Mark Weisbrot, Quattro questioni economiche che gli ambientalisti

Mark Weisbrot, Sierra Club - 1/8 - Traduzione per eddyburg.it di Fabrizio Bottini
Mark Weisbrot, Quattro questioni economiche che gli ambientalisti devono
tenere in considerazione, Relazione al Summit del Sierra Club, San
Francisco, 8-11 settembre 2005; Titolo originale: Four Economic Issues That
Environmentalists Should Care About – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio
Bottini
1. Modello americano contro modello europeo
Non passa settimana senza che compaiano articoli sui principali giornali
internazionali, come New York Times, Washington Post, Financial Times, o
Wall Street Journal, sui frustranti sforzi dell’Europa per la “riforma” economica.
Questi articoli riguardano vari eventi, ma sottendono (e spesso sostengono)
presupposti molto chiari: i paesi ad alto reddito dell’Unione Europea (EU)1
necessitano di serie riforme strutturali per aumentare la crescita economica,
innalzare gli standard di vita, costruire sistemi più dinamici e competitivi,
affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione (ulteriori particolari
all’ultimo punto, trattato più avanti).
La generale convergenza dei decisori politici su questi assunti è tanto forte che
anche quando gli elettori respingono ripetutamente le proposte di riforma –
come è accaduto in Germania, o più di recente nel voto francese e olandese
contro la costituzione europea – si assume che essi stiano semplicemente
cercando di mantenere uno stile di vita impossibile nella “economia globale”.
L’atteggiamento dei vari leaders e della stampa internazionale è semplicemente
quello di voler “educare” la gente ad accettare la nuova realtà. È tanto forte il
consenso, fra l’élite d’Europa, che il Partito Socialdemocratico tedesco sta
commettendo quanto appare come un suicidio politico, chiedendo elezioni
anticipate questo mese, dopo aver mancato di convincere sia il pubblico che la
propria base elettorale sempre più esigua, sulla necessità di “riformare” lo stato
sociale il Germania.
Stampa e guru di pensiero degli Stati Uniti non potrebbero essere più
d’accordo, e dunque esiste un “Consenso Transatlantico” sul fatto che l’Europa
abbia bisogno di diventare più simile agli Stati Uniti: più “flessibilità nel mercato
del lavoro”, ovvero margini più ampi per i datori di lavoro di licenziare
dipendenti2, meno regolamentazione per le imprese, meno tasse sugli stipendi,
pensioni pubbliche ridotte, sussidi di disoccupazione, altre spese, stipendi e altri
benefits connessi al lavoro inferiori, minore potere ai sindacati.
Ma come si scopre l’insieme delle informazioni disponibili non conferma le
assunzioni base del Consenso Transatlantico. Per esempio, secondo la misura
più banale di mercato, l’economia dell’Unione Europea è internazionalmente più
competitiva di quella degli Stati Uniti: l’Europa ha un surplus di scambi, mentre
1
Questa discussione si riferisce a: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia,
Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito.
2
Negli Stati Uniti, a differenza che nella maggior parte degli altri paesi, è generalmente legale licenziare i
dipendenti del settore privato senza giusta causa, a meno che non esista un contratto sindacale (solo l’8%
dei dipendenti del settore privato negli Stati Uniti sono nei sindacati), o se esiste discriminazione
contemplata dalle leggi sui diritti civili.
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gli Stati Uniti soffrono di un enorme, insostenibile deficit del 6% del prodotto
nazionale lordo. Per quanto riguarda poi gli standards di vita, l’idea che quelli
europei siano inferiori si basa sulla misura della quota pro capite di prodotto
nazionale (o reddito per persona). Si tratterebbe di una approssimazione
ragionevole (ignorando le cose che questo calcolo non include, come
l’aspettativa di vita, altre questioni di salute, o la distribuzione del reddito) se gli
europei lavorassero lo stesso numero di ore degli americani. Ma non lo fanno.
La Francia ha un prodotto nazionale pro capite che è di circa il 30% inferiore al
nostro. Ma la produttività – prodotto per ora di lavoro – è più alta in Francia che
negli USA3. Ciò significa che, se il francesi lavorassero tante ore quante noi,
avrebbero più reddito degli americani. Quindi hanno scelto di usare la propria
maggior produttività per lavorare meno ore, prendere ferie più lunghe, avere più
tempo libero.
L’argomento dell’alta disoccupazione europea (attualmente l’8% nei 15 paesi ad
alto reddito EU, contro il 4,9% degli USA) come risultato della tutela del mercato
del lavoro, manca di qualunque base concreta4. Ci sono parecchi paesi con alti
livelli di protezione del mercato del lavoro che hanno raggiunto bassi livelli di
disoccupazione: Austria (5,1%), Danimarca (4,8%), Irlanda (4,8%), Paesi Bassi
(4,8%), Norvegia(4,6%). E non esiste alcuna correlazione evidente in generale
fra le varie misure di protezione del mercato del lavoro (ad esempio salario di
disoccupazione, contrattazione coordinata, percentuali di iscritti ai sindacati,
tutela dai licenziamenti) e tasso di disoccupazione.
Le conseguenze ambientali del dibattito sul modello americano contro quello
europeo sono potenzialmente enormi. Immaginiamo che i luoghi comuni
continuino di questo passo, e che l’Europa si muova verso un’economia di tipo
americano, dove le persone lavorano più ore in modo da poter comprare più
merci (nonostante salari più bassi). Il consumo energetico pro capite in Europa
è attualmente meno della metà di quello degli Stati Uniti5. Questa quantità è
destinata ad aumentare considerevolmente se l’Europa diventa più simile agli
Stati Uniti. Per prima cosa, il consumo energetico sale insieme al prodotto
nazionale pro capite, anche se l’efficienza energetica generale (per unità di
prodotto) resta identica. In altre parole, se il prodotto nazionale francese pro
capite aumenta del 30% a causa del maggior numero di ore lavorate, ci si può
attendere che il consumo energetico del paese aumenti in modo proporzionale.
Secondo, potrebbe aumentare in modo più che proporzionale se si
ridimensiona lo stato sociale. Servizi come l’istruzione o i trasporti collettivi
forniti dall’ente pubblico sono meno energy intensive dell’equivalente privato, ad
esempio le automobili.
3
Secondo la banca dati OECD sulla produttività, febbraio 2005; dati riguardanti il 2003. Altri calcoli
(Eurostat e Centro per la Crescita e lo Sviluppo di Groningen) pure mostrano la Francia con una
produttività superiore a quella degli Stati Uniti.
4
Cfr. Baker, Dean, Andrew Glyn, David Howell, John Schmitt, 2004, “Unemployment and Labor Market
Institutions: The Failure of the Empirical Case for Deregulation”. New York.
http://www.newschool.edu/cepa/papers/archive/cepa200404.pdf
5
Indicatori di sviluppo mondiale 2005 e calcoli dell’Autore.
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Il lato debole di questo dibattito sono gli Stati Uniti: immaginiamo che, come
accade oggi, il modello americano continui ad essere accettato come di
maggior successo economico (anche se alcuni giornalisti e decisori ne
riconoscono i grandi problemi con la povertà, le questioni sanitarie,
l’ineguaglianza). Ciò significa che prevarrà un’economia ad alto consumo,
nonostante il fatto che molti americani affermino che preferirebbero lavorare
meno ore e avere più tempo da passare con le famiglie. Rimarrebbe difficile
ridurre il consumo energetico degli USA.
Ultimo ma non in ordine di importanza, c’è il problema di quale direzione
sceglieranno i paesi a reddito medio in via di sviluppo del mondo –
specialmente quelli a rapida crescita dell’Asia – quando raggiungeranno i livelli
di sviluppo economico che hanno ora i paesi ricchi. Corea del Sud e Taiwan
hanno già ora livelli di prodotto nazionale pro capite di tipo europeo. La Cina
(con 6100 dollari a persona) è ancora parecchio indietro, ma è enorme e in
crescita molto rapida (la sue economia sarà superiore alla nostra entro circa 11
anni). Questi paesi, tenteranno di emulare i modi di consumo europei o quelli
degli Stati Uniti? Al momento attuale, il modello americano è ampiamente
presentato – nonostante le critiche internazionali alla politica estera USA o ai
problemi sociali – come economicamente superiore. Quanto a lungo prevarrà
questo punto di vista, e a quale costo per l’ambiente? Molto dipenderà dai
risultati di questo cruciale dibattito sulla politica economica.
2. “Libero scambio” e “Liberi mercati” contro Protezionismo: Chi vuole
Cosa?
Il “libero scambio” è uno slogan pubblicitario, più o meno come “Rinunciate ai
carboidrati … non al gusto”, o quello di McDonalds’, “I’m loving it”. Eppure è
stato accettato dalle organizzazioni non governative di tutto l’arco politico, oltre
che dalla stampa. È quasi come se, quando l’ex Presidente Ronald Reagan
decise di chiamare il missile MX “Peacekeeper” tutti l’avessero adottato come
nome ufficiale, indipendentemente dal proprio punto di vista sulla corsa agli
armamenti dell’epoca.
Il “libero scambio” non è solo uno slogan partigiano; è anche impreciso e
fuorviante per descrivere degli attuali accordi commerciali come WTO o
NAFTA, da un punto di vista economico. Non si tratta di un tecnicismo: è un
equivoco economico tanto enorme che, se fosse corretto, l’intero dibattito sugli
scambi e l’integrazione economica globale cambierebbe notevolmente. Il modo
più semplice di notarlo è guardare al più importante obiettivo di politica
commerciale estera del nostro governo oggi, che sta spingendo il resto del
mondo (principalmente paesi a reddito medio e basso) ad applicare leggi di tipo
americano su brevetti e diritti. Un obiettivo concretizzato nell’accordo TRIPS
(Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) della World Trade
Organization (WTO).
Si tratta dell’esatto contrario di “libero scambio”. Come riconoscerebbe
qualunque economista, è una forma di protezionismo. Ed è la forma di
protezionismo più costosa che c’è al mondo, oggi. Le perdite economiche da
protezionismo, sia in forma di tariffe sull’acciaio, quota sulle importazioni di
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zucchero, o brevetto sui farmaci, è proporzionale a quanto le restrizioni
aumentano il prezzo del bene protetto al di sopra del prezzo competitivo. Le
tariffe alzano raramente il prezzo del bene protetto oltre il 30%. Ma i brevetti
farmaceutici possono aggiungere centinaia o anche migliaia di punti percentuali
al prezzo di particolari medicine.
Dunque se prendiamo tutti gli argomenti a favore del libero scambio di alcuni
beni e servizi che sono stati utilizzati per cambiare il mondo negli scorsi
trent’anni, e li moltiplichiamo per 50 o 60 volte, otteniamo gli argomenti contro i
brevetti e altri monopoli dovuti alla “proprietà intellettuale”. Il WTO sta
rafforzando alcune (molto costose) barriere agli scambi internazionali,
attenuandone alcune altre. Quindi non può certo essere esattamente descritta
“organizzazione che promuove il libero scambio”.
Esistono numerosi altri esempi di decisori politici che sventolano il vessillo del
“libero scambio” o dei “liberi mercati”, quando ciò redistribuisce reddito verso
l’alto, e nello stesso tempo sostengono il protezionismo quando la concorrenza
internazionale potrebbe favorire la maggioranza della popolazione. Anche se la
maggior parte dei decisori e leaders politici hanno volontariamente sottoscritto
accordi che hanno esposto il 70% della forza lavoro USA ad una feroce
concorrenza internazionale, essi hanno poi perseguito l’opposto – il
protezionismo – per le professioni meglio retribuite come i medici, avvocati,
dentisti. E ciò nonostante il fatto che i vantaggi dalla liberalizzazione
internazionale in questi servizi sarebbero di molte volte maggiori di quelli relativi
ai prodotti industriali6. In modo simile il Fondo Monetario Internazionale e altre
istituzioni del “libero mercato” hanno compiuto alcuni dei più costosi errori
economici dello scorso decennio - in Russia, Brasile e Argentina – difendendo
tassi di cambio fissi anziché consentire la libera fluttuazione delle valute, come
sarebbe stata la soluzione di “libero mercato”. Ci sono molti aspetti rispetto ai
quali le organizzazioni non governative preoccupate dei bisogni della
maggioranza favorirebbero soluzioni di mercato, mentre le potenti élites
favoriscono invece il protezionismo.
Facendo accettare ai propri oppositori le dizioni di “libero scambio” e “liberi
mercati”, a descrivere le attuali politiche commerciali, i sostenitori delle
medesime politiche hanno, per ora, vinto la gran parte della battaglia di
immagine. Ciò consente loro di presentare le proprie azioni come a tutela
dell’interesse collettivo e promozione dell’efficienza economica, e di descrivere i
critici di questo modello come sostenitori di costi economici da imporre alla
società per il solo proprio particolare interesse personale.
I gruppi ambientalisti, o quanti in genere agiscono per il pubblico interesse,
devono disfarsi di questa fuorviante costruzione retorica se vogliono avere
qualche possibilità di imporsi in questo cruciale ambito del dibattito politico.
6
Cfr. Dean, 2003, “Professional Protectionists: The Gains From Free Trade in Highly Paid Professional
Services”, Washington, D.C., Center for Economic and Policy Research.
http://www.cepr.net/publications/protectionists.PDF
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3. Tassi di natalità in calo nei paesi ad alto reddito: dovremmo
preoccuparci?
La crescita di popolazione nei paesi ad alto reddito continua a rallentare, con
anche i giapponesi, per la prima, in calo nei primi sei mesi di quest’anno. Il
tasso di aumento della popolazione dell’Europa Occidentale è caduto dallo
0,8% degli anni ’60 a circa lo 0,2% del giorno d’oggi. Negli Stati Uniti, la fertilità
è scesa da 3,61 del 1960 al 2,02 di oggi7.
Da un punto di vista ambientale, si tratta solo di una buona notizia. I tassi di
crescita della popolazione nei paesi in via di sviluppo sono più alti, ma anch’essi
si sono rallentati considerevolmente negli scorsi decenni. Però i paesi ad alto
reddito, che contano meno del 20% della popolazione mondiale, pesano per tre
quarti nei consumi globali. Gli Stati Uniti hanno circa un quarto della
popolazione dell’India, e pure producono il triplo di emissioni di anidride
carbonica nell’aria. Per diminuire i ritmi di distruzione dell’ambiente, una
popolazione in crescita più lenta o anche in calo, nei paesi ricchi, è un fatto
enormemente positivo.
Eppure nella maggior parte delle discussioni e anche degli studi su questi temi,
la caduta dei tassi di natalità è presentata come un problema8, sulla base di
presunte argomentazioni economiche. Al pubblico dei paesi ricchi viene ripetuto
che la popolazione invecchiata sarà un carico insopportabile per le future
generazioni in termini di assistenza agli anziani, che saranno di più sia in
quantità assoluta che come percentuale della popolazione. I previsti incrementi
in termini di aspettativa di vita sono visti come parte del “problema”. Di
conseguenza, molte persone – compresi i decisori – credono che i tassi di
nascita in declino nei paesi ad alto reddito siano una seria minaccia economica
sul lungo termine.
Possiamo notare come questi problemi demografici vengano facilmente
esagerati oltre ogni limite, guardando all’attuale dibattito sulla sicurezza sociale
negli Stati Uniti. Per quasi un anno abbiamo assistito ad una discussione sui
modi per “riformare” la Social Security, sulla base dell’idea che non fosse
sostenibile a causa delle trasformazioni demografiche. Ma in realtà tutte le
previsioni, ivi comprese quelle utilizzate dal Presidente Bush, mostrano che la
Social Security sarà sempre in grado di pagare di più – in termini reali corretti
rispetto all’inflazione – di quanto ricevano oggi i pensionati. Ciò è vero anche se
non si fa nulla in termini di tagli, o di aumenti del gettito fiscale. Per pagare tutto
quanto promesso e colmare il disavanzo entro i prossimi 75 anni, non ci
sarebbe bisogno di un incremento di entrate superiore ai tre quarti dell’1% del
7
Social Security Administration, 2005, Annual Report of the Board of Trustees of the Federal Old-Age
and Survivors Insurance and Disability Insurance Trust Funds. Tabella V.A1. Washington, D.C.: SSA.
http://www.ssa.gov/OACT/TR/TR05/V_demographic.html#wp159501 (negli Stati Uniti la crescita della
popolazione non è in declino, grazie all’immigrazione).
8
Si veda ad esempio Lewis, Leo, 2005, Decline in population sparks fears for economy, Financial Times,
sul caso del Giappone; anche Longman, Philip, 2004m The Empty Cradle: How Falling Birthrates
Threaten World Prosperity and What to Do About It, Basic Books, New York.
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prodotto nazionale lordo9. Dato che il salario reale (al netto dall’inflazione)
medio fra 45 anni sarà più alto del 65% rispetto ad oggi, è certo che le future
generazioni avranno standards di vita superiori a quelli di cui godiamo oggi,
anche se dovessero essere aumentate le tasse per coprire qualunque
disavanzo.
Anche se alcuni paesi europei hanno disavanzi superiori da coprire, la
questione di base è sempre la stessa: nessuna generazione futura dei paesi
ricchi avrà standards di vita ridotti come conseguenza del sostegno ad una
popolazione invecchiata10. Il semplice fatto economico che la maggior parte
delle persone non tiene in conto, è che la produttività (prodotto per ora lavorata)
aumenta ogni anno: e questo consente nel tempo alla forza lavoro di sostenere
una quantità molto maggiore di pensionati (ecco perché tutti gli avvertimenti
secondo i quali nel 2035 gli Stati Uniti avranno solo 2,5 lavoratori per ogni
pensionato, contro i 3,3 di oggi, sono utili più o meno come un gol segnato a
metà: ignorano gli aumenti di produttività). E in più, la teoria economica corrente
prevede che una crescita inferiore della popolazione possa aumentare
produttività e salari, perché aumenta il rapporto fra capitale e lavoro. Così, la
maggior parte delle persone staranno economicamente meglio, a causa di una
rallentata crescita della popolazione.
Il fatto che il progresso economico, le trasformazioni sociali e culturali
(specialmente le crescenti opportunità economiche e di istruzione disponibili per
le donne) abbiano notevolmente abbassato i tassi di natalità nei paesi ad alto
reddito, è molto importante e positivo per l’ambiente. E pure ciò è presentato,
sulla base di convinzioni ampiamente condivise ma che non hanno fondamento
nelle analisi economiche, come una minaccia al futuro economico dei paesi
sviluppati. E non ci sono tentativi in corso per invertire queste tendenze: ad
esempio in Giappone, un paese più piccolo della California con oltre il triplo
della popolazione, come pure in alcuni paesi europei. E se politiche come gli
asili sostenuti dallo stato, i permessi retribuiti per i genitori, o altre misure per
alleviare il carico dei figli e promuovere pari opportunità alle donne sono
senz’altro da condividere, non si sente il bisogno di tentare di convincere la
gente a fare più figli. Il movimento ambientalista ha un compito importante nel
mettere in discussione le argomentazioni economiche fallaci usate per
convincere il pubblico del fatto che tassi di nascita più elevati sono necessari ed
economicamente benefici, nei paesi ad alto reddito.
9
Dati dal Social Security Trustees’ Annual Report (2005). La maggioranza dei componenti [Trustees]
sono di nomina politica dell’Amministrazione Bush. Un organismo non di parte come il CBO stima il
disavanzo del prossimi 75 anni anche minore: lo 0,4% del prodotto nazionale lordo.
10
Negli Stati Uniti, abbiamo costi esplosivi di assistenza sanitaria, come Medicare; ma ciò è dovuto alla
nostra incapacità di contenere i costi, non ai cambiamenti demografici.
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4. I costi di riduzione del mutamento climatico globale
L’argomento principale utilizzato contro l’adesione degli Stati Uniti il trattato di
Kyoto è e che i costi economici sarebbero troppo elevati. Talvolta essi vengono
espressi in termini di perdita di posti di lavoro, altre volte di riduzione del
prodotto, anche se le perdite di posti hanno maggiore appeal politico. La
maggior parte dei grandi modelli economici stimano le perdite per gli Stati Uniti
legate all’adesione al trattato di Kyoto come oscillanti fra 1% e 3% del prodotto
nazionale lordo11. Si tratta di una oscillazione ampia, e le stime non tengono
conto dei benefici indotti dalla riduzione dell’inquinamento o di quella dei costi
assicurativi che potrebbero derivare da un rallentamento della modificazione del
clima. Ma i costi dell’adeguamento al trattato secondo i modelli economici sono
significativi, e dunque a questa questione bisogna dare una risposta.
Un modo di impostare il problema è di mettere questi costi in prospettiva. Anche
se nessuno ha sviluppato i modelli necessari, se si dovessero fare studi del
genere guardando all’aumento delle spese militari negli scorsi quattro anni, i
costi per l’economia (e posti di lavoro persi) probabilmente sarebbero della
medesima entità. Ciò sembra contro-intuitivo alla maggior parte delle persone,
dato che si assume di solito che la spesa militare, per quanto dissennata,
concretamente aumenti prodotto e impiego. Questo in base all’idea che esista
qualche quantità di lavoro non impiegato, di capacità non utilizzata, e la spesa
militare agisca come stimolo per l’economia, usando queste risorse inutilizzate.
Ma non è questo il modo in cui sono costruiti i modelli per stimare gli impatti
delle ridotte emissioni di anidride carbonica. In questi modelli tanto per
cominciare, le risorse economiche, come il lavoro, sono utilizzate
completamente. La riduzione nell’uso di combustibili fossili riduce prodotto e
impiego perché riduce la produttività generale dell’economia, e di conseguenza
il salario reale12. Ad un salario reale inferiore, ci sono meno persone che
vogliono lavorare, anche se esiste ancora un (nuovo) equilibrio di piena
occupazione, dove chiunque vuole lavorare per il salario (più basso) reale viene
occupato. L’economia si stabilizza ad un livello più basso di prodotto e
occupazione.
Utilizzando gli stessi modelli per stimare l’impatto del recente incremento nelle
spese militari emergerebbe un impatto negativo simile sull’economia.
L’aumento delle tasse per pagare le spese militari riduce la produttività
generale, il che di nuovo riduce il salario reale. Oppure in alternativa, se
l’accresciuto bilancio militare è sostenuto da prestiti, ciò aumenta i tassi di
interesse. Questi più elevati tassi di interesse rendono l’investimento di capitale
più costoso, riducendo così la produttività e di nuovo il salario reale. In ogni
caso, l’economia si assesta ad un livello più bassi di prodotto e occupazione,
11
Cfr. Lasky, Mark, 2003, The Economic Costs of Reducing Emissions of Greenhouse Gases: A Survey of
Economic Models, Washington, DC, Congressional Budget Office, Technical Paper Series.
L’oscillazione, nei modelli esaminati per questo studio è fra – 0,5% e – 4,2% del prodotto nazionale
lordo.
12
In questi modelli, il salario reale è uguale al prodotto marginale del lavoro, che viene ridotto quando le
imprese tagliano l’uso di energia, per esempio in seguito ad una carbon tax.
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esattamente come fa a seguito della riduzione delle emissioni. L’impatto
quantitativo dell’aumento delle spese militari a partire dal 2000 sarà molto
probabilmente nel medesimo ambito dei costi di riduzione delle emissioni di
anidride carbonica concordati nel protocollo di Kyoto.
Sarebbe una cosa importante da dimostrare, dato che non c’è praticamente
stata alcuna discussione su questi effetti economici dell’incremento delle spese
militari. Naturalmente, qualcuno potrebbe sostenere che tali incrementi erano
necessari per motivi di sicurezza nazionale, ma anche se ci si crede, la cosa
non cambia nulla. Il punto è che questi costi non sono stati uno degli elementi
considerati nelle decisioni di aumento delle spese militari, e quindi come
possono diventare una delle considerazioni principali nel dibattito sul
mutamento climatico?
I costi di incremento delle spese militari per l’economia, una volta stabiliti
tramite questi modelli economici standard, potrebbero essere utilizzati come
banco di prova nel dibattito sulla riduzione delle emissioni. Ciò renderebbe
molto più difficile sostenere che i costi economici delle azioni contro il
mutamento climatico, o di altre misure per proteggere l’ambiente, siano troppo
elevati.
Nota: il testo originale di questo interessante articolo, insieme agli altri numerosi
interventi, al sito del Sierra Club Summit 2005 (f.b.)
http://www.sierraclub.org/sierrasummit/
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