capitolo 2 - Dike Giuridica Editrice

CAPITOLO 2
La disciplina delle azioni nel codice
del processo amministrativo*1
Sommario: Sezione I. I temi – 1. Il nuovo art. 34, comma 1, lettera c), del codice del processo
amministrativo avvicina l’Italia all’Europa – 2. Una norma non necessaria ma utile – 3.
I limiti posti dal legislatore all’azione di esatto adempimento – 3.1. I limiti sostanziali:
l’azione di esatto adempimento non può interferire con l’esercizio del potere discrezionale – 3.2. I limiti processuali: l’azione di esatto adempimento deve completare, secondo
la logica del simultaneus processus, la tutela assicurata da altra azione presupposta – 4.
Varianti sul tema: l’azione di adempimento costitutivo e l’azione di mero accertamento della spettanza del bene della vita – 5. L’interesse legittimo diventa maggiorenne
– Sezione II. La giurisprudenza – 1. L’annullamento giurisdizionale con effetti ex nunc
secondo Cons. St., sez. VI, 19 maggio 2011, n. 2755 – 2. Cons. St., sez. IV, 3 ottobre
2012, n. 5189 definisce le conseguenze dell’annullamento dell’atto presupposto sull’atto
presupponente – 3. Cons. St., sez. V, 27 novembre 2012, n. 6002 delimita la portata della
tutela giurisdizionale di adempimento e di accertamento
Sezione I
I temi
1. Il nuovo art. 34, comma 1, lettera c), del codice del processo amministrativo avvicina l’Italia all’Europa
Il secondo correttivo processuale varato con il decreto legislativo 14 settembre
2012, n. 160 ha introdotto nel corpo dell’art. 34, comma 1, lettera c, del codice
del processo amministrativo un ultimo e assai significativo periodo alla stregua
del quale l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è proposta
contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione
avverso il silenzio, ai sensi e nei limiti di cui all’articolo 31, comma 3.
Nonostante la mancata riproposizione esplicita del principio di pluralità delle azioni di cui all’art. 28 bis della bozza originario di articolato, vede così la luce l’azione di esatto adempimento, ossia una domanda
di condanna a un facere specifico avente ad oggetto l’emanazione del
* I temi del presente capitolo sono tratti da F. Caringella, Il secondo correttivo processuale battezza l’azione di esatto adempimento, in Il nuovo diritto amministrativo, 4/2012, 11 ss.
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provvedimento illegittimamente rifiutato. Infatti, la disposizione, nella
misura in cui detta i limiti processuali e sostanziali dell’azione di condanna pubblicistica, presuppone e,quindi, riconosce la sperimentabilità
di siffatta tecnica di protezione dell’interesse legittimo pretensivo anche
nell’ipotesi in cui la lesione sia stata procurata da un provvedimento
negativo oltre al caso, già codificato dall’art. 31, della maturazione di
un silenzio-rifiuto.
Rinviando al prosieguo per qualche breve considerazione sull’ambito di
applicazione e sui limiti di detta tecnica di tutela, preme in prima battuta osservare che viene così coronato un lungo percorso, dottrinale e pretorio,
volto a munire l’interesse pretensivo di quella tutela specifica e satisfattoria da oltre un secolo garantita, per gli interessi oppositivi (o statici
o interessi lesi dal provvedimento), dalla tutela costitutiva di annullamento.
Da lungo tempo la dottrina più avvertita aveva osservato che gli interessi
pretensivi – detti anche interessi dinamici ovvero interessi bisognosi di un provvedimento – necessitano di una protezione in re o in kind che garantisca il conseguimento del bene della vita mediante un ordine giudiziario che costringa
l’amministrazione ad adottare la determinazione agognata. E tanto alla stregua del generale principio della primazia della tutela in forma specifica volta
a soddisfare l’imperativo chiovendiano secondo cui il processo deve dare a chi
agisce tutto e proprio quello che egli ha diritto a conseguire.
Nessuno dubita che nel diritto comune l’azione di esatto adempimento,
teso a tutelare il right to performance (o right to cure) mediante la natural restitution (o naturalrestellung), costituisce la tutela primaria e naturale del diritto di
credito – e più in generale dei diritti soggettivi – nonostante l’assenza di una
norma generale che ne codifichi l’esistenza e ne enuclei i contorni. La soddisfazione in natura dell’interesse del creditore attraverso l’assicurazione della
specific performance rappresenta, infatti, la principale tecnica di protezione in
quanto, in forza di una concezione qualitativa e non meramente quantitativa
del patrimonio, assicura in forma reale il bene dovuto e non il mero surrogato economico attribuito con la tutela risarcitoria per equivalente. Caratteristica precipua di detta azione di adempimento in natura, che la distingue
rispetto al risarcimento in forma specifica, è, infatti, la perfetta identità della
prestazione dovuta in base al titolo originario (legge, contratto o altra fonte
dell’obbligazione) e quella imposta jussu iudicis, con il conseguente ripristino
dello status quo ante, vale a dire l’elisione, in termini sostanziali e non meramente economici, delle conseguenze negative sortite dal fatto inadempitivo.
Le stesse coordinate, in tema di essenzialità e primazia della naturalrestellung
sono estensibili all’interesse legittimo pretensivo al conseguimento di un
provvedimento amministrativo vincolato, posizione definibile, con linguaggio sincopato e volutamente atecnico, come pretesa a un provvedimento
favorevole.
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Sul piano strutturale detta situazione soggettiva non presenta profili di
apprezzabile diversità dal diritto di credito in quanto, al pari di esso, si
concreta nella pretesa sostanziale a un comportamento dovuto in ragione dell’assenza, in via originaria o per effetto di sopravvenienze, di una
sfera decisoria o valutativa riservata alla discrezionalità amministrativa
o tecnica. La matrice pubblicistica del rapporto, sublimata dalla finalizzazione del vincolo legale al soddisfacimento di interessi collettivi posti da
norme di azione, non toglie, in definitiva, che viene in rilievo sul versante
morfologico, al pari di quanto accade per il diritto di credito, un right to
performance che può e deve essere garantito mercé la somministrazione
del bene della vita rappresentato dal provvedimento favorevole. Anche
con riguardo a tale azione di condanna pubblicistica si presenta quindi la
connotazione tipica dell’azione di esatto adempimento, id est la perfetta
identità tra prestazione originariamente dovuta – il provvedimento favorevole desiderato – e prestazione imposta dal giudice mediante l’ordine di
esercitare il facere pubblicistico.
Con l’art. 34, comma 1, lettera c), il nostro ordinamento conia l’azione
generale di esatto adempimento e si sincronizza con i sistemi europei che
da tempo hanno ammesso e regolato la tecnica di protezione specifica
degli interessi pretensivi.
Ci si riferisce, in particolare, all’ordinamento britannico e alla legislazione tedesca.
Quanto al Regno Unito, a seguito delle riforme intervenute nell’ultimo secolo, tra i remedies che possono essere richiesti per mezzo del
judicial review vi sono i cd. prerogative orders, tra i quali rientra l’order
commanding a public authority to perform a public duty, definito mandatory
order (o mandamus). Si tratta, in definitiva, di un mezzo per ottenere la
condanna dell’amministrazione a un facere specifico che si differenzia
dal rimedio equitativo e privatistico dell’injunction in quanto riguarda
rapporti pubblicistici e può avere per oggetto anche un l’adozione di
uno specifico atto di diritto pubblico imposto dal cd. duty to performance
a specific act.
L’azione di condanna, strumento di matrice anglosassone, è stata importata, dopo la seconda guerra mondiale, nei sistemi continentali, da sempre
imperniati sul dogma della centralità dell’azione impugnatoria.
Segnatamente, l’art. 42 della legge processuale amministrativa tedesca (Verwaltungsgerichtsordund) del 1960 riconosce la possibilità di esperire
dinanzi ai Tribunali amministrativi l’azione di “condanna all’emanazione di
un atto amministrativo rifiutato od omesso (azione di condanna)” laddove l’attore “faccia valere di essere stato leso nei propri diritti dal rifiuto o dall’omissione
del provvedimento”.
L’art. 42 configura due distinte specie di azione di adempimento.
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La prima (Weigerungsgegenklage o Versagungsgegenklage) è finalizzata a
sanzionare l’illegittimo diniego di un atto amministrativo: l’atto amministrativo è stato richiesto dal privato e l’amministrazione lo ha espressamente rifiutato (abgelehnt).
La seconda (Untätigkeitsklage) è diretta a stigmatizzare l’inerzia della
pubblica amministrazione: l’atto amministrativo, la cui adozione risulta dovuta, è stato omesso (unterlassen).
Secondo la tesi prevalente l’azione di adempimento ha natura di azione di condanna. Non siamo, infatti, in presenza di un’azione costitutiva, in
quanto il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione,
emanando l’atto richiesto dal privato; trattasi, quindi, di un’azione di condanna volta ad ottenere (Verpflichtungsklage) l’atto rifiutato o omesso (Ablehnung oder Unterlassung).
L’ordinamento tedesco, che non conosce la figura nostrana dell’interesse legittimo, ha elaborato la nozione di diritto pubblico soggettivo (subjektivoffentliche Recht), concepito come posizione giuridica che conferisce al singolo la facoltà di pretendere dall’amministrazione un fare, un non fare o un
sopportare. Non è infine revocabile in dubbio che nella definizione di tali
posizioni soggettive rientrino anche situazioni giuridiche da noi classificate
come interessi legittimi.
2. Una norma non necessaria ma utile
Il nuovo testo dell’art. 34, comma 1, lettera c), consacra un approdo ermeneutico già attinto dalla più recente elaborazione giurisprudenziale.
Sotto questo punto di vista trattasi di norma non necessaria in quanto
ricognitiva del prevalente indirizzo ermeneutico.
Decisiva appare, al riguardo, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato 23 marzo 2011 n. 3, che, con affermazione ribadita
dalla successiva Ad Plen. n. 15/2011, ha definitivamente sancito la generale
esperibilità dell’azione di condanna quale strumento di tutela attivabile dal
ricorrente innanzi al G.A. al fine di ottenere il riconoscimento del bene della
vita ingiustamente negatogli.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria l’ammissibilità, in via generale, di
un’azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di esatto adempimento) tesa
ad una pronuncia che, per le attività vincolate, costringa la P.A. ad adottare il provvedimento satisfattorio, è ricavabile dall’applicazione dei principi
costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale, dall’interpretazione della portata espansiva delle specifiche ipotesi previste dall’art. 31 comma 3 del codice, in materia di silenzio,
dall’art. 124 in materia di contratti pubblici, oltre che dall’art. 4 del decreto
legislativo n. 198/2009, in materia di azione collettiva di classe, e, soprat-
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tutto, dalla dizione ampia dell’art. 30, comma 1 del codice, che non tipizza i
contenuti delle pronunce di condanna, e, soprattutto, non limita dette pronunce ai soli casi privatistici del risarcimento del danno e della lesione di
diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva.
Con detta azione il soggetto anticipa dal giudizio di ottemperanza al
giudizio di cognizione la condanna dell’amministrazione all’emanazione
del provvedimento favorevole, determinando la consumazione dei poteri
discrezionali di cui l’amministrazione possa per avventura disporre nella
fase di rinnovazione del provvedimento e di esecuzione del giudicato. Di
conseguenza, vale nel giudizio di adempimento la regola secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile: esso è il luogo processuale in cui
l’amministrazione ha l’onere di eccepire ogni fatto impeditivo ed estintivo,
anche connesso a poteri discrezionali, in mancanza di che non potrà farlo
successivamente.
L’ammissibilità, anche in assenza di una discipina legale, dell’azione di
esatto adempimento trova poi conforto nella circostanza che l’art. 2908 c.c.
e l’art. 113, ultimo comma, Cost, prevedono una riserva di legge solo
per le sentenze costitutive mentre risulta pacifica la caratterizzazione geneticamente atipica delle tutele dichiarative e di condanna.
Ulteriore conforto alla tesi in esame è il pacifico riconoscimento
dell’interesse legittimo come posizione sostanziale nella cui architettura assume rilevanza centrale, pur se con il filtro della mediazione amministrativa, l’interesse al conseguimento o alla protezione di un bene della
vita. La necessaria coerenza tra struttura e tutela della posizione soggettiva
incentrata, per gli interessi pretensivi, sull’aspirazione al raggiungimento di
un bene della vita, impone che, ove non sia d’ostacolo il permanere di aspetti
discrezionali dell’agere dei pubblici poteri, l’interesse legittimo sostanziale
non possa essere relegato a posizione legittimante al ricorso ma debba assurgere a oggetto specifico de giudizio nell’ambito di un sindacato diretto
del rapporto amministrativo conformato dall’atto lesivo. Ritorna alla mente,
nella sua sconvolgente attualità, l’insegnamento chiovendiano secondo cui
ogni ordinamento deve presentare una certa corrispondenza e un certo coordinamento fra la legge sostanziale e la legge processuale, nel senso che
ogni volontà concreta di legge, di cui sia possibile la formazione secondo la
legge sostanziale (cioè ogni concreto diritto soggettivo), deve trovare nella
legge processuale mezzi idonei di attuazione.
In ordine all’ammissibilità di una azione di esatto adempimento, si è recentemente espresso il Tar Lombardia, sez. III, con la sentenza dell’8
giugno 2011, n.1428, confermata dal Tar Lombardia, Milano, Sez. IV,
Sentenza 4 settembre 2012, n. 220.
I giudici meneghini hanno dato atto dell’evoluzione dell’ordinamento
processuale amministrativo che si è progressivamente affrancato dal para-
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digma del mero accertamento giuridico di validità dell’atto. Di questo percorso evolutivo il Tribunale evidenzia i seguenti punti significativi:
a) la combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto
di riesercizio del potere hanno consentito di focalizzare l’accertamento, per
successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere;
b) è divenuta pacifica la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento, nella convinzione che quella degli apprezzamenti tecnici non sia un’area istituzionalmente “riservata”
alla pubblica amministrazione;
c) le nuove tecniche di sindacato, punto di emersione della “amministrazione di risultato” e della acquisita centralità che il bene della vita assume nella
struttura dell’interesse legittimo, hanno indotto il giudice ad un vaglio di
ragionevolezza più penetrante rispetto al mero riscontro di illogicità formale, in cui la qualificazione di invalidità dipende, più che dalla difformità
rispetto ad un parametro normativo, dalla devianza rispetto all’obiettivo il
cui solo perseguimento legittima il potere della Autorità;
d) nella stessa prospettiva si colloca la regola per cui il provvedimento è valido (o, comunque secondo altra prospettazione, non è annullabile) quando
la difformità dal diritto obiettivo non abbia inciso sull’adeguata sistemazione degli interessi da esso operata (art. 21 octies, II comma, L. 241/90, che
attribuisce alla p.a. la possibilità di introdurre nel processo anche fatti non
dedotti nell’atto o versati nel procedimento per dimostrare che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso);
e) l’art. 10 bis della legge sul procedimento, nel caso di procedimenti ad
istanza di parte, imponendo alla p.a. di preavvisare il privato di tutti i possibili motivi di reiezione dell’istanza, ha consentito al processo di giovarsi
della estensione del contraddittorio procedimentale a tutti i profili della disciplina del rapporto;
f) l’iscrizione tra i valori giuridici ordinanti del principio di concentrazione
e di ragionevole durata (art. 111 cost.) osta a che una controversia sulla medesima pretesa sostanziale possa essere frazionata in più giudizi di merito in
spregio al diritto di difesa ed alle esigenze di efficiente impiego delle risorse
della giustizia;
g) la codificata possibilità per il giudice amministrativo di accertare la fondatezza dell’istanza del privato nell’ambito del giudizio sul silenzio è stata
salutata come una conferma delle ricerche più avanzate su oggetto e ruolo del processo (v. l’art. 2 comma 5 della l. 241/1990, ribadito dall’art. 31
c.p.a.)
Va peraltro detto che secondo un altro indirizzo pretorio, maturato
prima del secondo correttivo, l’azione di condanna, atecnicamente definita
azione di accertamento, sarebbe estranea al tessuto del processo amministrativo.
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Ci si riferisce, in particolare al Tar Palermo, sezione I, 14 marzo 2012,
n. 559, che ha escluso con nettezza la praticabilità dell’azione in kind sulla
scorta di una suggestiva parabola motivazionale che si riporta nei sui snodi
salienti.
L’azione proposta è di accertamento con finalità propulsive rispetto alla mancata adozione di atti specificamente indicati nell’articolo 1 del medesimo testo legislativo.
Si tratta, allora, di ben delimitare l’ambito operativo dell’azione di accertamento come disciplinata nell’invocato testo legislativo.
Tale azione è, invero, ammissibile, nel giudizio amministrativo, nei limiti di
una previsione esplicita e coerente al dettato costituzionale, pur se non enunciata
espressamente. Non si può, in ogni caso, predicare la generalità della stessa, come è
proprio dei giudizi civili.
La Sezione, infatti, non condivide, l’affermazione dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, oltre che di alcune sparse pronunce di primo e secondo grado,
tutte favorevoli a un pressoché generale riconoscimento dell’azione di accertamento,
pur in carenza di espressa previsione nel c.p.a.
Giova rammentare che la delega recata nell’articolo 44 della legge 18 giugno
2009, n. 69 prevedeva, tra gli altri principi e criteri direttivi, al comma 2, sub b)
al n. 4) “le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la
pretesa della parte vittoriosa”.
Ritenendo che con la formula “pronunce dichiarative” il legislatore delegante
si riferisse alle azioni di accertamento, la Commissione incaricata della redazione
del testo aveva inserito nello schema sottoposto al vaglio del Governo e delle Commissioni parlamentari una norma sull’azione di accertamento. L’autorità politica
(in particolare il Governo) non ha condiviso, in sede di approvazione, la proposta
recata nello schema e, per questo, la relativa norma è stata cassata dal testo che ha,
poi, visto la luce come decreto legislativo n. 104 del 2010.
Quella eliminazione sarebbe stata sicuramente incongrua e contestabile (indipendentemente dalla coerenza sistematica ai principi costituzionali della previsione) ove la formula usata dal legislatore delegante fosse stata diversa, se cioè il riferimento fosse stato alle azioni e non alle pronunce, come in effetti è stato.
Non sussiste, in sede teoretica, corrispondenza biunivoca e continua tra azioni
e pronunce dichiarative, ben potendo le seconde essere rese in esito a procedimenti
attivati per l’esercizio di azione diversa (costitutiva, di condanna e finanche esecutiva), come è agevole avvedersi anche nell’ambito delle decisioni rese dal giudice
amministrativo a far tempo dalla sua istituzione.
Basti il richiamo a quelle meramente processuali (declaratoria di improcedibilità, di irricevibilità e di inammissibilità, tanto per limitarsi al genus più ampio).
Proprio in considerazione di questi ben noti presupposti l’Adunanza Plenaria
ha preferito confortare il proprio assunto con il lodevolissimo richiamo all’esigenza
di completezza della tutela anche per gli interessi legittimi alla stregua delle norme
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precettive dettate dalla Carta fondamentale (art. 24, 103 e 113), con il principio di
ordinaria atipicità delle azioni purché sorrette da un adeguato interesse suscettibile
di tutela ex art. 100 c.p.c., nonché con l’interpretazione sistematica desumibile da
alcune norme dettate dal codice del processo amministrativo (31. c. 4, 34, c. 2, 3 e
5, 114 c. 4 lett. b).
Rispetto al primo aspetto si osserva che l’affermazione, certo animata dall’ammirevole intento di ricercare e fornire maggiori strumenti di tutela per gli amministrati, parrebbe condurre ad una dequotazione della giurisdizione generale di
legittimità esercitata dal 1889 ai giorni nostri poiché sarebbe mancata la completezza di tutela che si raggiungerebbe, in tesi, solo con l’introduzione dell’azione di
accertamento. Il che potrebbe forse apparire ingeneroso con una giurisdizione che si
è evoluta e rafforzata nel corso dell’ultimo quarantennio grazie all’istituzione del
giudice di primo grado e all’efficace risposta in termini di giustizia che il plesso
intero ha saputo dare pur in carenza di quello strumento.
Rispetto al quadro delle azioni consentite o previste dall’ordinamento processuale di settore, poi, è bene chiarire che la nozione di atipicità è, in definitiva, coerente al concetto di azione.
Quest’ultima, come potere o situazione giuridica comunque idonea a chiedere ai
giudici l’attuazione della legge, non ammette altra classificazione se non quella che
si fonda sulla diversa natura del provvedimento giudiziale la cui produzione è il
suo oggetto immediato, così che il problema si sposta sui contenuti propri della statuizione giurisdizionale, senza alterare l’ampiezza dei beni della vita conseguibili
in esito al processo.
La tripartizione o quadripartizione delle azioni è frutto di esigenze espositive
e definitorie (anche tenendo conto di precetti quale l’articolo 2908 del codice civile),
sempre superabili alla luce di una più completa disamina del quadro normativo:
essa non presenta, per questo, alcuna inalterabilità sotto il profilo teoretico.
Relativamente, infine, alle disposizioni che costituirebbero traccia e sintomo
dell’esistenza dell’azione d’accertamento, è certo che alcune di esse sono state confezionate sul presupposto che il precetto generale sussistesse e operasse, mentre il
governo ha proceduto alla sua eliminazione così creando disarmonie e incongruenze. L’ulteriore problema se quei precetti, pur parzialmentee avulsi dal contesto originario, possano tuttavia operare è risolto positivamente in base al criterio della
realistica e dell’effettività. Proprio a cagione di questa indubbia considerazione,
la Plenaria ha preferito isolare una disposizione, conferendole il maggior rilievo dimostrativo in ordine alla presenza non subliminale, nel testo, dell’azione di
accertamento. A questo proposito viene indicato l’articolo 34 c. 2 c.p.a. laddove si
afferma che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati” (formula pienamente coerente con quella soppressa dedicata all’azione generale di accertamento).
Di solito l’argomentazione a contrariis muove dalla regola che positivamente
disciplina un caso per escludere l’esistenza di identico o consimile precetto per vicen-
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de in antitesi o netta contrapposizione con la prima; ma inclusio unius est esclusio alterius vale soprattutto per singole fattispecie e non certo per affermazioni di
sistema, come pretenderebbe l’Adunanza Plenaria.
Pur volendo ammettere identica metodica per un testo configurato in senso negativo, la conseguenza non sarebbe comunque né certa né assoluta.
La finalità che presiede il precetto (giustamente individuata in quella sentenza
nell’evitare la sostituzione alla p.a. da parte del giudice che eserciterebbe una cognizione diretta sui rapporti amministrativi non ancora sottoposti al vaglio della
stessa) permane indipendentemente dal riconoscimento, obliquo modo rispetto alla
formula normativa, di un’azione generale...in realtà non prevista e per questo non
regolamentata.
Rileva la Sezione come, indipendentemente da quanto sin qui osservato, sia
difficile ipotizzare che una innovazione così ampia e decisiva, non presente nel testo
perché eliminata da decisione governativa, possa riapparire all’improvviso come un
reduce bellico già dato per disperso.
La questione vera non riguarda, tuttavia, gli aspetti sopra considerati e rispetto
ai quali la tensione ad una più ampia ed intensa protezione giudiziale da parte
del plesso può costituire ideale motivazione, bensì l’ambito ed i contenuti di questa
azione.
Occorre invero rammentare che qualsivoglia sentenza (civile o amministrativa)
presenta un nucleo centrale di accertamento di situazioni di fatto e di diritto rispetto alle quali, ove si formi il giudicato, si producono gli effetti previsti dall’articolo
2909 c.c.
Se così non fosse, opporrebbe deciso un seguace del cavalier di La Palisse, non si
spiegherebbe l’actio iudicati nel giudizio di ottemperanza.
Il problema sul quale riflettere, pertanto, non è la praticabilità dell’accertamento
nel giudizio amministrativo (posto che anche quest’ultimo è preordinato a determinare la certezza dei rapporti giuridici), ma l’attendibilità di un accertamento
che presupponga esercitati, ma non completati, o sfavorevolmente esercitati i poteri
amministrativi.
L’utile esperimento di quell’azione consentirebbe al giudice di affermare, nel
caso concreto, la sussistenza dell’interesse legittimo non realizzato dal provvedimento o dall’arresto dell’amministrazione nella sequenza procedimentale. A tale
accertamento conseguirebbe la formazione del titolo in capo al soggetto richiedente,
eventualmente tutelabile con l’azione di adempimento.
Se l’azione di accertamento presentasse un’utilità inferiore a quella qui ipotizzata, la questione autorevolmente sollevata dall’Adunanza Plenaria non avrebbe
ragion d’essere, limitandosi il tutto a una generica e teorica contrapposizione sulla
portata dell’articolo 2909 c.c. nel processo amministrativo, senza alcuna conseguenza nel contesto dispositivo della sentenza.
Si configura un’azione di accertamento perché si intende munire la pronuncia
di una valenza che comporti la diretta ed immediata acquisizione del bene della
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vita (inteso come piena individuazione e realizzazione dell’interesse legittimo per
il quale è vertenza).
La sentenza, in questa prospettiva, dichiara il titolo di Tizio a edificare, di
Caio a esercitare il servizio di trasporto e via elencando.
È difficile immaginare che ciò avvenga senza una sostanziale sostituzione da
parte del giudice nei confronti dell’amministrazione: il limite che l’Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 ha posto è costituito dalla “cognizione diretta di rapporti
amministrativi non ancora sottoposti al vaglio della stessa” (sub 6.5.1.) con l’ovvia
conseguenza che, superata quella barriera ideale, l’azione di accertamento possa
essere dispiegata senza determinare indebite ingerenze.
Rispetto a questa tematica si contrappone quanto segue.
L’accertamento costituisce, di norma, esito del dictum giurisdizionale con
riferimento alle situazioni e stati di fatto sussistenti al momento della domanda (art. 5 c.p.c. sicuramente applicabile al processo amministrativo ex art. 39 c.
1 d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104). Quanto meno per l’ipotesi che il procedimento
amministrativo sia iniziato, ma non concluso, l’azione di accertamento finirebbe
per traguardare lo stato di fatto al momento della domanda, inserendo nella statuizione un quid pluris costituito dalla decisione del giudice amministrativo che
surroga quanto la p.a. non ha potuto o voluto disporre. L’esercizio della potestà
discrezionale e l’eventuale completamento della fattispecie ad opera della sentenza finirebbero per operare in un campo temporalmente ed ontologicamente diverso
da quello sul quale, d’ordinario, si cristallizza la situazione oggetto del giudizio
di accertamento (nel processo civile, quanto meno). La fattispecie più facilmente
accostabile a quella in esame appare, a questa stregua, quella dell’articolo 2932
c.c. Ma qui sorgerebbe una seria difficoltà, posto che la sentenza che accoglie la
domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ha natura
costitutiva ed efficacia esclusivamente “ex nunc” e non – pertanto – effetti retroattivi (Cass. civ. II, 3 gennaio 2011, n. 71).
Configurando la vicenda come effetto costitutivo si fuoriesce, evidentemente,
dalla nozione di accertamento in senso dichiarativo, per forgiare una diversa natura della pronuncia: questa opererebbe come alternativa all’ordinario esercizio della
metodica di accertamento collegata alla richiesta di demolizione giuridica di un
atto. Si avrebbero così due diverse modalità di funzione giurisdizionale costitutiva:
da un lato quella che ha tradizionalmente contrassegnato la giurisdizione generale di legittimità e che individua l’effetto costitutivo nell’annullamento dell’atto
invalido e, dall’altro, quella che, attraverso l’accertamento, punta a una pronuncia
costituiva della situazione giuridica fatta valere o richiesta nel processo.
In quest’ultimo caso, la sostituzione del giudice all’amministrazione nel senso
prospettato dall’azione di accertamento, desumibile anche nell’arresto dell’Adunanza Plenaria, finisce per configgere non solo con il principio di divisione dei
poteri, certamente non salvaguardato tutte le volte che il giudice si sostituisca alla
p.a. senza essere legittimato dalla richiesta di esecuzione del giudicato, ma anche
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con struttura e funzione ontologica della giurisdizione amministrativa nonché con
disposizioni e principi presenti nel decreto legislativo n. 104 del 2010.
Il collegio intende sottolineare come la previsione di un’azione generale (o quasi)
di accertamento, con l’evidente sostituzione del giudice alla p.a. confligga in modo
irrimediabile con le limitate previsioni di giurisdizione di merito quali fatte proprie anche dal c.p.a. e, in particolare con quanto dispone l’articolo 7, comma 6, che
autorizza il giudice amministrativo a sostituirsi all’amministrazione nell’esercizio
della giurisdizione di merito solo nelle controversie indicate dalla legge e dall’art.
134 c.p.a.
Una vicenda del tutto omologa e senza alcuna copertura normativa (anzi: in
perfetto contrasto con le previsioni assai limitative recate nel c. 6 dell’articolo 7 e
nei precetti allo stesso collegati) si realizzerebbe ove si intendesse concedere cittadinanza all’azione di accertamento in discorso.
Perché delle due l’una: o la giurisdizione di merito è astrattamente estensibile
al di là delle fattispecie specificamente previste (ed allora non si comprenderebbe
neppure l’utilità di una distinta azione di accertamento) o quella giurisdizione non
può estendersi oltre i limiti prescritti nell’impianto normativo (ed allora l’azione di
accertamento, per la sua asserita generalità costituirebbe una irrimediabile contraddizione non fornita neppure di espressa previsione normativa).
Conclusioni analoghe possono ripetersi ove l’azione di accertamento sia proposta rispetto ad un interesse legittimo negato con provvedimento: qui la rispondenza
alla nozione di giurisdizione di merito è in re ipsa e per questo rende impraticabile
il ricorso a quella azione.
È, d’altronde, ben nota la prudenza legislativa nell’individuare i casi di giurisdizione di merito (assolutamente ridotti rispetto ai sedici più il precetto di chiusura
recato sub 17) del c. 1 dell’articolo 27 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054).
Sarebbe un vero controsenso se, dopo aver scarnificato il numero delle fattispecie di giurisdizione di merito, le stesse venissero in buona sostanza generalizzate
attraverso l’introduzione pretoria (è il caso di dirlo) dell’azione di accertamento. Simile interpretazione finirebbe per snaturare concettualmente la giurisdizione
amministrativa, trasformandola in qualche cosa di profondamente diverso e allo
stato non conosciuto dal nostro ordinamento: una funzione mista tra giurisdizione e amministrazione propria di ordinamenti meno recenti. Il che configgerebbe,
è bene ripeterlo, con il principio di divisione dei poteri al quale anche il giudice
amministrativo deve ossequio: l’attività amministrativa implica, infatti, l’esercizio
di potestà discrezionali che sono tipicamente e necessariamente allocate presso la
pubblica amministrazione così che una pronuncia che accertasse le situazioni giuridiche connesse all’esercizio di quella potestà e facesse stato di provvedimento, in
mancanza del giudicato, finirebbe per imporre un’equivalenza anomala tra giudice
ed amministrazione.
Tale incongruenza è vieppiù evidente ove si ponga mente alla derivazione della
potestà discrezionale dal potere lato sensu politico che ne permea l’esercizio. La
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discrezionalità, infatti, costituisce, pur nel rispetto del principio della giustizia sostanziale nel caso concreto, la costante di adeguamento dell’azione amministrativa
alle direttive e alla programmazione emanate dall’autorità politica così che, in definitiva, l’atto amministrativo discrezionale si armonizza, per quanto di ragione, a
quelle. Immaginare che detta discrezionalità venga esercitata dal giudice, fuori dei
limitatissimi casi consentiti espressamente dal legislatore, significa riversare una
valenza politica nella funzione giurisdizionale: il che è palesemente contrario, dal
1789 in poi, alla conformazione dei rapporti tra poteri dello stato.
Va poi soggiunto che la piena tutela dell’interesse legittimo, alla quale si collegherebbe l’azione di accertamento, implicherebbe, a prescindere dai dubbi tuttora
sussistenti sulla concreta individuazione di quella situazione giuridica, identità
di natura e consistenza con il diritto soggettivo perfetto, eliminando la distinzione
icasticamente disegnata nei canoni costituzionali. Il diritto soggettivo ha in sé la
forza della propria realizzazione in via integralmente satisfattiva o per equivalente; altrettanto non può predicarsi dell’interesse legittimo, nel quale si convogliano e
interagiscono, nell’ambito della fattispecie attributiva commessa alla p.a., i poteri
del privato, la situazione giuridica sottostante che quello fa valere e la potestà discrezionale della pubblica amministrazione. La pronuncia del giudice amministrativo, specie quando fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, non
sempre ha o può avere effetto satisfattivo pieno per il convergere di circostanze e
fattori in epoca successiva alla pronuncia che lasciano spazio a soluzioni diverse (e
non sempre favorevoli nella sostanza al privato). Ove riconosciuta come generalmente praticabile, l’azione di accertamento comprimerebbe anche questa riserva di
valutazione discrezionale dell’amministrazione.
A fonte di tali resistenze culturali, in verità anacronistiche alla luce
dell’acquisito principio dell’atipicità del diritto di azione e dell’inopponibilità dell’ostacolo della separazione dei poteri a fronte di un’azione amministrativa priva di margini di libertà, la codificazione dell’azione di esatto
adempimento ex art., 34, comma 1, lettera c, nel testo introdotto dal secondo correttivo, costituisce un intervento utile in quanto rimuove le residue incertezze e regala agli operatori un quadro chiaro delle tecniche
di protezione dell’interesse legittimo.
Il battesimo dell’azione di esatto adempimento attua l’insegnamento impartito da Andrioli nella sua prolusione pisana del 1954, secondo cui l’art.
24, primo comma della Costituzione, nel prevedere che “tutti possono
agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, costituzionalizza il principio dell’atipicità del diritto di azione. Da tale norma
si desume “il fondamentale principio secondo cui chi è titolare di un diritto
soggettivo o di un interesse legittimo, è, in pari tempo e automaticamente, titolare dell’azione intesa come possibilità di far valere in giudizio quel
diritto o quell’interesse legittimo; l’art. 24 si presenta, dunque, come una
sorta di norma in bianco la quale aderisce a tutte le norme sostanziali che
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attribuiscono diritti o interessi legittimi: queste norme, anche se nulla dispongono (e il più delle volte nulla dispongono) sulla tutela giurisdizionale,
funzionano, per così dire, come fattispecie rispetto al primo comma dell’art.
24 Cost, che mettono automaticamente in moto. Incostituzionale sarebbe,
pertanto, la norma ordinaria la quale privasse il cittadino, in quanto preteso
titolare di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, della possibilità
di agire per la sua difesa in giudizio”.
L’applicazione di dette coordinate all’azione di condanna pubblicistica
fa sì che la norma di fattispecie che impone l’adozione di un provvedimento
satisfattorio in casi vincolati faccia scattare la norma in bianco che mette a
sua volta in moto l’incomprimibile diritto atipico di azione.
L’interesse legittimo finisce così di essere figlio di un Dio minore e conquista il bene inestimabile della tutela reale, effettiva e piena.
3. I limiti posti dal legislatore all’azione di esatto adempimento
L’art. 34, comma 1, lettera c, nella formulazione integrata dal decreto n.
160/2012 si preoccupa ex professo di fissare i limiti dell’azione di esatto
adempimento: a) un limite sostanziale, rappresentato dalla non utile esperibilità di detto rimedio ove residuino sacche di discrezionalità amministrativa o tecnica o siano necessarie attività istruttorie riservate alla p.a. (vedi
l’art. 31, comma 3, in tema di rito del silenzio, a cui si fa rinvio anche con
riguardo al caso del diniego esplicito); b) un limite processuale, dato dalla
necessità che detta azione di condanna, non esperibile in via autonoma, si
accompagni ad altra azione di cui rappresenti il completamento nell’ambito
dello stesso processo.
3.1. I limiti sostanziali: l’azione di esatto adempimento non può interferire con
l’esercizio del potere discrezionale
Il limite sostanziale della non operatività della tutela satisfattoria in caso di
attività discrezionale, oltre a prestare ossequio al principio di separazione
dei poteri che impedisce l’irruzione del dictum giudiziale in lande riservate
alla libertà amministrativa, sincronizza ancora una volta il sistema nostrano
con gli ordinamenti europei di cui si è detto in precedenza.
Nel sistema britannico, infatti, per ottenere una condanna a un facere
specifico e non il mero ordine di riesercizio del potere, è necessario che
ricorra effettivamente un duty in capo all’amministrazione e non si sia
invece al cospetto di un discretionary power. Infatti, un mandatory order will
not be granted by the court except to secure performance of a duty to exercise the
discretion when the occasion arises or a duty to exercise a genuine discretion or a
discretion based on proper legal principles. Per converso, alla stregua del prevalente indirizzo della Corti britanniche, sussiste un duty laddove nel caso
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concreto la scelta risulti vincolata in quanto ogni altra opzione sarebbe irragionevole.
Si deve per completezza soggiungere che il mandatory order, al pari
degli altri prerogative orders, è un rimedio discrezionale in quanto la Corte può decidere se concederlo o meno non solo sulla base dell’ammissibilità e della fondatezza della domanda ma anche in ragione di cause
esterne, quali la presenza di alternative remedies, di particolari motivi di
interesse pubblico, di ingiustificato ritardo nella richiesta o nell’ipotesi
in cui la pubblica autorità abbia fatto quanto nelle sue possibilità per
adempiere.
Il VwGO tedesco e la giurisprudenza che vi ha dato attuazione subordinano, invece, l’utile esperibilità dell’azione specifica al presupposto che
la causa sia matura per la decisione (spruchreif). Secondo l’indirizzo maggioritario detta maturità è ravvisabile laddove si tratti di attività vincolata
della p.a. nonché nel caso in cui, pur vertendosi in apicibus in tema di potere
discrezionale, non residuino spazi per il suo esercizio in quanto la scelta di
interessi è stata già effettuata ovvero allorquando qualsiasi decisione amministrativa diversa dall’adozione del provvedimento richiesto implicherebbe in concreto l’illegittimità dell’atto medesimo per uso scorretto del
discretionary power. Assume una rilevanza significativa, quindi, la nozione di
esaurimento o azzeramento della discrezionalità, definito come Ermessenreduzierung auf Null, che consente al giudice di non limitarsi all’astratta
conformazione normativa del rapporto e di penetrare la relazione tra P.A. e
privato quale si atteggia alla luce delle valutazioni di interessi già effettuate
e degli accertamenti di fatti già posti in essere.
Il combinato disposto degli artt. 31, comma 3, e 34, comma 1, lett
c, del codice del processo forgia una disciplina che non si discosta dalle
coordinate della legislazione tedesca in quanto, al pari di quanto accade
in quest’ultima., stabilisce che il giudice può pronunciare sulla fondatezza
della pretesa solo laddove si tratti di attività vincolata o quando non residuino ulteriori spazi di discrezionalità e non siano necessarie attività istruttorie riservate alla p.a..
Si staglia a questa stregua un concetto ampio di attività vincolata, che include non solo le fattispecie in cui la discrezionalità manchi in astratto, in
ragione della matrice normativamente doverosa dell’azione amministrativa
(mancanza di alternative di diritto), ma anche i casi in cui la discrezionalità faccia difetto in concreto in considerazione di sopravvenienze (quali,
a titolo solo esemplificativo, possono essere una autovincolo, le risultanze
dell’attività procedimentale, gli esiti dell’istruttoria, un accordo ex artt. 11
o 15 della legge n. 241 o una pronuncia giurisdizionale) che abbiano consumato il potere di scelta pur in origine sussistente (mancanza di alternative in
concreto).
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Il sindacato giurisdizionale non dovrà allora limitarsi all’indagine sulla
sussistenza di una discrezionalità astratta ma dovrà spingersi fino allo scrutinio della ricorrenza di una discrezionalità concreta ancora esercitabile dal
public power.
Viene assegnata così una rilevanza significativa alla cosiddetta discrezionalità procedimentale, in ossequio alla lezione secondo cui il potere
discrezionale è una dote che si spende nel procedimento al punto che
potrebbe essere del tutto assente al momento dell’assunzione della decisione finale.
Si deve, infine, osservare che il riferimento tout court alla discrezionalità
senza ulteriori limitazioni, letto alla luce dei lavori preparatori che avevano
inizialmente limitato la sfera riservata alla sola discrezionalità amministrativa, consente di escludere il sindacato sul rapporto anche laddove ricorra
in concreto una discrezionalità meramente tecnica in capo alla p.a. In questa
prospettiva il riferimento dell’art. 31, comma 3, agli adempimenti istruttori
riservati alla p.a. conferma la bontà dell’insegnamento pretorio alla stregua
del quale la discrezionalità tecnica, pur non costituendo una discrezionalità
vera e propria in forza dell’assenza del profilo qualificante dato dalla scelta
di valore, si connota per la matrice soggettiva e opinabile di valutazioni,
come tali sindacabili ma non sostituibili dalle opinioni tecniche espresse dal
giudice amministrativo.
3.2. I limiti processuali: l’azione di esatto adempimento deve completare, secondo la logica del simultaneus processus, la tutela assicurata da altra azione
presupposta
Quanto ai limiti processuali, l’art. 34, comma 1, lettera c, inserito nella disciplina delle sentenze di merito, stabilisce che l’azione di condanna al rilascio di
un provvedimento richiesto è proposta contestualmente all’azione di annullamento
del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio.
La norma va coordinata con il precedente art. 30, comma 1, riferito
all’azione di condanna, secondo cui, salvi i casi di giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo (le azioni di condanna privatistiche a tutela
di diritti soggettivi) e i casi di cui al medesimo articolo (relativi alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e
seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione in guisa da dar luogo ad un simultaneus processus
che obbedisce ai principi di concentrazione processuale ed economia dei
mezzi giuridici.
Da tale coacervo normativo si evince che la domanda tesa ad una
pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio non
è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo o dal
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rimedio avverso il silenzio nell’ambito di un processo che il legislatore
vuole simultaneo per intuibili ragioni di concentrazione e di economia
dei mezzi giuridici.
In definitiva, onde evitare l’elusione del termine decadenziale che permea
il rimedio costitutivo o l’azione avverso il silenzio, la legge impone che il
soggetto che abbia subito un provvedimento illegittimo di diniego impugni
tempestivamente detto diniego o silenzio per essere legittimato a proporre,
nello stesso processo, la domanda di condanna all’adozione dell’atto satisfattorio. La necessaria connessione della domanda di condanna pubblicistica a
quella principale di annullamento (o in tema di silenzio) spiega perché detta
azione di condanna non conosca un suo termine decadenziale, visto che mutua il termine che governa la domanda principale rispetto alla quale si pone
in chiave complementare ed integrativa.
Il nostro sistema si avvicina sotto quest’ aspetto a quello britannico
che, in caso di pretesa frustrata da un provvedimento negativo, ammette
l’esperimento del mandatory order solo in addition to the quashing order, e,
quindi, in combinazione all’azione volta alla caducazione dell’atto.
Più incerto è il panorama che connota l’ordinamento tedesco, essendo
dubbia in quell’ordinamento la necessità per il privato di intentare contemporaneamente anche l’azione di annullamento.
Sul punto sono state proposte due letture di segno opposto.
Così, parte della dottrina ha ritenuto inammissibile il contestuale esperimento dell‘azione di condnana e di quella di annullamento: „Ist dem
Verpflichtungsantrag ein ablehnender Verwaltungsakt vorausgegangen, so braucht
die Verpflichtungsklage, welche die Aufhebung der Ablehnung umfaßt (§ 113 Abs.
4 Satz 1 VwGO), nicht mit einer Anfechtungsklage verbunden zu werden. Der
Aufhebungsantrag ist vielmehr in der Verpflichtungsklage enthalten“. Questa tesi
fonda sul portato dellëart. 113, comma 4, VwGO e valorizza, in definitiva,
la possibilità riconosciuta dalla legge sul processo amministrativo di cumulare domanda di annullamento e di condanna alla prestazione. Ipotesi
non contemplata nel caso in cui non si chieda una prestazione, ma si chieda
l’emanazione di un atto.
Tesi opposta ritiene, invece, sia sempre necessario proporre congiuntamente le due azioni per evitare che l’atto di rifiuto divenga inoppugnabile e,
quindi, la mera Verpflichtungsklage divenga inutiliter data se non si procede
all’eliminazione del provvedimento giuridico illegittimo.
Venendo all’ambito di applicazione del simultaneus processus nel nostro sistema, va rimarcato che la novella del 2012 ha fatto riferimento solo
alle ipotesi, sicuramente prevalenti sul piano casistico, della domanda di annullamento e dell’azione avverso il silenzio, dimenticando i casi in cui, ai
fini della soddisfazione dell’interesse pretensivo, sia necessario promuovere
una domanda di nullità del provvedimento negativo ex art. 31, comma 4, o
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un’azione atipica di accertamento (si pensi alla decisione n. 15/2011 della
Plenaria in tema di s.c.i.a.). La lacuna può essere agevolmente colmata in
virtù della più ampia portata dell’art. 30, comma 1, secondo cui l’azione di
condanna pubblicistica non può mai essere proposta in via solitaria, fungendo sempre da tecnica di completamento della protezione perseguita con
altra azione principale, quale può essere anche la domanda di nullità o quella
di accertamento atipico oltre a quelle richiamate, esemplificativamente, dal
successivo art. 34.
Si pone l’ulteriore questione se la domanda di condanna possa essere
proposta con motivi aggiunti per innestarsi nel tronco originario del ricorso di annullamento o nel diverso ricorso iniziale.
Una lettura estensiva dell’art. 43 del codice suggerisce una risposta positiva a condizione che l’azione di esatto adempimento sia proposta nel rispetto del non eludibile termine decadenziale posto per la domanda primaria.
Ove la domanda di condanna non sia proposta nel giudizio di cognizione, la soddisfazione reale dell’interesse pretensivo sarà differita al momento del giudizio di ottemperanza e sarà direttamente
collegata all’intensità del vincolo conformativo discendente dal giudicato
costitutivo.
È noto che, secondo l’insegnamento tradizionale, gli atti successivi al
giudicato affetti da meri vizi di legittimità, ma non contrastanti con la statuizione giurisdizionale, devono essere impugnati con un ordinario ricorso
di cognizione.
Detta soluzione rischia tuttavia di alimentare una girandola di annullamenti seguiti da riedizioni illegittime del potere senza che si arrivi mai ad
una definizione sostanziale della questione litigiosa.
Il rimedio efficace potrebbe essere quello di ritenere che i provvedimenti
successivi adottati dall’amministrazione possano essere conosciuti dal giudice dell’ottemperanza anche se non violativi o elusivi del giudicato, rilevando unicamente il dato cronologico rispetto alla sentenza. Recentemente, a seguito delle nuove disposizioni del codice e del decreto correttivo, la
questione dell’ammissibilità o meno del giudizio di ottemperanza in caso di
impugnativa di un rinnovato esito negativo per ragioni non coperte dal precedente giudicato, con particolare riferimento a giudizi tecnico-valutativi
di una commissione di concorso, è stata rimessa all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
L’ordinanza, in particolare, pone il dubbio – che rimette all’esame
dell’Adunanza plenaria – se tale esigenza di concentrazione possa essere
spinta sino al punto di affermare che qualsivoglia provvedimento adottato
dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, ma in contrasto con la soddisfazione del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al (solo) giudice
dell’ottemperanza.