ACHAB Rivista di Antropologia 2005 numero V Università degli Studi di Milano-Bicocca AChAB Rivista studentesca di Antropologia dell'Università di Milano-Bicocca - Numero V Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Se volete collaborare con la Rivista inviando vostri articoli, oppure, contattare gli autori, scrivete a: [email protected] Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Impaginazione Paolo Borghi, Fabio Vicini Tiratura: 500 copie Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del domino di alcune immagini utilizzate in questa rivista. Gli autori sono invitati a contattarci. *Immagine in copertina tratta da www.corriere.it (profughi cubani). *Le immagini a lato e sotto a questo box sono di Anna Sambo (Benin 2004) Visitate il sito www.studentibicocca.it/achab In questo numero... 2 Achab, tra alterità radicale e molteplicità di prospettive di Michele Parodi 3 L'identità Mizrahi nella società israeliana. Riflessioni sulle categorie di nazione, etnia e classe di Rossana Di Silvio 12 Una ricerca etnomusicologica nell'ambito delle cure 'alternative': tre pratiche musicali di guarigione di Patrizia Santoro 21 Dialogo sulla guerra Siamo in guerra di Pietro Clemente Spade e crisantemi. Antropologi in tempo di Guerra di Valerio Fusi 31 Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessività di Paolo Benini e Gabriella Erba 42 Quale fine per la ricerca etnografica? Alcune osservazioni suscitate dalla lettura di "Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessività" di Michele Parodi 44 Relazione da Bomalang`ombe, regione di Iringa, Tanzania. di Edoardo Occa 47 Libri e poesie a cura di Antonio De Lauri Gruppo di antichi cavalieri, cimitero nella valle di Bashgal, Kafiristan. Musée Guimet, Paris. 1 Achab, tra alterità radicale e molteplicità di prospettive di Michele Parodi Nella figura di Achab convergono due immagini, il re empio di Israele raccontato dalla Bibbia e il capitano di baleniere del romanzo di Melville. dalla empia Gezabele, figlia del re dei Sidoni, fece si che gli dei fenici diventassero dei nazionali in Israele. Andò a servire a Baal e ad adorarlo. Eresse un tempio ai Baal in Samaria (Terzo libro dei Re, 16, 29). Baal, un nome divino, teonimo polivalente dietro cui si celano molteplici manifestazioni. Così in Acab paradossalmente confluiscono il singolare, il Dio unico di Israele, e il plurale, il multiforme Baal. E ancora una volta questo rapporto impossibile può essere pensato come metafora del rapporto dell'antropologia con i suoi oggetti, oggetti di cui descrive la forma unica, scientifica, al medesimo tempo negandone però l'assolutezza. Giudizi inevitabilmente compromessi da un particolare punto di vista. Ad ogni descrizione l'antropologia accosta segretamente il compagno nascosto, l'altro volto senza espressione e senza occhi. Molteplicità indefinita irriducibile ad un unico sguardo, forza ribelle e destabilizzante attraverso cui aprirsi al mondo. Alla fine su Acab-Baal trionferà la potenza del Dio unico. Il profeta Elia dirà: "Prendete i profeti di Baal: non ne scampi nemmeno uno… Elia li fece scendere al torrente Cison, ove li uccise tutti" (Terzo libro dei Re, 18, 40). Anche Acab sarà ucciso, ucciso in battaglia travestito per non farsi riconoscere. Come profetizzato i cani leccheranno il suo sangue (Terzo libro dei Re, 22, 38). In Moby Dick Achab è il capitano del Pequod all'inseguimento della balena bianca: Moby Dick, l'essere misterioso, irraggiungibile e inafferrabile che affiora all'orizzonte con uno sbuffo per poi immergersi nuovamente negli abissi marini inaccessibili all'uomo, in acque che sembrano infinite, che tutto ricoprono e celano. La balena bianca è il prendere forma del sacro, il trascendente che affiora mostrando per un istante la sua ambiguità incomprensibile. Ma Moby Dick ha strappato una gamba ad Achab ed egli non si rassegna a quella perdita senza spiegazione. Esige una risposta o una vendetta. Ricerca sacrilega impossibile, senza fine, destinata alla sconfitta. La ricerca di Achab è pensabile come metafora dell'antropologia, alla perenne ricerca di un'alterità che sempre gli sfugge e che sempre gli deve sfuggire. Antropologia empia poiché non rassegnata ad un rapporto negativo con la natura e l'uomo, ma impegnata a svelarne la fecondità creatrice. Contro l'intangibilità delle cose proclamata dal religioso e dalla cultura, dall'ideologia, l'antropologia afferma il suo sguardo kinico e sovversivo. L'antropologia come critica, come operazione decostruttiva delle sicurezze tranquillizzanti con cui l'alterità può essere consumata in differenza. L'antropologia quindi sempre contro se stessa, ironicamente impegnata in descrizioni seguite al tempo stesso dalle prove della loro precaria incompletezza. Ma Moby Dick può essere irresistibile incantatrice, come le sirene di Ulisse, voce che attira. Bisogna allora tapparsi le orecchie, attraversare l'oceano rimanendo sulla soglia dell'abisso. Nel romanzo di Melville Achab è invece vinto dalla sua brama di vendetta, vuole uccidere, vuole possedere la balena. Per questo la sua lotta è destinata alla sconfitta. Uccidere Moby Dick vorrebbe dire reificare ciò che invece trascende ogni mira totalizzante. Achab preso e strangolato dal cappio della corda del suo arpione scompare trascinato negli abissi dalla balena. L'alterità radicale, al posto di suggerire un dialogo mai conclusivo, può divenire una costruzione altrettanto ideologica con cui affermare e reificare una diversità che impone una separazione insanabile. Continua... “Achab”, dipinto di Gianni Fochi http://homepage.sns.it/fochi/Quadri.html Achab, Acab, è anche il più empio re d'Israele, colui che sedotto 2 L'identità Mizrahi nella società israeliana Riflessioni sulle categorie di nazione, etnia e classe di Rossana Di Silvio nazionale in "movimento sionista attuativo" (Barnavi, 1996). Con l'Illuminismo e la Rivoluzione francese, anche l'ebreo si trova ad essere proiettato nei cambiamenti che si susseguono e che avvolgono la società in una benefica atmosfera di liberalità. In un mondo teso all'efficienza ed aperto al talento individuale, egli si fa strada in tutti i campi, dalla scienza, alla finanza, all'arte, diventa "ebreo in casa e uomo nel mondo", come vuole la haskalah, la versione ebraica dell'Illuminismo (Barnavi, 1996). Ma questo compromesso non lo ripara dai sentimenti rancorosi dei Gentili che vedono in lui, in quanto uomo nel mondo, il concorrente pericoloso ed invadente, ed in quanto ebreo dunque"diverso"- facile e credibile "capro espiatorio" di tutti i mali sociali del momento. D'altro canto, in questo mondo aperto, liberale, borghese e nazionalista l'ebreo si inserisce male perché, per quanti sforzi faccia, le sue radici sono sempre altrove, e nel suo spasmodico desiderio di fondersi con la cultura circostante, assomiglia sempre più a quel patetico personaggio kafkiano che diventa più indigeno degli stessi indigeni, e proprio per questo viene rifiutato. Ancora nella seconda metà del XIX sec., gli ebrei che vivono in Occidente continuano a sostenere con convinzione un processo di emancipazione che sfoci naturalmente nella assimilazione alla cultura secolare, trasformandoli in israeliti, ovvero cittadini di pari grado dei loro compatrioti gentili, con diversa appartenenza di culto (Barnavi, 1996). Un principio che per definizione esclude l'emancipazione degli ebrei in qualità di nazione. Diversa è la situazione degli ebrei dell'Europa Centro-Orientale, i quali, proletarizzati e ghettizzati, hanno poche speranze di assimilazione e le cui tradizioni ed istituzioni religiose comunitarie hanno mantenuto tutta la loro energia unificatrice. La lotta di questa comunità si orienta al riconoscimento in quanto nazione ebraica, identificabile anche attraverso una propria lingua, lo yiddish, una nazione pensata in quel medesimo luogo geografico, di cui rivendicano l'appartenenza al pari degli altri popoli coabitanti. Il Bund socialista diventa lo strumento di lotta, espressione dell'autonomismo politico e culturale della comunità ebraica centro-orientale, partito operaio antisionista, che vede la luce nell'ultimo decennio dell'ottocento. Ma l'esperienza del Bund, oltre a suscitare l'ostilità degli altri partiti operai per la sua specificità culturale, non sarà in grado di proteggere i propri membri dalle vessazioni non solo di classe, ma anche antisemitiche del proletariato gentile, e andrà a confluire nel movimento sionista politico, connotandolo in senso ideologico e socialista, caratteristiche che gli saranno proprie da quel momento e che andranno a condizionare fortemente la fisionomia dello Yishuv prima e dello Stato poi (Barnavi,1996). Questo lavoro intende proporre alcuni elementi di riflessione per la comprensione del fenomeno di etnicizzazione della società israeliana prendendo come riferimento paradigmatico la condizione degli ebrei Mizrahim, sefarditi od "orientali", che dir si voglia. Il materiale utilizzato proviene da diversi campi, storico, etnografico, geo-politico e urbanistico, prospettando un'interazione multidisciplinare che informa molto bene della complessità dell'argomento (Goldberg e Salomon, 2002). Verrà tratteggiato il contesto storico in cui ha preso idea e forma la costruzione della nazione israeliana, sottolineando l'aspetto di contaminazione con la cultura europea dominante e con le sue categorie portanti, verranno analizzate la trasposizione e la riformulazione di tali idee nell'ambito del nascente contesto socio-politico israeliano e si concluderà con uno specifico approfondimento sulla condizione identitaria degli ebrei Mizrahi, sul loro strutturarsi in etno-classe e su alcune forme di resistenza adottate contro la perifericità socio-culturale di cui sono stati fatti oggetto. Il contesto storico Il 14 maggio 1948 Ben Gurion legge la Dichiarazione d'Indipendenza di Eretz Israel, un sogno plasmato nel corso dell'ultimo secolo ad opera di un movimento, quello sionista, che affonda le sue radici nelle ideologie dell'ottocento europeo, habitus sociale e culturale dei primi sostenitori provenienti dall'Europa Centrale e Orientale. Così nazionalismo, laicità e più tardi socialismo operaio, costituiranno le idee portanti di ciò che diventerà un apparato statale ancor prima di avere una definizione territoriale. Tuttavia, queste idee di nazionalismo saranno fin da subito scarsamente condivise dall'intera collettività ebraica perché mal si accordavano con un'altra idea di nazione, strettamente interrelata con la religione, le cui radici spirituali, pratiche e rituali, hanno permesso al popolo ebraico di conservare la sua peculiarità di nazione, la sua specificità, lungo i duemila anni dell'ultima diaspora. E non solo gli ortodossi europei, gli haredim, sono contrari al sogno secolare sionista, anche lo Yishuv, l'antica e scarna comunità ebraica sopravvissuta nei secoli in terra di Palestina, gli è apertamente avverso per i medesimi motivi. Secondo queste realtà centrate sull'ebraicità spirituale e sul "Mito dell'Attesa", i sionisti, in gran parte atei e secolarizzati, con il loro terreno desiderio di emancipazione sfidano apertamente la volontà di Dio, mostrando un atteggiamento empio. Fu il nascente antisemitismo europeo (termine coniato nel 1874) e, con il tempo, il suo terrificante ingrossarsi, a costituire lo strumento di maggiore forza nella traduzione del vecchio movimento religioso- 3 Alla fine dell'ottocento molti ebrei sono costretti a migrare verso nazioni più tolleranti, gli Stati Uniti in modo particolare, ed in Europa cominciano a circolare idee più corpose sulla autoemancipazione del popolo ebraico. A farsi portavoce di questa prospettiva sarà innanzitutto un medico di Odessa, Lev Pinsker, il quale, diagnosticando l'antisemitismo come una "perversione patologica dell'animo umano" e per ciò stesso, "incurabile", propone come rimedio l'"occupazione di un focolare nazionale[….]un pezzo di terra di cui avere proprietà e dal quale nessuno straniero ci possa scacciare"(Barnavi, 1996). Non saranno però gli ebrei occidentali, troppo impegnati nel processo di assimilazione, a raccogliere il messaggio auto-emancipatorio del medico di Odessa. Saranno piuttosto le comunità "orientali" a dare concreto vigore all'azione sionista. La comunità orientale, non solo russa ma anche polacca e rumena, affiderà a Pinsker la leadership del movimento il cui scopo è la creazione di Eretz Israel, innanzitutto mediante la raccolta di fondi per acquistare terre in Palestina, e poi attraverso la migrazione in Terra Santa che, iniziata numerosa già nel 1882, proseguirà in una successiva ondata ai primi del novecento. Il successo e l'entusiasmo dell'operazione non fornisce, tuttavia, quello slancio comunitario generale che ci si sarebbe aspettato. Il movimento sionista europeo ristagna, frammentato in centinaia di società e con notevoli frizioni interne. L'elemento che trasmette una nuova accelerazione sarà ancora una volta l'antisemitismo crescente, ed in particolare il caso Dreyfus in Francia, nonché dell'elezione di un sindaco antisemita a Vienna. Ma ancor più varrà il pensiero e l'opera di Theodor Herzl, che intravede in questi segnali l'anomalia storica rappresentata dagli ebrei, popolo dotato pienamente di cultura propria ma nella particolare condizione, per l'appunto storicamente anomala, di essere privo di una collocazione geografica e di una identità statuale. Con "Lo Stato degli ebrei: soluzione moderna per un problema antico" del 1896, testo fondante del sionismo politico, Herzl trasformerà in poco tempo un movimento ormai amorfo in una macchina potente ed efficace. Nel 1897, a Basilea, il primo Congresso Sionista definisce chiaramente lo scopo del movimento: la creazione di un focolare per il popolo ebraico in Palestina, che fosse garantito dal diritto pubblico. Il movimento sionista entra realmente in azione: viene creata un'Organizzazione Sionista Mondiale, una banca, una struttura di divulgazione a mezzo stampa in più lingue. Lo Stato, che si prefigura come prodotto della lunga memoria del popolo ebraico, sarà al tempo stesso una rottura e una continuazione della tradizione (Barnavi, 1996): rottura nel pensiero di uno stato moderno e laico, in stretta sintonia con il modello culturale assimilato dall'ebraismo occidentale, e continuità nell'entusiasmo messianico di cui sono portatori quei proletari dell'est che s'impossesseranno concretamente di quello Stato. L'essenza del nascente Stato israeliano sarà, negli anni a venire, proprio in questa sua doppia origine, rivelandone ogni volta le incoerenze, i tentennamenti, le frammentazioni, l'elevata complessità, le numerose anime che ancora nel presente esprimono tutta la fatica della fusione, mai del tutto raggiunta, in una unica realtà sociale (Giorgio, 2000). Il contesto socio-politico Si può affermare che il sionismo rappresenta la versione moderna di un'antica ossessione ebraica: la ricerca di "normalità" (Barnavi, 1996). Un sentimento che tuttavia ha sempre espresso una sua intrinseca ambiguità, la normalità cercata non ha mai avuto il significato di "essere uguale agli altri", anzi l'ebraicità, ancorché svuotata delle sue implicazioni religiose, non ha mai smesso di essere preservata. Lo Stato così costruito sull'ideologia sionista, di stampo fortemente socialista, doveva avere carattere di democrazia occidentale e al tempo stesso essere Stato "ebraico", uno Stato conforme agli ideali profetici, debitamente laicizzato e aggiornato alle tendenze nazionalistiche dell'epoca. Una condizione per certi versi non difforme da quella delle giovani nazioni di recente emancipazione dal dominio coloniale: come queste il nascente Stato israeliano prendeva a prestito da realtà esterne, quella occidentale in primo luogo, modelli e forme di vita sociale e politica che non gli appartenevano storicamente (Anderson, 1996 -Hobsbawm e Ranger, 2002), ma, differentemente da questi, gli ebrei avevano una lunga esperienza diretta di forme riccamente elaborate di vita comunitaria all'interno dei diversi paesi che per tanti secoli li avevano accolti, ospitati, integrati. L'imperativo divenne "ricollegare l'ebreo alla terra", ristabilire concretamente questo vincolo che, assolutamente scontato per quelle nazioni europee dispensatrici di ideologie nazionaliste, egli aveva perduto nell'esilio prolungato (Barnavi, 1996). Era necessario far rivivere una lingua nazionale, ormai sepolta nel tempo, inventare una tradizione nazionalistica, un apparato statuale, un esercito, festività ed eroi nazionali, un corpus cerimoniale, attraverso i quali rivestire l'ebreo di un abito di nuova foggia, nazional-moderna, rimaneggiando la storia, ma soprattutto il mito, in modo particolare quello relativo all'indissolubile omogeneità del popolo ebraico (Yiftachel, 1999). Tuttavia, già nello Yishuv pre-statale, emergono numerosi contrasti, legati principalmente alla difficoltà della co-presenza di laici e religiosi, di cui il più importante e duraturo sarà quello tra Mizrahi o sefarditi (la comunità di rito spagnolo proveniente dall'area musulmana) e Ashkenazi (comunità di rito tedesco proveniente dall'Europa centro-orientale). Il neo Stato d'Israele erediterà, e in esso perdureranno, tutti i tratti dell'ambivalenza insita nella coesistenza di questi due presupposti identitari, laico e religioso, di provenienza orientale e occidentale, che si esprimeranno nell'estrema frammentazione partitica e nella marcata polarizzazione ideologica del Paese, nonché nella spaccatura a livello giudiziario tra tribunali civili, fondati sul diritto occidentale, e tribunali rabbinici, fondati sulla Torah, cui sono tutt'oggi demandate le competenze in materia di statuto personale dei cittadini di culto giudaico, siano essi credenti o agnostici (Guolo, 1997 - Vidal e Algazy, 2003). Così il significato simbolico di questi elementi della tradizione religiosa reintroducono quel substrato che si voleva espulso dalla nuova esegesi nazionale: una immagine spirituale della nazione ottenuta attraverso la forzatura biblica in senso attivistico, ma anche tesa a 4 ridefinire l'autorità in campo religioso e a porsi come fonte di in cui poter consumare il mito della unicità del popolo ebraico, legittimazione dei nuovi significati di antichi simboli. non è riuscito nella realtà a strutturare nessuna forma di "meltingAll'interno del quadro politico e di governo del Paese tale pot" (Galili, 2004). Anzi, più premeva la spinta migratoria, più situazione ha comportato nel tempo una tendenza generale al s'incrinava l'unitarietà della cultura politica nazionale fondativa, raggruppamento delle forze in tre macro espressioni, già di matrice sionista-laburista, basata sul binomio identità ampiamente visibili negli anni '20: la sinistra dell'area sionista nazionale-laicità, dando sempre più spazio alle fratture culturali o socialista, la destra dell'area "revisionista" sionista e il Partito neoetniche e ad ulteriore frammentazione sociale (Vidal e Algazy, Nazionale Religioso, con un'ampia componente Mizrahi. 1999). In linea generale, dunque, il governo dello Stato israeliano ha comportato un continuo e assai precario equilibrio dello status L’ etnicizzazione della società quo tra l'anima laica e religiosa del costrutto identitario nazionale, Gli studi sui nazionalismi hanno esplorato raramente le creando in definitiva un sistema fondato sulla neutralizzazione del stratificazioni sociali intra-nazionali che sono correlate al conflitto religioso attraverso una concezione del "politico" che, processo di costruzione della nazione (Yiftachel,1997). Nel caso anziché secolarizzare i concetti teologici, riteologizza concetti di Israele, dove i paradigmi dell'occupazione e del possesso della secolarizzati (Barnavi, 1996 - Guolo, 1997). Inoltre, le tensioni terra, tipici del discorso sionista, sono fondanti la costruzione culturali derivanti dalla difficoltà di scindere identità religiosa e della nazione, lo studio delle "frontiere interne", frutto della nazionale, hanno reso impervia la colonizzazione del territorio, può strada della piena laicità dello spiegare la creazione e la Stato, anche in ragione di una riproduzione della disparità tra gli continua emergenza bellica che ha ebrei Ashkenazi e Mizrahi imposto una ricerca ad oltranza di (Yiftachel,1998). Dopo un certo grado di coesione l'indipendenza, Israele entra in una nazionale (Giorgio, 2000). Le fase di radicale ristrutturazione del continue crisi, comunque, non territorio, con una intensificazione sono mai approdate, di fatto, a vere delle tattiche e delle strategie nella e proprie rotture; anzi, costruzione culturale etnocentrica l'opposizione religiosa, anche nel dello Yeshuv pre-statale, favorito lungo governo delle sinistre, è dalla acquisizione di un apparato riuscita ad inserirsi con profitto statale, di un esercito e della nelle intercapedini delle divisioni legittimazione internazionale. La interne ai grandi partiti ristrutturazione del territorio (Guolo,1997), e l'atteggiamento di ruotava attorno al principio compliance mostrato dai governi di fondamentale della giudaizzazione maggioranza nei confronti delle del territorio attraverso un capillare opposizioni religiose ortodosse è programma di diffusione della Le dodici tribù d’Israele spiegabile solo se inquadrato popolazione ebraica, fondato sul nell'azione di un patto di sistema insito nelle presupposto dell'appartenenza della terra al modalità di costruzione dell'ordinamento statale (Barnavi, 1996). popolo ebraico. Il nascente stato israeliano sviluppò una forma L'esempio più rilevante di applicazione della politica dello status esclusiva di etnonazionalismo, di cui le frontiere divennero quo è la rinuncia del nuovo Stato a darsi una costituzione, che l'icona portante: la colonizzazione fu considerata una delle viene in qualche modo "sostituita" dalle undici Leggi massime acquisizioni di ogni sionista, e i kibbutzim di frontiera Fondamentali, di cui la più importante, per misurare i rapporti tra fornirono il modello per la riconquista della "Terra di laici e religiosi, è la "Legge del Ritorno", che permette di definire Redenzione" (Yiftachel, 1999 - Massey e Jess, 2001). Prima del chi è ebreo e le modalità di acquisizione della cittadinanza 1948, solo il 7-8% della Palestina era in mano agli ebrei, ma israeliana. Anche in questo caso, i forti contrasti derivanti da una durante la prima ondata migratoria, tra il '49 e il '52, furono doppia definizione, quella etnico- religiosa (appartenenza per insediati circa 240 villaggi comunitari (kibbutzim e moshavim, la ascendenza o per conversione) e quella nazionale (appartenenza versione sionista-religiosa della comunità agricola) per cittadinanza), sono stati risolti attraverso compromessi, sulla prevalentemente lungo la Linea Verde (Barnavi, 1996 - Yiftachel, base dei rapporti di forza degli attori in campo, obbligando la 1999). politica ad adottare un modello di tipo consociativo, retta sul Nel corso della seconda ondata, tra i primi anni '50 e la metà degli meccanismo dell'"integrazione per divisione" o, più anni '60, sorsero 27 città di sviluppo e ulteriori 56 villaggi, semplicemente sul meccanismo separazione/compensazione popolati principalmente da migranti Mizrahi, ebrei nord-africani (Barnavi, 1996 - Guolo, 1997). Lo stato ebraico, dunque, inteso in prevalenza, ma anche medio-orientali e caucasici. Nello stesso nel senso classico sionista di luogo d'accoglienza per tutti gli ebrei periodo numerosi gruppi di Mizrahim furono allocati in quartieri 5 urbani di "frontiera", nelle adiacenze dei quartieri o delle aree palestinesi. Nel corso della terza ondata migratoria, circa venti anni dopo, sorsero più di 150 piccole "città di sviluppo", situate proprio nel cuore di entrambi i lati della Linea Verde. Questi ulteriori insediamenti furono presentati all'opinione pubblica come un rinnovato sforzo di giudaizzare le frontiere ostili di Israele, usando la tipica retorica della "sicurezza nazionale" (Yiftachel, 1998). Dato il basso livello delle risorse socio-economiche di molti Mizrahim, minore istruzione e basse competenze professionali, nonchè della loro provenienza maggioritaria dalla cultura araba e la mancanza di legami con le elites israeliane, le "città di sviluppo" e i "quartieri di frontiera" divennero velocemente, e così sono rimasti, specifiche concentrazioni di popolazione Mizrahi povera, segregata e deprivata (Eickelman, 1993 Yiftachel, 1998). La politica nei confronti degli ebrei "orientali" può considerarsi un ottimo esempio di applicazione di quel meccanismo di separazione/compensazione su cui, si diceva, si fonda la dinamica dello status quo in campo sociale. Dagli studi del Centro ADVA relativi al decennio 1990-2001, emerge la profonda disparità salariale tra ebrei di origini occidentali ed ebrei "orientali" o asiatici; ugualmente l'istruzione risulta nettamente a favore dei giovani appartenenti al gruppo ashkenazi ed il dato è direttamente correlato con lo status socioeconomico (ADVA Center, 2003). Le profonde disuguaglianze tra i diversi segmenti della popolazione, già ampiamente evidenti a partire dagli anni settanta, sono state ulteriormente aggravate dal recente passaggio, da parte dello Stato, da un sistema economico fondato sulla ridistribuzione del reddito nazionale ad un'economia di tipo liberista e globalizzata. Nel 2000, circa un terzo degli abitanti e dei lavoratori dei kibbutz vivevano sotto la soglia di povertà e in generale si evidenziava un peggioramento generale delle condizioni di vita di una parte consistente della società israeliana, in particolare a carico degli ebrei sefarditi, cui solo il movimento-partito Sha'as faceva fronte assicurando un sistema di assistenza sociale alternativo (Giorgio, 2000). Come agli esordi, il carattere del nazionalismo in Israele è ashkenazi, costruito attraverso un discorso frutto della contaminazione occidentale; la stessa percezione del ruolo dello stato è ashkenazi, e gli ebrei occidentali hanno raccolto più degli altri gruppi etnici i vantaggi offerti dall'aver "occupato un focolare per il popolo ebraico". L'autorizzazione all'imponente ondata migratoria degli anni novanta di quasi un milione di ebrei russi, ritenuti di cultura occidentale, va inquadrata nell'obiettivo di restituire agli Ashkenazi quel ruolo maggioritario perduto in seguito all'avanzamento sulla scena politica dei Sefarditi e di arginare di conseguenza la crescente domanda di differenziazione e riconoscimento identitari del gruppo "orientale", divenuta nell'ultimo ventennio sempre più forte (Vidal e Algazy, 1999).Questa nuova immigrazione però ha ulteriormente destabilizzato i già fragili equilibri preesistenti, non solo perché i russi, a differenza degli orientali a suo tempo, sono stati accolti con grande generosità dallo Stato (prestiti considerevoli a fondo perduto, facilitazioni immobiliari, priorità nelle assunzioni, ecc.), ma anche, e forse soprattutto, perché le motivazioni sottostanti non sono di certo rappresentate da convinzioni sioniste, quanto dalla ricerca di condizioni di vita ed economiche migliori (Giorgio, 2000). I russi, inoltre, sono fieri della loro identità europea, del loro modo di vivere, che ostentano e tentano di imporre, e della loro capacità di auto-organizzarsi, anche dal punto di vista della rappresentanza politica (Galili, 2000). Dal canto loro gli "orientali" Mizrahi, che spesso si sono trovati a dover condividere lo stesso spazio geografico e sociale con i nuovi arrivati, hanno risposto con un irrigidimento di quelle posizioni sioniste, marcatamente di tipo nazionalistico-religioso, mostrando, tra l'altro, di aver interiorizzato l'immagine sprezzante e quasi razzista che gli Ashkenazi avevano di loro (Vidal e Algazy, 1999). Tuttavia, i fenomeni di intolleranza etnica che hanno percorso Israele negli ultimi decenni hanno radici lontane, in quella stessa figura di "ebreo nuovo" che il sionismo sognava: un ebreo-israeliano monolitico a fondamento di una società unitaria che aveva condotto, soprattutto negli anni '50 e '60, ad una omogeneizzazione brutale il cui costo attuale comporta che ogni gruppo rivendichi non solo una sua identità e collocazione, ma l'egemonia, e che l'attuale sistema elettorale ha in qualche modo legittimizzato attraverso l'etnicizzazione della politica (Giorgio, 2000). Le elites ashkenazim si sono sempre più legate ai settori avanzati dell'economia mondiale, lasciando indietro larghi strati di popolazione ebraica, in prevalenza Mizrahim, mentre i russi appaiono in questo gioco ancora una incognita. Non sono pochi gli studiosi israeliani di scienze sociali, e non solo, a sostenere che per Israele il carattere democratico del Paese è unicamente una costruzione percettiva, cui hanno contribuito, e contribuiscono, a vario titolo, oltre agli apparati governativi dominanti, i media, le accademie e la retorica politica (Yiftachel, 1999 - Warschwski, 2004). Infatti, se per democrazia s'intende la presenza di elementi strutturali fondanti, come confini chiari entro cui sviluppare aspetti diversificati della società civile, una costituzione, uguaglianza di diritti politici ecc., Israele non può dirsi una democrazia. Al massimo si può parlare di aspetti democratici che vanno a costruire, per l'appunto, un'immagine percettiva, interna ed esterna, intra-nazionale ed internazionale. In realtà, così come sostiene Oren Yiftachel, ad un' indagine più approfondita emerge il carattere prevalentemente "etnocratico" di Israele: un regime dove l'appartenenza etnica e non di cittadinanza è la logica principale della distribuzione delle risorse; dove i confini dello stato e le specificità politiche sono sfuocati e dovuti principalmente al ruolo delle diaspore etniche e alla posizione subalterna delle minoranze; dove un gruppo etnico divenuto dominante si è appropriato dell'apparato statuale e determina la gran parte delle politiche pubbliche (Yiftachel, 1999). Il carattere costitutivo di questa etnocrazia è quello della colonizzazione etnica, ma la fusione dei principi etnocentrici con le dinamiche della colonizzazione ha creato modelli di stratificazione sociale e di frammentazione etnica all'interno della stessa società. Infatti, la ragione fondante della etnocrazia ebraica, 6 ovvero l'esclusione spaziale dei palestinesi, ha subito una sorta di diffusione intra-sociale ed ha legittimato i modelli di etnicizzazione interna vistosamente visibili nella segregazione spaziale e nella tensione tra ebrei Ashkenazim e Mizrahim. Come i palestinesi, anche i Mizrahim hanno subito una marginalizzazione spaziale all'interno del progetto di colonizzazione israeliano, per la quale sono stati confinati nelle periferie più isolate del territorio o nei quartieri più poveri delle principali città israeliane, limitando fortemente il loro potenziale di mobilitazione economica, sociale e culturale. Inoltre il medesimo modello segregativo è stato utilizzato sia nei confronti dei gruppi Haredim (gli ebrei ultraortodossi) che dei russi di recente immigrazione. In altre parole, la logica segregazionista del regime etnocratico è stata infusa nelle pratiche spaziali e culturali che hanno lavorato per "etnicizzare" Israele (Yiftachel, 1999). Questo processo ha comportato una serie crescente di ripercussioni sui livelli di eguaglianza dei diritti legali e politici, sul pluralismo culturale, sui livelli di tolleranza nei confronti degli "altri" e, soprattutto, su genuine aperture politiche che superassero lo stile ideologico di vita delle comunità (Warschawski, 2004). Al contrario, la tendenza etnicistica è stata così potente da incrementare in modo smisurato l'affiliazione politica di matrice etnico-classista-religiosa, come è risultato evidente nelle elezioni del '96, dove questi tipi di formazioni politiche hanno surclassato i due partiti storici principali, i Laburisti e il Likud, tradizionalmente più eterogenei dal punto di vista etnico (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Il prezzo più alto di questa operazione è stato ovviamente pagato dai palestinesi, seguiti a poca distanza dai Mizrahim insediati nelle città di frontiera, nei villaggi agricoli periferici e nei quartieri poveri delle città. Sembra esistere un chiaro legame tra la de-arabizzazione del territorio e la marginalizzazione dei Mizrahim. Essi sono stati posizionati, geograficamente e culturalmente, tra gli arabi e gli ebrei, tra Israele e i suoi vicini ostili, tra un passato orientale sottosviluppato e un futuro occidentale di progresso (Yiftachel, 1997). Ma la profondità e l'estensione della discriminazione tra palestinesi ed ebrei "orientali" è decisamente diversa, in quanto i Mizrahim, ricompresi loro stessi nel progetto sionista, hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo attivo nella oppressione dei palestinesi e nella giudaizzazione dei territori contesi e colonizzati. E' possibile dunque individuare uno stretto legame tra la costruzione della nazione e le relazioni spaziali di gruppo all'interno della nazione, tra impatto della colonizzazione delle frontiere e divisione socio-politica dello spazio. Spesso gli studi sul nazionalismo israeliano e le sue implicazioni spaziali si sono mossi a partire dalla dicotomia oppositiva riguardo i confini arabo-israeliani, scotomizzando l'evoluzione dei rapporti e dei conflitti interni alla stessa società israeliana e l'impatto dello spazio e della sua costruzione sociale sulla evoluzione delle relazioni tra Ashkenazi e Mizrahi. Al contrario, la individuazione/divisione dello spazio "stato-nazione" non è un processo naturale, ma un progetto attraverso cui si costruisce una realtà spaziale immutabile e la si radica nelle culture territoriali mediante un rimaneggiamento degli elementi storici, diventando in definitiva un modo efficace per legittimare la dominazione sociale e politica di particolari gruppi (Hobsbawm e Ranger, 2002). Il lato oscuro e spesso poco discusso di questo progetto, è l'oppressione delle minoranze socialmente periferiche, che si manifesta attraverso svariati meccanismi, tutti finalizzati alla riproduzione dell'egemonia della maggioranza in nome della storia, del territorio e delle istituzioni dello stato (Massey e Jess, 2001). Interiorizzando una estrema e massificata sintesi della prospettiva orientalista per cui le culture non-europee sono inferiori, le elite dominanti utilizzano la medesima logica di divisione/individuazione dello spazio per marginalizzare e controllare socialmente i gruppi periferici in nome del cosiddetto "interesse" della costruzione della nazione, fornendo in tal modo una sorta di "licenza" sociale per la selezione dell'assetto culturale e territoriale delle minoranze e creando, attraverso il mito dell'unità nazionale, oppressione e disuguaglianza. In questo quadro un caso particolare è rappresentato dalle società colonizzanti, le quali secondo alcuni modelli teorici combinano tre principali raggruppamenti sociali, spesso in relazione gerarchica tra loro sia per quanto riguarda il potere che il prestigio: un gruppo di potere costitutivo, il gruppo dei successivi immigrati che vengono incorporati nel gruppo dominante ma con status inferiore, e un debole gruppo indigeno, spesso escluso dalla "nazione" (Massey e Jess, 2001). Una specifica strategia di politica pubblica sancisce e definisce le profonde divisioni tra i tre gruppi ed esercita pratiche pervasive di controllo sociale nel percorso di costruzione della nazione: una di queste è la colonizzazione delle regioni di frontiera e la divisione sociale dello spazio nazionale, come nel caso di Israele (Yiftachel, 1998). Le regioni di frontiera, dislocate ai margini geografici, politici e culturali della società principale, giocano un ruolo centrale nella costruzione delle identità nazionali e statuali. Esse sono zone fisicamente e metaforicamente "indistinte", al margine del controllo collettivo, ma che delineano la direzione dell'espansione e della crescita, forniscono le basi per simboli, leggende e miti usati nella costruzione dell'identità nazionale: sono il luogo dove la collettività affina la sua identità nell'interazione con gli "altri"(Yiftachel, 1999). La promozione e la costruzione sociale delle regioni di frontiera hanno rappresentato un pilastro centrale del progetto di costruzione dell'identità in molte società di colonizzazione, ed in alcune società post-coloniali i governi hanno deliberatamente re-insediato piccoli nuclei di gruppi etnici maggioritari in alcune aree di frontiera interne, con lo scopo di rinsaldare il controllo dello stato. Le frontiere interne spesso sono presenti in quelle regioni con un'alta concentrazione di minoranze etniche, dove il gruppo dominante usa immagini ed ethos positivi dello sviluppo per espandere l'influenza dell'apparato statale e riprodurre il proprio potere. Tale operazione comporta in particolare il controllo della pianificazione urbana e regionale, attraverso cui le elite dirigono la collocazione e gli insediamenti in particolari aree, guidano lo 7 sviluppo, regolano l'uso del territorio ed impongono confini municipali e burocratici (Tzfadia e Yiftachel, 2003). La divisione sociale dello spazio è dunque fondamentale nella comprensione delle relazioni tra gruppi, dal momento che essa riproduce ineguaglianze sociali ed identitarie, come l'accesso ai servizi o il prezzo della terra, con l'obiettivo di rinforzare e riprodurre una determinata distribuzione delle risorse e delle opportunità (Yiftachel, 1998). Come ci ricorda Edward Said, i processi di insediamento e colonizzazione raramente sono neutrali, piuttosto riflettono la subordinazione e la colonizzazione dello spazio, il quale, in quanto produzione sociale, ristruttura costantemente le percezioni sociali, in un continuo rimaneggiamento della memoria collettiva di gruppo (Massey e Jess, 2001- Said, 1999). Fra le altre peculiarità del colonialismo israeliano bisogna notare che esso si è configurato più dal punto di vista territoriale che economico (Yiftachel, 1999), ma soprattutto che, a differenza di altre società coloniche dove il nazionalismo è stato uno sviluppo di seconda data (Stati Uniti, Australia, Canada, ecc.), Israele è stato portatore sin dall'inizio di uno specifico etno-colonialismo, di matrice europea, assodato come modello a-priori del progetto di costruzione della nazione. Lo stato israeliano si è configurato sulla base di tre gruppi sociali: un nucleo costitutivo di coloni, in prevalenza Ashkenazi, un gruppo indigeno costituito dai Palestinesi, e un gruppo di immigrati post-indipendenza, in prevalenza Mizrahi. Alla fine del '96 la composizione di Israele contava il 34% della popolazione Ashkenazi, il 37% Mizrahi, il 16% arabi e il rimanente 14% di russi recentemente immigrati, con un gruppo costitutivo dominante per il quale il controllo etnico, sia sugli arabi che sulle minoranze ebraiche, era motivato dalla paura di una "orientalizzazione" del Paese e della conseguente erosione della dominazione Ashkenazi (Vidal e Algazy, 1999). La linea più comunemente adottata è stata quella di diffondere una serie di immagini negative sui Mizrahi e sulla loro cultura sin dagli anni '50, quando lo stesso Ben Gurion si riprometteva, a nome dello Stato, di assorbire queste popolazioni e di imprimere loro i valori della Nazione ebraica (Barnavi, 1996). In parallelo la politica pubblica si è orientata verso strategie specifiche di controllo sociale che mantenessero e rinforzassero il ruolo dominante Ashkenazi, come ad esempio la rapida de-arabizzazione degli ebrei orientali, la stigmatizzazione della cultura e della lingua araba e una generale regolamentazione di carattere restrittivo di tutti i cittadini israeliani di origine araba. In questo quadro, la diffusione territoriale attraverso gli insediamenti colonici ha giocato un ruolo di primo piano, assolvendo a due funzioni prevalenti: la ricollocazione di molti Mizrahi nella periferia del Paese e della società, lontano dal potere e dalle risorse più vantaggiose, e l'insediamento di molti di questi sulle terre e sui villaggi confiscati agli arabi; una politica che ha in tal modo orientato il conflitto tra i due principali gruppi non-Ashkenazi (Giorgio, 2000). Parallelamente gli insediamenti, soprattutto di frontiera, sono stati celebrati come l'asse portante della costruzione della nazione, esempio illuminante di sacrificio personale e strumento vitale a favore della collettività, tramite una retorica discorsiva utile sia ad unificare la causa di ebrei provenienti da diversi retroterra culturali, sia a consolidare la nuova identità nazionale. La divisione sociale dello spazio è stata resa possibile dall'attuazione di tre pratiche prevalenti: la prima consistente nella dispersione e nel "confinamento" della popolazione ebraica disagiata (Mizrahi), la seconda con l'uso di meccanismi di segregazione che hanno trasformato queste località in veri e propri ghetti, ed infine l'impiego di "procedure di screening dei residenti" tramite cui selezionare nelle aree urbane candidati appropriati da destinare agli insediamenti municipali periferici (Tzfadia e Yiftachel, 2003), con lo scopo di creare una enclave di classe media e di provenienza urbana che fungesse da supporto alle istituzioni dello stato, ai poteri legali, nonché da principale gestore delle risorse destinate allo sviluppo (Barnavi, 1996). Questi processi hanno portato ad una sempre maggiore marginalizzazione degli ebrei Mizrahi che ne ha bloccato la mobilità sociale, rinforzando ed approfondendo la loro posizione inferiorità ed ampliando il divario che li separa dal gruppo Ashkenazi. La resistenza dei Mizrahim Il movimento Mizrahi, presente in Palestina fin dai primissimi anni del '900, ha da sempre avuto una specifica connotazione religiosa, che a breve divenne nazional-religiosa andando a confluire tra le correnti di minoranza del sionismo. Nonostante l'apparente marginalità del Partito Mizrahi esso riuscì ad esercitare all'interno del sionismo un ruolo considerevole per la sua capacità di attrarre all'idea e al progetto sionista gli ebrei sefarditi, più religiosi che nazionalisti. Successivamente farà parte di tutte le coalizione di governo del Mapai (il Partito Operaio Sionista), con l'unico scopo di consolidare il carattere ebraico dello Stato di Israele, contribuendo a dare una connotazione religiosa al sionismo laico ed inscrivendolo nella continuità della tradizione, come movimento di un popolo che aspira al Ritorno e ad un'esistenza nazionale (Guolo, 1997). Così, mentre le forze politiche sioniste secolari sono impegnate nella costruzione dei confini fisici dello Stato, dei nuovi miti nazionali e della definizione dell'identità israeliana, il Mizrhai, insieme con gli altri partiti religiosi ortodossi, parteciperà attivamente alla costruzione di questa stessa identità attraverso una strategia di "progressiva ebraicizzazione" dello Stato (Guolo, 1997), che punterà a stabilire una "religione civile", come lo stesso Ben Gurion augurava, che gradualmente sostituisse il giudaismo talmudico e rabbinico con una esegesi biblica selettiva, di tipo mito-simbolico, in cui venissero valorizzati elementi, come l'eroismo biblico del popolo d'Israele, a sostegno dell'identità nazionale (Barnavi, 1996). E' solo a partire dagli anni '70 che le espressioni di resistenza da parte dei Mizrahim alla dominazione Ashkenazi diventano più sostanziali e visibili. Seguendo sinteticamente le evoluzioni temporali del movimento, prenderemo in considerazione alcuni elementi attraverso cui, a nostro parere, si è espressa e si esprime la rivendicazione identitaria della popolazione Mizrahi, che non si configura soltanto come un'espressione di mera resistenza alle politiche dominanti, ma che possiede caratteri più originali e 8 creativi. i due modelli e questa differenza è in stretta correlazione con la Come abbiamo detto, a partire dagli anni '70 il diffuso sentimento questione geografica e con il suo significato socio-politico. di dissonanza dei Mizrahi si condensa in chiare manifestazioni di Secondo questa prospettiva, se sul piano nazionale la protesta dei protesta, che a livello politico sfociano nella costituzione del Mizrahim ha dato voce alla domanda di una più equa movimento giovanile delle "Black Panthers" e nella successiva distribuzione delle risorse pubbliche, soprattutto di natura socioascesa del Likud a scapito dei Laburisti, un partito ritenuto ormai economica, ma lo ha fatto con un tono accomodante e comunque rappresentante esclusivo degli interessi delle elites Ashkenazi e ancorata al discorso politico sionista dei confini "legittimi", a della classe media (Barnavi, 1996). Tuttavia, la vera novità si livello locale viene portata avanti una sfida aperta alla classe riscontra nelle "città di sviluppo", insediamenti periferici di dominante Ashkenazi, manifestata dallo sviluppo di visioni e voci piccola e media grandezza demografica, dove nel corso degli anni alternative (come, ma non solo, l'identità ultra-ortodossa '50 vennero allocati la maggior parte degli immigrati mizrahim, sefardita) e con l'obiettivo di trasformare il sionismo dall'interno, secondo una specifica strategia di "dispersione della mettendone in dubbio i paradigmi discorsivi fondanti, primo fra popolazione", resa operativa dal cosiddetto "Piano Sharon" tutti l'essenza collettiva ebraica (Tzfadia e Yiftachel, 2003). (1948-52), attraverso cui il nascente stato israeliano si preparava I due autori evidenziano come un gruppo etnico possa fare uso di alla colonizzazione e alla ciò che considera essere la "corretta" giudaizzazione del territorio (Tzfadia e identità ed avvantaggiarsene per Yiftachel, 2003). soddisfare i propri interessi. L'identità Le mobilitazioni politiche in queste infatti si caratterizza per una natura aree collocate lontano dai centri di multistratificata, frutto delle potere nazionali, e quindi caratterizzate costruzioni identitarie cristallizzatesi dalla marginalità geografica, la nel tempo e nello spazio all'interno di persistente deprivazione e l'instabilità una specifica comunità, e ciò sembra demografica, hanno assunto negli essere particolarmente vero per quei ultimi anni tratti sempre più radicali a gruppi di migranti la cui identità è vista seguito di ulteriori fattori di pressione come segno di un basso status sociale sociale quali le recenti e massicce o, aggiungono gli autori, la cui identità ondate migratorie dalle ex-repubbliche è "intrappolata" ai margini di una sovietiche, il cui afflusso è stato in gran società coloniale (Yuval-Davis, 2000 parte direzionato verso queste città, Tzfadia e Yiftachel, 2003). L'identità nonché le ripetute crisi economiche "intrappolata" solitamente occupa dovute alla svolta neo-liberista e un'area incolore collocata fra i centri di globalizzante dell'economia israeliana potere e benessere, in cui le possibilità (Giorgio, 2000 - Ramadan, 2004). di mobilità sono estremamente scarse. Tuttavia, va sottolineato come, La principale opzione percorribile nonostante la loro marginalità socioresta infatti l'inclusione nella struttura politica, le "città di sviluppo", con una centralizzatrice nazionale, che viene popolazione attuale di circa 800.000 tuttavia pagata con una inferiorità unità (su 5 milioni circa di abitanti), strutturale all'interno della società stiano diventando sempre più una (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Questa è la componente significativa della politica strada percorsa fino ad alcuni decenni nazionale e della formazione fa dalla comunità Mizrahi, quando ha Gerusalemme identitaria. adottato l'opzione nazionale di Erez Tzfadia e Oren Yiftachel dell'Università "Ben Gurion" di bypassare il sistema politico esistente con la nascita e il costante Be'er Sheva, partendo dall'assunto che gli obiettivi etnici ed rafforzamento dei gruppi ultra-ortodossi (Sha'as) (Guolo,1997). identitari sono costantemente rimodellati dal materiale e dal Diversa è la situazione (nella dimensione) a livello locale, dove discorso politico dominante, hanno studiato le campagne di l'immediatezza e la concretezza degli interessi strettamente mobilitazione politica dei Mizrahim dislocati nelle "città di interrelata alla difesa di uno spazio percepito come "nostro" dalla sviluppo" prendendo in considerazione due arene fondamentali popolazione, possono favorire piccole ma paradigmatiche rotture entro cui essa si esprime: la protesta, diciamo così, extra- nella egemonia nazionale. Le mobilitazioni degli immigrati, siano parlamentare di respiro nazionale e le campagne per le elezioni esse nazionali o locali, hanno in comune il riconoscersi in una locali. Queste due prospettive danno conto in modo illuminante etno-classe, ovvero rinsaldano ed emotivizzano un legame tra dei modelli di cambiamento della mobilitazione stessa e delle origini etniche, condizioni materiali attuali e mobilitazione forme identitarie che tali modelli sottendono (Tzfadia e Yiftachel, politica (Massey e Jess, 2001). Ciononostante la definizione di 2003). La ricerca, infatti, informa di una sostanziale differenza tra identità immigrate ed identità locali non è mai netta perché, nel 9 tempo, i gruppi immigrati sviluppano un sentimento domestico verso il luogo in cui si sono insediati, sentimento che può diventare "illusorio" quando il pre-dominio è minacciato dall'arrivo e/o della presenza di nuovi gruppi etnici. In questo caso il "luogo" diventa lo spazio di contesa e contestazione, dando vita a mobilitazioni etniche e intensificazioni, anche violente, del conflitto identitario. Dalla ricerca effettuata da Tzfadia e Yiftachel sulle mobilitazioni dei Mizrahim riportate dai due maggiori quotidiani israeliani Ha'aretz e Ma'ariv, in particolare la protesta pubblica e la politica locale nelle città di sviluppo nel periodo compreso tra il 1960 e il 1998, si evidenzia che, se da una parte le manifestazioni di protesta mettono in luce il carattere di "intrappolamento" del gruppo all'interno del discorso di potere sionista della società coloniale israeliana, con una conseguente dimensione di collusione, dall'altra a livello locale la protesta si carica del sentimento di possesso identitario del luogo e aderenza spaziale dell'identità, ed in ragione di questa forza, essa è in grado di esprimere contrasti più aperti alle linee fondanti egemoniche, come ad esempio verso l'indiscriminata politica di immigrazione che riguarda il paradigma sionista dell'indiscussa omogeneità e solidarietà tra ebrei (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Questo diverso carattere della mobilitazione, tra il nazionale e il locale, informa della multistratificazione dell'identità dei Mizrahim periferici, come del resto di gran parte delle identità collettive, nel senso che, come argomenta Nira Yuval-Davis, per spiegare il sentimento di cittadinanza è necessario tenere presente come, all'interno della collettività, esso appaia una costruzione a più strati: locale, etnico, nazionale, statale, intra/sovra-statale e come sia influenzato, ed in fin dei conti costruito, dalle relazioni e dai posizionamenti di ogni strato in specifici contesti storici (Yuval-Davis, 2000). Così l'identità Mizrahi viene giocata su più piani, anche contraddittori tra loro, ma ugualmente espressivi delle dinamiche cui sono sottoposti i gruppi etnici deprivati: nel gioco nazionale il sentimento prevalente sembra essere quello di un'attiva e leale partecipazione al progetto sionista Ashkenazi, quasi a voler offuscare le differenze tra la periferia (le città di sviluppo) e il centro (la società dominante), anche se ciò perpetua "l'intrappolamento" del gruppo ai margini di quella società che ne ha favorito la deprivazione, ma dalla quale dipendono; mentre nel gioco locale il carattere di etno-classe si fa più preciso ed aggressivo, ed il gruppo appare in grado di costruire anche una contro-narrazione al discorso dominante della solidarietà ebraica. Tzfadia e Yiftachel concludono sottolineando come la condizione e i movimenti di resistenza dei Mizrahim periferici, la nuova e crescente identificazione con il partito/movimento Sha'as e l'incremento dell'uso delle categorie religiose ( in particolare contro i russi "atei e forse nemmeno ebrei"), siano immagini delle "fratture" che cominciano a delinearsi nel predominio della etnocrazia secolare Ashkenazi, a partire dalle sue periferie ma con una reale potenzialità di diffusione verso la dimensione nazionale (Tzfadia e Yiftache, 2003 - Galili, 2004). Conclusioni Oren Yiftachel utilizza una suggestiva ma quanto mai esplicita metafora per spiegare la contraddizione dello stato israeliano e il paradosso del discorso che ha costruito attorno alla sua contemporanea natura di stato ebraico e democratico. Esso è come la torre di Pisa: dall'interno non è possibile coglierne le distorsioni geometriche perché tutto è perfettamente in asse, ma da uno sguardo esterno si nota immediatamente la sostanziale differenza con quanto la circonda e con strutture architettoniche simili (Yiftachel, 1999). Allo stesso modo, la maggior parte degli ebrei accetta il carattere ebraico dello stato e lo giustifica quale paradigma fondante del discorso sionista che è alla base del progetto di giudaizzazione del paese e della società, anche se questo invece di favorire una reale integrazione delle diverse anime culturali israeliane, produce una frammentazione ed una segregazione delle minoranze più marginalizzate, dando luogo ad una forma statuale fondata sull'ethnos piuttosto che sul demos. Come si è cercato di evidenziare, gli ebrei Mizrahi hanno assolto ed assolvono a quella funzione tipica dei gruppi deprivati nei contesti egemonici descritti da Gramsci, dove la verità dominante viene diffusa con l'uso di narrazioni diverse sull'intera società da parte delle elite di potere al fine di prevenire il sorgere di voci alternative e di riprodurre in tal modo le relazioni di dominio sociale e politico (Gramsci, 1975). Ma è altrettanto evidente che la mobilitazione sta assumendo, seppur a partire dagli spazi periferici, una connotazione sempre più oppositiva e dirompente. Vorrei sottolineare come l'etnicizzazione della società israeliana e le sue numerose implicazioni, oltre ad essere un argomento poco trattato in lingua italiana, permetta di visualizzare le complesse dinamiche che sottendono la costituzione e costruzione identitaria dello Stato d'Israele, una realtà mediaticamente a noi così vicina eppure tanto sconosciuta. L'attuale riproporsi del discorso coloniale, dove l'immagine e il costrutto percettivo forniti dal discorso dominante hanno un valore essenziale, non riguarda solo quelle minoranze arabo/palestinesi che siamo abituati a considerare in rapporto dicotomico/antinomico con Israele, ma riguarda soprattutto gli stessi gruppi ebraici che hanno reso possibile l'esistenza spazio-culturale della nazione. La caduta dei miti fondanti nazionali sui quali si sono costruite le politiche e le istituzioni, e la lotta per egemonizzare l'israelianità aperta in tempi recenti, fanno intravedere probabili scenari di grandi trasformazioni socio-culturali, dove i Mizrahim insieme con la comunità russa giocheranno sicuramente un ruolo determinante. 10 Bibliografia ADVA Center, Information on inequality and social justice in Israel: a social report, 2003,TelAviv ANDERSON, Comunità Immaginate, 1996, Il manifesto Libri BARNAVI, Storia d'Israele. Dalla nascita dello stato all'assassinio di Rabin, 1996, Bompiani EICKELMAN, Popoli e culture del Medio Oriente,1993, Rosemberg & Sellier GALILI, The end of the melting-pot ethos, 2004, Ha'aretz 29/09 GIORGIO, Disuguaglianze ed integralismi. Israele: una crisi sociale, 2000, La Rivista del Manifesto n.10 GOLDBERG, SALOMON, From Laboratory to Field: Notes on Studying Diversity in Israeli Society, 2002, Hagar n.3(1): 159-171 GRAMSCI, Quaderni del carcere, 1975, Einaudi GUOLO, Terra e Redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele,1997, Guerini&Ass. HOBSBAWM-RANGER (a cura di), L'invenzione della tradizione, 2002, Einaudi YIFTACHEL, Nation-building or Ethnic Fragmentation? 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La crisi della società israeliana, 2004, Bollati Boringhieri 11 Una ricerca etnomusicologica nell'ambito delle cure 'alternative': tre pratiche musicali di guarigione di Patrizia Santoro Tra il 2003 e il 2004, in occasione della tesi1 , ho realizzato una ricerca etnomusicologica con l'obiettivo di studiare alcuni metodi di guarigione con musica utilizzati nell'ambito delle cure non convenzionali della medicina olistica. Ho focalizzato l'attenzione su tre performance praticate in prevalenza nell'area milanese che utilizzano la musica, la danza, il canto e stati alterati di coscienza, con finalità terapeutiche: la Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motion e l'Arpeincoro in Meditazione. Queste tre pratiche evidenziano e riassumono un fenomeno che si è molto sviluppato e diffuso negli ultimi anni e che consiste nella reinterpretazione e reintroduzione sincretica di concetti, comportamenti, aspetti rituali e simbolici, tecniche musicali e terapeutiche desunte da contesti culturali "altri". Nella mia ricerca ho tentato di comprendere l'uso e la funzione dei procedimenti tecnico-musicali e di fare emergere le connessioni con la prassi terapeutica. L'analisi degli eventi ha rivelato l'esistenza di una rete di significati che cercherò di riassumere in queste pagine. Premesse La medicina ufficiale non riconosce l'efficacia terapeutica delle cure olistiche che quindi restano relegate su un terreno di confine con l'ufficialità. Si qualificano comunque come terapie, ma il loro campo di intervento si limita ad una più generica proposta di benessere psico-somatico o spirituale. Una convinzione comune che collega tra loro le diverse discipline "alternative" è l'idea che esista una unità di corpo, psiche, emozioni e mente e il presupposto che solo l'integrità dell'essere, data dal riconoscimento e dall'accettazione di tutte le sue componenti, garantisca una buona 'salute olistica'. L'uomo contemporaneo è strutturalmente 'scisso' in quanto la mente e la razionalità predominano e controllano il piano emozionale e spirituale. I sintomi somatici sono l'espressione e la rappresentazione simbolica del malessere più profondo e sottile dell'anima. La strada per reintegrare le parti separate passa dall'esclusione del predominio della componente razionale. Nel silenzio della mente si ritrova il contatto con il proprio sé e la comunione con l'universale. Il fondamento, che può essere definito metafisico, delle cure olistiche si basa sul concetto di "energia". L'energia è una grande forza che presiede alla vita, è la vita stessa. E' presente nell'universo e nell'essere umano in una sorta di identità tra aspetto soggettivo e universale. La sua essenza rimanda all'idea di movimento e di trasformazione. In quest'ottica la malattia si verifica quando il libero fluire dell'energia è ostacolato. Un altro tratto distintivo delle cure olistiche è la convinzione che i poteri di guarigione siano frutto di concentrazione e di consapevolezza, condizioni psichiche che si raggiungono attraverso la sperimentazione di stati di coscienza fuori dall'ordinario. L'agente curativo, qualunque esso sia, non ha potere di guarigione in sé. La sua capacità è quella di risvegliare le energie di autoguarigione latenti. L'alterazione di coscienza, che può andare dallo stato contemplativo o meditativo, alla trance vera e propria, è funzionale al raggiungimento di questo obiettivo. Questi metodi di guarigione si collocano su una sottile linea di demarcazione tra aspetti terapeutici e sfera del sacro. Convivono teorie derivate da correnti della psicologia contemporanea, suggestioni religiose e spirituali, tecniche corporee orientali, medicine cinesi, miti pagani, informazioni scientifiche e tecnologie informatiche. Collaborano categorie concettuali e simboliche dalle origini diverse - sia temporali che geografiche che, estrapolate dai loro contesti tradizionali originari e riassemblate a mosaico, danno origine a nuovi universi di significato. All'interno di questo contenitore si attuano dinamiche di trasformazione e di ricontestualizzazione in cui alcune pratiche connesse alla musica, alla danza e a stati modificati di coscienza hanno trovato una nuova collocazione significante. I criteri di formazione e di fruizione delle pratiche terapeutiche rispondono ad esigenze di utilità e di esperienza. Quando una pratica terapeutica non è più ritenuta utile viene abbandonata e sostituita. L'esperienza è la prima verifica dell'utilità. Il loro denominatore comune si può individuare in una ricerca di senso che dia risposte integrative o sostitutive a quelle della medicina ufficiale, ritenute inefficaci, quindi inutili. Gli informatori e le tecniche d'indagine L'indagine preliminare si è basata sulla consultazione di riviste specializzate nel settore del benessere e delle tecniche alternative e del web, che si è rivelato essere un enorme serbatoio di informazioni riguardanti le offerte di medicina olistica presenti sul mercato ed un efficace mezzo di pubblicità e di diffusione delle stesse. Ho preso contatto con alcuni terapeuti che hanno accettato di divenire gli informatori per la ricerca. Essi sono: Tiziana Dainotto detta Anand Nirava2 per la Trance Dance, Lorenzo Pierobon per il Vocal Harmonics in Motion e Cristina Ruffino per Arpeincoro in Meditazione. La ricerca sul campo si 12 è basata sulla tecnica delle interviste strutturate agli informatori e sull'osservazione degli eventi che è avvenuta, il più delle volte, durante la partecipazione agli stessi. 'L'osservazione partecipante' di malinowskiana memoria si è dovuta trasformare in 'partecipazione osservante' a causa della struttura fortemente ritualizzata degli eventi che impedisce l'accesso a qualsiasi osservatore: se si è all'interno dello spazio riservato al rituale è per partecipare al rituale stesso, altrimenti non si è ammessi. Le interviste sono state strutturate in modo da rilevare alcuni elementi socio-anagrafici degli informatori e le dinamiche personali e familiari connesse all'esercizio delle attività terapeutico-musicali. Le domande si proponevano di chiarire gli obiettivi degli interventi terapeutico-musicali, i concetti e i comportamenti sottesi ai procedimenti tecnico-musicali, gli aspetti rituali e simbolici delle pratiche e degli strumenti utilizzati, le tradizioni di riferimento. Ho cercato di fare emergere l'orizzonte ideologico e culturale relativo ai concetti di cura e di guarigione ed i loro rapporti con la medicina ufficiale. La loro attività si svolge prevalentemente a Milano e provincia, dove abitano. Spesso, però, le sessioni terapeutico-musicali si svolgono fuori Milano, e a volte anche fuori dell'Italia. Infatti, le performance scelte per questa ricerca, non si praticano in una sede fissa e i conduttori si definiscono dei "professionisti itineranti". Quest'aspetto fa parte di un modello culturale e professionale. Le occasioni di lavoro devono essere create di continuo attraverso forme di pubblicità costituite da conferenze di presentazione, distribuzione di materiale a stampa, presenza nella rete Internet3. Le strutture che di solito accolgono proposte nell'ambito del benessere e delle tecniche alternative sono costituite da: palestre, istituti di medicina olistica, centri culturali, agriturismi. In un'occasione ho seguito una conferenza in un ospedale4. Gli eventi hanno caratteristiche in grado di adattarsi agli ambienti in cui si realizzano. Può essere valorizzato l'aspetto di performance musicale o coreutica in contesti di svago ed intrattenimento, oppure fatto risaltare quello terapeutico fino ad assumere una dimensione specificatamente medica5. Tra i partecipanti nessuno ha assunto il ruolo di informatore perciò le informazioni provengono prevalentemente dalle interviste ai terapeuti. Durante la partecipazione agli eventi ho fatto qualche "chiacchierata" informale per capire le motivazioni del ricorso alla medicina alternativa ed in particolare alle pratiche oggetto della ricerca, il livello di adesione ideologica all'orizzonte culturale e operativo proposto dai conduttori e l'efficacia delle pratiche in relazione agli obiettivi enunciati e alle aspettative riposte. Una prima considerazione si può fare sul genere dei partecipanti: la maggioranza è costituita da donne. Gli informatori danno un'interpretazione che fa riferimento ad una più alta consapevolezza ed autonomia femminile nel riconoscere il proprio malessere psico-fisico e ad una maggiore determinazione nella ricerca di soluzioni efficaci e alternative per affrontarlo e risolverlo. Un'altra considerazione riguarda il primato della pratica in questi eventi, ossia la partecipazione e il coinvolgimento attivo dei pazienti. Gli utenti sostengono la necessità, prioritaria rispetto alla credenza, di fare l'esperienza; affermano che uno stato modificato di coscienza, come è quello meditativo, non può essere spiegato, può solo essere provato. Attraverso l'azione agita in prima persona si verifica l'utilità, si sperimentano gli stimoli positivi per il corpo e la salute e si accede all'espansione di coscienza che consente di prendere contatto con le proprie emozioni, i propri sentimenti ed i comportamenti ripetitivi che ostacolano l'autorealizzazione. "C'è un'antropologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e antropologico […] poiché la musica non è altro che un elemento che si aggiunge alla complessità del comportamento umano."6 Alan P. Merriam Tre metodi di guarigione 'alternativi': prassi terapeutica e musicale La musica "in grado di emozionare"7 gli stati modificati di coscienza, il movimento e la danza, attraverso i quali scoprire, esprimere ed esteriorizzare sentimenti ed emozioni, sono gli strumenti fondamentali di molte pratiche di guarigione 'alternative'. La Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motione e Arpeincoro in Meditazione sono caratterizzate da alcuni tratti comuni: esibiscono una struttura formale fortemente ritualizzata, utilizzano tecniche per l'induzione di stati modificati di coscienza che vanno dalla meditazione alla trance, si basano sul principio delle terapie di gruppo secondo il quale le manifestazioni individuali si inseriscono in un contesto aggregativo, partecipativo e di condivisione che garantisce l'espressione e il contenimento. Dal punto di vista della prassi musicale questi metodi presentano alcuni aspetti peculiari, individuabili nel ritmo e nella danza per la Trance Dance, nel canto corale per Vocal Harmonics in Motion e nella pratica strumentale del suonare insieme per Arpeincoro in Meditazione. La Trance Dance è una terapia coreutico-musicale compresa in un percorso neo-sciamanico8 che fa riferimento soprattutto alla tradizione degli indiani nord americani. Si serve del ritmo delle percussioni, di tecniche respiratorie e della danza rituale attraverso la quale si accede ad uno stato di trance, che rappresenta l'agente curativo di questa tecnica terapeutica. Alcuni oggetti rivestono il valore di paraphernalia, ossia di oggetti liturgici che, nel particolare contesto cerimoniale, assumono un carattere sacro. In particolare una 'bandana' da collocare sugli occhi per escludere l'esterno e concentrare l'attenzione su se stessi. L'esclusione della vista, senso prevalente nella nostra 'cultura', induce un potenziamento della capacità percettiva degli altri sensi, altera la mappa delle rappresentazioni sensoriali e di conseguenza modifica le rappresentazioni della realtà. Erbe ed incensi, bruciati durante il rituale, concorrono ad un'alterazione in senso iperestesico delle percezioni dei partecipanti. Alcuni strumenti, come il tamburo sciamanico e il sonaglio sciamanico, per la loro valenza simbolico-rituale, devono essere annoverati piuttosto tra gli oggetti 'sacri' che tra gli strumenti musicali. Il 13 primo rappresenta "il battito del cuore di madre terra", il secondo "la voce dello spirito". Entrambi sono considerati "strumenti di potere sciamanico" e vengono suonati dalla guaritrice per facilitare la risoluzione di blocchi che si possono verificare nella danza terapeutica. Secondo la conduttrice durante la danza si accede sempre ad uno stato di trance, nella quale lo "spirito" si incarna nel danzatore. Attraverso questo stato è possibile modificare i comportamenti condizionati che bloccano l'espansione creativa e prendere contatto con il proprio vero sé. L'etnomusicologo Gilbert Rouget ha studiato la trance religiosa di molti riti tradizionali e ha analizzato i rapporti tra la musica e la trance. Confrontando questo rituale contemporaneo con quelli osservati in contesti tradizionali da Rouget, si può affermare che la Trance Dance è strutturata formalmente come un rito di possessione. Dal punto di vista musicale i partecipanti non sono i musicanti della propria trance, ruolo tipico dello sciamano, bensì i posseduti, ovvero i "musicati", secondo la definizione usata da Rouget. Le similitudini si limitano però a questi elementi. Nel contenuto della terapia sono rilevabili connessioni con alcune correnti della psicologia contemporanea mescolate con la spiritualità 'non convenzionale' espressa dai movimenti neo-sciamanici. Di fatto questa pratica neo-sciamanica è estranea a qualsiasi implicazione religiosa e l'entità chiamata "spirito" non è una divinità, ma è piuttosto assimilabile al concetto di energia. E' una forza presente nell'universo ed una delle componenti che, insieme a corpo, mente ed emozioni, costituisce l'integrità dell'essere umano, condizione imprescindibile per la buona "salute olistica". La trance, indotta dalla musica e dalla danza, è una strada per reintegrare le parti separate, o, per dirlo con le parole della terapeuta, per "riportare a casa i pezzi di anima mancante", quindi l'orizzonte concettuale dell'evento si colloca nell'ambito dei principi della medicina olistica. Per quanto riguarda la prassi musicale la Trance Dance utilizza strumenti a percussioni, suonati dal vivo. Si tratta di vari tipi di membranofoni (tamburo sciamanico, congas, bongos, djembe, tam del Kenia), di idiofoni (sekere, maracas, diversi tipi di sonagli) e il mixer. Qualche volta, quando sono disponibili strumentisti in grado di suonarli, vengono usati il didgeridoo, la tampura e le cristal bowls9, tutti strumenti con un forte valore simbolico dal punto di vista terapeutico. Gli esecutori sono musicisti professionisti, il loro ruolo è molto importante ai fini del buon esito della performance perché si occupano di organizzare, attraverso il ritmo, le diverse fasi della terapia coreutico-musicale. La guaritrice, oltre a condurre la sessione terapeutica, interpreta un ruolo musicale attraverso la scelta e il mixaggio delle sonorità e dei ritmi adatti alle varie fasi dell'evento. Suona anche alcuni strumenti a percussione caratterizzati soprattutto da una valenza simbolico-rituale, come il tamburo sciamanico e il sonaglio sciamanico. Le percussioni agiscono su una base musicale costituita, di solito, da CD ideati per questo tipo di rito, ma può essere utilizzato qualsiasi pezzo musicale debitamente mixato. L'analisi musicale di alcuni brani contenuti nei CD ha rilevato elementi di globalizzazione culturale nei timbri, che propongono percussioni europee, orientali, sudamericane ed un uso rilevante della tastiera e di suoni campionati, come la voce e il respiro. Sono presenti tratti del minimalismo americano, sonorità mediate da musica etnica, ma anche dalla discomusic e dalla techno. I canoni sono assolutamente occidentali per quanto riguarda gli aspetti formali, ma soprattutto per l'utilizzo della tecnologia musicale. Un prodotto senza anomalie interne, molto professionale, che utilizza alcuni elementi di nota utilità comunicativa, adatto all'obiettivo terapeutico per il quale è pensato. Il Vocal Harmonics in Motion è un metodo che fa riferimento alle teorie che derivano dalla visione energetica della medicina cinese. Utilizza un tipo di canto tradizionale, movimenti e tecniche respiratorie ripresi dalle arti marziali orientali, procedure sperimentali della musicoterapia contemporanea, per ottenere uno stato meditativo funzionale al raggiungimento del benessere psico-fisico. E' l'atto stesso del cantare, ascoltando i propri suoni e quelli del gruppo, che induce l'alterazione dello stato di coscienza in cui si sperimenta una dimensione di sospensione della realtà spazio-temporale. I partecipanti alle sessioni di Vocal Harmonics in Motion vengono istruiti e messi in grado di produrre suoni armonici vocali che, secondo questa pratica terapeutica, procurano un effetto salutare sull'equilibrio emotivo. Dal punto di vista musicale il canto si chiama 'canto difonico'. Viene utilizzata una tecnica che enfatizza i suoni armonici vocali e rende percepibili chiaramente due voci: un suono bordone di altezza fissa e una seconda voce dal timbro penetrante che esegue una linea melodica in armonici. Le tradizioni di riferimento sono quella del canto armonico tibetano, ma soprattutto quella del canto xöömij, una parola mongola che significa faringe. Il canto di gola xöömij, è un canto tradizionale praticato in Asia Centrale (a Bashkiria, vicino ai monti Urali, in Kazakhstan e Uzbekistan, in Mongolia e Khakassia, ad Altai e Tuva10, due repubbliche autonome della federazione Russa, a nord del confine mongolo) principalmente in ambito sciamanico e animista, ma anche con finalità estetiche ed artistiche. Il Vocal Harmonics in Motion è prevalentemente una pratica di libera improvvisazione corale con l'emissione di armonici vocali, durante la quale tutti i partecipanti assumono un ruolo musicale. L'organizzazione del canto non ha norme esecutive e questo consente solo descrizioni probabilistiche. Non si può parlare di esecuzione musicale, ma di un insieme di suoni organizzati secondo una finalità terapeutica dove è il contesto, definito dalla natura terapeutica dell'evento nell'ambito della visione olistica della cura, a rendere significativa e comunicativa la prassi canora. Questo metodo prevede anche l'uso di alcuni strumenti musicali. I più adatti sono quelli che producono suoni ricchi di armonici, in particolare alcuni idiofoni (gong, campane tubolari, cimbali, singing bowls), alcuni cordofoni (sitâr, vînâ, tampura)11 e tra gli aerofoni soprattutto il didgeridoo. Tutti gli strumenti utilizzati sono accomunati dal fatto di possedere un forte valore simbolico in quanto si ritiene che vengano utilizzati tradizionalmente nel corso di cerimonie sacre o di guarigione. L' Arpeincoro in Meditazione è' una pratica strumentale in cui la 14 sonorità dell'arpa celtica, una selezione di melodie della tradizione nordica con valenze simboliche ed una prassi esecutiva di gruppo vengono usate per indurre una condizione di concentrazione attiva e lo stato meditativo. La teoria alla base di questa tecnica di benessere è che il distacco dal contingente ed il ritrovamento di se stessi nel silenzio interiore, consentano di riappropriarsi della gestione della propria vita e della propria salute. Si fonda sul presupposto che ogni strumento sia capace di entrare in risonanza con un certo tipo di energia. L'arpa, ed in particolare quella celtica, rappresenta il femminile, aiuta a sciogliere le emozioni, a ritrovare la creatività ed è in grado di riequilibrare l'energia del chakra12 del cuore. La sua sonorità rappresenta una via per ritrovare il benessere. L'aggettivo 'celtico' adottato in questo ambito si deve intendere come un concetto, un'idea, più che come una tradizione culturale reale, esistente e collocabile in un'area storico-geografica. La 'celtitudine' può considerarsi come una condizione umana, una predisposizione della mente e dell'anima, un modo di rapportarsi alla vita e alla morte che non prevede solchi profondi, ma un'interazione continua. Dal punto di vista musicale la performance si basa sulla riproduzione, estemporanea ed in gruppo, di alcune melodie tradizionali insegnate secondo un modello di trasmissione orale della pratica musicale. La conduttrice e le partecipanti13 hanno un ruolo attivo nel 'fare musica', l'insegnamento è basato su tecniche imitative e non prevede alcuna conoscenza della scrittura musicale. Il repertorio musicale è costituito da brani caratterizzati da una struttura strofica regolare, da un alto livello di ridondanza di ogni strofa e dall'utilizzo di riferimenti ricorrenti e prevedibili, che rendono le melodie facili da memorizzare. L'uso prevalente della scala minore naturale conferisce ai brani un carattere che appare intrinsecamente malinconico. Queste melodie assumono un forte valore affettivo in quanto divengono un linguaggio delle emozioni. Ogni sequenza musicale, ogni nota assume il valore di segno o di simbolo che rinvia a significati extra-musicali. Le figure musicali vengono usate per meditare e per evocare sentimenti ed emozioni, in questo modo l'intero repertorio si carica di valenze simboliche ed affettive che coinvolgono l'aspetto formale e ciò che le forme significano in termini di esperienza umana e relazionale. E' una musica che può essere considerata l'espressione della solidarietà del gruppo in cui anche le strutture sonore diventano segni di appartenenza alla comunità. interesse specifico nei confronti dello strumento musicale. Qualcuno ha manifestato un interesse prevalente per le tecniche musicali, canore o coreutiche, piuttosto che l'obiettivo di un percorso di guarigione. Le adesioni, pur rispondendo a motivazioni più eterogenee rispetto a quanto emerge dalle interviste agli terapeuti, rivelano un livello di condivisione piuttosto elevato dell'orizzonte culturale e operativo proposto dai conduttori. Spesso queste attività coprono un fondo di esperienze e sofferenze che derivano da una condizione generalizzata di malessere, considerato tipico della società contemporanea. Alcuni esprimono motivazioni legate a storie personali difficili, al senso di solitudine o ad episodi di depressione. I terapeuti stessi sono approdati alle cure alternative in seguito ad eventi dolorosi o luttuosi accaduti a familiari o a loro stessi, in seguito ai quali hanno sentito di dover trovare un senso alla loro vita. Nei momenti di condivisione di gruppo i partecipanti hanno raccontato storie di attacchi di panico, di cure mediche classiche senza fine e senza soluzioni durature, di frustrazione, di abbandono a loro stessi in situazioni di debolezza e di paura a causa della malattia. L'opinione espressa più comunemente è che le terapie olistiche siano in grado di ripristinare un rapporto di partecipazione attiva nei confronti della propria salute e che esprimano il loro valore 'alternativo' soprattutto nel superamento delle limitazioni tipiche della medicina ufficiale, relative alla considerazione parcellizzata dell'essere umano. In questo ambito si realizzano strutture di significato stabilite socialmente nei cui termini sono prodotti, percepiti ed interpretati pratiche e comportamenti. Un aspetto che diviene subito evidente ad un estraneo che si avvicini a questo ambiente è il fatto che i partecipanti si immaginano come parti di un insieme, una comunità. Essi, nell'ambito della 'filosofia alternativa', condividono credenze, conoscenze, ideali, comportamenti, pratiche salutistiche, linguaggio e il sentimento comune di utilizzare le tecniche e i rimedi proposti per conservare o ritrovare il proprio benessere psico-somatico. In particolare le comunità frequentate nel corso della ricerca sono risultate piuttosto omogenee in quanto i tre eventi osservati, oltre l'obiettivo connesso al benessere e alla salute psico-fisica, avevano caratteristiche comuni quali l'uso della musica, o del suono, del movimento e degli stati modificati di coscienza. Si può adottare per queste formazioni comunitarie la denominazione di "comunità immaginate" proposta da Benedict Anderson nel suo saggio sui nazionalismi. Secondo Anderson le comunità immaginate sono entità costituite da un certo numero di individui che, pur non conoscendosi personalmente, sono caratterizzati dal fatto che "nella mente di ognuno [di loro] vive l'immagine del loro essere comunità"14. Queste comunità esprimono il desiderio di distinguersi dai modelli socio-culturali rappresentati dalla medicina ufficiale e dalla società contemporanea, verso i quali esprimono critiche. Le pratiche collettive offrono ai partecipanti supporto e contenimento in quanto si realizzano nell'ambito di un'atmosfera di coinvolgimento emozionale collettivo, una fonte di rassicurazione "Comunità immaginate" Come già detto, le informazioni relative ai partecipanti provengono dalle interviste ai terapeuti, i quali hanno definito la maggior parte di loro come persone che "sono alla ricerca", individui che integrano un percorso di guarigione con diverse pratiche 'alternative'. Durante la 'partecipazione osservante' è emerso che gli elementi musicali e coreutici, distintivi delle pratiche analizzate, costituiscono discriminanti di scelta da parte dei partecipanti. Risulta abbastanza evidente, per fare solo un esempio, che decidere di meditare con l'arpa presuppone un 15 e di immediata comunicazione e sperimentabilità. Le tecniche di modificazione dello stato di coscienza, la creazione di situazioni rituali e l'accesso alla conoscenza e alla sperimentazione di pratiche, considerate non comuni e di antiche origini, rafforzano il senso di appartenenza e di collaborazione. Veda, e la sua riattivazione nell'esperienza del presente contiene implicitamente una continuità con quel passato antico e importante. Un linguaggio con queste caratteristiche è sicuramente adatto a svolgere una funzione unificatrice della comunità attraverso il sentimento della condivisione di una tradizione comune e antica, inoltre definisce il confine tra i membri della comunità e gli estranei. Il codice linguistico Benedict Anderson sottolinea l'importanza della diffusione e dell'utilizzo di una lingua condivisa nella formazione di "comunità immaginate". E' ovvio che in questo contesto non si possa parlare di una lingua diversa dall'italiano comune, si può, però, affermare l'esistenza di un codice linguistico caratterizzante che, come i metodi osservati, accoglie termini provenienti dalle diverse lingue del globo e del tempo presente e passato. Le parole definiscono tal volta pratiche religiose orientali o degli indiani americani. Altre volte denominano tecniche terapeutiche cinesi o indiane. In alcuni casi designano fenomeni di nuova formazione risultanti dalla combinazione, revisione o riadattamento contemporaneo di tecniche diverse, religiose o terapeutiche, della più varia provenienza culturale. Alcune parole sono il risultato di neo composizioni provenienti da qualche autorevole lingua antica. Per citare solo alcuni esempi: Rebirthing, in lingua inglese significa rinascita è una tecnica terapeutica basata sulla respirazione; Respirazione Olotropica, termine composto derivante dal greco olos tutto, l'intero, la totalità e trepein volgersi verso, è una tecnica terapeutica basata sulla respirazione; Reiki termine giapponese composto da rei universo e ki energia: tecnica terapeutica corporea ad indirizzo energetico; Meditazione Tibetana: tipo di meditazione che fa riferimento alla pratica religiosa dei monaci tibetani e si colloca a metà strada tra l'aspetto sacro e il contesto terapeutico. I segni verbali sono conosciuti, compresi e utilizzati dai membri della comunità. La terminologia fa riferimento a precisi contenuti e la condivisione avviene sia sul piano linguistico, sia nel contenuto significante. Non è considerato importante che le tecniche designate o le tradizioni richiamate siano ancora utilizzate nei luoghi di provenienza. E' significativo, invece, rilevare la suggestione che questo linguaggio riesce a creare: un senso di origini antiche e di efficacia di terapie che affondano le loro radici in un passato fuori dal tempo e dalla storia. Il segno linguistico assume un valore insolito e riporta in luce qualcosa che è già stato presente. Accanto al senso immediato, in cui viene accoppiato un suono ad un significato, emerge il senso dell'unione, della continuità del passato con il presente, l'attualizzazione di qualcosa che avveniva e sta avvenendo ancora. La parola richiama nell'immaginario tradizioni millenarie e la loro riattivazione nell'esperienza del presente contiene implicitamente una importante continuità con quel passato antico. Per fare ancora un esempio: quando nel corso di una sessione viene proposto di lavorare sull'energia di un chakra i membri della comunità riconoscono il termine e sono in grado di renderlo significante. Sanno cogliere le implicazioni simboliche e fisiologiche connesse allo squilibrio chakra in questione. La parola, inoltre, richiama nell'immaginario la millenaria tradizione orientale, contenuta nei Alcune riflessioni sugli eventi Dalla ricerca è emersa l'applicazione di un criterio di creatività adattiva, rilevabile sia nelle storie personali dei terapeuti, sia nelle peculiarità dei metodi elaborati. A questa caratteristica, riconducibile al concetto di "rottura di schemi mentali convenzionali e limitanti", gli terapeuti attribuiscono una valenza positiva, anche dal punto di vista del recupero della salute. E' un atteggiamento che viene adottato sia nella scelta del modello professionale, ritenuto gratificante in quanto consente loro di esprimere una maggiore coerenza tra piano degli ideali e piano del reale, sia nella struttura delle pratiche di guarigione, basata su un alto livello di flessibilità e adattabilità che rende gli eventi convertibili a situazioni di natura diversa da quella prettamente terapeutica. Il loro orizzonte ideologico, culturale e operativo, relativo ai concetti di cura e di guarigione si colloca senz'altro all'interno dei principi delle medicine olistiche, anche se è forse più corretto parlare di una 'filosofia alternativa' della quale condividono principi e ideali. E' in questo ambito che i conduttori hanno elaborato i metodi terapeutici che propongono e al quale si sono rivolti essi stessi per trovare sollievo ai loro malesseri. Tutti e tre i conduttori hanno posto l'accento sulla necessità di recuperare dai modelli tradizionali i concetti di appartenenza, condivisione, collaborazione, partecipazione, da loro espressi con le dizioni: "cerchio", "tribù", "radici", "mettersi intorno a qualcosa per farla insieme". Le tre performance, infatti, si basano sul principio della terapia di gruppo. All'interno del gruppo le manifestazioni psicologiche individuali acquistano importanza e valore. La condizione di aggregazione comunitaria e la struttura partecipativa, offrono un contesto di condivisione e propongono un sistema di valori nel quale è possibile trovare una motivazione appagante e il riconoscimento di identità, dignità e significato personale. Esse, inoltre, presentano nella loro struttura formale alcuni elementi centrali che le designano come eventi ritualizzati e che specificano la loro funzione particolare nel campo della guarigione. Nel momento in cui i partecipanti si collocano nello 'spazio sacro' si trasformano in attori di una drammatizzazione, condizione funzionale alla creazione di una situazione evocativa adatta all'esperienza degli stati modificati di coscienza attraverso i quali si realizzano le aspettative di benessere. La struttura contrassegnata dalle regole delle forme ritualizzate - che è ritenuta dai terapeuti una prerogativa delle culture tradizionali - è utilizzata anche nella moderna psicoterapia. Il setting psicoterapico ortodosso si distingue proprio per una serie di connotazioni rituali: di saluto, di commiato, di distanza, di posizione, di cadenze temporali della seduta, ecc., in quanto è una 16 struttura che risulta efficace al contenimento, utile al coinvolgimento emozionale e al rafforzamento del senso di appartenenza e di supporto del gruppo. La ritualizzazione degli eventi dà forma ad un reale 'altro', si definisce così un nuovo codice condiviso all'interno del quale si esplicano nuove modalità di comunicazione. Attraverso la connotazione rituale e la valorizzazione dell'aspetto sacrale, si crea una suggestione; diviene possibile superare una logica meramente strumentale, legata a procedure razionali e l'azione sul mondo si realizza con mezzi che trasfigurano il reale permettendo l'entrata nell'immaginario. Si realizza in questo modo la partecipazione ad una dimensione esistenziale che va oltre il banale e l'ovvio dell'universo umano quotidiano. L'etnomusicologo Francesco Giannattasio, nell'introduzione ad un seminario di studi sui rapporti tra musica e stati alterati di coscienza, ha ipotizzato che alcune questioni studiate dagli antropologi si sono paradossalmente riverberate al di fuori degli ambiti scientifici. L'interesse delle nuove generazioni occidentali per alcune pratiche coreutico-musicali tradizionalmente connesse alla trance o all'estasi ha favorito il proliferare di nuovi fenomeni, come lo sviluppo di tecniche terapeutiche con musica. Tra queste cita ad esempio la respirazione olotropica sperimentata a partire dagli anni '70 dal medico praghese Stanislav Grof in California. L'antropologo Vittorio Lanternari nei risultati di un'inchiesta sulle terapie carismatiche ha sostenuto che negli ultimi due decenni, in occidente, si è osservato l'incremento rapido e la diffusione estensiva delle medicine alternative. Ritiene che questo non sia altro che "una delle risposte della società contemporanea alle illusioni mitizzanti di una razionalità scientifica e tecnologica che, nel suo assolutismo dogmatico, rischia di obliterare alcune tra le più pressanti istanze psicologiche avverse all'alienazione e alla disautenticazione"15. Queste stesse considerazioni sono state espresse di frequente dai terapeuti nel corso delle interviste. L'idea di base è che la prassi medica ufficiale abbia perduto il senso dell'unità soma-psiche e il rapporto di fiducia tra medico e paziente per privilegiare gli aspetti tecnologici e le sofisticate procedure specialistiche di cura. L'obiettivo delle nuove pratiche 'alternative' è la riconquista dell'unità perduta dell'individuo attraverso la mediazione o del corpo o della psiche. La persona è spirito, mente, emozioni, corpo, e quindi bisogna usare per ogni individuo un approccio olistico ed integrato delle quattro sfere. Il rapporto tra malattia e guarigione assume un significato che trascende l'ambito strettamente medico-fisiologico e assume connotati quasi metafisici, riconducibili al concetto di "equilibrio energetico". La malattia viene vissuta come una particolare manifestazione di un "male dell'anima" e la guarigione o la salute sono segno di una coerenza tra la realizzazione materiale e la spinta ideale. La considerazione del nesso tra la salute corporea e il benessere spirituale è un elemento essenziale. Questo nesso si ritiene rispettato nelle società tradizionali, nelle medicine orientali e nelle nuove pratiche terapeutiche che si rifanno a queste tradizioni. Accanto ai limiti rilevati nella medicina ufficiale i terapeuti esprimono critiche anche nei confronti delle degenerazioni della civiltà occidentale e di denuncia verso le contraddizioni aperte dal modello socio-culturale contemporaneo. Il recupero, la trasformazione e l'adattamento di concetti e valori, definiti tradizionali, rappresentano una risposta elaborata in funzione di un obiettivo di presa di distanza e differenziazione da condizioni socio-culturali criticate. L'ipotesi percorribile è che attraverso le prassi elaborate vengano valorizzati ideali di equilibrio etico-sociale e di significatività esistenziale che si ritengono prerogative appartenenti alle culture tradizionali dalle quali vengono desunte le tecniche di guarigione. Subculture La Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motion e l'Arpeincoro in Meditazione si rifanno ai metodi della moderna medicina psicosomatica, alla quale vengono unite pratiche musicali, mistiche, spirituali e di guarigione ispirate a criteri extrascientifici, riprese da tradizioni diverse. Le componenti ideologiche riscoperte, rivalorizzate e reintrodotte sincreticamente risultano essere di varia origine etnica e storicoculturale. Dal punto di vista strutturale si è realizzata la creazione di 'nuove forme' che sono state rielaborate in modo da essere "digerite" da individui occidentali dell'epoca contemporanea. Si possono considerare nuovi sistemi significanti, ricontestualizzati nell'attualità contemporanea, condivisi dagli ideatori-conduttori e dai partecipanti, che esibiscono una logica interna che rende leggibili ed interpretabili i fatti ed i comportamenti agiti e conferisce loro anche una certa efficacia rispetto agli obiettivi di benessere che si propongono. Fabietti, Malighetti e Matera affermano che all'interno di un contesto culturale si possono organizzare forme di resistenza e di adattamento nei confronti di forze esterne, anche attraverso l'elaborazione di sincretismi: "i sincretismi e i profetismi possono costituire la risposta che una certa cultura elabora in funzione di un discorso di "resistenza" e di "adattamento" nei confronti di forze esterne"16. Questo tipo di risposte e di forme di resistenza culturale "non sono solo espressione delle singole culture, ma anche della dialettica - talvolta conflittuale - che le può caratterizzare al loro interno"17. Quando si tratta di una dialettica conflittuale che si manifesta all'interno della cultura più generale di appartenenza si deve parlare di subculture. "Le subculture sono "reti" di significati condivisi da determinati individui (e non da altri) all'interno di un contesto significante più vasto (la "cultura") a cui pur tuttavia quegli stessi individui appartengono"18 e per le quali si realizzano le stesse risposte di resistenza e adattamento a forze esterne, osservate nelle culture. Alcuni esempi di subculture riportati dai suddetti antropologi sono il sistema delle confraternite religiose nell'Italia e nella Spagna, gli Hooligans, gli intellettuali progressisti, i massoni, i cinofili, ecc. Tra questi ritengo che si debba inserire anche la comunità costituita dai 'fedeli' alle cure alternative. E' in questo contesto subculturale che prende forma l'universo immaginativo condiviso, all'interno del quale il sistema di simboli può essere interpretato e descritto in modo intelligibile. E' la 'subcultura alternativa' l'ambito in cui si può rintracciare il filo conduttore che riguarda la tematica della 17 decontestualizzazione di pratiche, comportamenti, azioni simboliche riprese da contesti "altri", della loro trasformazione e del riadattamento in nuove forme significative ai fini delle particolari concezioni relative all'integrità dell'essere umano, ai concetti di salute, di equilibrio etico-sociale e di significatività esistenziale. La riproduzione delle pratiche, ritenute proprie di tradizioni culturali delle quali gli individui appartenenti alla 'subcultura alternativa' condividono i valori e gli obiettivi, è funzionale alla riattivazione simbolica di quegli stessi valori ed obiettivi. recupero del benessere. Per fare qualche esempio, l'osservazione fenomenica di una sessione di Arpeincoro in Meditazione, o di una fase di movimento di Vocal Harmonics in Motion, consentirebbe solo di vedere persone che suonano l'arpa o che fanno ginnastica. Saper interpretare questi comportamenti come "fare meditazione con l'arpa" o "eseguire una procedura di riequilibrio energetico", presuppone la conoscenza del codice che informa tali gesti, agito e condiviso all'interno della comunità. Lo stesso discorso si può estendere agli strumenti musicali, che sono stati sottoposti ad un processo di ricontestualizzazione e di riadattamento immaginativo alla funzione di guarigione alla quale sono dedicati. Essi, inseriti nei particolari contesti rituali, ancor prima di essere 'oggetti con i quali fare musica', sono simboli, 'oggetti liturgici' dotati di potere. Se fossero sconnessi dall'ambito delle pratiche di guarigione contemporanee in cui vengono utilizzati, apparirebbero completamente fuori luogo. Il loro uso acquisisce senso se è interpretato alla luce delle credenze relative ad ogni pratica e se si considera l'apparato simbolico di cui sono caricati. E' proprio il loro valore simbolico che giustifica la loro applicazione e la rende efficace sia per i conduttori che per i partecipanti agli eventi. Ad esempio il didgeridoo, utilizzato per la sua caratteristica sonorità ricca di armonici, deriva il suo potere simbolico soprattutto dal fatto di essere considerato uno strumento da sempre usato dagli sciamani aborigeni nelle cerimonie di guarigione. Il tamburo sciamanico, strumento a percussione, funzionale in una pratica in cui l'agente curativo è costituito dal ritmo che sollecita la danza di guarigione, assume maggior valore in quanto rappresenta il "battito del cuore di madre terra" e "l'oggetto di potere dello sciamano per richiamare lo spirito". La pratica strumentale con l'arpa celtica funziona nel contesto terapeutico soprattutto perché è considerata un oggetto in grado di riequilibrare "l'energia del cuore". L'analisi dei repertori musicali ha rilevato che si tratta di prodotti dai canoni occidentali e contemporanei per l'uso degli elementi formali e per l'impiego della tecnologia musicale nella produzione e, talvolta, anche nella fruizione. I richiami ad aspetti tradizionali si riferiscono in alcuni casi alle tecniche musicali, in altri al contenuto sonoro. Nel complesso le situazioni musicali osservate possiedono una capacità evocativa che si può attribuire alla ricombinazione e all'applicazione di elementi formali eterogenei capaci di richiamare sonorità "altre", al loro valore simbolico e all'uso ritualizzato adottato nelle pratiche di guarigione osservate. In tutti i metodi si è in presenza di un 'nuovo prodotto musicale', rielaborato in modo da essere funzionale all'uso che ne viene fatto. Bisogna ricordare che la musica, la danza e il canto, in queste pratiche, sono considerati gli elementi essenziali per aprire l'accesso a quegli stati modificati di coscienza, attraverso i quali si ritiene possibile la guarigione. Il suo ruolo deve essere valutato all'interno del sistema ed è 'contesto' la parola chiave per comprenderne la funzione e l'uso. La valutazione esclusiva delle caratteristiche estetico-musicali non consentirebbe di considerare gli aspetti simbolici che essa assolve. Processi mimetici La circolazione di simboli e di modelli di comportamento, di valori e di stili di pensiero, e anche la loro ri-significazione in contesti diversi da quelli originari, possono attivare dei processi mimetici che consistono in manifestazioni di "adeguamento e di imitazione simbolica e pratica, da parte dei componenti di una cultura, nei confronti dei simboli e delle pratiche degli appartenenti a una cultura 'altra'"19. La mimesi, che costituisce un meccanismo inerente al processo di traffico culturale, si può definire come la ripresa di forme culturali 'altre' da parte dei soggetti di una determinata cultura. La riattivazione simbolica e pratica di valori ritenuti tradizionali che si manifesta nell'ambito osservato nel corso della ricerca, si può considerare un processo mimetico in cui "il piano del comportamento e quello del senso non sono distinguibili in maniera assoluta"20 e il livello pratico e quello simbolico sono strettamente collegati, come sempre avviene nell'agire umano. Questo processo mimetico consente di esprimere l'opposizione ai valori e ai modelli rappresentati dalla cultura di appartenenza e rende concreta la possibilità di riconoscersi in un modello ritenuto valido e di apprenderne i principi. Conclusioni La prassi musicale non può essere analizzata al di fuori dell'ambito delle terapie alternative in cui si inscrive. Strumenti, repertorio, occasioni e modalità esecutive sono elementi che concorrono alla definizione del contesto ritualizzato e rivelano significati se vengono interpretati all'interno dello stesso. Spiega Clifford Geertz che per comprendere i comportamenti delle persone non ci si può limitare ad un'osservazione meramente fenomenica, perché altrimenti non è possibile "distinguere un tic da un ammiccamento"21. Infatti, dal punto di vista esclusivamente comportamentale, in entrambi i casi, si contrae una palpebra. La sostanziale differenza tra un tic e un ammiccamento è definita dall'esistenza di un codice comunicativo, pubblico e socialmente condiviso. Queste considerazioni si possono estendere agli eventi trattati. In questa luce assumono senso i comportamenti musicali, l'uso e la funzione della musica, i richiami ai concetti ripresi dai contesti tradizionali "altri". E' l'esistenza di questa rete di significati, conosciuta dai terapeuti e dai partecipanti, che rende la prassi efficace, in relazione agli obiettivi di modificazione dello stato di consapevolezza, al raggiungimento di un migliore equilibrio psico-fisico e di 18 Note [1] La tesi intitolata Concetti, comportamenti e tecniche musicali nella pratica delle cure alternative. Analisi di tre realtà dell'area milanese, è stata discussa il 2 dicembre 2004 presso la facoltà di Lettere Moderne, indirizzo Etnomusicologico, Università agli Studi di Milano. Relatore prof. Nicola Scaldaferri, correlatore prof. Stefano Allovio. Le parole o le frasi poste tra virgolette in questo lavoro, se non diversamente indicato, provengono dalle interviste agli informatori. [2] Tiziana Dainotto è il nome legale dell'informatrice. Dal 1995 lo ha mutato in Anand Nirava che in lingua hindi significa beatitudine nel silenzio. L'attribuzione di un nuovo nome è parte del rituale di iniziazione di coloro che "chiedono il sannya" e scelgono di considerare Baghwan Raijneesh (1931-1990), detto Osho come maestro spirituale. Divengono così "sannyasi", ossia discepoli. L'informatrice racconta di avere deciso di diventare una "sannyasi" dopo avere sperimentato una sessione di meditazione dinamica ed aver provato una intensa "energia d'amore". Spiega che la procedura di iniziazione prevede l'invio della richiesta a Puna, in India, dove ha sede il Centro fondato da Osho, per tramite di una sede italiana intermediaria. Dopo qualche tempo si riceve un attestato con il nuovo nome. Il nome "sannyasi" è rappresentativo delle caratteristiche che il discepolo deve sviluppare e fare emergere nel suo percorso evolutivo. Intervista del 26 Maggio 2004. [3] Delle tre performance trattate in questa tesi Arpeincoro in Meditazione di Cristina Ruffino non è presente nel web. L'informazione è stata reperita sulla rivista "Guida al Ben-Essere" editore Organizzazione Due G., Milano. Trance Dance di Tiziana Dainotto e Vocal Harmonics in Motion di Lorenzo Pierobon si trovano nella rete rispettivamente agli indirizzi: www.altropensiero.com; www.laviadeglienergizzatori.com, e www.musicoterapia.monza.net, Consultazione del 24 giugno 2004. [4] La conferenza dal titolo: Il suono dell'anima è stata condotta da Lorenzo Pierobon a Villa Serena, ospedale S. Gerardo di Monza, con lo scopo di presentare il metodo terapeutico da lui ideato, Vocal Harmonics in Motion, e di promuovere seminari rivolti ai gruppi di volontari che operano nell'ospedale. Il loro lavoro consiste nel dare sostegno ai parenti dei malati con patologie gravi o incurabili o alle persone che hanno perduto una persona cara. In sala era presente un medico dell'ospedale. Lorenzo Pierobon, conferenza Il suono dell'anima, Villa Serena, Ospedale S. Gerardo - Monza, Conferenza del 17 maggio 2004. [5] Lorenzo Pierobon collabora con alcuni medici psicoterapeuti che integrano le tecniche propriamente psicanalitiche di gruppo con sessioni musicali col metodo del Vocal Harmonics in Motion. Per la specificità terapeutica di questi interventi non mi hanno autorizzato all'osservazione delle sessioni. [6] Merriam Alan P., Antropologia della musica, Sellerio Editore, Palermo, 2000, Trad. it. Elio Di Piazza, pref. Diego Carpitella, Ed. or. The Anthropology of Music, Northwestern University, Evanston, Illinois (U.S.A), 1964, p. 16. [7] Gilbert Rouget, Musica e Trance, Einaudi, Torino, 1986, ed. or. La musique et la trance, Gallimard, Paris, 1980, p. 436. [8] I movimenti neo-sciamanici perseguono ideali ispirati ad un ambientalismo naturista e manifestano una spiritualità 'non convenzionale', combinando pratiche di guarigione derivate dallo sciamanesimo di diverse tradizioni, con aspetti di alcune correnti contemporanee della psicologia, come quella transpersonale. Sono sorti intorno agli anni novanta negli Stati Uniti e successivamente si sono diffusi anche in Europa e in Italia. Si propongono l'obiettivo di soddisfare le richieste e le aspettative degli uomini contemporanei. La loro nascita è stata influenzata da alcune pubblicazioni, che hanno ottenuto grande risonanza di massa, relative alle tecniche dell'estasi, al viaggio sciamanico nel mondo degli spiriti e ai metodi di guarigione tramite la trance, la danza ed il suono, come ad esempio il libro sui nativi americani dell'antropologo Piers Vitebsky, The Shaman, Duncan Baird Publishers Ltd, Londra, 1995, Ed. It. Gli sciamani. Viaggi dell'anima. Trance, estasi e rituali di guarigione. EDT, Torino, 1998, trad. it. Maria Nicola; il libro dell'antropologo Georges Lapassade, Essai sur la transe, Iean-Pierre Delarge, Paris, 1976, Ed. It. Saggio sulla transe, Feltrinelli, Milano, 1980; la tesi di dottorato in antropologia di Carlos Castaneda sugli stregoni indiani Yaqui e l'universo conoscitivo degli sciamani dell'antico Messico, che si è trasformata in una lettura di consumo dei giovani degli anni '80: The Teachings of Don Juan a Yaqui way of Knowledge, Baror International, Inc., Armonk, New York, 1968, Ed. It. A scuola dallo stregone, gli insegnamenti di don Juan, RCS Libri, Milano, 1999, trad. it. Roberta Garbarini. La Trance Dance fa parte del metodo terapeutico neo-sciamanico ideato da Frank Natale, musicista, terapeuta e presidente del Natale Institute for Experiential Education (Amsterdam). Ha scritto Trance Dance The Dance of Life, 1995, Great Britain. [9] Il didgeridoo è una tromba naturale, si suona utilizzando la tecnica della respirazione circolare che consente di produrre un flusso d'aria ininterrotto. La tampura è un grande liuto a manico lungo, di origine indiana, la cui cassa è ricavata da una zucca e la tastiera non è tastata. Ha quattro corde che vengono pizzicate. Il suono è ronzante e penetrante si presta bene a creare una vibrazione che rimane di sfondo. Le cristal bowls sono bocce cave di cristallo, intonate. Si suonano con un bastone, che ha un'estremità rivestita in pelle, mediante sfregamento sull'imboccatura o leggera percussione. [10] "Secondo la tradizione di Tuva, ogni cosa è animata o abitata da entità spirituali. Le leggende narrano che gli abitanti di Tuva hanno imparato il canto xöömij per stabilire un contatto con queste entità e assimilare il loro potere attraverso l'imitazione dei suoni naturali. Il popolo di Tuva crede infatti che il suono sia il modo preferito dagli spiriti della natura per rivelarsi e comunicare con gli altri esseri viventi", Piero Cosi, Graziano Tisato, On The Magic of Overtone Singing, in Voce, canto, parlato, a cura di Piero Cosi, Emanuela Magno Caldonegnetto, Alberto Zamboni, Unipress, Padova, 2003, p. 84 (t.d.a.). 19 [11] I gong sono dischi in metallo. Vengono suonati mediante percussione con un bastone; le campane tubolari sono una serie di tubi metallici di uguale diametro, ma diversa lunghezza, si suonano mediante percussione con un mazzuolo; i cimbali sono costituiti da due campane solo leggermente cave, tenute insieme da un cordino. Si suonano mediante percussione reciproca; le singing bowls o campane tibetane o nepalesi hanno forma di ciotola, sono in lega metallica a prevalenza bronzea e si suonano mediante percussione o strofinamento lungo il bordo con un bastone di legno. Il sitâr è un grande liuto di origine indiana, tastato. La sua particolarità è di avere corde simpatiche che vengono messe in risonanza dalla vibrazione delle corde principali; la vînâ è uno strumento usato nella musica classica indiana. E' derivato dalla cetra a bastone con l'aggiunta di risuonatori costituiti da zucche cave. Ha quattro corde per la melodia e tre corde per il bordone. [12] Dal sanscrito cakra: cerchio, ruota, disco, che gira intorno. Secondo la teoria contenuta nei Veda il chakra è un centro di attività che riceve, assimila ed esprime l'energia della forza vitale. Sono disposti sul corpo lungo la colonna vertebrale in corrispondenza dei gangli nervosi. I più importanti sono sette che controllano ed influenzano ghiandole, funzioni e organi corporei. Ogni chakra ha una sua 'zona di competenza' a livello fisico, mentale, emozionale. Se il chakra è armonico l'energia fluisce e scorre liberamente, assicurando uno stato di salute olistica. Il chakra del cuore è il quarto, è situato al centro del petto, controlla la ghiandola del timo, corrisponde al sentimento dell'amore puro, senza vincoli. E' considerato il chakra fondamentale per la presa di coscienza e l'evoluzione personale. Anodea Judith, Il libro dei chakra. Il sistema dei chakra e la psicologia, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1998, Trad. It. Francesca Diano, ed. or. Eastern Body, Western Mind. Psychology and the Chakra System as a Path to the Self, Celestial Arts Publishing, Berkeley, 1996. [13] L'utenza di questa pratica di benessere è esclusivamente femminile. [14] Benedict Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, I° ed. discount, Roma, 2000 (I° ed. 1996), Trad. it. Marco Vignale. [15] Vittorio Lanternari, "Le terapie carismatiche, Medicina popolare e scienza moderna", La Ricerca Folklorica, anno 2002. n. 8. [16] Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, 2002, p. 127. [17] Ibidem, p. 127. [18] Ibidem, p. 127. [19] Ibidem, pp. 112. [20] Ibidem, p. 111. [21] Clifford Geertz, op. cit., p. 12. Bibliografia Anderson Benedict, Comunità immaginate, Manifestolibri, I° ed. discount, Roma, 2000 (I° ed. 1996), Trad. it. Marco Vignale, Ed. or. Imagined Communities, Verso, London-New York, 1991. Bellinzaghi Roberta, "La storia dei Celti", allegato al disco Patrick Ball, Magia dell'Arpa Celtica, Edizioni Red, Como, 1996. Combi Mariella, Corpo e tecnologie, Meltemi editore, Roma, 2000. Cosi Piero, Tisato Graziano "On the Magic of Overtone Singing", in Voce, canto, parlato, a cura di Piero Cosi, Emanuela Magno Caldonegnetto, Alberto Zamboni, Unipress, Padova, 2003. Fabietti Ugo, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari, 2001 (I° ed. 1999). Fabietti Ugo, Malighetti Roberto, Matera Vincenzo, Dal tribale al globale, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002. Geertz Clifford, "Verso una teoria interpretativa della cultura", in Interpretazione di culture, Soc. Editrice Il mulino, Bologna, Nuova Ed. 1998, (I° ed. 1988), Trad. it. Eleonora Bona, Ed. or. The Interpretation of cultures, Basic Books Inc., New York, 1973. Giannattasio Francesco, "Musica e stati alterati di coscienza: una questione ancora aperta", Relazione introduttiva Seminario Internazionale di Studi, Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati, Fondazione Cini, Venezia, gennaio 2002, www.cini.it. Giannattasio Francesco, Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica. Bulzoni Editore, Roma, 1998, (I° ed. Nuova Italia Scientifica, 1992). Hornbostel Erich M.v. e Curt Sachs, "Sistematica degli strumenti musicali. Un tentativo" (1914), Trad. it. Febo Guizzi, in Febo Guizzi, in Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lim, Lucca, 2002. Judith Anodea, Il libro dei Chakra. Il sistema dei chakra e la psicologia, ed. Pozza, Vicenza, 1998, Trad. It. F. Diano, ed or. Eastern Body, Western Mind. Psychology and the Chakra System as a Path to the Self, Celestial Arts Publishing, Berkeley, 1996. Lanternari Vittorio, "Le terapie carismatiche, Medicina popolare e scienza moderna", La Ricerca Folklorica, anno 2002. n. 8 Merriam Alan P., Antropologia della musica, Sellerio Editore, Palermo, 2000, Trad. it. Elio Di Piazza, pref. Diego Carpitella, Ed. or. The Anthropology of Music, Northwestern University, Evanston, Illinois (U.S.A), 1964. Natale Frank, Trance Dance. La danza della vita, Edizioni l'età dell'acquario, 1997, Trad. It. Chiara Bosio e Isabella Bresci, Ed. or. Trance Dance - The Dance of Life, Element Books Limited, Great Britan, 1995. Rouget Gilbert, Musica e trance, Einaudi, Torino, 1986, ed.or. La musique et la trance, Gallimard, Paris, 1980. 20 Dialogo sulla guerra Nelle pagine che seguono Achab accoglie i contributi di Pietro Clemente e Valerio Fusi sul tema della guerra. Il testo di Clemente nasce come spunto di riflessione per una serie di conferenze tenute tra marzo e maggio di quest'anno sotto il titolo di "Violenza, corpo, emozioni". Il seminario si è tenuto tra Siena, Firenze e Roma e ha coinvolto e messo a confronto antropologi, scrittori, fotografi, cooperanti, studenti... su un tema sempre più centrale, non solo per la sua drammatica attualità ma anche per il rilievo teorico che molti cominciano a riconoscergli. Il contributo di Fusi, come ha modo di precisare lo stesso autore nell'introduzione al suo articolo, nasce come risposta "informale" al testo di Clemente ed è qui presentato nella sua forma originaria di lettera aperta. Achab segue con interesse tale dibattito e spera di incentivare nei suoi lettori ulteriori riflessioni che possano venire riprese nei prossimi numeri. La Redazione Siamo in guerra di Pietro Clemente Pieve e Riondino "Siamo in guerra", lo ha detto Davide Riondino, chiamato ad esprimersi a suo modo sul palco piovoso di una Piazza di Pieve Santo Stefano. Era il ventesimo anniversario della nascita dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano (Arezzo), la grande banca di scrittura personale della gente comune che reca la firma del suo inventore Saverio Tutino, che l'anno passato abbiamo festeggiato per gli ottant'anni. Riondino era sul palco della premiazione dei dieci diari finalisti scelti da una giuria popolare della Val Tiberina, e della proclamazione del vincitore scelto da una giuria nazionale di esperti. Avevano parlato alcuni dei diaristi, intervistati da una équipe di Radio tre, e già delle storie dolorose erano emerse all'ascolto. Una donna, Antonina Azoti, poi risultata vincitrice, ha raccontato di come a 4 anni, poco prima di Natale (aveva intravisto già "il dono che la vecchia Natala, la befana, mi avrebbe portato per il Natale ormai imminente" ha scritto nella prima pagina della sua memoria) le fu ucciso il padre dalla mafia, e di aver passato la giovinezza sentendo rimproverare quel padre sindacalista che, per non aver voluto accettare le regole vigenti , aveva lasciato la figlia orfana. La storia scritta da questa donna era la storia del riscatto della memoria paterna contro il senso comune, fino all'orgoglio di sentirsi vicina a Falcone e Borsellino come testimone e vittima di mafia. Nell'intermezzo la parola era andata a Riondino, erano le 18 dell'11 settembre (una data ormai indimenticabile con migliaia di morti visti e rivisti morire in pochi istanti). Riondino si è alzato ed ha preso la chitarra, il microfono non funzionava bene, dietro di lui c'era Saverio Tutino che aveva già raccontato il suo perdurante amore e stupore per le memorie scritte dalla gente. Doveva Riondino introdurre con parole una canzone assai bella che aveva scelto di cantare e che riguardava un uccello che dorme e sogna in volo, visto in un viaggio a vela sull'oceano. Prima di farlo ci ha spiegato in che tempo siamo, in che mondo siamo, cosa lo caratterizza con quelle semplici parole: "siamo in guerra". La guerra è il principale argomento delle memorie di Pieve Santo Stefano, quelle memorie che, depositate in Archivio, hanno pian piano superato il numero degli abitanti, che sono 3.500 mentre i testi sono 4.792, quasi 5.000. A Pieve la guerra è soprattutto la seconda guerra mondiale, ed anche la prima. Che impressionante continuità. Uno che avesse alzato la testa dai diari immerso nel tempo di quelle pagine in Albania, in Yugoslavia, sotto i bombardamenti americani, in mezzo agli invasori tedeschi, sentendo Riondino avrebbe potuto pensare: allora la guerra non è mai finita! Dunja, Diana, Simona "Siamo in guerra", forse pensava all'Irak, o alla Cecenia, o al trattato di Kyoto, ma Riondino diceva che è un po' che gli capita di dirlo, tanto per collocare se stesso e il suo pubblico in una cornice che riconnetta lo spettacolo con il mondo. In effetti eravamo in guerra anche quando lo era, a pochi passi da casa, la Yugoslavia, quel paese che ora non c'è più, ed è chiamato come un ex -paese. Io sono un ottimista e poi, nato nel 1942, ho potuto credere di avere vissuto tutta la mia vita (salvo i primi tre anni che però in Sardegna non si sentivano come in Toscana o in Emilia) in un mondo di pace e non mi rassegno all'idea che siamo in guerra. Ho bisogno non tanto che mi pizzichino né di guardare la televisione, quanto piuttosto di avere quelle dolorose guide ermeneutiche nel mondo, esterno ai nostri sogni, che sono le persone che conosci, cui vuoi bene, e che stanno fisicamente dentro l'innominabile pantano di disperazione che è la guerra. Per la ex-Yugoslavia fu l'amicizia di Dunja Rihtman a coinvolgermi. Ora Dunja non c'è più, e la sua storia di donna di 21 Fiume, ex partigiana, poi militante nel mondo socialista, poi critica verso il regime titino insieme al marito Drago, giornalista, e quindi di nuovo nella guerra, di nuovo nei rifugi antiaerei, a condividere la lotta contro la Serbia vista come nemico dell'Europa e residuo di violenza antidemocratica, e quindi il nazionalismo, che poi fu esaltato dal governo di Trudman, così da farla essere di nuovo contro, è una storia che aiuta a capire il mondo in cui viviamo. Dunja si era messa a studiare le forme del simbolismo nei processi di impetuosa trasformazione politica, voleva legarsi all'attualità, non voleva concedere nulla a quell'ottimismo colpevole di cui accusava i suoi colleghi antropologi. C'è ancora, a ricordarlo, l'articolo-lettera che scrisse per la rivista Ossimori nel dicembre del 1991: "Anche altrove la vita non è rosea, ma qui, nel sangue di Vukovar, nella distruzione e nello spopolamento di Dubrovnik e di tanti villaggi, i simboli stanno acquistando delle connotazioni nuove." Forse è da allora che siamo 'in guerra', da 13 anni. Da poco ho sentito P.Matveievic che, alla radio, ricordava che l'assedio di Serajevo è stato il più lungo della storia del primo millennio. Incredibile. In questo mondo brancolo nel buio. Vado per paradossi. Non avrei mai pensato da giovane che un giorno avrei avuto come riferimenti in politica internazionale un presidente di destra come Chirac, e il Papa. Vedo nero il futuro e sono preoccupato per i miei nipoti. Ma far conto sulle relazioni personali, gli allievi, mi aiuta ad essere meno dogmatico e più problematico. Da quando una mia allieva romana vive a Gerusalemme ho rivisto alcuni stereotipi filopalestinesi della mia formazione, ed è a lei che penso quando sento parlare dell'incomprensibile intreccio di ammazzamenti che è diventato lo spazio israelo-palestinese. L'Irak per me è la storia delle due 'Simone', e in particolare quella di Simona Torretta, studentessa romana della quale ho un forte ricordo di impegno, ma anche di mio disagio verso un'esperienza dell'alterità che si faccia dedizione e rischio di vita. Quando ho visto sugli schermi quel volto familiare, intenso, mediterraneo, ho sentito che la guerra ci aveva raggiunto, ci era saltata addosso e non potevamo più non vedere che ce la avevamo in casa. Ho vissuto il doloroso periodo del silenzio con l'angoscia dei genitori. Essere in guerra è anche questo, com'era nella seconda guerra mondiale, chiedersi dove sarà un figlio, vivere con la possibilità della morte vicina. Ma ora che le due simone sono felicemente tornate ma che la guerra e la morte continuano in Irak e altrove, e che la morte innocente di Jessica e di Sabrina, poco più che adolescenti in vacanza, ha reso ancora più odioso e spaventoso quel mondo di guerra a tutto campo, la domanda che mi faccio e che molti ci fanno è che cosa l'antropologia può dire di questo nuovo scenario di conflitti in cui gli aspetti religiosi, culturali ed etnici sono sempre più marcati. Cosa sappiamo dell'Irak, dell'Afghanistan, dell'Europa baltica, della ex Yugoslavia, del Pakistan, che serva a capire. E può l'antropologia vivere come attività conoscitiva, senza doversi confondere con la cooperazione, con il volontariato, con la dedizione, il coraggio, la solidarietà? Forse se siamo in guerra non è possibile più farlo. L'antropologo deve tornare ad essere intellettuale, uomo che fa politica, padre o nonno preoccupato per i figli, che si interroga su un futuro dove l'Occidente rischia di diventare un mondo opulento blindato e minacciato di vendetta da tanti popoli della terra? La guerra spinge ad economizzare le distinzioni di sfere, a riconnettere tutto. Il ponte di Mostar Non so come si possa farlo, faccio parte di una generazione che ha peccato di dogmatismo e di semplificazione, due cose di cui proprio non abbiamo bisogno oggi, perché la guerra ci coglie in un mondo di estrema complessità, in cui ogni semplificazione è perdita di comprensione. Ma credo che dobbiamo provare, anche per non essere costretti a tacere come finora è capitato troppo spesso. Forse dobbiamo farci più europei e prendere le distanze dal gigante imperiale che riduce le differenze culturali dei popoli con eserciti e bombe? L'antropologia è in ritardo anche su questo fronte europeo. Dobbiamo di nuovo guardare alla generazione dei padri fondatori, alla capacità di dare voce alla gente, al mondo non ufficiale, che hanno avuto un Nuto Revelli, un Saverio Tutino, Zavattini, il neorealismo, Dolci, Scotellaro, Gianni Bosio e tanti che furono antropologi anche se non lo facevano di mestiere? Anche per i beni culturali vederli entro il mondo in guerra ci aiuta a relativizzare, a riconoscere i valori che ci costruiamo intorno e la precarietà di essi. Ricordo che ero a Pieve Santo Stefano quando crollava il ponte di Mostar, un evento inimmaginabile per me, dopo la seconda guerra mondiale. Mi fu di grande conforto allora che a Pieve si potesse parlare dell'amore raggiunto da una donna dall'infanzia infelice, e della lunga e sofferta subordinazione a un marito di una donna costretta dai familiari a sposarsi, storie oggetto di memoriali che avevano avuto il premio ad ex aequo, e pensavo che vale la pena di darsi da fare perché nel mondo abbiano senso le storie di vita di ciascuno, i dolori e gli amori, e non prenda il centro della scena sempre la morte e l'orrore, il nazionalismo e l'odio, il terrorismo e la vendetta. E' paradossale che a 60 anni dal 1944 che fu in Italia e in Europa sia inizio di libertà che inasprimento di sofferenze sia ripreso un dibattito sul significato dell'odio razziale e della violenza, sul 22 valore del ricordo e del perdono. E' paradossale il ritardo, che però segnala che ci sono traumi che hanno bisogno di tempi lunghissimi per dischiudersi, e che ci sono state condizioni politiche che hanno impedito di farlo prima, ma è ancora più paradossale che questi temi si adeguino a un presente in cui le stragi, gli assassini, di stato o di banda, sono tornati all'ordine del giorno e in cui la stessa distinzione tra civili e belligeranti non ha più senso. So che dobbiamo parlare, indagare, domandarci di più su questo inquieto presente, non so bene come e con quali risorse che non siano trite ideologie, paradigmi rimasticati. Bisogna ritrovare percorsi comuni con storici delle religioni, politologi, economisti e giuristi che abbiano voglia di vedere il mondo da vicino nelle sua grande varietà. Ci vuole una grande fantasia e audacia di pensiero e una forte connessione con il mondo, approfittando della rete, dei contatti e delle voci che possiamo attivare. Cose che oggi non abbiamo, ma in guerra bisogna tirare fuori tutte le risorse e sentire la responsabilità del futuro. Spade e crisantemi. Antropologi in tempo di guerra di Valerio Fusi Il testo che segue è stato scritto come contributo informale ad una discussione su guerra e antropologia promossa da Pietro Clemente, in occasione di alcuni seminari organizzati tra Prato e Roma. L'ho lasciato così come è nato, nella forma di un dialogo a distanza con Pietro, e con il bel testo che lui aveva preparato per il dibattito (vedi sopra). Non si tratta di un contributo accademico, che non ho titoli né dottrina sufficiente per produrre. Piuttosto una riflessione a mente fredda su alcuni temi di interesse antropologico che mi stanno a cuore; un poco ridondante, forse, a tratti declamatoria, ma non così tanto da invogliarmi a correggerla ora. Una perorazione sentimentale ed emotiva contro l'ingerenza dell'emotività e del sentimento nell'approccio professionale e politico degli antropologi ai temi della guerra: uno di quegli ossimori che dovrebbero piacere a Pietro. Vorrei che il lettore non si lasciasse trarre in inganno dal tenore retorico, che qualcuno ha ritenuto - a torto, credo - troppo giocato sul registro dell'invettiva, del cinismo e del paradosso, e che è soltanto l'involucro di una argomentazione che spero di aver reso invece crudamente realistica, così come appare a me. Il titolo, naturalmente, allude al libro di Ruth Benedict sulla cultura giapponese, che le fu commissionato dal governo americano durante la seconda guerra mondiale per scopi che non avevano molto a che fare con la promozione della fratellanza tra i popoli. Mi è sembrato un esempio interessante del modo di intendere il ruolo degli antropologi in tempo di guerra: un esempio che dovrebbe renderci meno ottimisti sull'uso, sugli effetti e sulla reputazione del nostro sapere in questo momento della storia.. pensiero - per quanto difficile e complesso - che ce l'avrebbe mostrata per quello che è. L'ontologia arrogante di chi immagina un mondo che è lì per essere compreso, la pretesa che lo scopo dell'uomo su questa terra, il valore della sua vita stia nel capire, nell'estrarre una regola, una cifra, un algoritmo, una ragione, un senso, una lex abscondita che stavano lì prima dell'uomo - o che erano nati con lui -, e che il possesso di questa ragione, di questo senso, fosse un bene in sé, che avrebbe reso il mondo migliore, e dato un senso a sua volta al nostro esserci dentro. Una pretesa del genere, per quanto generosa (ma anche non priva di qualche torbido risvolto) era destinata alla fine desolante che oggi lamentiamo. Mi sembra semplicistico, e inutile, chiedersi quale formula abbiamo sbagliato, quale errore abbiamo commesso nel decifrare la cabala della cosa in sé, illudendoci ancora che basti raddrizzare la rotta, mettere in sesto la bussola, e ritornare al punto in cui abbiamo perso di vista la verità perché sia possibile Caro Pietro, non so se quella che offro qui sia - come chiedi - una testimonianza esperta. Certo ho molto poco da testimoniare, e la mia esperienza è quella che è. Forse sono finito per errore sulla tua lista di indirizzi, ma ormai ci sono, e tanto vale dire come la penso. Potrebbe anche servire a qualcosa, dopotutto. Questa volta, però, per tanto che mi piaccia leggere quello che scrivi - l'intensità, la densità, il pathos, ma anche lo sguardo lucido e sofisticato - non riesco a trovarmi d'accordo. Non mi ritrovo in primis nel tuo sgomento epistemico davanti alla incomprensibilità del mondo contemporaneo. A me pare invece che il mondo sia così spaventosamente prevedibile. Lo sentiamo incomprensibile ora solo perchè abbiamo passato la vita a pensare che non lo fosse, e ci siamo gingillati con l'idea titanica che tutto potesse essere spiegato, che per quanto difficile, complessa, opaca fosse la realtà, c'era un 23 afferrarla di nuovo. Condivido il tuo disincanto, ma lo trovo ancora troppo ottimista, troppo poco disincantato, come quello di un innamorato tradito che maledice il suo amore, ma non riesce ad impedirsi di amare. Forse il mondo che abbiamo conosciuto era troppo semplice, troppo seducente il suo invito ad essere decifrato, troppo facili, e ingannevoli, i successi delle nostre traduzioni. Le cose che ci sgomentano oggi, e che ci fanno dubitare della ragionevolezza, della compresibilità del mondo, c'erano già allora, c'erano state. Sapevamo che c'erano: la guerra, i campi di sterminio, la morte, le atrocità. Alcuni di noi c'erano passati attraverso. Ma tutto era previsto nella Grande Spiegazione. I buoni avevano vinto la guerra, e questo aveva rimesso in sesto l'universo. Il male c'era ancora, eccome. Con il nostro potente telescopio lo vedevamo in tutta la sua minaccia, laggiù, ai confini del nostro mondo. Alcuni si erano spinti fino a lì, al seguito di certi compaesani armati fino ai denti che aderivano ad ontologie meno sofisticate delle nostre, e ne avevano riportato referti terrificanti. Ma era come andare al cinema, in un certo senso. Sistemiamo le contraddizioni principali, e il resto si metterà a posto da solo, in qualche modo. Prima o poi saremmo arrivati anche laggiù, noi o qualcuno come noi, o qualcuno per noi. Oggi però il male bussa direttamente alla nostra porta, anzi, come dice quella canzone, scuote i muri e fa tremare i vetri delle finestre. Forse è già riuscito ad entrare dalla finestra sul retro, e si è seduto sulla nostra poltrona preferita senza che ce ne accorgessimo. Ci rendiamo conto che niente è più come credevamo che fosse, che niente, forse, lo è mai stato veramente. E' successo ad altri, prima di noi, in momenti storici di altrettanta sgomentevole incertezza. Non c'è niente di nuovo in questi sentimenti di dubbio, di sconcerto, di impotenza, anche se è del tutto nuovo - del tutto - il contesto, e la misura, e la potenza del male. Su questo nel 1941 ha scritto una poesia Wystan H. Auden alla quale non c'è niente da aggiungere: Possiamo solo dire che è presente, e che nulla Di quanto imparammo ora ci serve minimamente, Perchè nulla di simile era accaduto mai. E' come se Avessimo lasciato la casa cinque minuti appena per spedire una lettera E nel frattempo la stanza di soggiorno avesse cambiato posto Con quella dietro lo specchio del caminetto; È come se, svegliandoci all'improvviso, ci trovassimo Sdraiati sul pavimento, ad osservare la nostra ombra Pigramente stirarsi alla finestra. Intendo dire che il mondo dello spazio in cui gli eventi si ripetono c'è sempre Ora soltanto non è più reale; quello reale non è in alcun luogo, È dove il tempo permane immobile e niente può accadere; Intendo dire che per quanto ci sia una persona di cui sappiamo tutto, che ancora porta il nostro nome e ama se stessa come prima quella persona è divenuta una finzione; la nostra vera esistenza è decisa dal caso e non ha importanza l'amore. Ecco perchè disperiamo; ecco perchè vorremmo dare il benvenuto Al babau della nursery o allo spettro della cantina, perchè anche L'ululato violento dell'inverno e della guerra è divenuto come un motivo da juke-box che non si osa fermare. Temiamo il dolore, ma temiamo di più il silenzio; Perchè nessun incubo di oggetti ostili potrebbe essere terribile come questo vuoto. Questa è l'Abominazione. Questa è l'ira di Dio. Spade e crisantemi La guerra, allora. E' la guerra, con tutto il suo seguito di lutti, atrocità, distruzioni e sangue, che ci fa dubitare di tutto. Ci spaventa, ci atterrisce, certo, ci sconvolge, ma sconvolge soprattutto la consolatoria architettura razionale del futuro in cui avevamo ottimisticamente riposto la nostra fiducia, su cui contavamo di costruire le nostre vite, le nostre e quelle dei nostri figli e nipoti. Devasta l'idea che ci eravamo fatti del mondo e di noi stessi, e ci obbliga a rimettere tutto in discussione. Dobbiamo capire, ripetiamo a noi stessi. Ma capire che cosa? Capire per che cosa? Perché tutto torni come prima, e il male venga di nuovo respinto in quei territori lontani che esploravamo con il telescopio, in attesa di annetterli ai nostri possedimenti? E in base a quale ragionamento associamo il progresso del bene all'incremento delle nostre conoscenze? Cosa ci fa credere con tanto ottimismo che la sconfitta del male sia conseguenza necessaria della sconfitta dell'ignoranza, della superstizione, della confusione mentale, dell'entropia concettuale di cui ci sentiamo vittime? Vogliamo capire. E poiché la guerra è guerra con l'altro, è soprattutto l'altro che vogliamo capire. Finalmente un lavoro adatto a me, pensa l'antropologo, che ha passato la vita a cercare di capire l'altro, che ha costruito su questo la propria professione, seppure con esiti ambigui. Ma anche concedendo la praticabilità epistemologica di una conoscenza del genere, siamo davvero certi che conoscere l'altro Fino ad ieri non sapevamo d'altro, e credevamo Di avere quanto ci occorreva - l'adrenalinico coraggio della tigre, La discrezione del camaleonte, la modestia della daina, O la devozione della felce alla necessità spaziale Esercitare la propria virtù civica non era Così impossibile dopo tutto; ridurre le nostre perdite E seppellire i nostri morti era davvero facile... Ma allora eravamo bambini: questo era un momento fa, Prima che una novità offensiva fosse introdotta Nelle nostre vite. Perchè non siamo stati messi in guardia? Forse lo siamo stati Forse quel misterioso ronzio dietro il cervello Che sentivamo a volte - sedendo soli Nella sala d'aspetto di una stazione di campagna, guardando in alto la finestra della latrina - non era indigestione ma questo Orrore che cominciava già a farsi strada? Come e quando avvenne non lo sapremo mai: 24 sia di per sé uno strumento per appianare i conflitti? O non serve semmai al contrario, come sanno bene i servizi di intelligence di tutti i paesi, che da sempre - come gli antropologi, e qualche volta anche con l'aiuto degli antropologi - studiano e cercano di capire il nemico perché sia possibile colpirlo meglio? In fondo è per questo che si chiamano come si chiamano, no?: intelligence. "… dovevamo bombardare il palazzo dell'imperatore? … Che cosa dovevamo dire nella nostra propaganda che servisse a salvare vite americane e indebolisse la determinazione dei Giapponesi di combattere fino all'ultimo uomo? Doveva prendersi in esame anche l'eventualità di un annientamento del popolo giapponese?" Queste le domande che il governo americano rivolse a Ruth Benedict nel 1944. Non saprei dire se la preferenza che fu poi accordata all'ultima opzione di quella lista sia stata propiziata anche dal lavoro della Benedict, ma trovo comunque la circostanza piuttosto inquietante. Mi pare allora che non è tanto offrendo la sua presunta (e tutta da dimostrare) competenza nella comprensione dell'altro che l'antropologia potrebbe dare un contributo alla riduzione del conflitto (o almeno alla riduzione del nostro proprio sconcerto cognitivo), quanto piuttosto riproponendo la consapevolezza - che sta all'inizio ed alla fine di ogni antropologia rispettabile - della relatività delle culture e della impossibilità di ricondurne la varietà (e la comprensione) ad una struttura invariante di principi e di valori. Paradossalmente, cioè, esibendo non i suoi successi come disciplina, ma il proprio intrinseco scacco epistemologico. come siamo dei nostri, ci sembra sempre talmente evidente che quelli dei nostri nemici siano sbagliati, nonostante che loro si ostinino a considerarli valori, nonostante che anche loro siano disposti (qualche rara volta, ma sempre più spesso di quanto non accada a noi) a morire (e uccidere) per loro. C'è sempre una lotta tra il bene e il male, e tra il giusto e l'ingiusto, ma il problema è che immancabilmente entrambi i contendenti ritengono di stare dalla parte del bene, e che essere collocati in tale posizione privilegiata renda sacro il loro compito: ne santifica il fine e rende lecite pratiche che in altri contesti sono considerate inaccettabili. In questo contesto, se è uno dei nostri ad uccidere, sarà esentato dall'esecrazione universale che si riserva a chi sopprime una vita umana. Se invece si fa uccidere, diventerà un eroe, o un martire, o tutte e due le cose insieme. Al contrario i nostri nemici, nelle stesse circostanze, saranno rispettivamente assassini e fanatici. Lo stesso vale, simmetricamente, anche per loro, anche se gli aggettivi possono cambiare. E possono cambiare anche le modalità di esercizio: si può essere assassini e fanatici barricandosi dietro una cortina di armi potenti, non diversamente da quelli che invece scelgono di legarsele al corpo con una cintura, lasciando che Sansone muoia con i filistei, piuttosto che sterminarli tutti a distanza, fumando il sigaro in uno studio ovale. Non è che tutte le ragioni siano uguali, che tutti i valori siano uguali. Non è, come dice la critica rozza del relativismo (ma non si ha idea di quanti sofisticati pensatori vi si affidino) che tutto è indifferente, che una cosa vale l'altra, che un valore vale l'altro. Il vero relativismo, non lo spauracchio da operetta con cui si confrontano gli antropologi a corto di argomenti, non sostiene l'inesistenza o l'impraticabilità, o l'assenza di senso degli assoluti, ma piuttosto l'esistenza di assoluti relativi, validi per ciascun relativo ambito culturale, e in esso assolutamente cogenti. Personalmente sono molto affezionato ai miei valori assoluti, che non cambierei con quelli di nessun altro. Per alcuni di essi sarei disposto (forse) anche a morire, o almeno ad accettare di subire (o infliggere) una quantità ragionevole di sofferenza. La consapevolezza della loro relatività non me li rende meno cari, meno cogenti, meno assoluti nella mia vita. Dal mio punto di vista relativo sono assolutamente convinto, per esempio, che la ragione e il torto non possano mai essere divisi in parti uguali, e che qualche volta accade persino che la ragione stia tutta da una parte (per dirne una, io non accetterei mai di chiamare la Palestina come fa Pietro salomonicamente - lo spazio israelo-palestinese). Ma come posso pensare che solo la mia vita sia illuminata dalla luce della verità, e che tutti gli altri siano condannati all'errore? Come posso non riconoscere che il mio vicino (e a fortiori il mio lontano simile, e il mio potenziale nemico) possa averne di diversi e altrettanto assoluti, e che ami conformare ad essi la sua vita e le sue aspettative, così come accade a me? I nemici. Ci saranno sempre i nemici. Li possiamo (qualche volta dobbiamo) combattere, e uccidere, anche, per affermare la bontà dei nostri valori, per garantirne la sopravvivenza (e la nostra, insieme a loro). Ma possiamo combattere meglio (e forse uccidere meno) non se tentiamo di capire i loro valori (impresa dagli esiti Giudizi di valore Accettare un punto di vista relativistico (eh, sì: questa è la parola, per quanto dubbia sia la sua reputazione nel senso comune come presso gli ambienti accademici, e susciti invariabilmente sdegno e ripulsa) significa per prima cosa diffidare dei giudizi di valore. Qui la parola chiave è diffidare. Non è possibile (non ha senso) escludere i giudizi di valore dall'orizzonte conoscitivo di ciascuno. Il rifiuto stesso dei giudizi di valore nasce peraltro esso pure da un giudizio di valore. Ogni passo della nostra vita quotidiana e ogni parola del nostro sapere di antropologi gronda di giudizi di valore. La nostra vita è costruita sui valori, sono i valori l'impalcatura del nostro mondo, sulla quale appoggiamo le nostre convinzioni minute, la percezione del nostro essere al mondo, alla quale affidiamo il senso della nostra esistenza. Se si dà il caso, siamo anche disposti ad uccidere per i nostri valori. Qualche rara volta persino a morire. Non potremmo mai farne a meno. Possiamo però tentare di amministrarli con una maggiore consapevolezza: diffidare - appunto - delle formulazioni troppo assertive, degli universalismi e dei fondamentalismi. Un requisito di buon senso, prima ancora che una premessa metodologica; ma anche qualcosa di più del frusto elogio liberale della tolleranza che tutti abbiamo visto naufragare così miseramente alla prova di questi anni di fuoco. Questo è importante soprattutto per la guerra: la guerra è per l'appunto anche e principalmente un conflitto di valori. Sicuri 25 quanto mai incerti), ma se ci rendiamo conto che anche i nostri nemici, come noi, agiscono sulla base di valori, e che anche loro, come noi, non accetterebbero di vivere secondo altri valori che non siano quelli, per quanto a noi sembrino assurdi, infondati, ridicoli, malvagi. uno che semina terrore, a differenza dei bombardieri e dei tank, che invece suscitano tenerezza e allegria. E se sei un terrorista, sarò comunque costretto a combatterti, ma questa volta anch'io sarò un po' più lasco nelle mie regole. Sarò costretto a torturarti, a sbatterti in galera senza garanzie, a ucciderti subito, senza lasciarti neanche parlare, a radere al suolo la casa dei tuoi familiari, a spezzarti le braccia, e umiliarti, ecc. ecc. Sei un terrorista, soprattutto, perché te la prendi con vittime innocenti, e con i civili. Certo, anche io, con la mia guerra regolare, faccio vittime innocenti, forse cento o più volte di quanto ne faccia tu nelle gelaterie e nelle metropolitane. Per venire a prendere te nei tuoi introvabili nascondigli, mi sentirò autorizzato a radere al suolo il quartiere dove ti nascondi, ad assediarlo togliendo a migliaia di civili ogni mezzo di sussistenza, ad imbottire di mine le tue strade, a lasciar morire per embargo i tuoi torpidi concittadini che non si decidono a liberarsi di te. Per scoprire le tue armi proibite potrò seminare morte e terrore con le mie armi certificate. Ma tu sei un terrorista, e se sei un terrorista, in fondo, te la sei cercata, e se la sono cercata i tuoi familiari, i tuoi vicini di casa, i tuoi connazionali. Ma noi non odiamo solo i terroristi. Aborriamo, per esempio, anche i popoli che vorrebbero praticare la pulizia etnica. Ma non tutti allo stesso modo. Alcuni di questi ci piace bombardarli, ad altri preferiamo rivolgere un invito educato a non esagerare. Anche qui vige la regola delle 'certe condizioni'. Abbiamo fatto a pezzi i serbi per difendere i Kossovari, ma abbiamo lasciato senza battere ciglio che i kossovari facessero a loro volta a pezzi quello che restava dei serbi. Processiamo Milosevic come un criminale di guerra, ma invitiamo alla nostra tavola, con tutti gli onori, il macellaio di Sabra e Chatila. Abbiamo esaltato come un eroe del nostro secolo lo studente cinese che fermò i carri armati sulla piazza Tien an Men, ma consideriamo gli adolescenti palestinesi che combattono a sassate i tank israeliani, al meglio, come illusi, se non come fastidiosi fanatici che non si vogliono rassegnare realisticamente al destino che il mondo libero ha riservato per loro. Il nostro senso universale di giustizia è molto tollerante con i nostri propri comportamenti e con quelli dei nostri amici e compari, ma possiamo ragionevolmente sperare che la stessa tolleranza sia condivisa da quelli che ne fanno le spese? I nostri valori Vediamo i nostri valori come leggi, attribuiamo loro tutta l'autorità delle leggi, ci aspettiamo che diano legalità al nostro mondo. Ma qualche volta diventa necessario proteggersi, difendersi dal rigore delle leggi, dal principio primordiale dell'eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ci deve essere comunque sempre un modo di aggirare la legge, una via laterale d'uscita, e legulei esperti in cavilli che siano in grado di far assolvere chi la infrange. Non c'è tabù più grande di quello posto sulla vita umana. Ma tutti accettiamo da sempre che sotto certe condizioni possa essere lecito, o giusto, o inevitabile, sopprimere una vita. E' una cosa che non sanno solo i cappellani militari, o il boia di Alcatraz, ma fa parte del nostro senso comune. Il trucco, naturalmente, sta tutto in quel 'sotto certe condizioni'. Basta stabilire quali sono le condizioni che si possono accettare, e quelle inaccettabili, e avremo un confine entro cui trasgredire tranquillamente i nostri tabù. La guerra è un buon affare, sotto questo punto di vista, perché offre un salvacondotto onnicomprensivo rispetto alle proibizioni più cogenti. Quasi tutto quello che si fa in una guerra, ogni sopruso, ogni strazio, ogni tortura, ogni strage diventa in una certa misura accettabile e legittimo, perché la guerra è un valore così totalitario che relativizza a se stessa tutti gli altri. Allora - con il cuore che sanguina - si può ammettere di poter torturare (sotto certe condizioni), colpire per sbaglio civili innocenti, colpire con premeditazione civili innocenti (quando sia strettamente necessario), arrostire mezzo milione di giapponesi con una bomba atomica, ecc. ecc. Perché è così che si fa: la guerra si fa con le torture, con il dolore, con la morte parossistica, con il terrore, senza nessuna regola. Abu Ghraib e Guantanamo non sono eccezioni, degenerazioni. Sono il nostro modo di sgozzare con il coltellaccio, per arrivare lì dove non arriva la bomba intelligente, o la missione chirurgica. In questo contesto un altro principio che sembrerebbe marginale si dimostra invece fondamentale: entrambi i contendenti devono indossare una divisa riconoscibile, ed entrambi ricorrere allo stesso tipo di armi. Vanno benissimo i carri armati, fucili con la baionetta, bombe di tutti i tipi, portaerei, satelliti spia, bombardieri atomici, parecchi tipi di gas. Tutti bene. Chi li possiede può partecipare alla guerra, essere accreditato come un combattente regolare. Ma se non ti puoi permettere questo tipo di armi, è meglio che ti tenga alla larga dalla guerra. E' meglio, per dirlo con parole chiare, che tu ti sottometta direttamente, come se la guerra l'avessi già persa. Se non vorrai accettare questa condizione, e pensi di farti saltare in aria in una gelateria sul lungomare, o in una metropolitana, o rapire qualche innocente giornalista, sei solo un terrorista. Parola terribile: letteralmente: Cuius regio, eius religio Cuius regio, eius religio: la saggezza degli antichi. Purtroppo è facile essere tolleranti con una religio, finchè la sua regio se ne sta tranquilla laggiù, a distanza di sicurezza. Ma a differenza delle religiones, le regiones hanno la fastidiosa tendenza, soprattutto di questi tempi, a mutare continuamente i propri confini, l'una a danno dell'altra, essendo lo spazio disponibile sempre lo stesso. In particolare, la regio dell'occidente, indipendentemente dai confini delle carte geografiche, ha finito per espandersi indefinitamente, e per espandere indefinitamente la portata della sua religio, e si è determinato di fatto un problema per la sopravvivenza delle altre religiones, quando non anche molto concreti problemi di 26 sopravvivenza tout court per i relativi credenti. Il conflitto diventa allora inevitabile: è una lotta per la sopravvivenza che non può conoscere mezze misure o sincretismi. E' solo un'illusione, un wishful thinking, una stucchevole ipocrisia l'idea che le culture, e le etnie, possano precedere mano nella mano, imparando l'una dall'altra in un clima di conciliazione e di reciproco rispetto, cantando a turno i rispettivi inni sacri, ognuna indossando il suo costume tradizionale, come nei sussidiari delle elementari, senza che i loro rapporti siano condizionati dalla molto concreta contabilità del dare e dell'avere culturale, degli interessi reali dei popoli e della loro affezione ai propri valori. L'occidente è diverso, certo. Lo riteniamo diverso intanto perché in quanto occidentali siamo in grado di apprezzare quel tipo di diversità (come naturalmente ogni cultura fa per la sua propria diversità). Ma è anche diverso, oggi, a causa della sua incomparabile, spropositata potenza, che si accompagna ad una altrettanto terribile fragilità. Noi conosciamo bene questa diversità, e la conoscono altrettanto bene i nostri nemici, che hanno imparato col tempo a sperimentare la nostra potenza, e stanno imparando ora a colpire la nostra fragilità. Questa consapevolezza ci obbliga ad una responsabilità. Ma ancora, non necessariamente, non prioritariamente ad una responsabilità etica, che individui un dovere altruistico. E' innanzitutto una responsabilità verso noi stessi. La supremazia di potere che abbiamo conquistato nei secoli non ci impone il rispetto degli altri come valore morale. Ce lo impone essenzialmente come condizione ormai indispensabile di stabilità del sistema che abbiamo costruito, per la semplice ragione che l'equilibrio del sistema di cui siamo padroni è ora minacciato dalla sproporzione intollerabile del nostro dominio, e che la moderazione non è più tanto una virtù, quanto una strategia irrinunciabile per proteggerlo. E' per questo che la scelta di fare la guerra è stata una scelta sbagliata. Non voglio dire che sia stata una scelta amorale, o ingiusta (questo lo penso io, ma non lo pensavano, forse (forse) quelli che hanno deciso di farla, e di sicuro non lo pensano quelli che l'hanno approvata). Sarei ingenuo se credessi di poter convincere queste persone che la loro guerra è amorale e ingiusta, convincerli cioè della bontà dei miei valori. Anche con i valori si dovrebbe usare il rasoio di Occam: se non possiamo condividere gli stessi principi etici, forse potremo trovarci d'accordo sulla misura della ragionevolezza e utilità di una guerra come questa, condividere una logica, piuttosto che un ideale (pur sapendo che anche la logica è un valore, e di quelli più a rischio in caso di guerra). Posso sperare, così, di trovare un punto di incontro con i miei interlocutori sui parametri per valutare l'efficacia della guerra, o la corrispondenza tra gli esiti reali e gli intenti proclamati. E argomentare, con qualche speranza in più di farmi capire, che è stata sbagliata perché ha preteso ingenuamente (o stupidamente, o furbescamente) di compensare con un atto di forza una situazione ben diversamente complessa di squilibrio, ed ha rovinosamente sbagliato nell'individuare i suoi nemici. E' stata sbagliata cioè perché ha contraddetto alla sua stessa logica, ai suoi principi, ai suoi intenti, e ha prodotto risultati opposti a quelli che si era ripromessa di raggiungere (ammesso naturalmente che fossero davvero quelli dichiarati). Quello che mi sento di criticare innanzitutto della guerra americana, è la sua inefficacia. Non la sua ingiustizia, la sopraffazione, la violenza parossistica, non la sua crudeltà, non la sua odiosa pretesa imperiale, non tutte quelle cose disgustose che mi ripugnano in questa guerra, e che contraddicono e feriscono i miei valori. Quello che non posso accettare è che questa guerra non produca risultati. Che dimostri così vistosamente la sua inadeguatezza rispetto ai fini che si è prefissa, ed ai costi morali che si è assunta. Che sia diventata - come prevedibile - non la cura, ma ormai la causa principale della nostra insicurezza e della nostra angoscia per il futuro. Non pretendo che gli americani realizzino la democrazia in medio oriente (tutti sanno che non lo vogliono davvero e non lo faranno mai), e non mi interessa, e non credo di volere che lo facciano. Mi aspetto però che gli americani e chi li sostiene garantiscano (oltre alla loro) anche la mia sicurezza e quella della mia famiglia. Il mio cuore di sinistra sanguinerà un poco se per fare questo gli americani dovessero fare del male agli arabi, ma del resto è quello che noi occidentali abbiamo sempre fatto con gli arabi nell'ultimo secolo, e per secoli ad una quantità di altri popoli. Non è stato così con gli indios, gli indiani d'america, gli indiani dell'India, con i maori, con tutti senza eccezione gli africani? Cattivi. Eccome se siamo stati cattivi! Ma per fortuna gli indiani, e i maori, e gli aborigeni australiani, e i dannati dell'Africa non hanno imparato a farsi saltare con la dinamite nelle metropolitane, o non avevano metropolitane dove farsi saltare, e tutto è andato per il verso giusto. Ora si contentano di premere alle nostre porte, a spingere alle frontiere con la sola forza della moltitudine, e anche questo ci costerà qualcosa. Questa guerra non li terrà lontani, li spingerà anzi sempre più verso di noi, sempre più contro di noi. La guerra giusta è un ossimoro. Esistono guerre che qualche volta, e sotto certe condizioni, possono essere utili, o inevitabili, o servire a uno scopo, essere il male minore. Non è questo il caso. Ma gli argomenti pacifisti non sono abbastanza efficaci per dimostrarlo. Il pacifismo come ideologia è altrettanto vacuo, fondamentalista ed ipocrita del suo opposto, come tutte le ideologie, appunto. L'ipocrisia qui sta nell'assumere una visione ecumenica di fratellanza che è falsa dall'inizio alla fine. Una illusione di comunicabilità, di convivenza pacifica, di universalità del bene, di naturale socievolezza delle etnie e dei popoli che non è mai esistita se non nei compitini degli antropologi politicamente corretti, e nelle favole che si raccontano ai bambini per farli addormentare. E' il conflitto, il sangue, la morte, la sopraffazione che hanno sempre funzionato, e funzionano perchè servono a qualcosa, hanno uno scopo, una dinamica, una logica, una inerzia terribile ed inevitabile. Il problema è che oggi l'impazzimento occidentale ha reso pazzo 27 il sistema della guerra, e da modalità fisiologica delle relazioni interetniche ne ha fatto l'unico linguaggio praticabile, un linguaggio totalitario troppo facile da somministrare avendo alle spalle carri armati invulnerabili e bombardieri invisibili, e davanti moltitudini di barbari male in arnese. E' questo che produce un senso generalizzato, incurabile di disperazione e di ingiustizia. condizione temporanea di equilibrio alle tensioni tra le culture, assestando le dinamiche interculturali su un livello di stabilità omeostatica garantito dalla sua inarrivabile superiorità tecnologica ed energetica. Ma c'è una soglia critica oltre la quale non conviene, non è saggio spingere il proprio vantaggio, l'estensione del proprio dominio. Non si può vivere per secoli comprimendo le condizioni di vita dell'altro; non senza offrire qualcosa in cambio. E non perché sia immorale, ma perché non funzionerà. Non è necessario sentirsi in colpa. Forse non ha neanche senso. Il conflitto e la sopraffazione, insieme con la morte, la tortura, gli stupri, gli strazi, gli sgozzamenti col coltellaccio stanno tutti nel palinsesto dei rapporti tra le culture. Si vince o si perde. Ma conviene a chi vince di adottare strategie sensate perchè le sue vittorie non conoscano soste, perché il suo dominio sia duraturo. C'è una necessità di condivisione, di ragionevole compensazione che non ha niente a che vedere con la carità o con il risarcimento. Siamo arrivati al punto in cui l'occidente deve decidersi a risarcire quelli che ha stuprato non perchè sia giusto farlo, ma perché ormai questo è l'unico modo per tenerli a bada. Non perchè è etico, non perchè e doveroso, ma perché è conveniente, perché è indispensabile Bisogna venire a patti, perchè i nostri nemici (per quanta simpatia possa avere per loro, per quanta pietà, comprensione, amore possa avere per loro, loro sono i miei nemici, non ci posso fare niente, per il semplice fatto che io sono il loro nemico) hanno armi altrettanto potenti delle nostre - più potenti, forse - anche se di un genere diverso, ed hanno in più dalla loro l'aver superato la soglia dell'interesse alla propria sopravvivenza. Davvero vogliamo credere che i kamikaze si fanno esplodere perchè sognano le ventiquattro vergini del paradiso coranico, o perchè qualche malvagio sceicco capitalista, o qualche fanatico imam li plagia o compra le loro famiglie, o paga per l'educazione dei loro figli? Certo non sono i disperati delle baraccopoli che si fanno saltare. Non sempre, almeno, e non certo guidando aerei contro i grattacieli. Ma questo non ha importanza. Sarebbe ingenuo cercare una linearità così banale in questo scenario complesso di azioni e reazioni, di debiti e crediti storici e culturali vecchi di secoli, di sangue sedimentato e di ingiustizie, di contrasti voraginosi nelle condizioni di vita. Non fa differenza se sono i ricchi sceicchi a finanziare i kamikaze, per i propri interessi, o se è solo fanatismo religioso quello che li spinge, o il desiderio di vendicare un fratello, un figlio assassinato: è lo scenario che conta, l'intreccio insuperabile di interessi, credenze, sofferenze individuali, fanatismi, ingiustizie occidentali ed orientali, di sangue mai redento, di famiglie straziate. In questa contabilità, è soltanto la somma finale che ha la sua terribile evidenza, un significato inequivocabile. Dobbiamo venire a patti, allora. Se quei poveri pezzenti dei palestinesi che vivono da quaranta anni nelle tende ai margini della loro terra occupata stessero buoni e calmi, o si sterminassero tra di loro, o si lasciassero disciplinatamente morire di fame come tutti quei disperati in Africa, senza venirsene a casa mia a far saltare le gelaterie sul lungomare, i miei grattacieli e le mie metropolitane - o senza che qualcuno decida di farlo con la scusa Omeostasi L'ingiustizia: reagiamo all'ingiustizia perchè sentiamo violato, offeso un imperativo morale. Ma non è solo questo. Non è soprattutto questo. Perché quella che noi chiamiamo giustizia che altri chiamano utu, dike, voor, drast - è essenzialmente un principio intrinseco di equilibrio, un valore termodinamico che ha a che fare più con la biofisica che con i sentimenti e con l'etica. Se la natura ha orrore del vuoto, le culture aborrono lo squilibrio. E' per questo che l'ingiustizia si paga, e si paga anche a distanza di centinaia di anni. E' per questo che le colpe dei padri ricadono sui figli. Perché ogni ingiustizia compromette la bilancia sensibile dei campi di forza, inserisce una frattura nella continuità e nella stabilità delle energie locali, impone un salto nella natura delle culture che non ammette salti. E' la morte che fa la differenza. La morte che dissolve permanentemente ogni equilibrio, che giustifica qualunque vendetta. E' la mimesi reciprocante della morte - come dice con la solita sofisticata ovvietà Rene Girard - che finisce inevitabilmente per produrre una spirale crescente di violenza e ritorsioni. Alla morte non si può che rispondere con la morte. Al di là del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. La morte produce una mutilazione che chiede di essere risarcita ad un prezzo equivalente: chi dà la morte sarà ripagato, se e non appena possibile, con la morte. Ma è appunto quello che l'occidente, oggi, non può fare, quello che non può permettersi di fare, proprio perchè le energie di cui dispone sono esorbitanti, e ogni sua vendetta, ogni cieco tentativo di ristabilire col sangue l'equilibrio perduto apre un ciclo inarrestabile di reazioni che non possono essere sostenute senza che ne escano danneggiate permanentemente le condizioni stesse della nostra esistenza. Non quando la vita quotidiana di ognuno di noi può essere devastata da pochi chilogrammi di tritolo in una metropolitana a mille miglia da casa nostra. La morte produce un danno. Si può discutere in eterno su come siano stati cattivi gli occidentali nell'impossessarsi del mondo. Ma questo non ha importanza. Chiunque si fosse impossessato del mondo sarebbe stato altrettanto malvagio, e noi occidentali non possiamo che rallegrarci di aver avuto la meglio alle porte di Vienna, o a Poitiers, a Kartoum o a Tenochtitlan a suo tempo. Ha importanza però avere consapevolezza che questo processo ha prodotto un danno, ed il danno prima o poi chiede di essere compensato. Chi l'ha subito, magari venti generazioni dopo, cercherà in qualche modo (in tutti i modi) di ottenere il suo risarcimento. Nella modernità il dominio occidentale aveva imposto una 28 della loro sofferenza - continuerei a piangere sinceramente per loro, la mattina presto, mentre sorbisco il mio cappuccino caldo con croissant, come ho fatto per i curdi, per gli africani, come altri hanno fatto prima di me per gli ebrei, per gli armeni. E poi continuerei - com'è giusto - ad occuparmi dei casi miei. Quello che oggi rende tutto diverso - più preoccupante, e pericoloso, e angoscioso - è la spaventosa contiguità dei nostri mondi rispettivi. Alziamo gli occhi dal telescopio, e ce li vediamo davanti, i nostri nemici, i barbari, a grandezza naturale. E non è una vista piacevole. accetteremmo di nutrirci staccando a morsi la carne dal corpo vivo dell'animale. Ma a conti fatti siamo solo noi che poniamo in valore questa differenza, e agli atti pratici, crudamente biologici, non c'è molta differenza (non ce n'è alcuna) tra il sussiegoso gourmet seduto al tavolo del Ritz, e la iena della savana che si guadagna senza ipocrisie la propria colazione. Uno, nessuno e centomila Senza ipocrisie. Piangiamo la ragazzina di Tel Aviv che viene fatta a pezzi sul lungomare mentre mangia il suo gelato, e allo stesso modo soffriamo per il piccolo pezzente della tendopoli palestinese ucciso (per errore!) dai militari israeliani. Ma proprio allo stesso modo? In realtà quella ragazzina è troppo simile a nostro figlio, con le sue scarpe di marca identiche alle nostre, con il portatile e le cuffie alle orecchie. Veste come lui, ascolta la stessa musica, si aspetta dal mondo le stesse cose. Nella sua morte vediamo morire qualcosa anche di nostro figlio. L'altro è solo un poveraccio, uno dei tanti che abbiamo imparato a compiangere nelle parrocchie e sui banchi delle elementari, con un misto di compassione e retorica. Quella morte, quel tipo di morte sta nel conto, fa parte del suo destino. Centinaia di migliaia di africani, milioni di asiatici, milioni e milioni, morti senza pietà, allora e ancora. Troppi, per averne pietà: la pietà occidentale ama i piccoli numeri, l'individuo, esalta e cura la sofferenza individuale. Le morti cumulative gli fanno orrore, ma l'orrore è un sentimento tutto particolare: prendiamo atto del conteggio con un senso di tiepida, torpida ripugnanza, perchè non siamo in grado di rappresentarcene davvero l'enormità. Un milione di persone morte, di africani morti, non sono come un milione di individui, uno per uno i nostri vicini di casa. Per questo tremila americani andati a fuoco in un grattacielo ci hanno sconvolto, perchè in quel caso abbiamo dovuto moltiplicare per tremila il nostro dolore, la nostra individuale pietà, e soprattutto le nostre paure private. Sono tremila Frank, Alan, Rose, Valerio, Pietro, ognuno con la sua faccia, ognuno con la sua storia, come noi, come ciascuno di noi. Come ciascuno di noi che potrebbe trovarsi nelle stesse circostanze. Non come quella montagna indistinta di cadaveri neri che ingombra tutta l'Africa, non come la massa sterminata di morti che la nostra civiltà si lascia dietro da sempre. Quelli si possono contare solo tutti assieme: massa, appunto. Ci commuovono, ci fanno pena, la loro sorte ci fa indignare, ma pazienza. Stasera dormiremo tranquilli, come ieri, come il giorno prima. Non siamo stati noi, e prima o poi faremo qualcosa; di sicuro, faremo qualcosa. Ma tutto questo ha una sua tragica naturalezza. E' così che vanno le cose: ogni cultura riconosce solo il proprio simile, gli altri sono comunque inumani, o comunque meno umani. Non c'è niente di cui dovremo scandalizzarci. La sorte ci ha riservato di stare dalla parte di chi ha vinto, noi abbiamo solo ereditato una fortuna accumulata con mezzi equivoci. Ma quello che è stato è stato, e comunque è certo che i nostri nemici non si sarebbero comportati diversamente da noi, nelle stesse circostanze. Che cosa ho fatto per meritare tutto questo? Siamo davvero così ingenui - o ipocriti - da non vedere come il nostro benessere, le condizioni stesse di esercizio della nostra vita quotidiana, la possibilità stessa di coltivare i nostri valori nascono dalla sofferenza altrui, dalla rinuncia che gli altri hanno dovuto fare alle cose che noi abbiamo avuto, che noi ci siamo presi? Non so, non credo che dovrei sentirmi in colpa per questo. Non l'ho fatto io questo mondo. Non c'ero, io quando tutte queste brutte cose sono accadute. Sono condannato a raccoglierne i frutti, e non potrei fare diversamente. Lo dice bene il poeta: "chi è disposto ad affrontare la disperata catabasi nel ringhio dell'abisso che sempre giace sotto il nostro allegro picnic nella brughiera del dilettevole, dove ci sdraiamo, avendo già deciso ciò che non chiederemo, miti, scaldati dal sole, assuefatti alla luce della menzogna accettata" (ancora Auden: il cuore fino dei poeti arriva molto più in là, e prima, dei cervelli ben temperati degli antropologi e degli scienziati in genere). E' per questo che non sono affatto d'accordo con Pietro quando dice che il nostro rischia di divenire un mondo opulento e blindato. Il nostro è un mondo opulento e blindato, lo è sempre stato. Il rischio, oggi, è proprio del contrario: che non sia più abbastanza opulento, e abbastanza blindato. E questo fa paura, vero? E' solo un'illusione infantile l'idea che il nostro giardino di principi felici possa espandersi indefinitamente, e che solo l'ignoranza, la pazzia, la stoltezza degli altri - o la malvagità di alcuni dei nostri per la quale ci rifiutiamo di assumere responsabilità - abbia impedito e ancora impedisca loro di diventare come noi, l'ingenuo e confortante accecamento sul dato di fatto incontrovertibile che la nostra felicità, il nostro benessere, il nostro sistema di vita si reggano su un debito infame e spropositato di sangue, di morte e di sofferenza. Ci piace mangiare la nostra bistecca allegramente seduti al tavolo del ristorante, ma non vogliamo pensare alla sofferenza della vacca, a ciascuna delle fasi durante le quali è stata ingrassata forzosamente, e poi sanguinosamente soppressa, squartata, eviscerata, fatta a pezzi, da uomini con un coltellaccio tra le mani e il grembiule sporco di sangue. Ci rifiutiamo vedere l'animale nella bistecca, ci rifiutiamo di vedere il macellaio, e rifiutiamo di riconoscere il debito che abbiamo contratto con uno come lui, che non inviteremmo mai alla nostra tavola. D'altra parte non 29 Perplessità essenziali Resta da vedere cosa è possibile fare in uno scenario del genere. Che cosa possono fare gli antropologi, come chiede Pietro. Una domanda impegnativa, ma anche ambigua. Non si capisce se ci può essere qualcosa che gli antropologi possono fare proprio in quanto antropologi, in quanto amministratori di una conoscenza specifica che può essere utilizzata per comprendere la sostanza di questa guerra - o addirittura per difendersene - oppure se si chiede loro di fare qualcosa come lo chiederemmo ai professori di storia antica, o ai dentisti, agli idraulici, qualcosa che li riguarda come uomini, come parte in gioco, come portatori di interessi. Pietro sembrerebbe - com'è ovvio - interessato alla prima di queste opzioni, ma le sue domande, subito dopo, i suoi interrogativi, sembrano soprattutto riguardare la seconda. Il classico dubbio dei chierici, com'è riassunto nella presentazione dei seminari: "che ne è del confine tra scienza e politica, fra l'istanza, cioè, di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi?" Bella domanda. Una volta sapevamo come rispondere, vero Pietro? Tutti quei discorsi sulla non-neutralità della scienza, il posto degli intellettuali, la "battaglia delle idee". Allora sì che avevamo idee chiare da mandare in battaglia, e alcune hanno fatto egregiamente il loro dovere. Ora invece quello che prevale è il dubbio e l'incertezza, ed è questo soprattutto che ci sgomenta. La lettera di Pietro pullula di espressioni di dubbio e di incertezza: "incredibile","brancolo nel buio", "vedo nero", "innominabile pantano", "incomprensibile intreccio", "evento inimmaginabile", "non so bene come", ecc. Tutto il suo testo è intessuto di sconcerto e di amarezza, di ansia, e a poco vale, mi pare, quell'invito finale ad essere "più problematici", ad usare una "grande fantasia ed audacia di pensiero". Messo lì dove si trova, suona più come un fervorino consolatorio per non finire in tristezza, qualcosa che in mancanza di meglio ha dovuto prendere il posto di una ormai impraticabile proposta di metodo scientifico. La chiave di questo sta in quel "faccio parte di una generazione che ha peccato di dogmatismo e semplificazione". Un peccato: è un modo di dire, certo, ma rivelatore. Sembra che dobbiamo pentirci di qualcosa, vero? Certo, se il mondo va così, in questo momento, siamo noi che abbiamo perso (qualsiasi cosa si intenda con questo 'noi'). Ma abbiamo perso perché eravamo dogmatici e semplificatori? E abbiamo perso perché i nostri nemici hanno saputo essere problematici e laici? I carri armati, le portaerei: sono queste le cose più dogmatiche e semplificatrici che conosco. Non sarei così severo con il nostro passato: il dogmatismo e la semplificazione di allora erano la forma che aveva preso il nostro impegno, la nostra voglia di combattere, la ragione per cui abbiamo amato la nostra vita, e vi abbiamo riconosciuto un senso, ed ora invece ci sentiamo persi ed imbelli, e pretendiamo di lenire questa sofferenza ontologica con una risanatrice onnipotenza conoscitiva che deve pur essere da qualche parte, una conoscenza che pure perseguiamo, ancora una volta, con dogmatismo e con semplificazione. La storia, anche quella buona, anche quella in cui ci riconosciamo, l'ha fatta gente che non ha avuto paura di semplificare, davanti a scelte che andavano fatte. Quelli che la sapevano lunga, quelli che non seguivano dogmi, quelli che non semplificavano, quelli che volevano capire hanno continuato ad interrogarsi per tutto il tempo con i piedi al caldo nelle loro ciabatte, mentre qualcun altro faceva il lavoro per conto loro. Caro Pietro, non saprei davvero dove tracciare quel confine che si diceva, quella tranquillizzante linea retta "fra l'istanza di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi". Sono stanco, molto stanco e incattivito. In queste condizioni la mia fantasia si è inaridita, per non parlare dell'audacia di pensiero. In queste condizioni anch'io, come te, provo "disagio verso un'esperienza dell'alterità che si faccia dedizione e rischio di vita" (anche se temo che sia il disagio di chi viene messo davanti alle proprie paure ed alla propria viltà). In queste condizioni, immagina, non mi sento neanche di condannare quelli che scelgono di tagliare il nodo con la spada, e mettono in gioco la propria vita con una esplosione semplificatrice. 30 che segue, frutto del lavoro di un docente in psicologia sociale e dinamica, e di una counselor sistemico relazionale, L’ articolo affronta alcune questioni centrali del discorso psico-terapeutico. Benini ed Erba cercano di riconsiderare la riflessione teoricometodologica che riguarda il rapporto terapeuta-paziente, alla luce della rottura epistemologica segnata dall'avvento della "teoria della complessità" e del "costruttivismo". Secondo gli autori, l'apporto dei modelli socio-costruzionisti ha portato ad intrecciare la riflessione sulla conoscenza terapeutica con la riflessione sui processi comunicativi in cui si genera tale conoscenza, spostando l'attenzione sugli aspetti relazionali, dialogici e riflessivi che strutturano la relazione terapeuta-paziente, la quale viene nei loro termini a configurarsi come "conversazione terapeutica" e "narrazione". In questa ottica essi propongono una metodologia di intervento che intende ridefinire in senso orizzontale le relazioni di forza e potere che tradizionalmente caratterizzano il contesto clinico, per allontanare la pratica biomedica dai rischi di perpetuare un "colonialismo della salute mentale" e lasciare invece spazio alla narrazione interindividuale e biografica terapeuta-paziente, quale pratica di "non potere" e "antioppressiva". Pur non liberandosi completamente da una tradizione di sapere che riduce il disagio ad un problema individuale del "paziente", senza inserirlo nel quadro di una più ampia serie di fattori sociali, economici e politici, ci pare che l'articolo di Benini ed Erba costituisca un prezioso contributo ed un interessante spunto di riflessione che cerca di mettere in discussione dall'interno le pretese egemoniche del sapere biomedico. Anche l'antropologia medica da tempo si dedica alla riconsiderazione critica dei presupposti bio-medici, che comprendono quindi anche l'ambito psico-terapeutico. In questo contesto, gli antropologi hanno prodotto un intenso dibattito che, intrecciandosi agli sviluppi delle teorie pedagogiche e psicologiche, ha permesso di ripensare alcune categorie fondamentali quali quella di terapeuta, paziente, malattia, salute, etc. In questa prospettiva, la pratica medica va considerata un terreno in cui il complementarismo diviene necessità. Per comprendere a fondo la natura dei suoi presupposti e delle sue implicazioni è necessario superare le barriere disciplinari ed affrontarne i temi da diversi punti di vista: politico, sociologico, antropologico ed anche dal punto di vista di coloro che in tale ambito agiscono come attori principali, quindi medici, psico-terapeuti, educatori, etc, e soprattutto, dal punto di vista di quelle categorie di attori che comprende tutti e nessuno, i cosiddetti pazienti, utenti, malati. La Redazione Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessività* di Paolo Benini e Gabriella Erba Premessa Questo lavoro nasce come elaborazione di una serie di conversazioni che ci hanno condotto a riflettere sulla nostra esperienza di counseling e sulla nostra stessa formazione. E' un lavoro a due mani, o meglio sarebbe dire a "due voci", che sconta la fatica di rendere per iscritto la trama conversativa. Il motivo di questa difficoltà è probabilmente da ricondurre ai nostri limiti come autori, ma per noi è stata anche l'indicazione delle potenzialità che i processi comunicativi dialogici hanno nel generare e coordinare significati. Nella bibliografia di riferimento e nel discorso complessivo, si sono spesso sovrapposti due insiemi di significanti, uno riferito all'ambito della terapia familiare, da cui i significanti di terapeuta, conversazione terapeutica, etc., l'altro riferito al nuovo ambito di Counseling, in cui i significati citati sono, per così dire, sostituiti e/o ricollocati da termini quali counselor, colloquio d'aiuto, etc. In questo lavoro, abbiamo deciso di optare prevalentemente per i significati suggeriti dalla pratica sociale denominata "terapia familiare". Questa scelta, non corrisponde a una assimilazione concettuale tra counseling e terapia, ma dal nostro interesse per la pratica del "counseling psicologico" e dall'opportunità di far riferimento a risorse teoriche già piuttosto consolidate, come la riflessione teorico-metodologica che ha accompagnato lo sviluppo della terapia familiare dalla seconda metà del Novecento. L'ambito del counseling si trova in una fase iniziale, in cui vanno lentamente definendosi le premesse per discorsi metodologici e teorici capaci di reggere sviluppi differenti e coordinamenti di significato tra le diverse scuole e tra i "nuovi" counselor. Sul piano pratico, il riconoscimento sociale di questa pratica è solo all'inizio. Per questi motivi ci sembra proficuo appoggiare la riflessione sui contributi di terapeuti/studiosi che già da molto tempo praticano e ricercano in un campo di intervento che, da una prospettiva d'insieme, appare accomunare terapia e counseling: il sostegno, la facilitazione, la mediazione con persone e famiglie, in un contesto in cui la conversazione è il principale "strumento" di lavoro. Le principali risorse teoriche sono state: alcuni lavori riconducibili alla "Scuola di Milano", le proposte teoriche sulla costruzione sociale delle forme comunicative e sociali avanzate *L'articolo è già apparso sulla rivista elettronica "la rete" (http://www.terapiasistemica.info/larete/2003/itinerari.htm). Si ringraziano gli autori per averne concesso la pubblicazione. 31 da Pearce, alcuni lavori di terapeuti/studiosi come Lynn Hoffman, Harlene Anderson, Harold Goolishian, Tom Andersen che sono tra i principali fautori di quello che è definito "approccio narrativo" in terapia familiare. Sicuramente, tante altre fonti precedenti o trasversali ci hanno orientato a scrivere queste cose piuttosto che altre. sistema familiare o il sistema terapeutico? Le implicazioni di questa scelta non sono da poco. Scegliendo la prima opzione l'attenzione si focalizzerebbe sulla famiglia e il discorso prenderebbe probabilmente la forma di una riflessione sul suo disagio. Facilmente, questa scelta ci condurrebbe a costruire un discorso sulla sofferenza simile ai discorsi terapeutici connotati da una "centrazione sulla patologia" (Barbetta 1990), nei quali il processo terapeutico e in modo particolare il ruolo del terapeuta restano sullo sfondo. La seconda possibilità, ci appare più impegnativa ma anche più interessante, poiché chiama nel discorso anche il "terapeuta", mettendo quindi in discussione quella posizione per così dire di "osservatore esterno" che orienta dall'alto di una "professionalità" un discorso esplicativo e prescrittivo sul disagio delle persone; una posizione quest'ultima che ci appare una sorta di "messa in sicurezza" delle proprie risorse (Pearce 1989), a scapito dell'ammissione di un proprio coinvolgimento nella definizione di un disagio. Vorremmo scegliere questa seconda opzione, consapevoli che non è tanto questa scelta preliminare, quanto ciò che riusciremo a sviluppare in termini di riflessione e, in termini di lavoro con famiglie e persone, che potrà dire della nostra capacità di rimanere coerenti con questa prospettiva. Introduzione I fili conduttori di questo lavoro sono essenzialmente due: la narrazione e la riflessività, che appaiono essere ricorsivamente una l'espansione dell'altra. L'ottica narrativa, che connota la conversazione terapeutica come contesto di costruzione e condivisione di discorsi e storie, e la posizione riflessiva, che porta a beneficiare dei processi di co-costruzione innescati da relazioni aperte e paritarie. Nel campo della terapia familiare degli ultimi decenni, le due prospettive si richiamano a vicenda e tendono a comporsi in un copione di "utilità terapeutica" che guarda alle possibilità di far emergere le risorse delle persone e delle famiglie, piuttosto che alle opportunità di "cura". Nel primo capitolo cerchiamo di comporre, a grandi linee, una mappa dei cambiamenti teorici e metodologici avvenuti in conseguenza dell'intreccio tra il mondo della terapia familiare e il pensiero costruttivista e costruzionista. Possiamo dire che in questa parte esplicitiamo le nostre premesse teoriche, o, per utilizzare un termine di Cecchin (1997), i nostri "pregiudizi" teorici. Nel secondo capitolo focalizziamo l'attenzione sui processi comunicativi nei contesti terapeutici o di counseling. La terapia come narrazione, la riflessività sui propri pregiudizi, l'idea di "innesto nella situazione emotiva", il colloquio filosofico, sono i temi messi a fuoco. Per certi aspetti, facciamo solo un accenno a queste tematiche. Non abbiamo cercato un'analisi articolata e estesa, per noi è stato importante soprattutto riuscire a collocarle su un piano di riflessione. Seguono tre capitoli su altrettante connessioni che ci sono sembrate significative. La prima riguarda le persone e il linguaggio, vale a dire la doppia faccia di una conversazione terapeutica: una dell'incontro tra persone e l'altra del fluire del linguaggio. La seconda connessione riguarda il potere e il contesto terapeutico o di counseling. L'idea che si debbano ricercare "pratiche antiopressive" è la premessa (o il pregiudizio) della riflessione su questo tema. La terza connessione è tra biografia e lavoro sociale. In questa parte non potevano mancare alcuni riferimenti autobiografici. L'accenno a questi ci ha guidati in una breve riflessione su ciò che scaturisce dall'intricata trama che si crea tra storie di vita e professioni sociali. Cibernetica e altre "perturbazioni" Focalizzato il "sistema" cui guardare, una seconda domanda potrebbe essere: come concepire i sistemi umani e quindi anche il sistema umano specifico che si crea in un contesto terapeutico? Non si tratta ovviamente di trovare una risposta esaustiva a questo quesito, ma piuttosto di rendere esplicite le premesse teoriche da cui la nostra riflessione prende le mosse. La "rivoluzione" epistemologica denominata variamente secondo i contesti teorici e le scuole di pensiero "cibernetica di secondo ordine", "teoria della complessità", "costruttivismo", ha avuto riflessi estremamente significativi nel campo della terapia familiare, a partire dagli anni '80. I dubbi e gli interrogativi che si generarono dall'incontro tra l'emergente pensiero epistemologico e il campo della terapia familiare non riguardavano tanto i modelli esplicativi del disagio della famiglia (come era successo con i cambiamenti suggeriti dalla nozione di sistema introdotta della "prima cibernetica"), quanto la dimensione epistemologica dell'agire terapeutico. L'idea racchiusa nella famosa frase di Varela "Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore" e il complesso quadro di riflessione epistemologica che attraversò quest'idea posero sostanzialmente la questione della responsabilità dei terapeuti rispetto alle possibili conseguenze del loro agire conoscitivo e relazionale nei confronti delle persone in terapia. Ciò che venne messo in discussione, secondo un intricato piano di de-costruzione e ricostruzione teorica e metodologica, fu sia la pretesa di conoscenza "oggettiva", sia l'idea della possibilità di distinguere il "conoscere" e l'"agire", cioè il momento diagnostico e il momento terapeutico. L'azione di "conoscere" cominciò ad essere interpretata in stretta e indissolubile relazione con l'azione di 1. Sistemi e cambiamento "Nella cultura terapeutica è molto difficile non farsi sedurre dal pensiero di come le cose dovrebbero essere, piuttosto che concentrarsi maggiormente su come sono" (Cecchin e coll. 1997) Una prima possibile domanda, parlando di sistemi umani nell'ambito terapeutico è quale sistema interessa osservare. Il 32 "intervenire" e la conoscenza che poteva scaturire dal contesto terapeutico si connotò sempre più come un'estensione delle risorse di senso del terapeuta, piuttosto che la rappresentazione esperta delle caratteristiche "oggettive" che le famiglie e le persone manifestavano. A partire da questa prospettiva, il sapere terapeutico comincia a perdere la caratteristica di "imparzialità" e "oggettività", per connotarsi come un'azione che contribuisce a creare ciò che denomina, con la conseguente possibilità che esso possa dare avvio sia a processi di evoluzione positiva, sia a processi nocivi. L'idea "strutturale" di famiglia va in crisi e molti terapeuti cominciano a pensare che non esista un modello unico di famiglia e a mettere in discussione l'idea che i problemi siano sempre e comunque necessariamente individuabili nella famiglia. In un certo senso, i cambiamenti cui abbiamo accennato hanno posto fortemente l'attenzione sulla figura del terapeuta, sul suo modo di comunicare e sui suoi sistemi di significato, non riducibili però ai soli riferimenti teorici. Emblematico di questo spostamento di attenzione è la messa a fuoco della questione dei pregiudizi (Cecchin e coll. 1997). In questa riflessione, la consapevolezza dei propri pregiudizi è auspicata non con la finalità di combatterli e neutralizzarli, ma bensì di conoscerli e poterli utilizzare in modo responsabile nella relazione terapeutica. La responsabilità corrisponde all'impegno di "presentare" al cliente le proprie opinioni non come la "verità" che necessariamente lui deve apprendere per vivere bene con gli altri e con se stessi, ma come costruzioni personali di significato. proponendo la conversazione come metafora e strumento centrale della terapia stessa. In altre parole, si registra una "svolta linguistica" nella terapia familiare. La conversazione terapeutica si colloca al centro dell'attenzione, a scapito della direttività che viene messa da parte. Nei lavori di studiosi come Lynn Hoffman (1998), Harold Goolishian e Harlene Anderson (1988), Tom Andersen (1992), si rintraccia un comune riferimento all'idea dei sistemi umani come sistemi linguistici che co-costruiscono significati e si coglie un invito a concepire la conversazione come momento saliente della terapia. In questi approcci, la terapia acquista una dimensione "narrativa", si delinea cioè come un contesto comunicativo entro cui terapeuti e persone in terapia cercano di costruire copioni conversazionali diversi da quelli in cui i "problemi" si sono originati e dai quali invece si possano generare nuovi modi di narrarsi e quindi anche di essere. La finalità della terapia si configura non tanto come scoperta dei modi "disfunzionali" di essere e relazionarsi delle persone e delle conseguenti "giuste" contromosse, ma piuttosto quanto la costruzione delle possibilità per le persone di crearsi liberamente altri copioni narrativi per raccontare e raccontarsi. Gli sviluppi in senso costruttivista e sociocostruzionista della terapia familiare ci appaino come una sorta di doppio invito. Da una parte l'invito a "mettersi in gioco" nelle relazioni terapeutiche, dall'altra un invito a assumere un atteggiamento culturale di moderazione nel definire le situazioni di disagio e il proprio ruolo. Per noi è estremamente utile avere questi riferimenti. Non è facile imparare a "guardare" le persone attraverso lo spiraglio dell'apertura comunicativa. Ciò che ci sembra di dover imparare e re-imparare continuamente è soprattutto dare alla conversazione un carattere "aperto"; nel doppio senso di essere in grado di vivere forme comunicative che non si interrompono e di stare in esse senza appoggiarsi necessariamente su una gerarchia "espertopaziente". I sistemi umani come sistemi linguistici Se la riflessione epistemologica sulla qualità costruttiva della conoscenza ha condotto a una profonda revisione del modo di intendere la figura del terapeuta, un'altra riflessione, interconnessa alla prima, ha contribuito a svelare la natura sociale di tali processi costruttivi. Il riferimento in questo caso è alla prospettiva teorica denominata socio-costruzionismo e, in particolare, a alcuni modelli in campo sociologico che hanno avuto una notevole influenza in terapia familiare. Tra questi, il modello della CMM (Coordinated Management of Meaning) di Pearce. Lo sviluppo in senso costruzionista della svolta costruttivista ha condotto a intrecciare la riflessione sulla conoscenza terapeutica con la riflessione sui processi comunicativi in cui si genera tale conoscenza e a orientare l'attenzione verso la negoziazione e il coordinamento, verso gli scambi linguistici, conversazionali e dialogici interni al sistema terapeutico. Lo stesso linguaggio ha registrato significativi cambiamenti. Il termine "terapia" viene preferibilmente sostituito con "conversazione terapeutica", si preferisce pensare ai problemi in termini di "narrazioni" piuttosto che di "diagnosi" e al posto del termine "cura" si preferiscono espressioni come "dissoluzione dei problemi". In questa prospettiva a più facce, diversi studiosi impegnati a conoscere e a lavorare con i sistemi familiari danno un impulso decisivo in direzione di una "svolta interpretativa" (Hoffman L., 1998), vale a dire "ermeneutica" della terapia familiare, 2. La comunicazione e le "regole del gioco" "…ciò che prendiamo per vero o giusto è largamente prodotto da testi narrativi… Se vogliamo operare per il cambiamento sociale, dovremo quindi utilizzare i linguaggi condivisi e, nel contempo, cercare di trasformarli. Ma questa trasformazione non può essere attivata dalla volontà individuale, da un esperto che tutto vede e conosce. La trasformazione è invece intrinsecamente relazionale." (Hoffman 1981) "… il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare in termini di storie deve essere comune a tutta la mente, a tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare." (Bateson 1984) "La terapia avviene nell'interazione dei pregiudizi del terapeuta e 33 del cliente. Essa implica inevitabilmente uno scambio costante tra terapeuta e cliente, in cui le azioni e le espressioni dell'uno sono costantemente ispirate, assumono significato, vengono modellate e modellano quelle dell'altro. Il processo è cibernetico in quanto sono i suoi risultati a determinare il comportamento di entrambi" (Cecchin 1997). Parlare di regole potrebbe far pensare alla definizione di meccanismi di interazione predeterminati. Non siamo interessati a questo; piuttosto vorremo riflettere su cosa significhi considerare una situazione "terapeutica" come un sistema linguistico che si basa sulla comunicazione e che funziona in base alle "regole" del significato. L'approccio narrativo Le persone nel corso della loro esistenza costruiscono storie. Sin dall'infanzia, agli albori di una memoria linguistica, impariamo a connettere le esperienze in termini di storie. Nella giovinezza prefiguriamo il futuro in termini di storie possibili. Nell'età adulta siamo immersi nelle narrazioni che costruiamo su noi stessi e sul mondo, narrazioni spesso date per scontate e immutabili. Nella vecchiaia, tempo dell'otium tempo di avvicinamento alla morte, la propria storia di vita o le proprie storie di vita diventano il centro dell'esistenza, riacquistano significato nel loro bisogno di narrazione, nell'essere la vita stessa. In un'esistenza che scorre veloce, nella quotidiana occupazione del vivere, il desiderio di narrazione che caratterizza la nostra umanità, trova urgenza narrativa e spazio nelle "esperienze apicali della vita" (Demetrio 2000): la morte, la nascita, la separazione, la malattia, la perdita, il dolore. E' di fronte a questi eventi che cerchiamo l'altro come medium che consenta la narrazione, poiché "ognuno di noi costruisce e vive un racconto e…questo racconto è noi stessi, la nostra identità" (Formenti 2002 p. 32) Melucci (2001) sottolinea come le storie o narrazioni, hanno sempre a che fare con "soggetti parlanti" in relazione. Da questa premessa traccia una mappa possibile dei modi in cui si "creano storie", che si basa sulla dinamica io-altro. Noi raccontiamo a noi stessi prima di tutto e raccontiamo noi stessi; poi raccontiamo agli altri e raccontiamo gli altri. … "Raccontiamo a noi stessi", vuol dire che investiamo una parte dei nostri discorsi e delle nostre rappresentazioni a costruire la nostra identità. …Ma anche "raccontiamo noi stessi", cioè investiamo una parte altrettanto importante delle nostre risorse a chiedere riconoscimento, a domandare agli altri che confermino la nostra costruzione di noi. … Esiste una circolarità tra i due aspetti: nel costruire noi stessi attraverso i discorsi, identifichiamo degli interlocutori cioè ci "raccontiamo agli altri". … In ogni caso, che gli altri ci riconoscano o no, nel nostro raccontare storie noi sempre "raccontiamo gli altri", ce li rappresentiamo e ci costruiamo quell'immagine di loro che ci serve per stare in relazione, una immagine congruente con quella rappresentazione di noi stessi e della relazione che rende l'identità sostenibile per noi (Melucci, 2001, 127). Per Hannah Arendt il "sé narrabile" postula sempre l'altro come necessario, un "altro" che può essere incarnato nel dialogo interiore ma soprattutto un altro da sé poiché il significato dell'identità personale è sempre affidato al racconto altrui. Alla corte dei feaci Ulisse scopre il senso della propria storia grazie al racconto dell'altro e ascoltando la propria storia si commuove, il dolore acquista un significato, il proprio desiderio di narrazione emerge nella sua umanità, evidenziando la sua umanità. "Fra identità e narrazione… c'è infatti un tenace rapporto di desiderio… Per questo, davanti all'inatteso realizzarsi del suo desiderio di narrazione, Ulisse - alla corte dei feaci - piange. Il racconto gli ha infatti svelato, all'un tempo la sua identità narrabile e il suo desiderio di sentirla narrare…" (Cavarero 2001 p. 46) Questo desiderio non è solo degli eroi ma è presente, troppo spesso sottaciuto, in ognuno di noi e vede peraltro nel contesto famigliare un ambito che consente di inserire le singole esistenze in un tempo relazionale, condiviso, comune, storico, in continuo divenire. "Poiché è proprio dicendo "noi" che paradossalmente, possiamo arrivare ad affermare l'"io"…" (Formenti 2000) Chiunque abbia vissuto separazioni dolorose sa quanto il non poter dire più "noi" produca una mutilazione dell"io. Diverse e fondamentali sono le funzioni del narrare, della memoria famigliare: essa garantisce la continuità sia nel ricordare che nell'obliare, connette alle proprie origini, coltiva la riviviscenza, attiva la riflessività, produce retroazioni, genera identità. "Senza narrazioni, senza storie non c'è famiglia", non c'è individualità (Formenti 2002), esse costruiscono un ponte, un orizzonte ermeneutico tra la concretezza del presente e le dimensioni simboliche del passato, del futuro e dello stesso presente in una costante relazione ricorsiva. Nella contemporaneità gli spazi di narrazione famigliare si contraggono sempre più trovando all'esterno contesti di narrazione. Talvolta questi sono rappresentati dalle realtà sociosanitarie, terapeutiche, assistenziali, educative troppo spesso parcellizzanti, centrate sull'oggetto, sul problema, sulla diagnosi, sul bisogno percepito più che sulla domanda. Un ampliamento (una maggiore o diversa qualificazione) dell'offerta di interventi a favore della famiglia e della singola persona nell'area del sostegno e della facilitazione (Formenti 2000) e quindi del counseling, e un approccio multidiscilinare, potrebbero essere un utile strumento di confronto, crescita, prevenzione e soprattutto benessere. E' chiaro che l'assunzione di un approccio narrativo implica una significativa rimessa in gioco professionale e personale da parte dell'operatore psico, socio, educativo. L'attenzione alla propria storia, il coltivare capacità autoriflessive, l'ascolto dell'altro-sé e dell'altro-da-sé, (Previtali 1995), la cura del contesto, una metodologia accorta, la tensione all'"utilità", al "bene", l'agire pratiche antiopressive, l'adozione di pensieri deboli, capaci di cambiamento rappresentano alcune coordinate dell'intervento terapeutico, educativo, sociale e al contempo tratteggiano sfide professionali ineludibili. Nell'ambito della terapia famigliare negli ultimi anni diversi contributi teorici hanno rimesso al centro dell'attenzione l'approccio narrativo e le storie di vita. Per Michel White "le 34 persone conferiscono senso alla loro vita attraverso il racconto delle proprie esperienze" (White 1992, pag. 20) e il contesto terapeutico rappresenta uno dei possibili contesti nei quali le persone possono decostruire e ricostruire nuove narrative. Gianfranco Cecchin (1987) ricolloca i fondamentali concetti di neutralità, ipotizzazione e circolarità all'interno di una cornice più ampia, indicando la curiosità come forma mentis che apre alla molteplicità, alla polifonia di storie ed è capace di abbandonare la naturale pulsione di spiegare in termini scientifici, lineari, per assumere una prospettiva estetica "basata sulla nozione che ciascun sistema ha una sua logica. Questa logica non è né buona né cattiva, né giusta né sbagliata… Poiché non conosciamo ancora quale particolare copione avrà successo per quella famiglia, non possiamo che interagire in un modo che forse perturberà il sistema così che esso trovi da sé (o riscriva) il suo copione" (Cecchin G. 1987 p. 34). Implicitamente Cecchin riconosce alla famiglia l'essere l'unica esperta di sé stessa, poiché essa sola può scrivere e riscrivere la propria storia, accompagnata in questa ricerca narrativa dal terapeuta che si colloca come l'"altro necessario" perché una o più narrazioni emergano. Anderson e Goolishian, invece, mettono in risalto l'aspetto dialogico della conversazione che "E' una ricerca ed esplorazione congiunta attraverso il dialogo, uno scambio bidirezionale, un intrecciarsi di idee in cui nuovi significati emergono continuamente" (1998 p. 41). La conversazione terapeutica implica così il parlare con l'altro e non il parlare all'altro, implica il rinunciare ad una posizione strategica dove le domande, la ricerca dei giochi nascosti, le interpretazioni vengano messe da parte per lasciare spazio alle narrazioni ai significati del cliente che "in tal modo può muoversi liberamente nello spazio della conversazione, dato che non deve più cercare di affermare e proteggere la propria visione del mondo" (ivi p. 44). In generale, l'ottica "narrativa" che ha esteso la "svolta" linguistica avvenuta a partire soprattutto dagli anni '80 nelle scienze sociali, prefigura il dialogo come il processo costitutivo del sistema terapeutico. Un sistema che si costruisce attorno a qualche "problema" e che, attraverso lo sviluppo di scambi comunicativi, tende a creare nuovi significati che possano essere utili alla dissoluzione del problema (Anderson H., Goolishian H. 1988). La posizione del terapeuta è resa da un atteggiamento di ascolto, partecipazione e facilitazione del dialogo. Partendo dalle premesse sociocostruzioniste sulla natura linguistica delle forme sociali e sulla dimensione costruttiva degli scambi comunicativi che generano linguaggio e significati, l'approccio "narrativo" in campo terapeutico ha aperto uno spiraglio che, utilizzando la terminologia di Pearce (1989), potremmo definire di "eloquenza sociale", cioè un'intenzionalità terapeutica orientata a mantenere aperta la conversazione e a comporre e mantenere aperti contesti comunicativi anche tra persone che "non si conoscono" e magari esprimono differenze significative sul modo di intendere le relazioni, i problemi e la vita in generale. Questa prospettiva ha significato uno spostamento di attenzione verso la possibilità di creare spazi di dialogo aperto, partecipato e libero da relazioni egemoniche e direttive. L'impostazione e le punteggiature di tale prospettiva riconfigurano costantemente l'incontro terapeutico in termini di conversazioni tra persone "alla pari" non regolate da rapporti asimmetrici e gerarchici. L'atteggiamento di "non sapere" (Hoffman L. 1998) si è definito come un modo rispettoso e responsabile di interpretare il ruolo di terapeuta Riconoscendo ai sistemi umani una natura linguistica e quindi costruttiva, molti terapeuti/studiosi si sono impegnati a essere utili a tante persone nel costruire l'uscita da situazioni problematiche, senza far ricorso a letture e prescrizioni ricavabili da un discorso esperto che definisce regolarità e invarianze del disagio e dei modi per uscirne. I pregiudizi fanno parte delle storie? Mentre l'approccio narrativo riconducibile a autori come Lynn Hoffman, Harlene Anderson, Harold Goolishiam, Tom Andersen, Michel White, Rwnos K. Papadopulos ha alimentato un interesse crescente per la terapia come creazione di storie e una tensione verso l'arte di non interferire con le proprie idee nella costruzione delle storie da parte delle persone, l'approccio sviluppato dalla "Scuola di Milano" ha elaborato l'idea dell'impossibilità di "neutralizzare" il proprio punto di vista, individuando il "cuore" della terapia proprio nella relazione tra pregiudizi della persona e del terapeuta. Metaforicamente, la Scuola di Milano pone l'attenzione sui "mattoni" che terapeuti e persone utilizzano per co-costruire storie. I due approcci ci appaiono condividere un'analoga intenzionalità: riconoscere i limiti del terapeuta e rispettare la libertà delle persone. La questione posta dalla nozione di "pregiudizi" corrisponde alla necessità di riflettere sui nostri punti di vista e sul modo in cui consideriamo quelli delle persone che con noi parlano. Troviamo avvincente, a riguardo, il termine "pregiudizi" per indicare il "punto di vista" di una persona. Siamo quindi riconoscenti a Cecchin e coll. (1997) per averci suggerito questo modo "intuitivo" (e come loro stessi lo qualificano, anche un po' "irriverente"), di considerare la questione. Troviamo una corrispondenza tra l'approccio di Cecchin e coll. e la teoria di Pearce (1989) sulle forme di comunicazione. Cecchin parla di pregiudizi in termini di opinioni, pensieri, valori, convinzioni, emozioni da cui una persona, più o meno consapevolmente, prende le mosse per tessere relazioni comunicative; Pearce fa riferimento alle "risorse di senso" come strutture di significato che contestualizzano e quindi rendono possibile la comunicazione. Per entrambi, le regole costitutive della comunicazione sono quelle dei significati portati dalle persone in gioco e la questione del cambiamento è da ricondurre alla "disponibilità" dei partecipanti a riconoscere come proprie (e quindi non assolute) le costruzioni di significato a cui si fa riferimento e a considerare come altrettanto plausibili quelle dell'altro. In altre parole possiamo dire che in entrambi gli approcci, le relazioni comunicative mettono in campo il punto di vista dei partecipanti e si sviluppano in modo più o meno aperto in base alla capacità dei dialoganti di scoprire insieme le 35 implicazioni dell'incontro di punti di vista differenti. senso "medico", cioè atto a "riparare" qualcosa che non funziona nei sistemi umani. Ma se è vero che le persone cercano di dare senso all'esistenza e se è vero che il disagio è configurabile come una perdita o un occultamento di questo senso, perché non pensare anche a un'attinenza della terapia al campo filosofico? Cosa possa significare dare una risposta positiva a questa domanda non lo sappiamo bene. Pensiamo che questa idea più che un nuovo modo di conversare con le persone, suggerisca da una parte di tenere aperto nella conversazione un orizzonte di senso che va al di là della lettura (sia pur sistemica) dei problemi attorno ai quali si costruisce il contesto terapeutico e delle relazioni che in esso avvengono; dall'altra di riconoscere la portata di "verità" di esperienze conoscitive come quelle estetiche, letterarie e filosofiche. Ci sono storie e storie… Un aspetto significativo del cambiamento che può avvenire nel contesto di relazioni "terapeutiche" è espresso dal tema della risonanza emotiva della conversazione. Si è detto che la dimensione "narrativa" della terapia consiste nella possibilità di far emergere le narrazioni delle persone e di dare loro la possibilità di confrontarsi con altri copioni che ripunteggiano le loro storie in modo diverso. Ma quali sono le "nuove narrazioni" che producono cambiamento? Gabriela Gaspari parla di "innesto nella situazione emotiva delle persone". Non è tanto la "differenza" della narrazione con cui la persona si confronta che può innescare il cambiamento, quanto la possibilità che questa "differenza" sia percepita dalla persona come potenzialmente utile e significativa in relazione al suo modo di vivere e intendere il "problema", divenendo così "una differenza che dà la differenza". Per molti aspetti, ciò che si può innestare nella situazione emotiva delle persone non è prevedibile; per questo diventa importante accorgersi, nel dialogo in essere, quali siano le parti della conversazione che colpiscono e possono generare una ridefinizione. Costruire questa capacità di individuazione richiede esperienza, ma soprattutto curiosità e apertura. Se, durante la conversazione, ci si costruisce copioni alternativi ma rigidi e si rimane ligi ad essi, difficilmente ci si accorge di eventuali sfumature che indicano l'interesse delle persone verso direzioni o punteggiature diverse. Pain -expand the time Ages coil within The minute Circumference Or a single Brain Pain expand - the Time Occupied with Shot Gammuts of Eternities Are as they where not E. Dickinson (Il dolore allunga il tempo Aggomitola secoli all'interno Della circonferenza irrilevante Di un singolo cervello Il dolore abbrevia il tempo Schiantate da uno sparo Scale di eternità Come mai esiste) Filosofia e dintorni In questo paragrafo vorremmo solo accennare alla possibilità di leggere la conversazione terapeutica o almeno alcuni momenti di essa in termini di colloquio filosofico. Metaforicamente parlando, filosofare significa affrontare ad occhi aperti il proprio destino; significa auto-domandarsi, trovare sé stessi, interrogare l'esistenza e accorgerci che stiamo esistendo. Nella pratica come counselor, ma molto più nel corso della nostra esistenza ci siamo sentiti soli di fronte agli interrogativi dell'esistere, del dolore, della vita e della morte, dell'ingiustizia. Scoprire a volte nella filosofia, nella letteratura e nell'arte gli stessi interrogativi ci ha aiutati, a volte, se non a superare questi sentimenti (forse non ha nemmeno senso parlare di superamento), a sentire di appartenere a un'umanità che in ciò si accomuna. E allora se la filosofia, l'arte e la letteratura hanno aiutato noi a sentire che i nostri interrogativi, i nostri disagi non erano solo nostri e che perciò stesso potevano farsi sentire meno gravosi e più carichi si significato (perché altri ancor meglio di noi erano riusciti a, esprimerli) allora ci chiediamo se in un contesto terapeutico non abbia senso provare ad esplorare strade che portino a connette la riflessione "terapeutica" con la riflessione "filosofica". L'idea del "colloquio filosofico" ci è stata suggerita da Pietro Barbetta. Il contesto della riflessione era l'attinenza della "psicoterapia" a un campo più vasto. Sono molti a ritenere che l'ambito terapeutico sia un ambito "clinico" e quindi, in un certo 3. Ascoltare persone? Ascoltare linguaggi? "L'altro è sempre un sé narrabile a prescindere dal testo… Pur essendo immerso in questo racconto, il sé narrabile non è comunque il prodotto della storia di vita che la memoria gli racconta … non è una costruzione del testo…Esso coincide piuttosto con l'impadroneggiabile pulsione narrativa della memoria che produce il testo e nel testo medesimo lo cattura.. L'effetto di una storia di vita … consiste sempre in una reificazione del sé che cristallizza l'imprevedibilità dell'esistente" (Cavarero 2001) "Noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio è linguaggio e nient'altro. Il linguaggio è il linguaggio. L'intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre il processo calcolante, e perciò appunto il più delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due volte nient'altro che la stessa cosa: linguaggio è linguaggio, come è possibile che questo ci porti avanti? Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di 36 giungere là dove già siamo. Per questo facciamo oggetto di riflessione la domanda: che si deve dire intorno al linguaggio? Per questo chiediamo: in che modo è e opera il linguaggio come linguaggio? Rispondiamo: il linguaggio parla.." (Heidegger 1959) significati usati a tutte queste cose; poter separare l'immagine che le cose hanno in sé dall'immagine che è stata loro imposta. Poter scorgere nella pescivendola la sua realtà umana a prescindere dal fatto che sia chiamata pescivendola, e dal sapere che esiste e che vende. Guardare un vigile urbano come lo guarda dio. Capire tutto per la prima volta non in modo apocalittico, come se fosse una rivelazione del Mistero, ma direttamente, come una fioritura della realtà." (Pessoa 2001) In questo paragrafo, vorremmo semplicemente "ricordarci" del linguaggio e "ricordarci" che ne facciamo esperienza nel contesto di relazioni umane. Si potrebbe dire che ascoltiamo e parliamo con persone, ma ciò che c'è dato di sentire e dire è il linguaggio. Ascoltare e parlare ha quindi una duplice faccia. Da una parte l'essere rivolti verso qualcuno, dall'altra produrre e sottoporre alla nostra attenzione un testo, una narrazione. Guardando la prima faccia possiamo vedere il riflesso del "coinvolgimento umano" che la relazione terapeutica evoca in sé; guardando l'altra s'intravede la possibilità di "prendere le distanze" da chi narra per concentrarsi ciò che è narrato. E' possibile specchiarsi contemporaneamente nelle due facce? E' possibile "avvicinarsi" alle persone alla ricerca di un'empatia e nello spesso tempo "allontanarsi" da loro per cogliere ciò che il loro parlare racconta? Nel campo della terapia familiare, l'approccio non direttivo e l'approccio ermeneutico sembrano tradurre questi due riflessi. Due approcci che non si escludono a vicenda, anzi costituiscono forse l'uno la condizione per l'altro. Avvicinandoci emotivamente in modo paritario alle persone, partendo dalla consapevolezza di "non sapere" (Anderson H. e Goolishiam H. 1998) costruiamo possibilità di meglio comprendere ciò che ci raccontano; permanendo nel dominio di ciò che è detto costruiamo possibilità di riconoscere a noi stessi e all'altro capacità e libertà di costruire e cambiare. Siamo propensi a ritenere che la predisposizione all'ascolto è forse la maggiore possibilità di "specchiarsi" in entrambe le facce, a ritenere cioè fondamentale l'ascolto nel counseling come nella terapia. Un ascolto empatico, partecipativo, curioso, ermeneutico, ma non interpretativo nel senso tradizionale del termine che vede cioè l'esperto come colui che solo possiede chiavi di volta. Non è forse casuale che il significato del termine "interpretazione" trovi la propria origine in colui che interpreta il volere degli dei, nel sacerdote, nel profeta, trasformato nella modernità in esperto. In questo nostro lavoro vogliamo dedicare uno spazio al tema del potere, non del potere all'interno delle relazioni famigliari ma di come il potere possa essere esercitato all'interno del contesto terapeutico o di counseling, di come taluni pratiche possano contribuire a riprodurre situazioni di dominio e sottomissione, e soprattutto desideriamo evidenziare alcuni contributi che in questi anni hanno cercato di porre all'attenzione le "pratiche antiopressive". I fautori dell'approccio narrativo hanno introdotto una importante riflessione sul "colonialismo della salute mentale" (Hoffman L. 1998). L'idea di colonialismo si riferisce alla mentalità di terapeuti e studiosi che, mossi dall'idea di una scienza sociale "oggettiva", hanno costruito discorsi che stabiliscono "a priori" quali siano i modi, gli argomenti e le persone da considerare in terapia. Ciò che ne è derivato è, metaforicamente, un modello di terapia "dall'alto in basso". A riguardo, gli studi di Michel Foucault (1969, 1971) sono stati un riferimento perché, in un certo senso, svelano da quale "potere" derivino le "posizioni di potere". Le sue tesi sulla forza che i discorsi hanno nell'esercitare una funzione concreta nella storia delle idee, delle istituzioni e delle persone hanno delegittimato la visione "oggettiva" della patologia e delle pratiche attuabili e hanno spiegato come i presupposti di tale visione abbiano radici nella storia della cultura e siano in relazione con l'esercizio del potere. Foucault analizza il potere positivo che caratterizza le società occidentali. Positivo non in senso morale ma in quanto usa la "realtà" per assoggettare le persone a "verità" normalizzanti inscritte in una logica di potere "Dobbiamo smettere una volta per tutte di descrivere gli effetti del potere in termini negativi: 'esclude', 'reprime', 'censura', 'maschera', 'nasconde'. Di fatto il potere produce, produce realtà; produce interi settori di oggetti e rituali di verità. L'individuo e il sapere che può essere da lui conquistato appartengono a questa produzione" (Foucault in White 1992 p. 65). In ambito sistemico un fondamentale contributo al tema del potere ci deriva da Bateson che propose il termine schismogenesi definito come: "processo di differenziazione nelle norme di comportamento individuale risultante dall'interazione cumulata tra individui"(Bateson in Hoffman1972 p. 47). Questo processo genera due schemi di relazione reciproca definiti complementare e simmetrico. Bateson ascrive la schismogenesi simmetrica a "tutti quei casi in cui gli individui di due gruppi hanno le stesse aspirazioni e le stesse strutture di comportamento, ma sono differenziati quanto all'orientazione di queste strutture" (ivi p. ). 4. Narrazioni "forti" e narrazioni "deboli" " Coloro cui sfugge completamente l'idea che è possibile aver torto non possono imparare nulla, se non la tecnica" (Bateson 1984) "Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo: contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non avere imparato fino dalla nascita ad attribuire 37 Relazione complementare e relazione simmetrica descrivono relazioni di potere, non a caso l'uso della metafora one-up/onedown dichiara l'implicita dimensione di forza non necessariamente sempre agita dall'alto verso il basso. Seguendo le prospettive accennate, ogni pratica sociale, educativa, terapeutica è esposta al rischio di essere pratica coloniale, cioè una pratica verticale dall'altro al basso. E allora, la capacità di analizzare i propri presupposti teorici, di attuare pratiche sociali riflessive (Pakman 1998), ci consente di individuare azioni di dominio-sottomissione implicite nel contesto e nei discorsi che caratterizzano la relazione terapeutica. Una domanda che a questo punto possiamo porci è: quali forme può assumere il potere o il "non potere" nelle relazioni terapeutiche? A noi sembra che un confronto tra approccio strategico e approccio ermeneutico possa chiarire un po' la questione. Adottare un approccio strategico significa sostanzialmente orientarsi verso la scoperta dei giochi e della "struttura" delle famiglie e delle persone, al fine di individuare e attuare/prescrivere ciò che porta una situazione problematica al cambiamento. L'interpretazione diagnostica e prescrittiva non può che basarsi su modelli predefiniti del funzionamento normale/patologico dei sistemi umani. Un terapeuta potrà poi avere una visione più o meno flessibile e sistemica, ma la sua lettura della situazione si basa comunque su discorsi che ne definiscono "a priori" i confini. Il potere da parte del terapeuta consiste, in questo caso, nel padroneggiare in modo esclusivo il dominio dei discorsi su cui la relazione va strutturandosi. Adottare un approccio ermeneutico significa invece andare alla scoperta dei significati e del senso della vita delle persone. Un senso che emerge attraverso la narrazione della propria storia o meglio attraverso le narrazioni. Se come dice la Cavarero (2001) noi siamo "sé narrabili", la narrazione di noi stessi è ciò che ci restituisce il senso della nostra storia. In quest'ottica il contesto terapeutico diviene uno dei possibili contesti nei quali questa storia può trovare uno spazio di narrazione, a condizione che il terapeuta lasci spazio al sé narrabile. In questo caso, lasciare spazio alla narrazione si configura come una pratica di "non potere", attraverso la costruzione di un contesto nel quale il "sé narrante" (ovvero il sapere di essere una storia) trova spazio e può trasformarsi in un "sé narrante autobiografico ". Il senso autobiografico risiede soprattutto nel fatto che è il protagonista a narrare le proprie storie, in un contesto relazionale nel quale il terapeuta è invitato a non proporre narrazioni forti che rischierebbero di trasformare l'"autobiografia" in "biografia". Bateson con il linguaggio che lo caratterizza ci porge un monito: "Infrangete la struttura che connette gli elementi di ciò che si apprende e distruggerete necessariamente ogni qualità" (Bateson 1984 pag. 21). E la qualità di un individuo è il proprio essere una storia unica di vita, l'essere sé narranti. Nonostante i recenti contributi teorici che hanno messo al centro dell'attenzione il pensiero debole, l'immagine dell'esperto depositario di sapere, di chiavi interpretative, di tecniche e metodologie che pretendono e presumono l'esistenza di "menti incorporee" strappate da una corporeità (Pakman 1998), resta forte. Il pregiudizio dell'esistenza di una scissione mente/corpo, che vede le proprie origini nel pensiero Platonico e il proprio apice nel positivismo ereditato dal pensiero moderno, rappresenta un'idea di quest'immagine dell' "esperto". E' in un contesto di dominanza del pensiero razionalistico che psicologia e pedagogia, per strappare lo status di scienza, si sono a lungo fossilizzate alla ricerca di metodologie, tecniche, fondamenti scientifici, perdendo di vista le dimensioni teleologiche e axiologiche. Come sostiene Pakman, (1998) l'attaccamento a astratte nozioni di classe sociale e una pratica terapeutica come processo tra menti incorporee consentono e favoriscono "l'instaurarsi della cecità e della razionalizzazione nei confronti dell'ineguaglianza sociale" Questa dominanza, unitamente all'implicita presunzione etnocentrica di sapere come va vissuta una vita, rischia di condurre il terapeuta e in generale gli operatori sociali su un terreno definibile in termini di "abuso di potere"; intendendo quest'ultimo come possibilità di "definire unilateralmente ciò che è da considerare come "reale" in un certo contesto per tutti i partecipanti" (Pakman1998 p. 37). Un terreno ove le tecniche rischiamo di trasformarsi in tecnicismo, se non accompagnate da una teleologia e da una axiologia che orienti e dia senso all'agire professionale; dove le diagnosi reificano la persona nella patologia, dove anche una psicoterapia o un counseling che non sanno recuperare un pensare filosofico rischiano di non leggere l'inquietudine, il disagio, il dolore, se non in chiave intrapsichica. Andare oltre una lettura prettamente individualistica significa in questo senso riconoscere le istanze, le angosce, che ci accomunano in quanto abitatori della contemporaneità; significa recuperare una "pratica sociale critica", che riconosca e si soffermi ad analizzare i processi di costruzione delle situazioni di potere e privilegio, anche all'interno di contesti sociali e terapeutici; significa attivare una pratica riflessiva che nulla dà per scontato. Se riflettiamo sulla nostra esperienza professionale in campo sociale e educativo e come counselor, possiamo faticosamente constatare come spesso utilizziamo le tecniche, le metodologie, i gerghi professionali come strumenti di autolegittimazione e di presa di distanza da storie, persone, dolori che facciamo fatica ad avvicinare o che temiamo; come strumenti di potere a sostegno di professioni che percepiamo come socialmente "deboli" (poco riconosciute). E' necessario un po' di "coraggio" professionale e senz'altro personale, per accantonare un apparato tecnologico e rimettere al centro la "debolezza" come risorsa, per essere consapevoli e responsabili delle nostre "Teorie in uso". Esse inevitabilmente contengono un'idea di uomo e di donna, un'idea di come va vissuta una vita e quindi rischiano di imporre la nostra visione della "realtà" se non le assoggettiamo a pratiche riflessive critiche. E allora quali sono le possibili strade? Ci sembrano particolarmente significativi l'approccio narrativo (di cui abbiamo parlato) e una sorta di recupero di un pensare "filosofico", "politico". S. Kraemer, (1999) nel suo contributo in "Voci multiple", sostiene che la terapia non è un intervento sociale se 38 non in senso molto lato, collocando i bisogni delle persone che richiedono una terapia nell'ambito della sfera personale quasi contrapponendola a quella politica. Forse vale la pena richiamare il concetto aristotelico di politica come scienza orientata al bene, il cui fine ultimo è rappresentato dal raggiungimento dell'eudaimonia, della felicità. Se intese in tal senso, allora anche il counseling e la terapia famigliare come "pratiche sociali" finalizzate al benessere non possono discostarsi, seppure con le proprie specificità, da un agire politico. Se possiamo in parte concordare che le persone "non vengono da noi per sanare le ingiustizie del mondo politico" (1999 Kraemer in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 59), esse tuttavia non vivono nel vuoto sociale; si può anzi dire con Aristotele che l'uomo è animale politico e che "le identità … sono anche inscritte nelle relazioni di status e di potere …" (1999C. Burck in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p.71). Lo stesso Campbell, poche pagine prima dell'intervento di Kraemer ce lo ricorda, quando accenna alla fatica di armonizzare il proprio intervento nel caso di famiglie operaie, "il cui linguaggio e le cui aspettative sono più distanti da quelle del terapeuta" (1999 Campbell in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 19). Più avanti, Anne McFayden ci dice che "il contesto della "persona" rispecchia l'individualità della singola narrazione ma si riferisce anche ai legami che vengono stabiliti tra livelli diversi di significato. Per esempio, le vedute etiche, politiche o religiose di una persona forniscono un contesto ma nello stesso tempo fanno parte di lei a un livello molto personale, cioè sono quella persona" (1999 A. McFayden in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 160). termine "riflessivo" si espande, divenendo non solo una modalità del porre domande ma caratteristica della stessa relazione clienteterapeuta. Hoffman propone l'immagine del numero 8, "segno dell'infinito - (dove) c'è spazio per il dialogo interno di ogni individuo e un'intersezione che rappresenta la piazza in cui incontrarsi e parlare (Hoffman 1981)". Lynn Hoffman lascia intendere come la manifestazione di emozioni e aspetti autobiografici abbiano rappresentato per lei un importante passaggio verso un nuovo modo di essere in relazione con l'altro, dove la verticalità insita nella relazione d'aiuto viene compensata dall'orizzontalità esistenziale. Salvador Minuchin (1974) rimarca invece la biografia come esperienza di vita, come la condizione necessaria per "potersi permettere di", in qualche modo riprendendo l'antica figura del saggio come colui che sa orientare la propria scelta nell'ambito dell'opportuno, non del vero, del plausibile e non dell'incontrovertibile" (Natoli 1990 p. 11). Pakman, invece, riconnette la dimensione tecnicoprofessionale con la dimensione biografica introducendo il concetto di "Teorie in uso" come prodotto di contaminazione (sintesi) di thecnos e biografia.. Se si accetta l'idea che la professionalità di un operatore sociale è rappresentata sia dalla dimensione tecnica sia dalla dimensione personale, allora la biografia rappresenta uno strumento di lavoro, una risorsa potenzialmente utile. Certo è difficile, in un contesto scientifico incline al pensiero razionale, dare legittimità a una dimensione, quella personale, che viene comunemente interpretata come "privata", come "interiore", e che in taluni casi viene connotata come negativa ("Per essere professionali, il privato va lasciato fuori dalla porta"). Eppure è proprio in questa dimensione, che definiremmo biografica più che privata, che possiamo rintracciare le radici di ragioni, valori, forme, "sensibilità", stili, vicinanze e lontananze che caratterizzano la nostra pratica professionale. Le rare volte nelle quali ci siamo sentiti dire dai nostri clienti, utenti, allievi che si sentivano compresi, erano anche le volte nelle quali la loro narrazione risuonava profondamente in noi; erano le volte nelle quali, come Gurdulù, ci sentivamo immigrati, matti, devianti, marginali, separati, violati, figli incompresi, genitori apprensivi … I dubbi che hanno preceduto queste parole, la fatica a trovare un linguaggi adatto, la necessità di definire dentro di noi i confini accettabili di ciò che andremo dicendo, è la cifra della mancata consuetudine a parlare di noi e della frequentazione di un pensiero e di una certa letteratura psico-educativa che si muovono su un terreno "modernista" e che abbiamo abitato nel corso della nostra formazione e pratica come operatori sociali. Eppure, recentemente, abbiamo scoperto come sia possibile in un testo scrivere di scienza e di sé al contempo, come il lavoro sociale/educativo/terapeutico necessiti di questa sintesi per acquisire pregnanza ed incisività, poiché ognuno di noi, tutti noi, siamo "gesti carichi di responsabilità" (Erbetta 2001). Ebbene, è con questa fatica che ci accingiamo a fare, a due mani, questo tentativo di ricerca e esplicitazione degli elementi autobiografici che ci accomunano, poiché riteniamo che la nostra professionalità, ma soprattutto il nostro essere esistenze, abbia un 5. La dimensione autobiografica dell'operatore Nel corso di questo lavoro abbiamo più volte detto che il terapeuta e, in generale, ogni operatore sociale non è un osservatore esterno al contesto, bensì esso fa parte integrante del sistema nel quale opera, all'interno del quale è portatore non solo di conoscenze teoriche, ma di "Teorie in uso", che sono intimamente legate alla sua biografia. Vogliamo accennare brevemente ad alcuni terapeuti che hanno introdotto la dimensione biografica nel loro lavoro clinico, partendo da Lynn Hoffman che introduce nella terapia familiare la propria biografia, le proprie emozioni, come forma di superamento di ciò che lei stessa definisce "la freddezza tecnocratica" dell'approccio sistemico. "Mostravo le mie emozioni, fino, talvolta, al pianto. Chiamavo questo mio modo di lavorare "terapia sentimentale"…cominciai a cercare nuove strade per far sentire i clienti a proprio agio. Quando era il caso raccontavo loro storie della mia vita… se mi sentivo in difficoltà, specialmente se qualche mio problema personale sembrava intrufolarsi nel percorso comune, ne parlavo apertamente, e spesso ottenendo buoni risultati"(Hoffman 19921 p.29). In qualche modo Hoffman modifica una relazione clienteterapeuta da una relazione gerarchica verticale ad una relazione orizzontale, trasformando la terapia in un'esperienza dialogica partecipativa dove il termine "esperto" viene completamente annullato o quantomeno sostanzialmente ricollocato. Anche il 39 senso se collocato in un vivere appassionato in un progettarsi accorto. Cosa, nella nostra esistenza ci ha condotto ad essere qui, a cercare di "essere utili " agli altri, e in che modo la nostra biografia rappresenta una risorsa? In che modo si esplica questo comprendere, questo prendere l'altro dentro di sé? L'infanzia, periodo di vita rappresentato come età del gioco, dell'irresponsabilità della leggerezza, ha significato per noi, in misura e con specificità diverse, una fase di vita a contatto con le fatiche e in un certo senso con il dolore. Una fase assoggettata dal potere positivo di cui Foucault (1969, 1971) parla: "Nulla è più materiale, nulla è più fisico, più corporeo dell'esercizio del potere" (Foucault, in Natoli 1990 p. 84). Un potere dei servizi, della scuola, dei precetti familiari, un potere che interna, un potere che si esercita sul corpo (nella sua globalità corpo-mente) poiché "dispone del senso della vita e della morte" (Natoli 1990 p. 68), di ciò che è "reale" e di ciò che non lo è, di come va vissuta una vita. La concreta esperienza del potere, si incontra nella nostra giovinezza, in un epoca che ancor vive l'onda lunga di un movimento giovanile e operaio che fa dello smascheramento e abbattimento del potere l'obiettivo della propria lotta. E' in quegli ambiti, nazionali ed internazionali - dove viviamo l'esperienza del "viaggio iniziatico" (Dallari) - che finalmente intravediamo uno spazio di condivisione di istanze morali, etiche, politiche, assaggiate precedentemente. Una giovinezza vissuta alla ricerca dell'autenticità esistenziale, di moralità assoluta, di fedeltà a noi stessi; di viaggi reali e immaginari; spazio nel quale diventare quel che si è piuttosto che quello che il mondo ci impone di essere. Paul Nizan , archetipo di giovinezza esistenziale, interpreta in modo esemplare la fatica dell'essere giovani e idealisti. "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. Tutto congiura a mandare il giovane in rovina: l'amore, le idee, la perdita della famiglia, l'ingresso tra gli adulti. E' duro imparare la propria parte nel mondo". (Nizan 1931, p. 5) Una giovinezza, la nostra, vissuta all'insegna di un intransigenza che non accetta mediazioni. Tuttavia essa non è stata, o almeno non completamente, una giovinezza passata dietro i banchi di scuola, al contrario essa guardava questi banchi, questi studenti diligenti come qualcosa di lontano nel loro privilegio, eppure vicino nel comune vivere la giovinezza in modo appassionato, nel rifiuto a candidarsi ad un vita da quarantenni soddisfatti, nel rifiuto di vivere un'"esistenza da larve a balia in attesa di diventare insetti cinquantenni" (Nizan, 1931), nel rifiuto di vedere nella maturità una meta. Gallerano direbbe che ciò che in quell'epoca accomuna il giovane proletario con lo studente borghese è il comune appartenere a quella che venne definita da Simone Weil la condizione giovanile. Ci prendevamo sin troppo sul serio, Boine direbbe che conoscevamo le leggi e non i casi, le regole e non le eccezioni. E nel vedere oggi questa nostra intransigenza giovanile riconosciamo che forse Boine aveva in qualche modo ragione quando diceva che i giovani sono più vecchi dei vecchi: "…guarda più a fondo e ti parran più presso al nulla che all'essere, più presso la morte, perché l'essenza è il nulla se non è corposa di caso. (E perciò tu vedi così spesso un giovane passar di colpo dalle idealità affermate alle imbrogliate brutture della cotidiana vita; vedi così spesso i giovani scordarsi d'un tratto, come se un soffio solo di vento avesse bastato a spazzarli, a sgombrarli della dorata nebbia. E perciò ancora i migliori, i più delicati, finiscono così spesso invece che nell'azione, nel sogno. Confinano, chiudono, sperdono come disgustati le aspirazioni intime loro in una specie di perfezione conventuale. Perché l'aspirazione dei giovani è molto vicina all'irrealtà, alla povertà del sognare). E son essi i giovani, dunque, i vecchi davvero, son essi i morituri e gli astratti. Non sanno il peccato: han la purità della morte, non la purità della vita" (Boine in Erbetta p. 49). Tuttavia, la giovinezza ha rappresentato per noi e per molti altri la fase di ricerca di un'autenticità esistenziale. "Archetipo di una moralità che tanto più esperisce la propria libertà quanto più si avvicina al sentimento tragico della vita…". (Erbetta 2001 p. 113) Giovinezza come fase fondamentale della vita, nella quale abbiamo esperito la fatica di imparare il mestiere di vivere, di gestire la totale libertà e la responsabilità a cui ci sentivamo chiamati. Che cosa ne abbiamo fatto della nostra giovinezza? E' questo l'interrogativo che a volte ci poniamo e al quale è difficile rispondere, tanto più che ad interrogarci è la nostra stessa intransigente giovinezza. Ora, per noi la "maturità" rappresenta il momento di messa alla prova, innanzi tutto nel mantenere viva la nostra immaturità, la nostra capacità di sognare, di emozionarci, di vivere appassionatamente. Maturità per noi significa anche costruire "situazioni privilegiate" nelle quali sentire che stiamo esistendo, che siamo esseri-nel-mondo ed esseri-con-gli-altri, significa "plonger les mains dans la merd e dans le sang", significa fare i conti con il dio che presumevamo di essere. E' a partire da quanto sinora detto che si comprende come, nella nostra maturità, la professione che ci siamo scelti rappresenti uno dei contesti nei quali vorremmo costruire "situazioni privilegiate", nel quale la nostra biografia, oltre che la nostra competenza tecnica, divenga una risorsa. A condizione che, come don Chisciotte, sappiamo inseguire i nostri sogni con coraggio. Serve coraggio per emozionarsi, serve coraggio per vivere appassionatamente, serve coraggio per com-prendere l'altro, serve coraggio per farsi comprendere, serve coraggio per sporcarsi le mani, serve coraggio per rischiare di divenire strumenti di un potere positivo, serve coraggio per amare non le persone ma quell'uomo, quella donna, serve coraggio per vivere con giustizia, servono coraggio e responsabilità per vivere. Certo quello di vivere è un "mestiere difficile" e spesso, troppo spesso, nonostante gli sforzi, ci lasciamo vivere, trasformandoci in "insetti quarantenni". (Nizan 1931) E allora chiederci che cosa ne abbiamo fatto della nostra giovinezza risveglia in noi l'energia la capacità di recuperare quell'istanza di idealità e di eticità. Ci rendiamo conto di aver toccato dimensioni "macro biografiche", non avrebbe d'altronde potuto essere altrimenti essendo un lavoro a due mani, tuttavia riteniamo importante esserci presi questo spazio. 40 Bibliografia Andersen, T. (1992) Riflessioni sul riflettere con le famiglie; in La terapia come costruzione sociale. a cura di McNamee S.., Gergen K. Tr.it.Franco Angeli, Milano Barbetta, P. (1990) Ermeneutica e cibernetica del second'ordine: lineamenti teorici per una ridefinizione della terapia relazionale. Il Bollettino N° 21 Centro Milanese di Terapia della Famiglia 1990 Bateson,G. (1972) Verso un'ecologia della mente; Tr.it Adelphi, Milano, 1976 Bateson, G. (1979) Mente e natura. Tr.it Adelphi, Milano, 1984 Campbell D L'altra faccia della storia L'esperienza terapeutica dell'assistito; in Voci multiple : la narrazione nella psicoterapia sistemica famigliare; a cura di Papadopulos R. K., Byng Hall J., Mondatori, Milano 1999 Cavarero A. (2001) Tu che mi guardi tu che mi racconti: filosofia della narrazione; Feltrinelli, Milano Cecchin (1987) Revisione dei concetti di ipotizzazione, circolarità e neutralità. Un invito alla curiosità trad. da Family Process volume 26 dicembre Cecchin G., Lane G., Ray W. A. 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Ciò che conta, come è ben noto, non è raggiungere una impossibile conoscenza "autentica" del punto di vista nativo, non compromessa dal contatto, ma è invece, a mio parere, conoscere, attraverso l'interazione dialogica dell'orizzonte culturale del ricercatore e dei suoi interlocutori, qualcosa dei modi in cui tali orizzonti, incontrandosi, possono affrontare i reciproci vincoli ideologici, vincoli che resistono ai desideri e alle sofferenze che le proprie esistenze esprimono senza ricevere il sollievo di un ascolto e di una parola capace di configurare prospettive utopiche. In questo senso l'attività etnografica può essere considerata "terapeutica". Non certo in quanto ricerca di modi culturali "disfunzionali", ma piuttosto in quanto "costruzione delle possibilità per le persone di crearsi liberamente altri copioni narrativi per raccontare e raccontarsi". La dimensione conoscitiva dell'antropologia, lo studio etnografico dei "tratti culturali", delle dinamiche sociali, e persino l'analisi delle strutture economiche e delle contraddizioni interne o globali delle società dei propri interlocutori, deve essere subordinata ad una seria riflessione sugli effetti, sul campo e altrove, della propria attività di ricerca. Se gli obiettivi dell'antropologo sono in contrasto con gli obiettivi nativi questo fatto può essere problematizzato, può costituire il punto di partenza di un processo di negoziazione che deve avere come sfondo un impegno responsabile e cosciente del proprio ruolo, della propria posizione e delle sue conseguenze. Lo stesso oggetto della ricerca può essere patteggiato sul campo. L'antropologia deve assumere il carico delle sue responsabilità senza pretendere, in nome della scienza, di poter muoversi alla cieca, disinteressandosi dei suoi effetti. Da qui l'assonanza del lavoro di campo con le pratiche terapeutiche "anti-oppressive" proposte da Benini-Erba e con la loro riflessione sul "colonialismo della salute mentale". Nella loro prospettiva "l'idea di colonialismo si riferisce alla mentalità di terapeuti e studiosi che, mossi dall'idea di una scienza sociale ‘oggettiva’, hanno costruito discorsi che stabiliscono ‘a priori’ quali siano i modi, gli argomenti e le persone da considerare in terapia". Nel caso dell'etnografia l'idea di colonialismo è invece associata a discorsi che si arrogano il diritto di stabilire - senza considerare l'opinione, i bisogni e i modi di esprimersi dei propri interlocutori - quali siano i fatti sociali, e le teorie degne di interesse per il lavoro di campo. Il potere da parte dell'esperto consiste, in questo caso, "nel Perché l'Occidente si preoccupa tanto delle culture "altre"? Quale è il motivo che spinge gli antropologi ad andare sul campo? Esiste una questione etica che riguarda il lavoro etnografico? Se per gli psicologi impegnati nella cura dei propri pazienti il problema della responsabilità e dell'effetto del proprio intervento è connaturato all'attività terapeutica, per l'antropologo sul campo questo problema non è scontato. Nonostante il problema della responsabilità sia stato posto anche tra gli antropologi, in ambito accademico per lo più ha prevalso la volontà di considerare prioritaria l'impresa scientifica e gli interessi teorici dei ricercatori, rispetto alle esigenze locali degli interlocutori e degli informatori con cui gli etnografi sono venuti a contatto. Nel caso dell'antropologia applicata, la ricerca sul campo nonostante il nobile fine di teorizzare o proporre un cambiamento, una direzione, uno sviluppo sulla base di una potenziata capacità di comprendere l'"altro" - ha nascosto a volte, dietro una intenzione "filantropica", una volontà di dominio che si è tradotta spesso in una profonda disattenzione verso le specifiche differenze e i particolari bisogni delle persone che ha preteso aiutare, una "disposizione" in cui l'apparente neutralità del conoscere prelude alla conquista e all'assimilazione culturale1. Come ci ricordano Benini-Erba nell'articolo che qui pubblichiamo, menzionando gli assunti delle teorie costruttiviste, il primo passo per rispondere a queste domande consiste nel riconoscere che l'azione di sapere, di "venire a sapere" è in stretta, indissolubile relazione con l'azione di "intervenire". È necessario riconoscere la questione della responsabilità rispetto alle conseguenze del proprio agire conoscitivo e relazionale. Autorizzare questa ammissione, citando Gramsci, significa accogliere una filosofia della prassi, "una filosofia liberata… in cui lo stesso filosofo non solo cerca di comprendere le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione". Per superare la visione paternalista dell'intervento occorre però che la propria responsabilità corrisponda all'impegno di raggiungere una consapevolezza sempre più profonda dei propri pregiudizi: "consapevolezza… auspicata non con la finalità di combatterli e neutralizzarli, ma bensì di conoscerli e poterli utilizzare in modo responsabile…"2. È necessario riflettere sul proprio ruolo di "esperti", sul ruolo che hanno i codici di comunicazione nel reprimere la possibilità dell'"altro" di esprimersi: "ogni pratica sociale, educativa, terapeutica è esposta al rischio di essere pratica coloniale, cioè una pratica verticale dall'alto al basso… la capacità di analizzare i propri presupposti teorici, di attuare pratiche sociali riflessive ci 42 padroneggiare in modo esclusivo il dominio dei discorsi su cui la relazione va strutturandosi. Adottare un approccio ermeneutico significa invece andare alla scoperta dei significati e del senso della vita delle persone. Un senso che emerge attraverso la narrazione della propria storia o meglio attraverso le narrazioni". La condizione del campo può costituire allora "uno dei possibili contesti nei quali le persone possono decostruire e ricostruire nuove narrative", nuove pratiche, nuovi valori, nuove identità. Citando Gianfranco Cecchin, Benini-Erba ci ricordano che assumere la curiosità come forma mentis - che apre alla molteplicità e alla polifonia di storie - ci consente di "abbandonare la naturale pulsione di spiegare in termini scientifici, lineari, per assumere una prospettiva estetica". Naturalmente, l'attenzione per "il punto di vista nativo", non implica l'abbandono dei propri modelli interpretativi, non significa rinunciare ai propri strumenti di analisi. L'analisi sociale, i sistemi di status e di potere, i processi di incorporazione, le relazioni di conflitto e di assoggettamento, devono restare parte dei propri discorsi, ma sul campo e nella successiva testualizzazione del proprio lavoro, dovrebbero confrontarsi dialogicamente con i discorsi che i propri interlocutori ritengono importanti. Bisogna essere così in grado di riflettere sul ruolo che il potere assume anche all'interno dei contesti sociali dove l'antropologo produce il suo sapere. Senza pretendere di "sanare le ingiustizie del mondo politico", il proprio impegno deve essere in grado di espandersi e ritrarsi in modo da sapersi rivolgere, al medesimo tempo, al particolare e al generale, al locale e al globale. I frammenti del testo di Benini-Erba qui riportati, e ancor più i numerosi spunti contenuti in tutto il loro articolo, penso racchiudano delle possibili risposte alla domanda sul senso che può avere oggi un'antropologia "militante" nel momento in cui affronta sul campo i suoi interlocutori. L'importanza di assumere una metodologia ermeneutica, riflessiva e dialogica, in antropologia, non è una novità. Da Geertz a Clifford, a Crapanzano, solo per fare alcuni nomi illustri, questa strada è stata percorsa con grande impegno e creatività ormai da più di trent'anni. Sorprende forse, che un movimento analogo abbia attraversato anche altre discipline con la stessa vitalità. Pur partendo da problemi e riferimenti teorici e tecnici molto diversi, possiamo osservare tra psicologia clinica ed etnografia una convergenza verso la tematizzazione di un problema comune: l'esigenza di assumere una teleologia e una assiologia che, al di là dei diversi tecnicismi disciplinari, orienti e dia senso all'agire professionale sul "campo", seguendo modelli più partecipativi e dialogici. Rimane però ancora aperta una questione. Se un impegno etico in antropologia è possibile, lo è solo in quanto capace di riflettere così in profondità su se stesso da giungere a considerarsi altrettanto ideologico, aprendo così uno spazio di autocomprensione ancora tutto da esplorare. Vi è qui in gioco la possibilità di una critica radicale, capace di riconoscere gli autoinganni e la negatività del pensiero liberale. In questo smascheramento, apparentemente nichilistico, l'irrazionalismo che ne deriva non rappresenta l'abdicare del pensiero. Al contrario, "ciò che si oppone alla ragione è il pensiero stesso" (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia). Affermazione di un divenire che non si vuole mediare o conciliare ma assumere nella sua molteplicità. Costruire testi intrinsecamente "deboli", riflessivi, dialogici costituisce allora anche una forma di lotta e di resistenza decentrata al potere, potere pervasivamente inscritto anche nei propri desideri e nel proprio sapere. Note [1] Su questo tema ormai da anni l'antropologia post-coloniale ha imparato a riflettere. Autori come Wolf, Asad e Said hanno chiarito i modi in cui il contesto di dominio coloniale e neo-coloniale "occidentale" ha dato forma ai resoconti antropologici. [2] Le citazioni quando non indicato diversamente rimandano al testo di Benini/Erba. 43 moderna, fin dalle origini, ha dovuto interrogarsi sul suo rapporto con altre professionalità presenti sul campo L’ antropologia (quelle di missionari, amministratori coloniali, tecnici e successivamente militanti, cooperanti, volontari); consapevole che ognuna di esse era ed è portatrice di differenti sguardi, saperi, esigenze, obiettivi. La condivisione forzata di spazi e interlocutori ha spesso generato profondi contrasti e confronti dialettici che hanno assunto nei decenni forme diverse, contribuendo così a ridefinire ruolo, statuto, finalità, tanto degli antropologi quanto degli altri attori sociali. Oggi il discorso antropologico si delinea anche in relazione al grande e variegato mondo della cooperazione internazionale. E' in questo contesto che Achab pubblica la relazione di Edoardo Occa, capo progetto di un programma di sviluppo dell'ONG Cefa (Comitato Europeo per la Formazione e l'Agricoltura) a Bomalang'ombe (Tanzania). L'intento è di fornire ai lettori l'opportunità di sapere cosa pensa chi "è là", su un campo sempre più affollato di sguardi che si incrociano, si interrogano, si manipolano a vicenda, per continuare a riflettere sulla distanza fra intenzioni e risultati, sulle sinergie possibili (e le idiosincrasie) fra antropologia e cooperazione, sull'ambiguo e opaco spazio che separa noi dagli altri. La Redazione Relazione da Bomalang`ombe, regione di Iringa, Tanzania di Edoardo Occa Quello di cui faccio parte, con la qualifica di capo progetto, e` un programma di sviluppo integrato che l`ONG Cefa (Comitato Europeo per la Formazione e l`Agricoltura) ha iniziato nel villaggio di Bomalang`ombe nel 1994. Il villaggio, sede della "kata" (sottodistretto), e` composto da circa 9000 persone ed e` situato a 2000 s.l.m. sugli altipiani meridionali della Tanzania. Il clima e` caratterizzato da frequenti piogge e da una stagione secca piuttosto breve (in media da meta` maggio a meta` ottobre), e presenta un'economia prevalentemente agricola. Le colture prevalenti sono il mais (che rappresenta la maggior parte della dieta alimentare), fagioli, patate; la frutta e` presente in gran quantità. A dispetto del nome della cittadina, (Bomalang`ombe significa "recinto delle mucche", appellativo attribuito dall'amministrazione coloniale tedesca) l'allevamento non costituisce, invece, una delle attività prevalenti. Il paesaggio e` costituito da ampie valli e colline estremamente rigogliose, grazie soprattutto ai numerosi corsi d'acqua presenti nella zona (siamo molto vicini al fiume Ruaha, che da il nome all'omonimo parco nazionale, distante meno di 200 km). In città sono presenti una scuola primaria, una secondaria ed un dispensario medico, eredità della storia di villaggio "ujamaa", la filosofia di socialismo africano promulgata dal tuttora venerato Baba ya Taifa, "il padre della patria", Mwalimu J.K. Nyerere.. Il ceppo etnico è quello Bantu, la tribù è quella degli Wahehe (uomini Hehe), la lingua ufficiale, come in tutta la Tanzania e in buona parte dell'East Africa , è il Kiswahili (lingua conosciuta da tutta la popolazione, anche se nel villaggio prevale l'utilizzo del "dialetto" Kihehe). Il progetto Cefa ha costruito nel tempo, innanzitutto, una centrale idroelettrica grazie alla quale al momento viene fornita la corrente per l'illuminazione pubblica del villaggio. Da 3 anni e` cominciata la fornitura di corrente alle abitazioni private (attualmente ne beneficiano circa il 15% delle abitazioni, nonche` alcune attivita` quali mulini, una falegnameria ed alcuni piccoli shop). Dopo la realizzazione della centrale, il cui servizio di erogazione dovrebbe passare entro la fine di quest'anno ad una co-gestione Cefa-villaggio, e` stato costruito un acquedotto sfruttando una falda naturale, cosa che ha permesso la realizzazione di 35 fontane pubbliche di acqua prevalentemente potabile, o comunque non inquinata da animali, la cui gestione e manutenzione e` seguita da noi insieme ad un comitato del villaggio. Successivamente e` stato realizzato un centro sociale che viene utilizzato per organizzare seminari su varie tematiche quali la prevenzione all` HIV/AIDS (problema che nel villaggio assume proporzioni decisamente preoccupanti, le statistiche tuttora non sono precise, ma si calcola abbiano contratto il virus circa il 30% degli uomini adulti e una percentuale minore ma altrettanto preoccupante di bambini appena nati), in collaborazione col medico del dispensario locale e con le autorità tanzaniane. Altri seminari formativi hanno per oggetto tecniche per il miglioramento della produttività agricola, le leggi che regolamentano le varie vicissitudini della quotidianità secondo i diversi codici legali in vigore (attualmente sono ben 3, il diritto ufficiale tanzaniano, di matrice europea, la shari'a islamica, utilizzata sulla costa a prevalenza musulmana ed il diritto consuetudinario, legato all'autorità degli anziani), le tematiche "di genere". Infine stiamo organizzando alcuni incontri sull'igiene domestica. Sempre sul versante igienico-sanitario, la situazione presenta problematiche soprattutto per l'infanzia; la carenza di proteine 44 nella dieta alimentare e` un fatto evidente, cosi` come sono Io e mia moglie Laura (che nonostante sia laureata in filosofia frequenti i disturbi derivanti dall'assenza di calzature (varie forme teoretica si sta dimostrando un'ottima contabile; uno dei problemi di verminosi); fortunatamente, data l'altitudine, il villaggio non e` contingenti maggiori riguarda le annose procedure di rendiconto zona malarica, mentre lo e` invece la cittadina di Iringa (e l'ho delle spese ai vari donatori) lavoriamo qui da circa un mese (il constatato di persona…), più in generale, sono presenti varie primo mese di soggiorno tanzaniano l'abbiamo trascorso nella forme di patologie derivanti dalle scarse condizioni igieniche cittadina di Morogoro, per un corso di Kiswahili) e ci resteremo, degli abitati. se tutto va bene, per 2 anni…per cui, nonostante si sia veramente Altra attività che seguiamo è l'erogazione di micro-crediti in agli inizi, vorrei comunque proporre alcuni spunti di riflessione su partenariato con una ONG tanzaniana. Il] progetto ha effettive cui ho iniziato a ragionare. ripercussioni positive sulla comunità, in quanto permette di Dopo circa 10 anni che il Cefa è presente nel villaggio, le diversificare le fonti di reddito e di riequilibrare in parte, tuttavia problematiche principali riguardano la partecipazione della senza sconvolgere le dinamiche interne, il rapporto tra uomini e comunità nella gestione dei servizi e la reale percezione del nostro donne che ad oggi, secondo una visione prettamente lavoro, questioni causate, crediamo, da una scarsa capacità occidentalizzata, vede le donne decisamente sottoposte comunicativa da parte nostra e dal fatto di aver investito risorse ed all'autorità maschile (sono infatti proprio le donne le maggiori energie prevalentemente in ambito infrastrutturale, tralasciando beneficiarie del progetto). un'adeguata sensibilizzazione ed Qualche anno fa e` partito inoltre il informazione sui motivi della progetto BVC (Bomalang`ombe nostra presenza sul territorio (il Village Company), una microCefa e` in Tanzania dai primi anni industria che produce marmellate, 80, su esplicita richiesta fatta succhi di frutta, miele, salsicce ed dall'allora presidente tanzaniano ha inoltre un'officina ed una Nyerere al fondatore del Cefa, on. falegnameria. Bersani, in un incontro avvenuto Lo scopo di questo progetto nel `79. Il primo progetto e` stato sarebbe quello da fungere da quello nel villaggio di Matembwe, "motore di sviluppo" per l'intero che tutt'ora continua felicemente, al villaggio reinvestendo in esso gli quale si sono aggiunti interventi nei eventuali utili, anche se al momento villaggi di Njombe, Ikondo e non rappresenta ancora una risorsa Bomalang`ombe). in grado di auto sostenersi né In quanto rappresentanti del Cefa economicamente né dal punto di in loco, una delle nostre funzioni Bomalang'ombe vista della progettualità. sarà quella di valutare l'effettiva Il villaggio, composto prevalentemente da capanne di argilla e efficacia del progetto nella sua storia e la lungimiranza di alcune tetto di frasche ( è da notare che la costruzione di case in mattoni, scelte avvenute in passato; ci riferiamo in particolar modo alla pavimento in cemento e tetto in lamiera è requisito indispensabile, scarsa attenzione posta alla traslazione culturale dei significati in base alla legge tanzaniana, per richiedere l'allaccio alla corrente impliciti agli interventi di "sviluppo". elettrica), e` servito unicamente da un pullman che, teoricamente, Essendo passati ormai un certo numero di anni dall'arrivo del dovrebbe arrivare una volta al giorno dalla città di Iringa, distante Cefa nel villaggio, ci troviamo in una fase fisiologicamente 70 km, ma che in realtà, a causa del pessimo stato della viabilità, delicata del progetto; l'atteggiamento assunto dalle autorità locali arriva nel villaggio una volta ogni 2-3 giorni… (villaggio, distretto e regione, che ora stiamo cercando di Ovviamente, a Bomalang`ombe non esiste rete telefonica, ne` coinvolgere anche nella fase progettuale degli interventi) è quello, fissa ne` mobile, (noi comunichiamo tramite ponte radio con le purtroppo, di una sorta di accettazione passiva di qualsivoglia altre sedi Cefa in Tanzania e con alcune missioni presenti nella proposta che il Cefa possa avanzare, sintomo, forse, di una zona) e l`unico televisore presente nel villaggio e` utilizzato per fragilità endemica delle istituzioni locali e di una malcelata trasmettere VHS (film o documentari che utilizziamo nei dipendenza dagli interventi della cooperazione internazionale seminari) una volta la settimana nelle sale del centro sociale. (nella regione di Iringa operano diverse altre organizzazioni, Nel villaggio sono presenti ben 9 confessioni cristiane differenti, italiane, danesi, giapponesi, inglesi. Sulla effettiva funzione di (chiesa cattolica, luterana, Chiesa del Sabato, Tempio di miriadi di organizzazioni umanitarie, non solo nel contesto Betlemme, Assemblea di Dio, pentecostali, anglicani, avventisti, africano, ormai da qualche anno è aperto il dibattito, volto, spero, Nuova Chiesa Apostolica), non sono presenti musulmani ma a rimettere in discussione il paradigma epistemologico degli bisogna considerare che, come recitava un vecchio adagio "interventi di sviluppo" più che all'ennesima, sterile, opera di "l'Africa è al 50% cristiana, al 50% musulmana, e al 100% auto celebrazione). animista…", i fenomeni di sincretismo nelle varie liturgie sono Un altro punto critico è rappresentato dai modi in cui le opere fin infatti fortemente radicati. qui realizzate hanno agito sui dispositivi che regolano il principio 45 di autorità all'interno del villaggio; infatti, data la necessita` di trovare tra gli abitanti del villaggio degli "omologhi" (sull'efficacia di una tale terminologia, che riporto in quanto è quella con cui convivo, sarebbe interessante soffermarsi, la matrice del "discorso" mi sembra assolutamente tautologica…), nel corso del tempo sono state selezionate un ristretto numero di persone aventi incarichi di responsabilità in ambiti prettamente tecnici, senza che venissero coinvolte le autorita` morali del villaggio, così in parte delegittimando il loro ruolo politico; questo fatto sta comportando tensioni sociali e l'insorgere di comportamenti ai limiti della legalità tra coloro che godono di tali "benefici". Un ulteriore rischio e` rappresentato dall'approccio di carattere assistenzialistico che tuttora alberga in alcuni di noi operatori; è ben noto ormai, come il desiderio di "aiutare i poveri" possa generare comportamenti che, oltre ad avere scarsa efficacia, ignorano gli equilibri propri di una società già profondamente scossa da molteplici sollecitazioni esterne difficili da metabolizzare e da ri-tradurre in significati comuni. Lungi dal voler proporre un`immagine "museificata" e statica della società e della cultura di Bomalang`ombe (anche se gli Wahehe sono noti per l`orgoglio verso la propria storia; furono loro i protagonisti della celebre rivolta al colonialismo tedesco, guidata dal celeberrimo capo Mkwawa, che duro` dal 1890 al 1898, anno in cui, vedendosi ormai sconfitto dai cannoni teutonici, decise di suicidarsi piuttosto che arrendersi, divenendo così figura leggendaria tuttora estremamente rispettata nella regione ), ci preme pero` far notare come la difficoltà principale rilevata sia proprio l'assenza di filtri adeguati ad arginare la velocità di stimolazioni che agiscono su codici comunicativi estremamente differenti da quelli comunemente utilizzati; è su questo registro che credo la pratica antropologica, propria di un sapere che abbia come finalità la declinazione del ventaglio di possibilità a cui si apre lo scenario contemporaneo, possa rivelarsi strumento fondamentale nella lettura e nell'ermeneutica del contesto particolarmente ricco di tematiche di un progetto integrato di sviluppo. Spero dunque di essere in grado di calarmi in questo caleidoscopio di esperienze diverse e di fare, in qualche modo, la "mia parte" per il villaggio di Bomalang`ombe. Per il momento, mi limito a seguire il consiglio che Malinowski diede al giovane Evans-Pritchard in partenza per l'Africa, ossia quello di badare soprattutto a "non fare lo stupido". Strada di Bomalang'ombe 46 Libri e poesie A cura di Antonio De Lauri Da questo numero Achab introduce la "Sezione libri e poesie" che si propone con una duplice funzione: presentare alcuni testi particolarmente significativi per la loro capacità di stimolare riflessioni attente alla complessità del mondo contemporaneo ed iniziare una narrazione poetica, pensata come un dialogo tra le forme dell'arte e le forme del sapere, uno spazio per lasciar esprimere, alle semplici parole, il senso dell'esperienza quotidiana. Chomsky N., Herman E. S. "Bagno di sangue" (1975) Il Formichiere, Milano. Gray J. "Al Qaeda e il significato della modernità" (2004) Fazi editore, Roma Incontrare una persona può essere un'esperienza formativa ed illuminante. Lo stesso può accadere con un libro; il testo di Chomsky ed Herman ne è un esempio. Una riflessione attenta e lineare dei nostri tempi, in una prospettiva stimolante e teoricamente impegnata. Attraverso l'esame dettagliato delle conseguenze politiche, militari, economiche e sociali della globalizzazione, il testo, con straordinario acume e capacità di sintesi, getta una luce profondamente nuova sull'esplosione dell'Islam radicale, sugli errori commessi dagli Stati Uniti nel loro ruolo di nuova potenza imperiale - sugli eventi più tragici e i fenomeni più preoccupanti della storia dei nostri giorni. Che questo libro sia stato sequestrato negli Stati Uniti non sorprende. Chomsky ed Herman hanno raccolto una serie di documenti, la maggior parte rapporti ufficiali, che mostrano come gli Stati Uniti abbiano "amministrato" i più efferati bagni di sangue degli ultimi decenni. Inoltre - e per questo la loro analisi rimane unica ed esemplare - smontano con implacabile rigore la gigantesca macchina ideologica che ha permesso di legittimare e rendere "accettabile" all'opinione pubblica la politica estera americana. L'attenzione si sposta su vari luoghi del pianeta fino a toccare il punto cruciale: il Vietnam. Ma prima passa per il Guatemala, San Domingo, il Brasile, la Grecia, la Thailandia, le Filippine, la Corea ecc. I bagni di sangue si succedono, "benigni", "costruttivi" e sotto l'egidia della "pacificazione", ma tutti come effetti di un'unica causa, la politica del "mondo libero" costretto a esportare la morte per sopravvivere. Edward S. Herman è autore di saggi di economia e libri di analisi critica delle società occidentali. Noam Chomsky è nato a Filadelfia nel 1928 da una famiglia di immigrati russi. Allievo di Roman Jakobson, ha rivoluzionato gli studi di linguistica sviluppando i principi della teoria generativa trasformazionale. Autore di numerosi saggi specialistici e di analisi critiche del mondo contemporaneo, Chomsky è uno dei pochi grandi intellettuali capaci di cogliere la complessità della nostra epoca da un punto di vista critico, militante, costruttivo. John Gray è uno fra i maggiori pensatori inglesi viventi; insegna alla London School of Economics. 47 I poeti conclamano il vero, potrebbero essere dittatori e forse anche profeti perché dobbiamo schiacciarli contro un muro arroventato? Eppure i poeti sono inermi, l'algebra dolce del nostro destino. Hanno un corpo per tutti e una universale memoria, perché dobbiamo estirparli come si sradica l'erba impura? […] Lasciamoli al loro linguaggio, l'esempio del loro vivere nudo ci sosterrà fino alla fine del mondo quando prenderanno le trombe e suoneranno per noi. (Alda Merini) Il prossimo Troppo vicino non mi piace il prossimo: che se ne vada in alto e ben lontano! Diverrebbe altrimenti la mia stella? (Friedrich Nietzsche "Le poesie" (2000) Einaudi, Torino) Vivere una sola vita in una sola città, in un solo paese, in un solo universo, vivere in un solo mondo è prigione. Conoscere una sola lingua un solo lavoro un solo costume una sola civiltà conoscere una sola logica è prigione. (Ndjock Ngana) 48 Foto di Anna Sambo, (Benin 2004) Note per la consegna e la stesura degli articoli. Gli articoli devono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. L'articolo deve avere una lunghezza minima di 3 cartelle e massima di 15 (interlinea 1,5; corpo 12). Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come testo alla fine dell'articolo. Nel testo il numero della nota deve essere inserito mettendolo tra parentesi. Gli articoli devono essere spediti al seguente indirizzo: [email protected]. La redazione provvederà a contattare gli autori. 49