo da pochi grandi musicisti, distribuiti
lungo meno di tre secoli di storia. Qualcosa, come suggerisce Schopenhauer, che richiama amorosamente alla mente la sua stessa struttura
o, come potrebbero suggerire gli studi moderni, un’attività ontogenetica
leggerissima che scivola lungo gli inestricabili sentieri cerebrali, rievocando la magia della filogenesi mentale, il miracolo del genere umano
che, attraverso i poteri della mente, si libera dalla materia.
La natura misteriosa e insieme problematica della musica come strumento di piacere e attività umana consapevole è uno dei temi ricorrenti
della filosofia e della letteratura di tutti i tempi, ma è soprattutto Proust
che ne incarna l’aspetto più affascinante per i suggerimenti connessi al
ruolo della memoria: “L’anno precedente, a una serata, aveva ascoltato
un brano musicale eseguito da piano e violino. In un primo momento aveva gustato soltanto la qualità materiale dei suoni che gli strumenti secernevano. Ed era già stato un grande piacere quando, al di sotto della
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tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a
un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e interamente ribollente
come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal
chiaro di luna. Ma a un certo punto, senza riuscire a distinguere nettamente un contorno, a dare un nome a ciò che gli piaceva, affascinato all’improvviso, aveva cercato di cogliere la frase o l’armonia, nemmeno
lui lo sapeva, che passava e che gli aveva aperto più lungamente l’anima, così come certi effluvi di rose che circolano nell’aria umida della
sera hanno la proprietà di dilatare le nostre narici. Proprio perché non
conosceva la musica, forse, egli poteva provare un’impressione così
confusa, una di quelle impressioni che, d’altronde, sono le sole puramente musicali, inestese, interamente originali, irriducibili a qualsiasi
altro ordine di impressioni. Un’impressione di quel genere, che ha la
durata di un istante, è per così dire sine materia. Certo, le note che noi
udiamo in quel momento tendono già, secondo la loro altezza e quantità, a coprire davanti ai nostri occhi superfici di varie dimensioni, a
tracciare degli arabeschi, a darci delle sensazioni di larghezza, di tenuità, di stabilità, di capriccio. Ma le note sono già svanite prima che
tali sensazioni siano abbastanza formate dentro di noi per non essere
sommerse da quelle risvegliate dalle note successive o persino simultanee. E questa impressione continuerebbe ad avvolgere nella sua liquidità e nel suo fondu i motivi che a tratti ne emergono, appena distinguibili, per subito riaffondare e sparire, conosciuti soltanto attraverso il
piacere particolare che danno, sottratti ad ogni possibilità di descriverli,
ricordarli, nominarli; ineffabili - se la memoria, simile a un operaio che
lavora alla posa di fondamenta durature in mezzo ai flutti - non ci consentisse, fabbricando per noi dei facsimili di quelle frasi fuggitive, di
compararle e differenziarle da quelle che le seguono” (1919, pp. 253255).
È la stessa natura di meraviglia sfuggente della musica, in altre parole,
a renderla preziosa come, a un tempo, oggetto e metafora della formazione della memoria. La musealità della musica colta tende quindi a nascere, in modo prepotente, dalla sua peculiare capacità di accumulare esperienza fruitiva e a trarre, dal ricordo stesso di tale esperienza, la capacità di godere dell’esperienza rinnovata. Rileggiamo ancora Proust:
“Così, la sensazione deliziosa che Swann aveva provata s’era appena
dissolta che già, seduta stante, la sua memoria gliene aveva fornito una
trascrizione, sia pure sommaria e provvisoria, che lui aveva potuto tenere sotto gli occhi mentre il pezzo continuava, così che, quando la medesima impressione era all’improvviso ritornata, non era più inafferrabile.
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Egli se ne rappresentava l’estensione, i raggruppamenti simmetrici, la
grafia, il valore espressivo; aveva davanti a sé quella cosa che non è più
musica pura, che è disegno, architettura, pensiero, e che consente di ricordare la musica” (ibidem, p. 255).
L’aspetto economico della vicenda musicale è, quindi, fondamentale
nell’interpretazione della musica come fenomeno sociale. La qualità paradossale del consumo della “mente come organo che consuma” è che
essa si forma con la qualità e la quantità dei consumi e poi tende, in
qualche modo, ad autoalimentarsi. Ma la musica non è solo un bene
pubblico perché non rivale e inappropriabile: a queste caratteristiche bisogna aggiungere il carattere problematico del suo consumo che si fonda
sull’impressione effimera ed inafferrabile e trae ispirazione, per così dire, dalla memoria con un’intensità sconosciuta agli altri consumi della
mente. Dobbiamo, quindi, aspettarci una progressiva attenuazione dell’incentivo a produrre ed a consumare musica colta, una volta raggiunto
un picco sufficientemente elevato. Ciò sta puntualmente avvenendo: se
la produzione di dischi e di altri veicoli della diffusione di massa è un
grande “business” sia per la musica colta che per quella popolare, i modelli di fruizione sembrano evolversi, infatti, in maniera disordinata e
precaria. La natura di bene pubblico della musica è sempre più negata
dal consumo più o meno solitario e “a domanda” che i veicoli multimediali implicano. La riduzione dell’affluenza del pubblico nelle sale di
concerto e di spettacolo musicale è testimonianza di questa caduta della
dimensione pubblica dell’attività musicale e, contemporaneamente, della perdita di interesse nella partecipazione alle performance di musica
dal vivo come occasioni di riscoperta della identità dei singoli come parti della comunità.
Ma c’è di più: nel sociale molto di più che nel privato la musica è
un’attività culturale per la cui fruizione vale il principio generale che
non è possibile consumarne senza, allo stesso tempo, farsene in qualche
modo produttori. Questo significa che la musica è, per eccellenza, un
bene pubblico locale e che esso deve essere prodotto localmente, per poter essere apprezzato dai componenti della stessa comunità. Produrre, a
sua volta, implica un’estensione della mera trasformazione di input in
output: essere in grado di generare composizioni originali e performance
apprezzabili richiede, infatti, anzitutto un notevole investimento in infrastrutture sociali e in capitale umano, ossia un’attività di formazione adeguata, e poi la crescita di vere e proprie iniziative imprenditoriali capaci
di contribuire, con la scelta delle tecniche e degli input produttivi, all’alimentazione di un business sempre più difficile e competitivo.
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Non sembra, per la verità, che alcunché di tutto ciò stia avvenendo.
Nei Paesi avanzati, assistiamo al contrario a un processo di mercificazione della musica che sembra accompagnare la diffusione di un modello globale di mercato delle superstar, guidato dalle grandi case discografiche multinazionali (le cosiddette majors) e iperdiffuso dai mass-media
(e, ultimamente, anche da Internet). Questo processo tende a globalizzare la produzione, lasciando al consumo l’unica possibilità di dispiegarsi
localmente, negando così quell’aspetto della fruizione culturale che vuole produttori e consumatori dell’oggetto di cultura in qualche modo
“confusi” dalla partecipazione e dalla comune ricerca dell’assoluto, in
un continuo scambio di ruoli che costituisce l’essenza stessa dell’opera
d’arte come evento sociale.
2. La musica e l’economia
Theodor Adorno rappresenta forse l’interprete principale della crisi
contemporanea della musica d’arte come fenomeno sociale. Come punto
di partenza di un’analisi economica, rileggiamo una delle pagine più penetranti della sua Filosofia della Musica Moderna: “È pur vero che il
passaggio della produzione calcolata di musica come articolo di massa ha
impiegato più tempo che non il processo analogo nella letteratura e nelle
arti figurative. Gli aspetti non concettuali e non concreti della musica,
che fin da Schopenhauer la affidarono alla filosofia irrazionalistica, la resero riluttante alla ratio della vendibilità. Solo nell’era del cinema sonoro, della radio e delle formule reclamistiche messe in musica essa è stata
interamente sequestrata, proprio nella sua irrazionalità, dalla ragione
commerciale. Ma non appena l’amministrazione industriale del patrimonio culturale diventa totalitaria, essa acquista potere anche su tutto ciò
che non è esteticamente conformabile. Con la strapotenza dei meccanismi di distribuzione, di cui dispongono il kitsch e i beni culturali ormai liquidati, e con la predisposizione degli ascoltatori che si era determinata
grazie ad un processo sociale, la musica radicale era caduta, nel tardo industrialismo, nell’isolamento completo. Ciò diventa, per gli autori che
vogliono vivere, il pretesto morale-sociale per una pace fittizia: si delinea
un tipo di stile musicale che, pur continuando a pretendere al serio e al
moderno, si assimila alla cultura di massa in virtù di una calcolata puerilità” (1985, pp. 11-12). E, più avanti: “A partire dalla metà del secolo
XIX la musica d’arte si è del tutto distaccata dal consumo. La coerenza
della sua evoluzione è entrata in contraddizione con i bisogni manipolati
e nello stesso tempo compiaciuti del pubblico borghese. La cerchia numericamente esigua dei conoscitori venne sostituita da coloro che si pos-
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sono pagare una poltrona e che vogliono dimostrare agli altri la propria
cultura. Gusto pubblico e qualità delle opere si scissero” (ibidem, p. 13).
L’aspetto problematico messo qui in evidenza è, allo stesso tempo, il
divorzio della musica colta dal pubblico nel mondo moderno e l’assimilazione della musica classica a consumo di massa. “D’altro canto, il
contenuto di quell’altra musica ormai a tutti familiare è talmente distante da ciò che oggi pesa sul destino umano, che l’esperienza personale
del pubblico non comunica quasi più con quella attestata della musica
tradizionale. Là dove credono di capire non fanno che percepire l’impronta morta di ciò che custodiscono come patrimonio indiscutibile, e
che è già perduto nel momento in cui diviene un ‘patrimonio’, ormai
neutralizzato, privato della propria sostanza artistica, indifferente materiale da esposizione” (ibidem, p. 15). Secondo questa interpretazione,
quindi, la crisi della musica come attività sociale è fondamentalmente la
crisi della cultura nella società di massa: una crisi di omologazione e
quindi di perdita di dimensione personale dell’esperienza, ma anche,
un’abdicazione letale, secondo Adorno, all’apporto vitale del flusso di
nuove opere in cambio di una sacralizzazione del patrimonio classico.
Questa, allo stesso tempo, distrugge ogni possibilità di rinnovamento e
mortifica il consumo alla contemplazione ritualistica di reperti museali.
“L’industre maneggio della musica, che avvilisce il patrimonio esistente
esaltandolo e galvanizzandolo come un sacrario, conferma solo lo stadio
di coscienza degli ascoltatori in sé, per i quali l’armonia raggiunta dal
classicismo viennese a prezzo di rinunce e la Sehnsucht erompente del
romanticismo sono divenuti indifferenziatamente atti al consumo, come
ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di
Beethoven di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore della musica più avanzata. E cioè quello di
togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria
ristagnante col tempo. Ma poiché l’industria culturale ha educato le sue
vittime ad evitare ogni sforzo nel tempo libero loro commisurato per il
consumo di beni spirituali, esse si aggrappano con caparbietà ancora
maggiore all’apparenza che preclude l’essenza” (ibidem, pp. 15-16).
Nella critica di Adorno è in realtà adombrato un puzzle fondamentale
dell’analisi economica del consumo culturale: la capacità della “mente
come organo di consumo” di alimentare il proprio consumo dallo stock
accumulato dal consumo passato. Ma c’è di più: mentre nel caso del
consumo ordinario, la mente ha bisogno, in qualche modo, di rinnovare
il patrimonio di consumo passato con un nuovo flusso di consumo esogeno, per la musica potrebbe non essere così, nel senso che, una volta
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accumulata una massa critica di consumo, la mente potrebbe essere in
grado di alimentarsi direttamente dal patrimonio così guadagnato, addirittura accrescendolo attraverso l’elaborazione e l’esercizio. Nel modello
di consumo-accumulazione musicale, possiamo pensare al consumatore
come dotato di uno stock originario di innocenza che viene continuamente distrutto dalla meraviglia della musica ascoltata, ma, altrettanto
continuamente, riesce a ricostituirsi.
Questa ricostituzione è il restauro della capacità di essere sorpreso all’interno di un cammino, tuttavia, paradossalmente sempre meglio conosciuto,
come se l’opera d’arte trovasse nella musica il modo per dischiudere
profondità insondabili, in cui si rivela una dimensione di spessore, piuttosto
che di lunghezza e oltre che di intensità, del consumo, che in qualche modo
ne afferma ed epitomizza, allo stesso tempo, la dipendenza dai sensi, dalla
mente e dalla cultura. La musica, in altre parole, si promette come l’estremo prodotto culturale, quello che regala una ascesi in grado di autoalimentarsi interamente. Come esperienza di consumo, quindi, la musica sembra
non conoscere né la perdita di sensibilità suggerita dalle moderne teorie
della utilità (per esempio: Starmer, 1999), né il meccanismo di assuefazione pure evocato da alcune teorie economiche (Becker e Murphy, 1988).
Un ulteriore problema creato dal feedback tra mente e consumo è la
natura emotiva della fruizione musicale. Le emozioni costituiscono una
forma di consumo peculiare, apparentemente non programmabile, eppure non del tutto aliena dal lasciarsi manipolare dall’agente razionale.
Nella moderna teoria economica delle emozioni (Elster, 1998), si ammette che la ricerca di emozioni piacevoli possa effettuarsi in maniera
simile a quanto previsto dalla teoria tradizionale del consumatore, esponendosi a circostanze ove sia prevedibile il prodursi di eventi capaci di
innescare emozioni positive. Andare, quindi, ad un concerto o ad un festival musicale può essere spiegato con l’aspettativa, che può essere frustrata, che saranno generate emozioni piacevoli per il soggetto in questione. In realtà, questa spiegazione è estendibile a tutte le esperienze di
consumo, ma nel caso della partecipazione ad eventi la cui natura esogena è combinata con una notevole complessità, come gli spettacoli o il turismo, l’aspetto di imprevedibilità e di ricerca di occasioni favorevoli
può diventare predominante. In questo contesto la musica appare come
un fattore rilevatore che, all’interno della più generale improgrammabilità del consumo legato al tempo libero, ci consente di accedere ad una
dimensione emotiva del consumo, i cui connotati favorevoli possono essere sottoposti a test con relativa facilità e, soprattutto, ricordati e quindi
ripetuti, senza timore di obliterare l’interesse del consumatore.
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Quanto all’aspetto emotivo della musica, rilevante appare il ruolo della
memoria che, nelle emozioni, è legata sia all’impronta permanente che
l’emozione riesce ad imprimere quando è associata ad una esperienza cognitiva, sia alla memoria temporanea (la cosiddetta “memoria tampone”).
Secondo le più recenti ricerche sulla fisiologia cerebrale, quest’ultima è una componente essenziale della capacità cognitiva e fornisce la possibilità
di attribuire un significato agli eventi sulla base della comparazione continua fra ciò di cui si è avuto esperienza al momento e quanto si è esperito,
anche emotivamente, nel periodo di tempo immediatamente precedente.
Questo meccanismo di interazione tra memorie di breve termine e memoria di lungo termine richiama le sensazioni di Swann nella descrizione di
Proust del ruolo del ricordo nel fascino oscuro della sonata di Vinteuil. Esso sembra fornire all’esperienza musicale l’ulteriore funzione di laboratorio emotivo, ove la ricerca di emozioni piacevoli può, in qualche modo,
prescindere dalle circostanze, le aspettative possono meno facilmente essere frustrate e l’interazione tra memoria di breve e di lungo termine può
dispiegare i suoi effetti in modo trasparente, anche se la spontaneità del
suo divenire rimane benevolmente chiusa all’introspezione.
È stato l’antropologo Geertz a rilevare che la riconosciuta ineffabilità
della musica sembra paradossalmente generare un bisogno di parlarne
senza fine. Come palestra e laboratorio personale di sperimentazione emotiva, tuttavia, la musica appare l’oggetto ideale per abbandonarsi all’interpretazione astratta, senza tuttavia cedere alle suggestioni della ricerca del significato della singola opera. Il fascino della memoria, la riflessione della mente su se stessa, l’accumulazione di capitale umano e
sociale, l’emergere della coscienza sono tutti aspetti dell’esperienza musicale che, ciononostante, non si lascia definire, né individuare nell’opera
singola, se non come un’immagine di proprietà universali. Nella musica,
come nell’arte in generale, ma forse in modo più scevro da sovrastrutture
fisiche e dalle circostanze che per ogni altra arte, la coscienza umana trova una fonte di identità misteriosa, impenetrabile all’intelligenza comune, ma infinitamente attraente per i singoli e per le comunità.
3. La musica e la crescita endogena
È ancora Adorno il punto di partenza per una riflessione sul valore sociale della musica: “La musica nel suo insieme, e specialmente la polifonia - medium necessario della musica moderna - ha avuto origine nelle
esecuzioni collettive del culto e della danza: e questo dato di fatto non è
mai stato superato, ridotto a semplice “punto di partenza”, con lo svilup-
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po della musica verso la libertà. L’origine storica resta la sua implicazione semantica, anche se ormai la musica ha rotto da tempo con qualsivoglia esecuzione collettiva. La musica polifonica dice “noi” anche quando vive unicamente nella fantasia del compositore senza giungere a nessun altro essere vivente: ma la collettività ideale che essa ancora porta in
sé come collettività separata da quella empirica, contraddice l’inevitabile isolamento sociale e il particolare carattere espressivo che l’isolamento le impone” (Adorno, 1985, pp. 23-24).
Il “pessimismo culturale” riflesso nelle osservazioni di Adorno è così
diffuso da apparire perfino ovvio, ma molti economisti oggi lo rigettano nettamente. In un recente volume sulla diffusione della cultura di
massa, per esempio, Taylor Cowen (1998) sostiene che la cosiddetta
“cultura commerciale”, basata sulla diffusione dell’arte attraverso gli
strumenti della multimedialità, la commercializzazione dei blockbusters e l’apparente omologazione, in realtà è un paradiso di fruizione
sociale dell’arte se paragonata ai suoi antecedenti storici. Uno dei più
noti economisti della cultura, Dick Netzer (1997), si associa a questo
punto di vista e chiama in causa, a sostegno del suo “ottimismo”, altri
noti economisti della cultura.
Ma qual è il valore sociale dell’arte e, all’interno di questo, della musica? L’ipotesi implicita virtualmente in tutti i discorsi sul “valore” dell’arte è che esso prescinde dai risultati pratici raggiunti. Questa forma di
“non consequenzialismo” appare molto più forte per l’esperienza estetica
che per quella etica, nel senso che il prodotto artistico si propone come
un bene non intenzionale (Schelling, 1985) ossia come un prodotto della
spontaneità non manipolabile dell’artista, le cui conseguenze, che possono essere profonde, sfuggono tuttavia sia all’intenzione che al controllo
dell’artista stesso. Nel linguaggio economico questa proprietà implica
che gli effetti economici dell’opera d’arte sono necessariamente una pura
esternalità, in virtù della quale, tuttavia, l’arte e la cultura potrebbero avere una leva ancora maggiore sul benessere della società di quella dei
beni prodotti direttamente al servizio di questi obiettivi. In questa prospettiva aggregata, naturalmente, la musica viene assimilata alle altre arti, e se ne distacca solo nel senso che essa ne costituisce un epitomo saliente nella astrattezza, come nella imprevedibilità degli effetti.
Prima di guardare a questo aspetto positivo dell’arte, consideriamo alcuni modelli basati su un’ipotesi in qualche modo speculare a quella
delle economie esterne: il progresso tecnico risulta di minimo aiuto per
il settore delle arti, e specialmente della musica, perché la sua perfor-
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mance produttiva e i suoi costi dipendono essenzialmente dal monte orario del lavoro specializzato, ossia dal tempo materiale del lavoro degli
artisti, piuttosto che dall’ammontare del capitale fisico utilizzato.
La tesi proposta da Baumol in una serie di lavori1 è speculare a quella
delle economie di apprendimento, nel senso paradossale di attribuire la
capacità di generare l’apprendimento ed il progresso tecnologico proprio
a quei settori che sono meno adatti per utilizzarli.
La dinamica di questa famiglia di modelli può essere illustrata in modo intuitivo, facendo riferimento a un modello di una economia a due
settori: il settore “progressivo”, che trae vantaggio dal progresso tecnico, e il settore delle arti, che è invece relativamente invariato al passare
del tempo. In questo modello, i due settori si sviluppano a tassi diversi e
la produttività del lavoro aumenta ad un tasso maggiore nel settore 1 rispetto al settore 2. Se ipotizziamo, inoltre, che i salari crescano allo stesso ritmo in entrambi i settori, i costi relativi nel settore poco orientato al
progresso aumenteranno necessariamente senza limiti.
La crescita dei costi per unità di lavoro determina, di conseguenza, un
aumento anche dei costi per unità di prodotto. Nell’ipotesi considerata
da Baumol particolarmente plausibile in cui il volume della produzione
nei due settori rimanga costante, derivano tre conseguenze:
• il costo per unità di produzione nel settore non orientato al progresso
crescerà senza limiti;
• una quota crescente della forza lavoro sarà attratta nello stesso settore;
• il tasso di crescita dell’occupazione nel settore orientato al progresso
cadrà in proporzione a questo drenaggio di risorse umane.
Applicato ad un modello dinamico, questo ragionamento implica l’esistenza di un’economia in cui l’elasticità della sostituzione sia pari a
zero (la proporzione tra i due prodotti deve rimanere inalterata) e la
percentuale di forza lavoro impiegata nel settore non orientato al progresso tenda continuamente a crescere, dovendo compensare il gap tra
livello di produttività e retribuzione salariale, causato dal fatto che la
crescita salariale dipende anche dall’aumento di produttività nel settore
orientato al progresso.
Il modello di Baumol può, in questo modo, esser considerato un’estensione dei modelli di progresso tecnico “esogeno”, che hanno caratterizzato la fase iniziale della teoria della crescita economica. Il suo approc-
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cio, infatti, non si limita a considerare la possibilità di sostituzione nel
tempo, ma introduce una struttura di equilibrio generale che può essere
riassunta in tre assunzioni da dimostrare:
• il mercato del lavoro è tale che un unico salario è valido per entrambi
i settori;
• il rapporto tra la produzione del settore orientato all’innovazione e
quella del settore non orientato è tendenzialmente costante;
• il settore non orientato all’innovazione è identificabile, in prima e generale approssimazione, con la Pubblica Amministrazione e con parte
del settore dei servizi, compreso il settore delle arti e dello spettacolo.
Al contrario dell’ipotesi di Baumol, i modelli di crescita endogena
ammettono la possibilità che sia il settore apparentemente meno affetto
da progresso tecnico a generarlo, attraverso la produzione di effetti non
intenzionali (effetti esterni) che si traducono in risultati positivi e, in
qualche modo, inattesi, per i settori “sensibili” al progresso tecnico.
Questi modelli, oltre all’ipotesi delle esternalità, hanno in comune una
caratteristica: la dipendenza dell’equilibrio raggiunto (o della soluzione
ottimale) dal sentiero seguito.
Questa caratteristica dipende in parte dall’irreversibilità di molti fenomeni reali ed è conseguenza della loro asimmetria rispetto alla variabile
tempo o ad ogni altra variabile di riferimento. Ad esempio, la differenza che gli economisti intravedono tra il breve ed il lungo termine dell’impresa industriale, dipende dal fatto che, per l’impresa, i costi d’entrata differiscono da quelli d’uscita. Le due situazioni, entrata ed uscita,
che apparentemente appaiono essere l’una l’inverso dell’altra, da un
punto di vista economico non risultano simmetriche.
Una classe speciale di eventi caratterizzati da isteresi è creata dalla capacità della variabile di influenzare il proprio corso storico, modificando
in modo sostanziale le condizioni ambientali nel corso della propria evoluzione. L’esempio, addotto da Krugman (1985) per descrivere questo
fenomeno, è un fiume che crea, nel suo scorrere, il proprio letto. In questo caso, la variabile di interesse, trasformandosi, “accumula”, per così
dire, una o più variabili di stock che possono sintetizzare in modo essenziale lo sviluppo già raggiunto e, allo stesso tempo, influenzarlo nel futuro. In questo modo, il livello di sviluppo dipende dallo stock accumulato che, a sua volta, dipende dal percorso seguito.
Anche in questo caso, perciò, si può dire che l’isteresi (o path dependence) nasce da un’asimmetria, ma - piuttosto che essere una proprietà a
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priori dello spazio di eventi - si tratta di un’asimmetria creata dalla capacità del fenomeno di sviluppare se stesso.
Da un punto di vista economico, la classe dei fenomeni caratterizzati
da isteresi sono molto interessanti perché tendono a generare economie
di scala esterne all’impresa. In effetti, il meccanismo dell’auto-promozione implica la capacità di generare un fenomeno come effetto secondario e spesso incontrollabile del fenomeno stesso.
All’interno di questo meccanismo, Scandizzo (1992) rielabora i temi
dell’economia di apprendimento e la “malattia” di Baumol, per analizzare la forma specifica di esternalità legate al consumo di beni culturali ed
alla formazione di capitale umano. L’autore nota che queste attività hanno quattro effetti principali.
In primo luogo, le esperienze di tipo culturale evidenziano una relazione
particolare con il tempo libero, perché in genere richiedono una certa quantità di tempo libero da impegni di lavoro ma, al contempo, incrementano la
produttività del lavoro. Questa relazione rende il tempo libero uno strumento per aumentare il valore del lavoro e, quindi, il valore del capitale umano.
In secondo luogo, lo stock di capitale umano che si accumula attraverso il consumo culturale incrementa la capacità degli individui di combinare i beni culturali2 ed il tempo libero per produrre cultura. Questo effetto è soprattutto di tipo esterno, perché gli individui ne acquistano consapevolezza e la internalizzano solo nel momento in cui lo stock di conoscenza utile ha raggiunto un livello relativamente critico.
In terzo luogo, in ragione della relazione positiva tra tempo libero e
capitale umano, e della difficoltà ad incrementare la produttività dei beni
culturali, la produzione dei beni materiali può anche essere influenzata
dall’accumulazione di cultura in un modo non necessariamente funzionale alla produzione di beni culturali.
Infine, i beni culturali implicano una particolare forma di dipendenza
del consumo presente da quello passato. Questa caratteristica di “formazione dell’abitudine” rappresenta una forma di economia di scala nel
consumo, che può essere in parte identificato con la capacità di modificare, in modo endogeno, l’utilità di un individuo attraverso il consumo3.
Il modello consente di sviluppare delle prescrizioni aggregate di politica economica che possono così riassumersi:
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a) il tasso di crescita del consumo di beni materiali (BM) dovrebbe essere sostenuto (ossia la crescita non dovrebbe mai fermarsi) e tanto
maggiore, quanto maggiore risultano l’utilità marginale e il valore
della produttività marginale dei beni stessi e, inoltre, quanto minore
risulta il tasso di sconto “netto” (tasso di preferenza temporale meno
tasso di deprezzamento). Ad un incremento del consumo di beni materiali, sia l’utilità che la produttività marginale dello stock dei beni
materiali aumentano e, di conseguenza, il consumo corrispondente
dovrebbe crescere in misura maggiore;
b) il tasso di crescita socialmente ottimo del consumo dei beni culturali
(BC) è sostenuto, per via endogena, e dipende da tre principali fattori: 1) il tasso di sconto “netto” per BC; 2) il costo opportunità di produrre cultura in relazione alla produttività indiretta del consumo di
BC; 3) le economie di scala generate dalla complementarietà tra il
consumo di BC e lo stock di cultura sia dal punto di vista della produzione, che del consumo. I punti 1 e 3 hanno un effetto positivo sul
tasso di crescita di BC, mentre il punto 2 ha un effetto negativo. Si
nota che non esiste un diretto trade-off tra il consumo di BC e di BM,
poiché lo stock di cultura non può essere utilizzato come un input dei
beni culturali. Il minimo incremento della bassa produttività del settore di produzione di BC, inoltre, influenza positivamente il consumo
di BM, a causa del costo opportunità dell’accumulazione di cultura
pari al valore marginale dell’utilità e della produttività. L’effetto Baumol viene, dunque, accresciuto dal comportamento del consumo, dato che non solo la produzione di BC cresce ad un tasso minore rispetto alla produzione di BM, ma anche la differenza nelle produttività
determina una crescita più veloce del consumo di BC;
c) la determinazione del tasso di crescita ottimo del tempo libero risponde a stimoli simili a quelli del consumo di BC. Secondo l’ipotesi di
Baumol, se il settore dei beni BC4 è tendenzialmente stagnante, si determinano due effetti: uno positivo e uno negativo. L’effetto positivo
agisce sul tasso di crescita del tempo libero, poiché il costo opportunità del consumo del tempo libero diminuisce all’aumentare dell’accumulazione di cultura. La crescita del tempo libero è, inoltre, positivamente correlata alla crescita del lavoro nel settore produttivo BM.
Quest’ultimo risulta influenzato positivamente dal progresso tecnico
nel settore BM e negativamente dal progresso tecnico nel settore BC.
Nell’ipotesi del settore BC stagnante, si verifica, in un primo momento, un effetto positivo sul tasso di crescita di BM, poiché i benefici
dell’accumulazione di capitale umano maturano principalmente nel
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settore orientato al progresso; l’effetto negativo, dal canto suo, agisce
sul tasso di crescita del lavoro nel settore BM rispetto al tasso di crescita del tempo libero. La stagnazione nel settore BC ha un effetto negativo ancor più forte sull’allocazione del lavoro per la produzione di
BM. In altri termini, il fatto che la produttività di BC non aumenti
quanto quella di BM comporta un aumento dell’occupazione totale e
una riduzione del tempo libero, così da ridurre ulteriormente la crescita nel settore BC. Con l’accumularsi di capitale umano, pertanto, il
lavoro viene maggiormente allocato nel settore BC: l’effetto Baumol è
più forte perché amplificato dall’allocazione di tempo libero nel consumo di beni culturali.
In sintesi, si può concludere che, nel quadro di un’economia competitiva, la crescita del consumo di BM, in una prima fase, debba prima aumentare, successivamente tendere gradualmente a rallentare, col declinare dell’utilità marginale dello stock di ricchezza, mentre il consumo di
BC può crescere senza limiti. Dal momento che gli incrementi di produttività sono concentrati nel settore di BM, il tempo libero ed il lavoro
vanno progressivamente allocati alla produzione di BC, come nel modello di Baumol. Al crescere del consumo di BC, comunque, il tempo libero diminuisce e l’accumulazione di cultura è ottenuta sempre più sostituendo il tempo libero con lo stock accumulato di consumo di beni
culturali.
Il modello di commercio internazionale, basato sui vantaggi comparati tra i Paesi, riflette l’analisi dei tassi di crescita dei consumi di BC e
della produzione di BM. Se, per ipotesi, il consumo di BC cresce inizialmente ad un tasso maggiore del consumo di BM, si determina
un’accumulazione di capitale umano che a sua volta, comporta un incremento del consumo dei beni BC e una maggiore produzione dei beni
BM. Questi sentieri di crescita generano un surplus di beni materiali ed
un deficit di beni culturali. Paradossalmente, un Paese con un alto tasso
di crescita di ricchezza culturale (come gli USA) sviluppa un vantaggio
comparato nella produzione di beni materiali, e, viceversa, un Paese
con un alto tasso di consumo di BM (come l’Europa) tende ad esportare
i beni BC.
Cozzi (1998) considera un modello a generazioni sovrapposte, in cui i
giovani, che detengono i lavori produttivi, sono disposti a sacrificare
tempo e danaro per acquisire dagli anziani, non più produttivi, le conoscenze relative a un ipotetico settore della “cultura”. Questo settore di
per sé non produce alcun effetto diretto sulla disponibilità materiale di
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beni e servizi e viene richiesto solo per una ragione dipendente dalle
“credenze” condivise che cioè sia possibile, una volta anziani, utilizzare
le aspettative dei giovani per guadagnare denaro insegnando ad essi un
metodo che, essenzialmente, serve a guadagnare denaro quando si è anziani. In questo strano welfare State, la cultura non ha “fondamentali” ed
è perciò quello che in economia si indica come una “bolla”. Per essere
sostenibile (ossia per non “scojppiare”), essa ha bisogno di generare un
incremento - non intenzionale - di produttività. In ogni periodo, infatti, il
prezzo della cultura deve essere tale da remunerare non solo il denaro
speso dalla generazione precedente nell’apprenderne gli elementi, ma
anche i salari sacrificati durante il tempo del suo apprendimento. Per
questa ragione il prezzo della cultura continuerà a salire nel tempo: acquistarla sarà possibile solo se la crescita della produttività sarà sufficientemente grande, da consentire di pagare il prezzo crescente di questa
attività.
In questo modello, come si vede, vengono reiterate le ipotesi di Baumol, ma invertito il processo causale. La “malattia di Baumol” era caratterizzata dalla crescita esogena della produttività nel settore dei beni materiali, che dava la possibilità alla cultura di raccogliere, per così dire, il
surplus di lavoro impiegandolo a produttività decrescente e, particolare
non trascurabile, al costo di un prezzo crescente per le attività culturali.
Nel modello di Cozzi, viceversa, come caso estremo dei modelli di crescita endogena, la cultura viene praticata per ragioni intrinseche che nulla hanno a che fare con i suoi effetti sull’economia. L’ipotesi che la cultura si sviluppi senza “fondamentali” in questo contesto non dipende
dalla prospettiva di guadagno futuro, poiché questa è solo sostenuta dall’aspettativa che i membri delle generazioni future saranno disposti a pagare per gli stessi, inutili, servigi. Quello che è centrale, invece, è l’ipotesi che la motivazione per cui l’attività viene intrapresa sia interamente
indipendente dagli effetti che sortisce: questi ultimi, in altre parole, sono
un sottoprodotto non ricercato della pratica culturale, ma questa, a sua
volta, non potrebbe affermarsi in modo stabile, se il sottoprodotto non si
verificasse.
Nel complesso, la posizione possibile della cultura e delle arti nei
modelli di crescita appare il logico sviluppo dell’idea di Baumol: in
un modello a due settori, la differente sensibilità al progresso tecnico
determina la fuoriuscita di lavoro dal settore più sensibile a quello
meno sensibile. Quest’ultimo può essere il recipiente passivo di tale
lavoro (malattia di Baumol), oppure essere il motore della crescita
dell’altro settore (modelli di crescita endogena). In entrambi i casi, la
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possibilità di crescita del settore delle arti e della cultura dipende dalla crescita della produttività del settore dei beni materiali, ma nei modelli di crescita endogena, quest’ultima, a sua volta, dipende dagli effetti non intenzionali che la cultura - un’attività senza “fondamentali”
- può dispiegare.
Fino a che punto gli effetti non intenzionali della cultura devono rimanere tali? Ritornando alla musica, sarebbe considerato probabilmente vicino alla follia chi volesse utilizzare compositori ed artisti per accrescere
la produttività in agricoltura o nell’industria manifatturiera, anche se di
quando in quando si avanzano teorie di mucche che producono di più o
di operai più contenti in ambienti produttivi pervasi da flussi musicali.
C’è però una gamma di valori di mercato della produzione musicale che
testimonia una sua dipendenza da “fondamentali” non interamente vuoti
e, certamente, nella disponibilità a pagare dei singoli, entrano aspettative
di incremento di benessere indipendenti dalla mutua illusione intergenerazionale del modello di Cozzi. Dobbiamo, piuttosto, domandarci se i
mercati siano efficienti nel fornire i prodotti ricercati dal consumatore e
se, nel possibile fallimento dovuto alle caratteristiche di beni pubblici e
alle esternalità, non sia compromesso anche l’effetto non intenzionale
che contribuirebbe al circolo virtuoso descritto dai teorici della crescita
endogena.
È verosimile che i mercati siano efficienti nel produrre e nel distribuire musica? La risposta è no, per almeno due ordini di motivi. Anzitutto, una gran parte della produzione musicale non è escludibile: la
musica ha, cioè, le caratteristiche di un bene pubblico. La sua diffusione può essere irregimentata e razionata a fatica e imperfettamente, solo
nelle performance pubbliche a pagamento o nelle riproduzioni discografiche. Come e più degli altri prodotti intangibili, tuttavia, le possibilità di pirataggio e di free riding sono molteplici, e i prezzi dei biglietti e dei dischi non possono sperare di equilibrare la domanda e
l’offerta. Nonostante i costi stratosferici delle star, si può presumere
che l’incentivo a comporre e interpretare musica sia inferiore a quanto
sarebbe socialmente ottimale e, che quindi, la società si trovi in condizioni tendenziali di sottoproduzione, o di povertà, musicale. Vero è che
fare musica è un’attività che dà gioia e gli artisti sono disposti, specialmente nelle fasi iniziali della loro carriera, a tirare avanti con pochi
soldi. Questo, in ultima analisi, implica però, come hanno dimostrato i
teorici del mercato delle superstar, tra cui MacDonald (1988) e Rosen
(1981), che le differenze di salari tra gli artisti saranno molto forti e
non che l’offerta di musica sia socialmente ottimale.
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In secondo luogo, il mercato della musica, come e più di quello di tutti
i prodotti delle arti, è caratterizzato dall’informazione asimmetrica.
L’apprezzamento della qualità delle performance, infatti, nonostante
l’importanza della spontaneità e l’assenza di intenzioni, è patrimonio degli iniziati. La larga massa dei neofiti o del pubblico non specializzato
deve dipendere, per la scelta del prodotto, dagli addetti ai lavori, dagli esperti o dalla pubblicità. La musica è quindi anche un trust good, ossia
un bene il cui consumo, per i neofiti o i non specialisti, è basato sulla fiducia più o meno consapevolmente accordata al soggetto da cui si acquista, a chi l’ha prodotta o all’esperto che la certifica.
4. Il valore sociale della musica
La natura pubblica della musica come bene economico può essere più facilmente apprezzata, se ne consideriamo il valore come disponibilità a pagare da parte dei soggetti sociali: individui e istituzioni. D’accordo con gli sviluppi più recenti dell’analisi costi-benefici (Knudsen e Scandizzo, 2000),
possiamo distinguere quattro segmenti diversi di valore, corrispondenti ad
altrettanti livelli teorici di prezzi personalizzati. I quattro segmenti sono, in
ordine di facilità di definizione e di misura: il valore di scambio (o di mercato), il valore di opzione, il valore di quasi-opzione e il valore di esistenza.
Il valore di scambio è quello che risulta dalla commercializzazione,
più o meno parziale, del prodotto musicale. Esso riflette solo una parte
del valore sociale del bene, poiché corrisponde esclusivamente alla parte
che può essere oggetto di consumo personale, escludendo totalmente
(nel caso dei dischi) o parzialmente (nel caso dei biglietti delle performance) gli altri consumatori.
Più difficile è il discorso sui valori di opzione e quasi-opzione. Il valore di opzione dipende dal fatto che, nel caso dei beni pubblici, il consumatore non è solo disposto a pagare per consumare, ma anche per avere
il diritto di accedere al consumo del bene ove decida nel futuro di farlo.
L’acquisto di questa opzione, inoltre, appare anche verosimilmente altruista, nel senso che il soggetto trae soddisfazione dalla conoscenza del
fatto che l’accesso al bene è potenzialmente disponibile anche per i suoi
parenti, gli amici o, addirittura, le generazioni successive. Di fronte ad
un bene pubblico ritenuto così meritorio, in altre parole, l’atteggiamento
del cittadino tende ad essere ecumenico e dispiega una comprensione
degli effetti esterni del bene che, però, non può essere catturata dalla sua
commercializzazione.
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Il concetto di valore di quasi-opzione, dal canto suo, nasce nel campo
delle risorse naturali con un celebre articolo di Arrow e Fisher (1974).
Contrastando la condizione di conservazione della risorsa con quella del
suo sviluppo, questi autori identificarono una sorta di “premio per il rischio”, come la differenza tra il valore atteso della risorsa nei due scenari
alternativi in presenza e in assenza di irreversibilità. Questo peculiare
premio per il rischio, che non dipende dall’avversione al rischio del soggetto coinvolto, è semplicemente il costo della perdita dell’opzione che
ogni cambiamento mette a rischio per un certo grado di irreversibilità. La
teoria delle opzioni non era così ben sviluppata e sperimentata nei mercati finanziari come lo è oggi, al tempo in cui questi concetti venivano sviluppati. Di conseguenza, l’interpretazione data al valore extra, identificato in presenza di irreversibilità, era allo stesso tempo meno precisa e meno comprensiva del valore di opzione nel moderno senso del termine. In
particolare, il cosiddetto valore di quasi-opzione sembra oggi applicarsi
ovunque l’incertezza sugli sviluppi futuri determini un valore per la flessibilità nel prendere e tornare sulle proprie decisioni nel corso del tempo.
In presenza di fenomeni a limitata reversibilità, in altre parole, lo status
quo esercita un benevolo ruolo di dittatore, penalizzando le innovazioni.
Viceversa, se l’innovazione dischiude nuovi modi di essere flessibili, il
premio viene posto sul cambiamento, piuttosto che sulla conservazione.
Nella musica, in maniera anche più accentuata rispetto alle altre manifestazioni artistiche, il costo dell’innovazione dipende dalle sue peculiari caratteristiche di memoria di lungo termine, in cui il ricordo in qualche modo si autoalimenta insieme con il consumo. La irreversibilità che
si manifesta nella persistenza e nella iteratività della esperienza musicale ne determina presumibilmente un alto valore di quasi-opzione. Questo
significa che, in aggiunta al prezzo di mercato, i musicofili sono disposti
a pagare un surplus per compensare il rischio che l’oggetto della loro
soddisfazione, in termini di performance, di genere o di tipologia interpretativa, si estingua. Questo surplus, si badi bene, non è legato all’avversione al rischio individuale, ma è la conseguenza del fatto che la
scelta operata oggi a supporto della conservazione di una certa opera
musicale può essere necessaria per non mettere a repentaglio la possibilità di fruirne in futuro. Come nel caso delle risorse naturali, conservare
un filone di musica colta del passato che potrebbe scomparire, ha per
contropartita la conservazione non solo di quello che sappiamo su questa musica, ma anche di tutto quello che potremmo esperire, ed apprendere, e che per ora non sappiamo, nelle nostre esperienze future.
In presenza di incertezza e di fronte all’evidente grandezza della musi-
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ca classica e romantica, non dobbiamo, quindi, meravigliarci che l’attività di conservazione sia divenuta prevalente nella musica colta. Il valore di opzione, ossia il rischio di lasciar estinguere la fonte della gioia di
una musica così eccelsa, che può essere conservata e coltivata nella sua
parte migliore, determina una tale sproporzione tra il rischio di perdere
il noto per l’ignoto, che la dittatura “benevola” dello status quo non può
fare a meno di affermarsi. Le opzioni che potrebbero essere distrutte non
coltivando la musica tradizionale, in altre parole, implicitamente confrontate con le opzioni che potrebbero essere create dalla musica “nuova”, perdono irrimediabilmente la partita.
Il valore di esistenza, infine, costituisce il più etereo, anche se, in qualche modo, il più generale, tra i valori attribuibili a un bene pubblico. Esso è soprattutto il prodotto dei metodi di contingent valuation, basati su
interviste o altri esperimenti con campioni di consumatori. In tali esperimenti si rivela una disponibilità a pagare, anche in assenza di interessi
diretti di consumo, per la conservazione dell’esistente, quando quest’ultimo venga concepito come parte di un universo desiderabile da preservare. Nel caso della musica colta, per esempio, se gli chiedessimo quanto sarebbe disposto a pagare per evitare la perdita della Nona di Beethoven, anche chi non fosse particolarmente incline alla musica sarebbe
forse disposto a spendere qualcosa.
Nel complesso, i quattro valori descritti rappresentano una estensione
del concetto di valore che può applicarsi anche a beni privati di cui, attraverso il sondaggio implicito operato dalla determinazione di questi
valori, si scoprano rilevanti componenti pubbliche. Per la musica colta,
in particolare, un breve esercizio di valutazione congetturale rivela, a
fronte di valori di mercato contenuti, forti valori di opzione e quasi-opzione e, come abbiamo notato, rilevanti valori di esistenza.
5. Conclusioni: quali ipotesi di governance?
La musica è un bene pubblico e, eminentemente, un bene pubblico locale. Come tutta la cultura, il fatto che essa faccia capo a un bisogno e a
una capacità produttiva corali, che essa emerga da un contesto specifico
di relazioni e di istituzioni, che essa non possa essere prodotta in assenza di specifici ingredienti storici, la legano ai luoghi delle comunità. Essa perciò obbedisce ad una sorta di principio di sussidiarietà: se può essere prodotta e fruita da una comunità più piccola e più vicina al singolo, non c’è ragione che comunità più vaste interferiscano.
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Allo stesso tempo, per la sua incorporeità, per l’assenza di barriere linguistiche e per l’afflato universale che la anima, la musica è anche un
bene globale. Per questo, essa è una fonte di identità, ma anche uno strumento di omologazione che si può “gioiosamente” accettare, una base di
comunicazione nella grande rete della condivisione estetica e del mutuo
riconoscimento della bellezza e dell’assoluto, dal punto di vista economico, il terreno su cui si confrontano le mete turistiche e in genere i territori che attraggono residenti e visitatori.
Queste qualità della musica come bene economico hanno conseguenze
rilevanti. Come bene pubblico la musica e la cultura musicale richiamano una responsabilità pubblica. Ma ciò non significa che l’amministrazione pubblica possa intervenire in maniera autonoma. Inoltre, gli aspetti privati del consumo culturale possono essere anch’essi di cruciale importanza per la società, poiché, e questo è evidente nel caso dell’espressione artistica, essi attengono alla libertà, ossia alla parte più preziosa
della sfera individuale.
Che fare quindi? Nel 1987 due economisti americani (Sappington e
Stiglitz) enunciarono un teorema, conosciuto come il “teorema fondamentale della privatizzazione”, che in breve tempo è divenuto il capostipite di un filone di pensiero innovativo sui rapporti tra pubblico e privato. Il teorema rovescia l’approccio tradizionale, che vede la condizione
normale come quella in cui la proprietà è privata e il cambiamento di regime è costituito dalla attenuazione del controllo privato a favore dell’autorità pubblica. Considerando l’ipotesi opposta di passaggio dal pubblico al privato, esso si pone quindi il problema di individuare le condizioni in cui la completa delega delle decisioni di produzione a una impresa privata è socialmente desiderabile.
L’idea base del teorema, che individua alcune condizioni stringenti
perché la desiderabilità sociale predetta si verifichi, è un meccanismo
d’asta secondo il quale un certo numero di imprese concorrono per acquisire il diritto di produrre un bene o servizio, per cui sussista un rilevante interesse pubblico. Il meccanismo d’asta, che si può anche interpretare come una metafora, assicura la separazione tra l’ente pubblico (il
“governo”) che la bandisce e l’impresa vincente. Quest’ultima, infatti,
pur essendo perfettamente distinta dal soggetto pubblico, ne condivide,
avendo vinto l’asta, la funzione obiettivo, condizionata al sostenimento
dei costi effettivi, che risultano così minimizzati.
Secondo la logica del teorema, quindi, il problema della separazione
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tra proprietà e impresa, caratteristico dell’organizzazione capitalistica
della produzione, sussiste anche nel caso in cui la proprietà rimanga
pubblica. Si può privatizzare, infatti, mantenendo inalterati gli interessi
pubblici nella produzione di un determinato bene o servizio, ma utilizzando al tempo stesso l’impresa privata come lo strumento più efficiente
di azione sul mercato.
Il meccanismo di asta, che corrisponde bene alla situazione reale nel
caso, per esempio, di un appalto pubblico, in altre condizioni può essere
considerato implicito o addirittura una metafora. L’importante è che le
risorse pubbliche siano assegnate alle imprese più efficienti. Nel caso
della musica, la selezione imperfetta che il mercato farebbe dei prodotti
basati sulle loro sole caratteristiche private può essere migliorata, aprendo una competizione tra imprese private per fornire beni che includono
gli aspetti pubblici. Se è l’impresa più produttiva quella che prevale nel
mercato competitivo e se la delega delle decisioni di produzione da parte del soggetto pubblico interessato è revocabile, infatti, l’asta può semplicemente rappresentare una successione di deleghe e di revoche, a seconda della performance dell'impresa di volta in volta prescelta nel massimizzare la funzione obiettivo del soggetto pubblico in questione.
Ma qual è la ragione per mantenere in vita due soggetti distinti, uno
pubblico e uno privato? La distinzione tra proprietario e manager, nella
tradizione del capitalismo, aveva soprattutto lo scopo di favorire la specializzazione. Secondo il paradigma della divisione del lavoro e la teoria
del vantaggio comparato, è bene che ciascun operatore economico offra
il bene che egli è in grado di produrre ai costi minori, calcolando in tali
costi, anche le opportunità perdute non producendo ciò che si potrebbe
produrre più vantaggiosamente.
La teoria di Sappington e Stiglitz, tuttavia, appare più soddisfacente
di quella tradizionale nello spiegare le ragioni per avere soggetti pubblici e privati coinvolti nella stessa intrapresa. Se il proprietario si specializza nell’acquistare azioni remunerative, infatti, e l’imprenditore
nel massimizzare i profitti, rimangono escluse dalla produzione tutte
quelle caratteristiche che corrispondono a rilevanti elementi pubblici e
per cui la massimizzazione dei profitti può non essere possibile o desiderabile. Inoltre, la distribuzione di profitti realizzati a spese della collettività può anche essere oggetto di interesse pubblico, specialmente se
realizzata a scapito della qualità e delle comunità locali. Infine, nel caso
dei trust goods, l’impegno pubblico aiuta a dissipare il sospetto che il
bene sia prodotto dal privato sacrificando la qualità al profitto. Il coin-
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volgimento di agenti sociali, quali le organizzazioni non profit, che ricevono una sorta di concessione settoriale dallo Stato, va anche in questa direzione.
Altri due economisti, questa volta francesi, Laffont e Tirole (1995),
hanno proposto una teoria più ardita. Secondo tale teoria, la separazione
tra proprietà e impresa nel capitalismo moderno è appropriatamente il risultato di una costituzione incompleta. I costituenti (padri fondatori),
poiché operano sotto un velo di ignoranza, non sono in grado di disegnare un insieme completo di regole (una costituzione) che preveda e
descriva senza costo tutte le contingenze future. Se essi potessero far
ciò, l’economia sarebbe composta di soli soggetti privati, mentre le regole costituzionali si ridurrebbero a una serie di istruzioni dettagliate
che i soggetti privati sarebbero tenuti a seguire. L’unico soggetto pubblico decentrato sarebbe, in questo caso, la magistratura, che avrebbe il
compito di controllare che i soggetti privati seguano le istruzioni previste dalla costituzione.
Nelle condizioni di incertezza in cui si muovono i padri fondatori, le
regole emanabili, anziché istruzioni dettagliate, sono costituite da metaregole, vincoli (“questo si può fare e questo no”) o prescrizioni più o
meno generiche. Gli agenti pubblici in questo caso non sono limitati dalla magistratura: il loro ruolo è più importante proprio perché il loro
mandato è vago e non comprende esplicitamente tutte le contingenze
possibili. Una parte degli agenti pubblici ha il compito di gestire l'assenza di prescrizioni specifiche.
La separazione tra proprietà e impresa, in queste condizioni, può essere attuata attraverso una gerarchia, che in forma molto stilizzata, ma efficace, consiste di quattro livelli: l’impresa, un’agenzia di regolamentazione, i padri fondatori ed i consumatori.
L’impresa è un soggetto privato, che opera secondo il principio del
profitto massimo o, ove appropriato, del costo minimo. Essa è caratterizzata da costi variabili noti a tutti, e da costi fissi, tecnologia e livello
di impegno noti solo al management.
L’agenzia possiede un potere di regolamentazione e di controllo che si
basa sulla costituzione e può coinvolgere diritti di proprietà relativi all’impresa. Per esempio, essa può detenere il pacchetto di controllo delle
azioni dell’impresa, o avere il potere discrezionale di concedere o di revocare l'autorizzazione ad operare, o ancora quello di nominare o revocare gli amministratori.
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Il ruolo principale dell’agenzia è quello di fare in modo che le informazioni più corrette sul comportamento e sulla “struttura” dell’impresa
(la tecnologia, i profitti, i vantaggi ottenuti dagli amministratori e dai dipendenti) siano trasmesse al livello gerarchico superiore. Nel far ciò,
l’agenzia è però tentata di colludere con l'impresa partecipando ai vantaggi limitati offerti da quest'ultima a danno dei consumatori. Essa perciò riceve un compenso che le viene attribuito solo se è provato che il
suo comportamento è stato corretto, il suo impegno effettivo e che non
vi è stata collusione con l’impresa.
A questo scopo, i padri fondatori definiscono la funzione di benessere
sociale e danno all’agenzia il mandato di massimizzarla. Una corte di
giustizia controlla l’operato dell’agenzia e, motu proprio o sotto richiesta dei consumatori, interviene quando vi è il sospetto che l’agenzia abbia colluso con l’impresa attraverso un contratto nascosto, teso a perseguire interessi privati dei burocrati dell’agenzia contro gli interessi dei
consumatori.
Questa forma di organizzazione, sia pur in modo stilizzato, rappresenta una filosofia generale di governance della società. Essa è, tuttavia, anche una fonte di prescrizioni specifiche per quei settori, come l’arte e la
cultura, che hanno caratteristiche di beni pubblici locali e che sono oggi
in crisi, perché il patrocinio tradizionale dello Stato centralizzato ha perso mordente e significato. Per tali settori, e per la ridefinizione dei compiti e delle caratteristiche delle istituzioni in essi operanti, si giunge
quindi a elaborare un meccanismo virtuoso non solo basato sul conflitto
di interesse tra agenti, come già nelle teorie economiche tradizionali, ma
anche sull’asimmetria informativa e sulla distribuzione degli incentivi.
In conclusione, la produzione di arte e cultura e, in modo essenziale ed
emblematico, quella della musica, è un’attività troppo importante per lasciarla in mano ai soli addetti ai lavori o ad una burocrazia, per quanto
lungimirante. Essa necessita di un equilibrio tra intenzionalità sociale e
libertà individuale che appare particolarmente cruciale per le performing
arts.
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Note
Si veda Baumol e Bowen (1966); Baumol (1967, 1996).
Si veda Baumol (1967); Baumol, Batey, Blackman e Wolff (1985).
3
Si veda Becker e Salemi (1977) e anche Stigler e Becker (1977).
4
Come in Baumol, Batey, Blackman e Wolff (1985).
1
2
Riferimenti bibliografici
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