Mark Weisbrot, Sierra Club - 1/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Quattro questioni economiche che gli ambientalisti devono tenere in considerazione, Relazione al Summit del Sierra Club, San Francisco, 8-11 settembre 2005; Titolo originale: Four Economic Issues That Environmentalists Should Care About – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini 1. Modello americano contro modello europeo Non passa settimana senza che compaiano articoli sui principali giornali internazionali, come New York Times, Washington Post, Financial Times, o Wall Street Journal, sui frustranti sforzi dell’Europa per la “riforma” economica. Questi articoli riguardano vari eventi, ma sottendono (e spesso sostengono) presupposti molto chiari: i paesi ad alto reddito dell’Unione Europea (EU)1 necessitano di serie riforme strutturali per aumentare la crescita economica, innalzare gli standard di vita, costruire sistemi più dinamici e competitivi, affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione (ulteriori particolari all’ultimo punto, trattato più avanti). La generale convergenza dei decisori politici su questi assunti è tanto forte che anche quando gli elettori respingono ripetutamente le proposte di riforma – come è accaduto in Germania, o più di recente nel voto francese e olandese contro la costituzione europea – si assume che essi stiano semplicemente cercando di mantenere uno stile di vita impossibile nella “economia globale”. L’atteggiamento dei vari leaders e della stampa internazionale è semplicemente quello di voler “educare” la gente ad accettare la nuova realtà. È tanto forte il consenso, fra l’élite d’Europa, che il Partito Socialdemocratico tedesco sta commettendo quanto appare come un suicidio politico, chiedendo elezioni anticipate questo mese, dopo aver mancato di convincere sia il pubblico che la propria base elettorale sempre più esigua, sulla necessità di “riformare” lo stato sociale il Germania. Stampa e guru di pensiero degli Stati Uniti non potrebbero essere più d’accordo, e dunque esiste un “Consenso Transatlantico” sul fatto che l’Europa abbia bisogno di diventare più simile agli Stati Uniti: più “flessibilità nel mercato del lavoro”, ovvero margini più ampi per i datori di lavoro di licenziare dipendenti2, meno regolamentazione per le imprese, meno tasse sugli stipendi, pensioni pubbliche ridotte, sussidi di disoccupazione, altre spese, stipendi e altri benefits connessi al lavoro inferiori, minore potere ai sindacati. Ma come si scopre l’insieme delle informazioni disponibili non conferma le assunzioni base del Consenso Transatlantico. Per esempio, secondo la misura più banale di mercato, l’economia dell’Unione Europea è internazionalmente più competitiva di quella degli Stati Uniti: l’Europa ha un surplus di scambi, mentre 1 Questa discussione si riferisce a: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito. 2 Negli Stati Uniti, a differenza che nella maggior parte degli altri paesi, è generalmente legale licenziare i dipendenti del settore privato senza giusta causa, a meno che non esista un contratto sindacale (solo l’8% dei dipendenti del settore privato negli Stati Uniti sono nei sindacati), o se esiste discriminazione contemplata dalle leggi sui diritti civili. Mark Weisbrot, Sierra Club - 1/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 2/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini gli Stati Uniti soffrono di un enorme, insostenibile deficit del 6% del prodotto nazionale lordo. Per quanto riguarda poi gli standards di vita, l’idea che quelli europei siano inferiori si basa sulla misura della quota pro capite di prodotto nazionale (o reddito per persona). Si tratterebbe di una approssimazione ragionevole (ignorando le cose che questo calcolo non include, come l’aspettativa di vita, altre questioni di salute, o la distribuzione del reddito) se gli europei lavorassero lo stesso numero di ore degli americani. Ma non lo fanno. La Francia ha un prodotto nazionale pro capite che è di circa il 30% inferiore al nostro. Ma la produttività – prodotto per ora di lavoro – è più alta in Francia che negli USA3. Ciò significa che, se il francesi lavorassero tante ore quante noi, avrebbero più reddito degli americani. Quindi hanno scelto di usare la propria maggior produttività per lavorare meno ore, prendere ferie più lunghe, avere più tempo libero. L’argomento dell’alta disoccupazione europea (attualmente l’8% nei 15 paesi ad alto reddito EU, contro il 4,9% degli USA) come risultato della tutela del mercato del lavoro, manca di qualunque base concreta4. Ci sono parecchi paesi con alti livelli di protezione del mercato del lavoro che hanno raggiunto bassi livelli di disoccupazione: Austria (5,1%), Danimarca (4,8%), Irlanda (4,8%), Paesi Bassi (4,8%), Norvegia(4,6%). E non esiste alcuna correlazione evidente in generale fra le varie misure di protezione del mercato del lavoro (ad esempio salario di disoccupazione, contrattazione coordinata, percentuali di iscritti ai sindacati, tutela dai licenziamenti) e tasso di disoccupazione. Le conseguenze ambientali del dibattito sul modello americano contro quello europeo sono potenzialmente enormi. Immaginiamo che i luoghi comuni continuino di questo passo, e che l’Europa si muova verso un’economia di tipo americano, dove le persone lavorano più ore in modo da poter comprare più merci (nonostante salari più bassi). Il consumo energetico pro capite in Europa è attualmente meno della metà di quello degli Stati Uniti5. Questa quantità è destinata ad aumentare considerevolmente se l’Europa diventa più simile agli Stati Uniti. Per prima cosa, il consumo energetico sale insieme al prodotto nazionale pro capite, anche se l’efficienza energetica generale (per unità di prodotto) resta identica. In altre parole, se il prodotto nazionale francese pro capite aumenta del 30% a causa del maggior numero di ore lavorate, ci si può attendere che il consumo energetico del paese aumenti in modo proporzionale. Secondo, potrebbe aumentare in modo più che proporzionale se si ridimensiona lo stato sociale. Servizi come l’istruzione o i trasporti collettivi forniti dall’ente pubblico sono meno energy intensive dell’equivalente privato, ad esempio le automobili. 3 Secondo la banca dati OECD sulla produttività, febbraio 2005; dati riguardanti il 2003. Altri calcoli (Eurostat e Centro per la Crescita e lo Sviluppo di Groningen) pure mostrano la Francia con una produttività superiore a quella degli Stati Uniti. 4 Cfr. Baker, Dean, Andrew Glyn, David Howell, John Schmitt, 2004, “Unemployment and Labor Market Institutions: The Failure of the Empirical Case for Deregulation”. New York. http://www.newschool.edu/cepa/papers/archive/cepa200404.pdf 5 Indicatori di sviluppo mondiale 2005 e calcoli dell’Autore. Mark Weisbrot, Sierra Club - 2/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 3/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Il lato debole di questo dibattito sono gli Stati Uniti: immaginiamo che, come accade oggi, il modello americano continui ad essere accettato come di maggior successo economico (anche se alcuni giornalisti e decisori ne riconoscono i grandi problemi con la povertà, le questioni sanitarie, l’ineguaglianza). Ciò significa che prevarrà un’economia ad alto consumo, nonostante il fatto che molti americani affermino che preferirebbero lavorare meno ore e avere più tempo da passare con le famiglie. Rimarrebbe difficile ridurre il consumo energetico degli USA. Ultimo ma non in ordine di importanza, c’è il problema di quale direzione sceglieranno i paesi a reddito medio in via di sviluppo del mondo – specialmente quelli a rapida crescita dell’Asia – quando raggiungeranno i livelli di sviluppo economico che hanno ora i paesi ricchi. Corea del Sud e Taiwan hanno già ora livelli di prodotto nazionale pro capite di tipo europeo. La Cina (con 6100 dollari a persona) è ancora parecchio indietro, ma è enorme e in crescita molto rapida (la sue economia sarà superiore alla nostra entro circa 11 anni). Questi paesi, tenteranno di emulare i modi di consumo europei o quelli degli Stati Uniti? Al momento attuale, il modello americano è ampiamente presentato – nonostante le critiche internazionali alla politica estera USA o ai problemi sociali – come economicamente superiore. Quanto a lungo prevarrà questo punto di vista, e a quale costo per l’ambiente? Molto dipenderà dai risultati di questo cruciale dibattito sulla politica economica. 2. “Libero scambio” e “Liberi mercati” contro Protezionismo: Chi vuole Cosa? Il “libero scambio” è uno slogan pubblicitario, più o meno come “Rinunciate ai carboidrati … non al gusto”, o quello di McDonalds’, “I’m loving it”. Eppure è stato accettato dalle organizzazioni non governative di tutto l’arco politico, oltre che dalla stampa. È quasi come se, quando l’ex Presidente Ronald Reagan decise di chiamare il missile MX “Peacekeeper” tutti l’avessero adottato come nome ufficiale, indipendentemente dal proprio punto di vista sulla corsa agli armamenti dell’epoca. Il “libero scambio” non è solo uno slogan partigiano; è anche impreciso e fuorviante per descrivere degli attuali accordi commerciali come WTO o NAFTA, da un punto di vista economico. Non si tratta di un tecnicismo: è un equivoco economico tanto enorme che, se fosse corretto, l’intero dibattito sugli scambi e l’integrazione economica globale cambierebbe notevolmente. Il modo più semplice di notarlo è guardare al più importante obiettivo di politica commerciale estera del nostro governo oggi, che sta spingendo il resto del mondo (principalmente paesi a reddito medio e basso) ad applicare leggi di tipo americano su brevetti e diritti. Un obiettivo concretizzato nell’accordo TRIPS (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) della World Trade Organization (WTO). Si tratta dell’esatto contrario di “libero scambio”. Come riconoscerebbe qualunque economista, è una forma di protezionismo. Ed è la forma di protezionismo più costosa che c’è al mondo, oggi. Le perdite economiche da protezionismo, sia in forma di tariffe sull’acciaio, quota sulle importazioni di Mark Weisbrot, Sierra Club - 3/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 4/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini zucchero, o brevetto sui farmaci, è proporzionale a quanto le restrizioni aumentano il prezzo del bene protetto al di sopra del prezzo competitivo. Le tariffe alzano raramente il prezzo del bene protetto oltre il 30%. Ma i brevetti farmaceutici possono aggiungere centinaia o anche migliaia di punti percentuali al prezzo di particolari medicine. Dunque se prendiamo tutti gli argomenti a favore del libero scambio di alcuni beni e servizi che sono stati utilizzati per cambiare il mondo negli scorsi trent’anni, e li moltiplichiamo per 50 o 60 volte, otteniamo gli argomenti contro i brevetti e altri monopoli dovuti alla “proprietà intellettuale”. Il WTO sta rafforzando alcune (molto costose) barriere agli scambi internazionali, attenuandone alcune altre. Quindi non può certo essere esattamente descritta “organizzazione che promuove il libero scambio”. Esistono numerosi altri esempi di decisori politici che sventolano il vessillo del “libero scambio” o dei “liberi mercati”, quando ciò redistribuisce reddito verso l’alto, e nello stesso tempo sostengono il protezionismo quando la concorrenza internazionale potrebbe favorire la maggioranza della popolazione. Anche se la maggior parte dei decisori e leaders politici hanno volontariamente sottoscritto accordi che hanno esposto il 70% della forza lavoro USA ad una feroce concorrenza internazionale, essi hanno poi perseguito l’opposto – il protezionismo – per le professioni meglio retribuite come i medici, avvocati, dentisti. E ciò nonostante il fatto che i vantaggi dalla liberalizzazione internazionale in questi servizi sarebbero di molte volte maggiori di quelli relativi ai prodotti industriali6. In modo simile il Fondo Monetario Internazionale e altre istituzioni del “libero mercato” hanno compiuto alcuni dei più costosi errori economici dello scorso decennio - in Russia, Brasile e Argentina – difendendo tassi di cambio fissi anziché consentire la libera fluttuazione delle valute, come sarebbe stata la soluzione di “libero mercato”. Ci sono molti aspetti rispetto ai quali le organizzazioni non governative preoccupate dei bisogni della maggioranza favorirebbero soluzioni di mercato, mentre le potenti élites favoriscono invece il protezionismo. Facendo accettare ai propri oppositori le dizioni di “libero scambio” e “liberi mercati”, a descrivere le attuali politiche commerciali, i sostenitori delle medesime politiche hanno, per ora, vinto la gran parte della battaglia di immagine. Ciò consente loro di presentare le proprie azioni come a tutela dell’interesse collettivo e promozione dell’efficienza economica, e di descrivere i critici di questo modello come sostenitori di costi economici da imporre alla società per il solo proprio particolare interesse personale. I gruppi ambientalisti, o quanti in genere agiscono per il pubblico interesse, devono disfarsi di questa fuorviante costruzione retorica se vogliono avere qualche possibilità di imporsi in questo cruciale ambito del dibattito politico. 6 Cfr. Dean, 2003, “Professional Protectionists: The Gains From Free Trade in Highly Paid Professional Services”, Washington, D.C., Center for Economic and Policy Research. http://www.cepr.net/publications/protectionists.PDF Mark Weisbrot, Sierra Club - 4/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 5/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini 3. Tassi di natalità in calo nei paesi ad alto reddito: dovremmo preoccuparci? La crescita di popolazione nei paesi ad alto reddito continua a rallentare, con anche i giapponesi, per la prima, in calo nei primi sei mesi di quest’anno. Il tasso di aumento della popolazione dell’Europa Occidentale è caduto dallo 0,8% degli anni ’60 a circa lo 0,2% del giorno d’oggi. Negli Stati Uniti, la fertilità è scesa da 3,61 del 1960 al 2,02 di oggi7. Da un punto di vista ambientale, si tratta solo di una buona notizia. I tassi di crescita della popolazione nei paesi in via di sviluppo sono più alti, ma anch’essi si sono rallentati considerevolmente negli scorsi decenni. Però i paesi ad alto reddito, che contano meno del 20% della popolazione mondiale, pesano per tre quarti nei consumi globali. Gli Stati Uniti hanno circa un quarto della popolazione dell’India, e pure producono il triplo di emissioni di anidride carbonica nell’aria. Per diminuire i ritmi di distruzione dell’ambiente, una popolazione in crescita più lenta o anche in calo, nei paesi ricchi, è un fatto enormemente positivo. Eppure nella maggior parte delle discussioni e anche degli studi su questi temi, la caduta dei tassi di natalità è presentata come un problema8, sulla base di presunte argomentazioni economiche. Al pubblico dei paesi ricchi viene ripetuto che la popolazione invecchiata sarà un carico insopportabile per le future generazioni in termini di assistenza agli anziani, che saranno di più sia in quantità assoluta che come percentuale della popolazione. I previsti incrementi in termini di aspettativa di vita sono visti come parte del “problema”. Di conseguenza, molte persone – compresi i decisori – credono che i tassi di nascita in declino nei paesi ad alto reddito siano una seria minaccia economica sul lungo termine. Possiamo notare come questi problemi demografici vengano facilmente esagerati oltre ogni limite, guardando all’attuale dibattito sulla sicurezza sociale negli Stati Uniti. Per quasi un anno abbiamo assistito ad una discussione sui modi per “riformare” la Social Security, sulla base dell’idea che non fosse sostenibile a causa delle trasformazioni demografiche. Ma in realtà tutte le previsioni, ivi comprese quelle utilizzate dal Presidente Bush, mostrano che la Social Security sarà sempre in grado di pagare di più – in termini reali corretti rispetto all’inflazione – di quanto ricevano oggi i pensionati. Ciò è vero anche se non si fa nulla in termini di tagli, o di aumenti del gettito fiscale. Per pagare tutto quanto promesso e colmare il disavanzo entro i prossimi 75 anni, non ci sarebbe bisogno di un incremento di entrate superiore ai tre quarti dell’1% del 7 Social Security Administration, 2005, Annual Report of the Board of Trustees of the Federal Old-Age and Survivors Insurance and Disability Insurance Trust Funds. Tabella V.A1. Washington, D.C.: SSA. http://www.ssa.gov/OACT/TR/TR05/V_demographic.html#wp159501 (negli Stati Uniti la crescita della popolazione non è in declino, grazie all’immigrazione). 8 Si veda ad esempio Lewis, Leo, 2005, Decline in population sparks fears for economy, Financial Times, sul caso del Giappone; anche Longman, Philip, 2004m The Empty Cradle: How Falling Birthrates Threaten World Prosperity and What to Do About It, Basic Books, New York. Mark Weisbrot, Sierra Club - 5/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 6/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini prodotto nazionale lordo9. Dato che il salario reale (al netto dall’inflazione) medio fra 45 anni sarà più alto del 65% rispetto ad oggi, è certo che le future generazioni avranno standards di vita superiori a quelli di cui godiamo oggi, anche se dovessero essere aumentate le tasse per coprire qualunque disavanzo. Anche se alcuni paesi europei hanno disavanzi superiori da coprire, la questione di base è sempre la stessa: nessuna generazione futura dei paesi ricchi avrà standards di vita ridotti come conseguenza del sostegno ad una popolazione invecchiata10. Il semplice fatto economico che la maggior parte delle persone non tiene in conto, è che la produttività (prodotto per ora lavorata) aumenta ogni anno: e questo consente nel tempo alla forza lavoro di sostenere una quantità molto maggiore di pensionati (ecco perché tutti gli avvertimenti secondo i quali nel 2035 gli Stati Uniti avranno solo 2,5 lavoratori per ogni pensionato, contro i 3,3 di oggi, sono utili più o meno come un gol segnato a metà: ignorano gli aumenti di produttività). E in più, la teoria economica corrente prevede che una crescita inferiore della popolazione possa aumentare produttività e salari, perché aumenta il rapporto fra capitale e lavoro. Così, la maggior parte delle persone staranno economicamente meglio, a causa di una rallentata crescita della popolazione. Il fatto che il progresso economico, le trasformazioni sociali e culturali (specialmente le crescenti opportunità economiche e di istruzione disponibili per le donne) abbiano notevolmente abbassato i tassi di natalità nei paesi ad alto reddito, è molto importante e positivo per l’ambiente. E pure ciò è presentato, sulla base di convinzioni ampiamente condivise ma che non hanno fondamento nelle analisi economiche, come una minaccia al futuro economico dei paesi sviluppati. E non ci sono tentativi in corso per invertire queste tendenze: ad esempio in Giappone, un paese più piccolo della California con oltre il triplo della popolazione, come pure in alcuni paesi europei. E se politiche come gli asili sostenuti dallo stato, i permessi retribuiti per i genitori, o altre misure per alleviare il carico dei figli e promuovere pari opportunità alle donne sono senz’altro da condividere, non si sente il bisogno di tentare di convincere la gente a fare più figli. Il movimento ambientalista ha un compito importante nel mettere in discussione le argomentazioni economiche fallaci usate per convincere il pubblico del fatto che tassi di nascita più elevati sono necessari ed economicamente benefici, nei paesi ad alto reddito. 9 Dati dal Social Security Trustees’ Annual Report (2005). La maggioranza dei componenti [Trustees] sono di nomina politica dell’Amministrazione Bush. Un organismo non di parte come il CBO stima il disavanzo del prossimi 75 anni anche minore: lo 0,4% del prodotto nazionale lordo. 10 Negli Stati Uniti, abbiamo costi esplosivi di assistenza sanitaria, come Medicare; ma ciò è dovuto alla nostra incapacità di contenere i costi, non ai cambiamenti demografici. Mark Weisbrot, Sierra Club - 6/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 7/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini 4. I costi di riduzione del mutamento climatico globale L’argomento principale utilizzato contro l’adesione degli Stati Uniti il trattato di Kyoto è e che i costi economici sarebbero troppo elevati. Talvolta essi vengono espressi in termini di perdita di posti di lavoro, altre volte di riduzione del prodotto, anche se le perdite di posti hanno maggiore appeal politico. La maggior parte dei grandi modelli economici stimano le perdite per gli Stati Uniti legate all’adesione al trattato di Kyoto come oscillanti fra 1% e 3% del prodotto nazionale lordo11. Si tratta di una oscillazione ampia, e le stime non tengono conto dei benefici indotti dalla riduzione dell’inquinamento o di quella dei costi assicurativi che potrebbero derivare da un rallentamento della modificazione del clima. Ma i costi dell’adeguamento al trattato secondo i modelli economici sono significativi, e dunque a questa questione bisogna dare una risposta. Un modo di impostare il problema è di mettere questi costi in prospettiva. Anche se nessuno ha sviluppato i modelli necessari, se si dovessero fare studi del genere guardando all’aumento delle spese militari negli scorsi quattro anni, i costi per l’economia (e posti di lavoro persi) probabilmente sarebbero della medesima entità. Ciò sembra contro-intuitivo alla maggior parte delle persone, dato che si assume di solito che la spesa militare, per quanto dissennata, concretamente aumenti prodotto e impiego. Questo in base all’idea che esista qualche quantità di lavoro non impiegato, di capacità non utilizzata, e la spesa militare agisca come stimolo per l’economia, usando queste risorse inutilizzate. Ma non è questo il modo in cui sono costruiti i modelli per stimare gli impatti delle ridotte emissioni di anidride carbonica. In questi modelli tanto per cominciare, le risorse economiche, come il lavoro, sono utilizzate completamente. La riduzione nell’uso di combustibili fossili riduce prodotto e impiego perché riduce la produttività generale dell’economia, e di conseguenza il salario reale12. Ad un salario reale inferiore, ci sono meno persone che vogliono lavorare, anche se esiste ancora un (nuovo) equilibrio di piena occupazione, dove chiunque vuole lavorare per il salario (più basso) reale viene occupato. L’economia si stabilizza ad un livello più basso di prodotto e occupazione. Utilizzando gli stessi modelli per stimare l’impatto del recente incremento nelle spese militari emergerebbe un impatto negativo simile sull’economia. L’aumento delle tasse per pagare le spese militari riduce la produttività generale, il che di nuovo riduce il salario reale. Oppure in alternativa, se l’accresciuto bilancio militare è sostenuto da prestiti, ciò aumenta i tassi di interesse. Questi più elevati tassi di interesse rendono l’investimento di capitale più costoso, riducendo così la produttività e di nuovo il salario reale. In ogni caso, l’economia si assesta ad un livello più bassi di prodotto e occupazione, 11 Cfr. Lasky, Mark, 2003, The Economic Costs of Reducing Emissions of Greenhouse Gases: A Survey of Economic Models, Washington, DC, Congressional Budget Office, Technical Paper Series. L’oscillazione, nei modelli esaminati per questo studio è fra – 0,5% e – 4,2% del prodotto nazionale lordo. 12 In questi modelli, il salario reale è uguale al prodotto marginale del lavoro, che viene ridotto quando le imprese tagliano l’uso di energia, per esempio in seguito ad una carbon tax. Mark Weisbrot, Sierra Club - 7/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini Mark Weisbrot, Sierra Club - 8/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini esattamente come fa a seguito della riduzione delle emissioni. L’impatto quantitativo dell’aumento delle spese militari a partire dal 2000 sarà molto probabilmente nel medesimo ambito dei costi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica concordati nel protocollo di Kyoto. Sarebbe una cosa importante da dimostrare, dato che non c’è praticamente stata alcuna discussione su questi effetti economici dell’incremento delle spese militari. Naturalmente, qualcuno potrebbe sostenere che tali incrementi erano necessari per motivi di sicurezza nazionale, ma anche se ci si crede, la cosa non cambia nulla. Il punto è che questi costi non sono stati uno degli elementi considerati nelle decisioni di aumento delle spese militari, e quindi come possono diventare una delle considerazioni principali nel dibattito sul mutamento climatico? I costi di incremento delle spese militari per l’economia, una volta stabiliti tramite questi modelli economici standard, potrebbero essere utilizzati come banco di prova nel dibattito sulla riduzione delle emissioni. Ciò renderebbe molto più difficile sostenere che i costi economici delle azioni contro il mutamento climatico, o di altre misure per proteggere l’ambiente, siano troppo elevati. Nota: il testo originale di questo interessante articolo, insieme agli altri numerosi interventi, al sito del Sierra Club Summit 2005 (f.b.) http://www.sierraclub.org/sierrasummit/ Mark Weisbrot, Sierra Club - 8/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini