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Cosimo Pergola
LA RICERCA
DI UN’ETICA PER TUTTI
Il Divino oltre Dio.
I Diritti oltre i fondamentalismi
ARMANDO
EDITORE
PERGOLA, Cosimo
La ricerca di un’etica per tutti. Il Divismo oltre Dio. I Diritti oltre i fondamentalismi ;
Roma : Armando, © 2014
352 p. ; 20 cm. (Scaffale aperto)
ISBN: 978-88-6677-530-0
1. Etica e problemi d’oggi
2. Differenza tra Divino e Dio
3. Diritti e Fondamentalismi
CDD 300
© 2012 Cosimo Pergola
© 2014 Armando Armando s.r.l.
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Sommario
Il Divino e i Diritti
9
Parte prima
Un’idea del Divino. Il Logos delle leggi
13
1.1. La meraviglia e l’intellegibilità
15
1.2. Epifanie del Divino
17
1.2.1 Epifanie del Divino: l’Ordine
29
1.2.2 Epifanie del Divino: la Complessità
48
1.3. La Mente delle Leggi come Logos
65
1.4. Filosofie del Divino
81
1.4.1 Il Principio antropico [AP] (e le aporie del multiverso) 82
1.4.2 Il Disegno Intelligente [ID] (e le aporie del Darwinismo) 97
1.5. A proposito di teologie: la danza di Shiva, la teodicea e
la visione di Plotino
107
Parte seconda
Le culture del Sacro. Per un’etica da condividere
2.1. Religioni e Chiese universali nella Storia
2.2. Religio id est metus… Ansia di vivere, ansia di credere
2.3. La mente simbolica: i miti, le religioni, i mistici
2.3.1 I miti
2.3.2 Le religioni
2.3.2.1 Il Mosè Egizio e l’origine del monoteismo
2.3.2.2 Il Gesù storico e le Cristianità perdute
129
131
141
149
155
161
172
184
200
205
2.3.3 I mistici
2.4. Il destino del Sé
2.5. La Regola Aurea: “Non fare agli altri ciò che non vorresti
che gli altri facciano a te” e il problema del fondamento di
un’etica da condividere
217
Parte terza
I Diritti e i Fondamentalismi in un mondo multipolare
3.1. Il contratto sociale nella globalizzazione
3.2. La Dichiarazione universale dei diritti umani (ONU,
10 dicembre 1948) e il contenuto normativo di un’etica
per tutti
Appendice: la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948)
3.3. I fondamentalismi religiosi come reazione alla modernità.
Il fondamentalismo islamico come insorgenza contro
l’Occidente
3.4. Il fondamentalismo del mercato e il declino del ‘Secolo
Americano’
3.5. I Diritti e il mondo multipolare
Riferimenti bibliografici
227
229
235
250
256
268
296
301
A mia moglie Mariolina
compagna di tutta una vita
e ai nostri figli
Alessandro, Vittorio e Virginia
dai quali
ho molto imparato
Il Divino e i Diritti
Senso e problema di un approccio
La crisi dei nostri giorni, in cui siamo precipitati al tempo della globalizzazione, non concerne soltanto una congiuntura economica ma si
dispiega ormai nei modi di un evento totalizzante a carattere etico-politico.
Al riguardo, il libro contiene una diagnosi e annuncia una proposta
che verte sui temi – reinterpretati e ridefiniti – del Divino, dei Diritti e
della ricerca su base condivisa di un’etica per tutti. Così, per la fuoriuscita dalla crisi di senso che domina il vissuto dell’epoca presente, la
tesi che qui si argomenta prospetta la necessità dell’affermazione di una
nuova stagione dei Diritti oltre i fondamentalismi e la reinvenzione del
Divino oltre il politeismo dei valori per un’etica comune.
Nell’architettura che viene delineata con riferimento alla problematizzazione di tali temi, nel nesso che viene istituito, segnalo i motivi di
originalità rinvenibili.
1. Decisiva la differenza che propongo tra il Divino (come Intelligenza
Creatrice e Logos del Tutto: cfr. parte prima) e Dio (Figura delle Religioni
come costruzioni culturali del Sacro: cfr. parte seconda).
L’idea inedita del Divino (che rifiuta tanto gli schemi del Creazionismo
quanto quelli del Deismo) è affermata con le evidenze della Scienza riconsiderate in modi inconsueti e si contrappone alle costruzioni culturali
del Sacro che sono fomite dei fondamentalismi religiosi e dei loro guasti.
Alla decostruzione delle culture del Sacro – riguardate come proiezioni della mente simbolica, nell’antropologia delle credenze – ci si accosta con gli strumenti della ricerca comparata.
9
All’approccio (inedito) alla fondazione di un’etica condivisa (§ 2.5 e
§ 3.2), che scongiuri anche le derive di un nichilismo morale, si affianca
una rivisitazione (anch’essa inedita) dei problemi classici delle Teodicee
(Provvidenza e Destino: in § 1.5 e § 2.4).
2. Si rivendica la necessità di una nuova stagione dei Diritti, oggi
vulnerati dall’incombere dei due fondamentalismi del Mercato e delle Religioni. I Diritti sono quelli positivi, sanciti dalla Dichiarazione
Universale del 1948 (§ 3.2).
Vi ravviso il contenuto normativo di un’etica da condividere, nella
chiave propria di una ragione della reciprocità: quella presidiata dalla
‘Regola Aurea’ (“Non fare agli altri…”), deposito sapienziale dell’Umanità (§ 2.5).
3. Nell’ analisi che viene qui adombrata, la scena del mondo d’oggi
appare attraversata dall’incombere dei due fondamentalismi che attentano ai Diritti (cfr. parte terza):
Fondamentalismo del Mercato (egemone attraverso l’oligarchia finanziaria che ha stravolto la globalizzazione, precipitandoci nella più
grave crisi dalla Grande Depressione del 1929) e Fondamentalismo
Religioso [in primis islamico] (che è l’esasperazione totalitaria delle proprie credenze ovvero il parossismo della ferocia di un divino incompreso
e mistificato).
4. È inedito, quindi, l’approccio alle tensioni del mondo d’oggi, esposto non allo scontro di civiltà (preconizzato da Samuel Huntington) ma
segnato, invece, dalle conseguenze dell’egemonia del Fondamentalismo
del Mercato, cui si oppone l’insorgenza dei fondamentalismi Religiosi,
come reazione alla modernità di stampo regressivo.
Il conflitto tra fondamentalismi viene analizzato criticamente, senza
forzature ideologiche ma identificando nelle vicende dell’attualità le radici culturali che vi sono implicate.
5. In tale contesto, il Divino e i Diritti costituiscono, pertanto, tema
e problema della ricerca perché, nella reinvenzione del Divino e nella
fondazione di un’etica condivisa, i Diritti vs. i Fondamentalismi siano
riconosciuti a segno indefettibile della dignità della persona per le generazioni di oggi [gli esclusi e gli Indignati] e di domani, sulla via di una
ritrovata condizione di progresso sostenibile.
10
Merita aggiungere che il libro – la cui stesura è stata completata nel
novembre 2011 – si raccomanda alla curiosità di un lettore ‘partecipante’. Tra l’altro, ne sollecita l’attenzione anche ai modi e ai nessi di rinvio
che vi sono sottesi.
11
Parte prima
Un’idea del Divino. Il Logos delle leggi
1.1. La meraviglia e l’intellegibilità
15
1.2. Epifanie del Divino
17
1.2.1 Epifanie del Divino: l’Ordine
29
1.2.2 Epifanie del Divino: la Complessità
48
1.3. La Mente delle Leggi come Logos
65
1.4. Filosofie del Divino
81
1.4.1 Il Principio antropico [AP] (e le aporie del multiverso) 82
1.4.2 Il Disegno Intelligente [ID] (e le aporie del Darwinismo) 97
1.5. A proposito di teologie: la danza di Shiva, la teodicea e
la visione di Plotino
107
1.1. La meraviglia e l’intellegibilità
Sono stati i Greci a predicare la meraviglia come cominciamento del
conoscere nelle forme della speculazione filosofica, giacché di fronte al
mistero dell’essere nel mondo, si avverte lo stupore e insieme l’ansia di
comprendere.
Asserendo che “tutti gli uomini per natura tendono al sapere” – “dal
momento che chi prova un senso di dubbio e meraviglia riconosce di non
sapere” – Aristotele nella Metafisica spiegherà che “gli uomini, sia ora
sia in principio, cominciarono a filosofare a causa della meraviglia”.
E in effetti che tale fosse l’origine del filosofare, già Platone l’aveva
sostenuto riferendo il detto di Socrate a Teeteto: “è proprio del filosofo
questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia, non altro cominciamento ha il filosofare che questo”1.
In Albert Einstein, protagonista d’eccezione della rivoluzione intellettuale del nostro tempo, la “meraviglia” viene declinata in termini di
“ammirazione estatica delle leggi della Natura”. “Vi si rivela una mente
così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo”.
Una condizione che sottende una sorta di religione cosmica, un sentimento di “ebbrezza gioiosa e di meraviglia al cospetto della bellezza
e della grandiosità di questo mondo” e che costituisce “l’impulso più
potente e più nobile alla ricerca scientifica”2.
Che per Einstein tale religione cosmica appartenga al rango delle religioni naturali, evochi la figura e il pensiero di Spinoza e rifiuti il carattere
1 Aristotele,
Metafisica, A 2, 982 b, 11-18; Platone, Teeteto, 155 D, 2-3.
A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello (2003),
Adelphi, Milano, 2003, pp. 330-331, citazione da A. Einstein, The world as I see it,
Covici Friede Publishers, New York, 1934.
2
15
antropomorfo dell’idea di Dio propria delle religioni storiche, è largamente noto e non può qui essere approfondito3.
Importa adesso sottolineare che la meraviglia per l’intelligibilità della
natura è in Einstein il fulcro della sua visione del mondo. Come ha scritto
Walter Isaacson, “il senso di riverenza per questa sorprendente e inattesa
comprensibilità del mondo era la base del suo realismo, oltre che il carattere distintivo di quella che chiamava la sua fede religiosa”4.
È piuttosto citata in proposito una testimonianza diretta che lo stesso Einstein ne ha lasciato, in una lettera del 30 marzo 1952 a Maurice
Solovine, curatore dell’edizione francese di The Meaning of Relativity.
Converrà riferirne per esteso la sua parte centrale: “Lei trova strano che io consideri la comprensibilità della natura, (per quanto siamo
autorizzati a parlare di comprensibilità), come un miracolo (Wunder)
o un eterno mistero (ewiges Geheimnis). Ebbene ciò che ci dovremmo
aspettare, a priori, è proprio un mondo caotico del tutto inaccessibile al
pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare che il mondo sia
governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra
intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del
dizionario, laddove il tipo di ordine creato ad esempio dalla teoria di
gravitazione di Newton, ha tutt’altro carattere”.
E spiegava: “Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall’uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado di ordine del mondo oggettivo, e ciò è qualcosa che, a priori, non si è per nulla
autorizzati ad attendersi. È questo il miracolo che vieppiù si rafforza con
lo sviluppo delle nostre conoscenze”.
Sorprendente (perché inattesa) la conclusione: “È qui che si trova il
punto debole dei positivisti e degli atei di professione, felici solo perché
hanno la coscienza di avere, con pieno successo, spogliato il mondo non
solo degli dei (entgöttert) ma anche dei miracoli (entwundert). Il fatto
curioso è che noi dobbiamo accontentarci di riconoscere il miracolo sen-
3 A. Damasio, op. cit. nonché, in particolare, Walter Isaacson, Einstein, la sua vita,
il suo universo (2007), Mondadori, Milano, 2008, pp. 371-380. Per rilievi di parte cattolica cfr. www.disf.org/Documentazione interdisciplinare di Scienza e Fede, la voce
A. Einstein a cura di Thomas F. Torrance e gli estratti su scienza e religione da saggi di
A. Einstein del 1930 e del 1941, con una guida alla lettura a cura di Giuseppe TanzellaNitti.
4 W. Isaacson, op. cit., p. 446.
16
za che ci sia una via legittima per andare oltre. Dico questo perché lei non
creda che io – fiaccato dall’età – sia ormai facile preda dei preti”5.
La meraviglia, dunque: dai Greci a Einstein, dell’intelligibilità di un
ordine cosmico di leggi e di costanti, di suprema complessità e bellezza.
Meraviglia della Vita, con i suoi codici e programmi a tutte le scale
del vivente.
Meraviglia del Demone interiore che ci parla, nel silenzio dell’Assoluto manifesto ma insondabile.
Meraviglia della Mente: dagli abissi dell’inconscio alla luce dell’estasi nella gloria della ragione.
Meraviglia dell’Esistenza, esposta al disordine e alla violenza del
Male, ma sempre, nella lunga durata, in eterno trionfo sull’irrazionale
nella Storia.
Meraviglia del Tutto, perché “C’è qualcosa invece del nulla” e ci interroghiamo sul senso del nostro essere nell’Universo.
1.2. Epifanie del Divino
La meraviglia per l’intelligibilità della Natura, dunque, come parte di
un sentimento che sconfina in una sorta di apertura al Divino, nell’unione
mistica con il Tutto.
Sentimento primordiale che non abbisogna di rifugiarsi negli schemi
delle religiosità ‘storiche’, anzi li rifiuta, per una qual certa loro angustia
nel rappresentare il senso di quella pienezza, allorché viene percepita dal
profondo dell’esperienza dello spirito.
Conviene rammentare che i Greci possedevano una distinzione che
rimane decisiva – quella tra il Divino (to theion) e il Dio (theos)6 – che
l’avvento dei Monoteismi, invece, ha oscurato in maniera irrimediabile,
deprivandoci di una preziosa risorsa interiore.
L’irruzione del Dio-Persona delle teologie monoteiste di derivazione
abramitica (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) ha reso insostenibile quella
differenza, precipitandoci in una lettura gravata da fondamentalismi e
5 A. Einstein, Lettres à M. Solovine, 30 marzo 1952, Gauthier Villars, Paris, 1956,
p. 114 (trad. it. in A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri,
Torino, 1988, pp. 740-741). Einstein sarebbe scomparso il 18 aprile del 1955. La lettera
è disponibile anche in Rete all’indirizzo www.disf.org/Documentazione/119asp.
6 Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano, 2004.
17
aporie, come è attestato, tra l’altro, da una storia millenaria di insanabili
controversie dottrinali, prodottesi in epoche di aspri conflitti dogmatici.
L’acquietarsi nel Divino come Assoluto impersonale, che, nelle religiosità orientali pervade le culture dell’Induismo e del Taoismo, viene
soffocato ed espunto, invece, nella tradizione occidentale dove sarà recuperato, non a caso, solo da mistici tacciati di eresia, Meister Eckhart e
Swester Katrei (pseudo-Eckhart) che, tra il XIII e il XIV sec., si proveranno a distinguere il Dio (Gott) delle varie forme religiose dalla Divinità
senza nome (Gotheit).7
L’opposizione-distinzione tra il Dio personale e il Divino delle religioni storiche costituisce il motivo ispiratore di questa ricerca, struttura
portante dell’argomentazione che svolgo, con implicazioni e conseguenze sul piano dell’etica, come cercherò di mostrare qui di seguito, a livello
della condotta individuale (Socrate come archetipo) e più avanti, con
riguardo alla dimensione collettiva, di un agire laicamente improntato al
riconoscimento dei Diritti positivi (cfr. 2.5 e 3.2). Nella tesi che assumo,
il Divino è l’Intelligenza Creatrice del Tutto, la Mente delle leggi che è
nel Tutto, governa e preserva la Vita, come potenza generatrice che esiste
in sé e per sé.
Non ho né la pretesa né l’ambizione di addivenire ad una versione
aggiornata del “deismo” di settecentesca memoria. Ritengo però che non
si debbano ignorare quelle componenti di una filosofia della Natura di cui
lo stato della scienza contemporanea – dalla cosmologia alla fisica, dalla
biologia alla chimica fino alle scienze cognitive – ci consente oggi di
disporre solo che si voglia intendere, con animo sgombro da pregiudizi,
la ‘meraviglia’ che è sotto gli occhi di chiunque.
L’unione in una sola figura del Dio-Creatore (il Dio cosmologico)
e del Dio-Legislatore (il Dio dei Comandamenti), sedimento di antiche
culture mesopotamiche, costituisce l’annuncio primigenio dell’ebraismo, rappresenta lo stigma che ha dominato in maniera indefettibile le
tradizioni dei monoteismi che ne sono derivati, nelle consuetudini di fede
e di culto con cui ancora dobbiamo fare i conti.
Per intenderne il contrasto, accenno a due aspetti di una visione alternativa del Divino:la prima nell’etica greca, l’altra nelle antiche concezioni indiane e cinesi (che hanno anche un sorprendente riscontro nel
mondo della fisica moderna).
7 È un tema sottolineato a più riprese da Marco Vannini. Si veda l’introduzione
a Pseudo Meister Eckhart, Diventare Dio, Adelphi, Milano, 2006 e i testi di Meister
Eckhart citati in M. Vannini, Tesi per una riforma religiosa, Le Lettere, Firenze, 2006.
18
1. Al pensiero dei Greci è sconosciuto l’evento di una creazione ‘dal
nulla’, tanto meno vi appartiene la teoria di una rivelazione ‘dall’alto’
dell’apparato delle leggi morali. All’idea di Provvidenza (pronoia) accede la tarda speculazione degli Stoici, peraltro fermi nella visione di un
fatalismo della necessità (heimarmene), nella durezza di un destino universale sentito come ineluttabile, senza riguardo alle vicende particolari
dell’esistenza di ciascuno.
A partire da Anassagora, si fa strada la concezione del Divino come
principio di Intelligenza che ordina (non crea) il Tutto. L’ordine evoca il
senso della misura e della proporzione. Platone, nel Filebo (5-7 e), dirà
che “la misura e la proporzione vengono a realizzare dovunque bellezza
e virtù” e la visione di una loro coincidenza nell’Uno-Bene, principio
assoluto di ogni realtà e valore, diventa il fondamento di una metafisica
del Divino.
Nella vita morale, sarà Socrate a stabilire che la via di salvezza può
essere descritta nei termini che gli interpreti moderni hanno detto di un
“intellettualismo etico”, perché è nella conoscenza secondo ragione che
si ritrova il presupposto della fondazione dell’etica. Conoscendo il bene,
investigato appunto secondo ragione, non si potrà non farlo, a pena di
dover soffrire di una grave contraddizione nella psiche. Nella libertà del
volere e nella responsabilità delle proprie scelte, il peccato e il male morale rinviano, secondo Socrate, piuttosto a errori della ragione.
Nel Gorgia, leggiamo la celebre sentenza di Socrate: “Fare ingiustizia
e cosa assai peggiore che riceverla” (474, B), la convinzione, dunque,
che è preferibile patire un torto piuttosto che commetterlo, giacché –
asserisce Socrate – “sarebbe meglio che la maggior parte degli uomini
non fosse d’accordo con me e che dicesse il contrario di ciò che dico io,
piuttosto che essere io, che pure sono uno solo, in disaccordo e in contraddizione con me stesso” (482, C).
“Essere uno”.8 Scoprirsi in accordo con il demone interiore, non soffrire fratture dell’anima, rigettare la contraddizione che alligna dentro se
stessi, rimuovendola in radice: questo Socrate ci invita a conseguire nel
memorabile dialogo con Pono e Callicle, nel Gorgia.
È dunque la condizione di un’esistenza lacerata nella scissione dell’Io
che occorre scongiurare, attivando una dialettica della coscienza che
8 Qui Socrate sembra anticipare di qualche millennio il monito di Jung, perché si
debba sempre, in presenza di contraddizioni interiori, operare per addivenire ad una
riunificazione del Sé e dell’Io.
19
Hannah Arendt vorrà definire come processo del due-in-uno.9 Una sorta
di dialogo del Sé con Sé, sola e autentica fonte di un’intima e risolta
pacificazione. Quella che non consegue dall’obbedienza a precetti eteronomi, ma procede piuttosto da una ritrovata armonia intrinseca alla
personalità.
Nei turbamenti dell’esistenza, al cospetto delle inquietudini religiose
del vivere, scopriamo in Socrate il modello di una eccelsa sanità interiore. I dilemmi morali dei moderni – si pensi, ad esempio, a due figure
diversamente emblematiche, Ugo Grozio e Ivan Karamàzov – gli sarebbero apparsi almeno fuorvianti, nella naturale disposizione a rinvenire
piuttosto in se stesso – nella voce, appunto, della sola ragione secondata
dal daimon – l’orientamento per l’approdo a una condotta eticamente
ineccepibile.
Nel pensare i fondamenti della tradizione del giusnaturalismo, a
Grozio sembrerà ardito dover muovere, come in effetti fa, dall’assunto
che si debba procedere “etiamsi daremus non esse Deum”10 (quand’anche concedessimo non esservi Dio), mentre Ivan Karamàzov proromperà
nel grido nichilista “Se Dio non esiste, tutto è permesso”, tormentato
dal problema del libero arbitrio, del peccato e del Male, nel grandioso
romanzo (I fratelli Karamàzov, 1879) parte di un progetto rimasto incompiuto per la morte di Fëdor Dostoevskij.
È dunque con le risorse della ragione eticamente sorvegliata, mediante il pensare e l’agire conseguente, che Socrate induce a orientare
l’esistenza verso la verità e la virtù. Platone si spingerà più lontano: per
liberarsi dai mali che lo affliggono, l’uomo deve trascendere l’umano.
Il processo di redenzione come via di salvezza di ciascuno si compie allora nello sforzo di conformarsi al Divino. L’homoiosis theo,11 il
divenire simile a un dio, concerne il frutto di una tensione insieme etica
e conoscitiva verso il Bene e la Giustizia, monito che circola nell’esoterismo dell’intera speculazione platonica. “Rendersi simile ad un dio
significa diventare giusti e santi e insieme sapienti” (Teeteto, 176, B),
perché virtù e giustizia informano e compenetrano di sé ogni sfera del
9 Se ne veda la penetrante trattazione in Hannah Arendt, La vita della mente (1978),
Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 274-277.
10 La citazione completa è: “haec quidem, que jam diximus, locum haberent etiamsi
daremus, quod sine summo sceleri dari nequit, non esse Deum”.
11 Fondamentale su questo punto, il testo di Salvatore Lavecchia, Una via che conduce al divino. La homoiosis theo nella filosofia di Platone, Vita e Pensiero, Milano,
2006.
20
Divino, in quanto partecipano, ontologicamente, del Bene e nel Bene
hanno la propria causa.
Nella Grecia antica, il Divino impersonale dei filosofi, dagli antichi
maestri della Scuola Ionica fino agli Stoici e ai Neoplatonici, era in opposizione alla pratica corrente del culto di un politeismo diffuso. È stato un
grande filosofo e storico delle religioni, Raffaele Pettazzoni, a sostenere
che la Grecia non ha prodotto il monoteismo perché non ha avuto una
rivoluzione religiosa. I Greci hanno elaborato un’idea del Divino senza
pervenire alla concezione del Dio unico, perché, secondo Pettazzoni, la
formazione del monoteismo risulta sempre connessa con una rivoluzione
religiosa: non appartiene al pensiero speculativo, ma ad “una pienezza di vita religiosa che solo poche volte si è realizzata nel corso della
storia umana, ed ogni volta per un concorso eccezionale di circostanze
favorevoli”12. Nella vicenda di Mosè l’egizio all’origine del monoteismo, ne troveremo una strepitosa conferma (cfr. 2.3.2.1).
2. Alla concezione giudaico-cristiana del Dio-Persona si oppongono
e sono estranee le immagini e le suggestioni del Divino, che rinveniamo
nelle tradizioni orientali del Brahman indiano e del Tao cinese.
È celebre l’ammonizione contenuta nei Vedanta: Tat Tvam Asi
(Quello sei tu), con cui l’indù enfatizza il dissolversi dell’Io individuale,
Atman, in una sorta di identificazione con l’Assoluto dell’energia universale, Brahman, la realtà senza attributi, né distinzioni, né determinazioni:
“Esso è nulla di tutto ciò che può dirsi che Egli è”13.
Nella Mundaka Upanishad (I, 1, 6-7) della natura del Brahman, l’origine di ogni cosa e l’Assoluto, si dice:
… Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né
orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onnipervadente, sottilissimo, non soggetto a deterioramento. Esso è ciò che i saggi considerano matrice di tutto il creato. Come il ragno emette (il filo) e lo riassorbe, come sulla terra crescono le erbe, come da un uomo vivo nascono i
capelli e i peli, così dall’Indistruttibile si genera il Tutto …14
Ricorrono attributi – eterno, invisibile, inafferrabile, onnipresente,
onnipervadente – che vedremo essere evocati anche nei testi sapienziali
del Taoismo. Ciò che è, però, peculiare a questa visione del Brahman è
12 Raffaele Pettazzoni, L’essere supremo nelle religioni primitive, Einaudi, Torino,
1957, pp. 241-242.
13 George Foot Moore, Storia delle Religioni, India (1913-1919), Laterza, RomaBari, 1989, p. 197.
14 Seguo la traduzione accolta in Wikipedia alla voce ‘Brahman’.
21
che, pur mantenendosi identico a se stesso, esso non si manifesta come
differente nell’Atman. Osserva George Foot Moore: “Il grande mistero delle Upanishad è che l’Atman dell’uomo è identico con l’Atman
dell’Universo”.15 Il Brahman esistente per sé, la realtà unica, è chiamato
pure con un nome che ha un’origine psicologica, l’Atman16: il Sé inteso
non nel senso dell’io empirico ma nel significato metaempirico proprio
dell’esperienza transpersonale dell’Essere.
Nella Chandogya Upanishad, in uno dei dialoghi (VI, 8, 6, 7) tra il
maestro brahmanico Uddalaka Aruni e suo figlio Svetaketu, leggiamo
dell’esperienza liberatrice, con cui la finitezza dell’ego si riconosce nel
Tutto, si dissolve in una immedesimazione che ricongiunge la creatura al
principio creatore, dall’io empirico al Sé metaempirico e alla sua identità
con l’Essere unico e infinito:
… Tutti i viventi hanno le proprie radici nell’Essere (Sat), si basano
sull’Essere, si sostengono sull’Essere … Quando un uomo muore, mio
caro, la parola rientra nella mente, la sua mente rientra nel soffio vitale,
il soffio vitale rientra nel calore e questi rientra nella suprema divinità.
Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di essa,
essa è la realtà di tutto, essa è l’Atman. Quello sei tu (Tat Tvam Asi), o
Svetaketu! …17
Nel misticismo delle culture orientali, l’insieme si riconduce essenzialmente alla visione della totalità del Divino impersonale. Nella concezione dell’identità Brahman-Atman, figura peculiare delle Upanishad,
si è parlato di monismo idealista. Ma nella visione del Brahman come
realtà ultima, Anima del cosmo, Principio creatore, la sapienza millenaria dell’India ci consegna un archetipo del Divino, i cui caratteri ci
sorprenderà riscoprire nella metafisica della Cina del Tao.
Al Tao che “da sempre esiste” ci si rapporta come al principio del
Tutto e alla via di ogni processo dell’universo, nell’armonia di un mutevole equilibrio retto dalla compresenza degli opposti – yin (il femminile,
il passivo, l’oscuro) e yang (il maschile, l’attivo, il luminoso) – posti
15
George Foot Moore, Storia delle Religioni, cit., p. 148.
Ibidem.
17 Seguo la traduzione accolta in Wikipedia alla voce ‘Upanishad’. Cfr. anche Oliver
Lacombe, Il Vedanta in Louis Gardet, Oliver Lacombe, L’esperienza del Sé. Studio di
mistica comparata, Massimo, Milano, 1988.
16
22
nell’alternarsi di forze contrarie e complementari, a fondamento sempiterno della Creazione18.
Il capitolo XXV del Tao Te Ching presenta un significativo contributo
al problema di poter disporre di una definizione del Tao19:
“Vi era un certo che, non differenziato eppure perfetto, prima che
il cielo e la terra venissero all’essere. Così immobile, così incorporeo!
Esso solo resta e non cambia. Esso pervade tutto, ma non ne riceve danno. Può essere considerato come madre di tutte le cose. Io non so il
suo nome; se io dovessi designarlo, io lo chiamerei Tao. Sforzandomi di
dargli un nome, io lo chiamo grande; grande, io lo chiamo trascendente; trascendente, io lo chiamo lontanissimo; lontanissimo, io lo chiamo
ritornante.
Quindi: il Tao è grande, il cielo è grande, la terra è grande, l’uomo è
grande. Quattro cose grandi ci sono al mondo e l’uomo è una di queste.
L’uomo prende norma dalla terra, la terra dal cielo, il cielo dal Tao, il
Tao da se stesso”.
Apprendiamo che il Tao era operante come principio e come ordine
prima della formazione del Cielo e della Terra, ovvero della realtà dei
fenomeni del mondo sensibile. Il Tao, che è all’origine di tutte le cose
e pervade il tutto, “circola ovunque senza stancarsi”, come ordine che
procede e si regola solo da se stesso, modo della spontaneità con cui ogni
cosa esiste seguendo la propria natura.
Il Tao dunque provvede all’ordine spontaneo della Natura, spontaneo nella misura in cui è necessario: per suggestione, è stato evocato un confronto, con richiami nella cultura occidentale, a Eraclito e a
Spinoza.20 Il Deus sive natura di Spinoza, pensato appunto come destino
della Necessità per una propria autonoma determinazione: “Si dice libera
quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina ad
18 Le citazioni sono tratte dal Tao Te Ching, attribuito a Laozi che si suppone vissuto
tra il VI e il V sec. a.C., testo che insieme allo Zhuanzi, compilato dal saggio da cui trae
il nome, probabilmente del IV sec. a.C., costituisce in un certo senso la summa della
filosofia taoista. In italiano, le due opere sono disponibili in varie edizioni, tra cui quelle
di Adelphi, Milano, rispettivamente 1973 e 1982.
19 Mi avvalgo della traduzione fornita dal testo di George Foot Moore, Storia delle
Religioni, Cina (1913/1919), Laterza, Roma-Bari, (1922), 1989, p. 356, integrandolo,
in un passaggio omesso, con la traduzione del testo stabilito da J.J. Duyvendak (Parigi
1953), Adelphi, Milano, 1973, p. 74.
20 Giangiorgio Pasqualotto, Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri
d’Oriente e d’Occidente, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1987, Milano, 1997, pp. 1847 e 69-102.
23
agire da sola” (Etica, I, def. 7). E dunque come coincidenza di libertà e
di necessità: “La vera libertà non è altro che la causa prima, la quale non
è assolutamente costretta o necessitata da altro, ed è causa di ogni perfezione solo mediante la sua perfezione” (Breve trattato su Dio, l’uomo e
il suo bene, I, 4, 5).21
La physis di Eraclito, la Natura pensata nell’ordine fondante che consegue al movimento causato dall’interdipendenza degli opposti e dei
contrari: “Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re” (22 B 53
Diels-Kranz). Dal conflitto che connette e insieme compone i contrari,
si sprigiona una superiore armonia. “Ciò che è opposizione si concilia e
dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via
di contrasto” (22 B 8 Diels-Kranz). L’“Armonia dei contrari” (22 B 51
D-K) è anche “armonia nascosta” (afanés), “più forte (krésson) dell’armonia visibile” (22 B 54 D-K) e si risolve nell’unità del Tutto, figura del
Divino in Eraclito.“Non ascoltando me, ma ascoltando il Logos, è saggio
ammettere che tutte le cose sono una unità” (en panta einai) (22 B 50
D-K).22
Nelle suggestioni di Spinoza e di Eraclito sul Divino – pensato come
coincidenza di necessità e di libertà e come unità che procede dall’armonia dei contrari – ritroviamo dunque insperate corrispondenze con una
cultura primigenia del misticismo orientale: la visione del Tao, ciò che fa
essere ogni cosa e insieme il modo di essere di ogni cosa.
Ma la proprietà dell’immutabile e dell’infinito del Tao si coglie anche
come “vuoto”, il senza forma eppure perfetto. Il vuoto, come essenza
di tutte le forme e origine di tutto il vivente, allude – ed è concezione
vertiginosa – al potenziale creativo del Tao, che, come Assoluto ineffabile all’inizio del Tutto, permane e deve pensarsi insieme “nascosto” e
“vuoto”.
Dal Tao Te Ching (nella traduzione di J.J.L. Duyvendank, op. cit.):
XL, 2 Il Cielo e la Terra e i diecimila esseri sono generati dall’Essere; l’Essere è generato dal Non-Essere.
I, 4 È grazie al costante alternarsi del Non-Essere e dell’Essere che
si vedranno dell’uno i prodigi, dell’altro i confini.
21
Filippo Mignini, L’etica di Spinoza, Carocci, Roma, 2002, p. 45.
22 Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 2°, Bompiani, Milano,
2004, pp. 109-124.
24
Il Tao attivo nella genesi del Tutto (nell’alternarsi e nell’interazione
degli opposti) e il Tao come Assoluto.
XIV 1, 2, 3, 4 Ciò che si guarda senza vedere
si chiama incolore.
Ciò che si ascolta senza udirlo
si chiama afono.
Ciò che si tocca senza afferrarlo
si chiama sottile.
Non si può scrutare oltre queste tre qualità,
perché, confuse insieme, esse formano un’unità.
Il Tao, che tutto comprende.
è l’Uno ineffabile e vuoto
che sempre ci sfugge.
XI, 1, 4 Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo,
l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è.
Così traendo partito da ciò che è,
si utilizza quello che non c’è.
Nell’immagine del mozzo e dei raggi della ruota:
indispensabili sono i raggi, ma è dal mozzo vuoto che tutto dipende.
Dunque, l’Essere del Tao soggiacente a tutti i fenomeni è senza forme, vacuo e vuoto. Ma la vacuità metafisica si risolve in una condizione
di possibilità del Tutto, potenziale matrice di ogni cosa, essenza di tutte
le forme e sorgente di tutta la vita.
È stato un fisico ispirato, Fritjof Capra, ammaliato dall’esoterismo
delle culture orientali, a sottolineare la stupefacente consonanza di visioni tra cosmologia taoista e fisica moderna, nel suo libro Il Tao della
fisica (1975)23, divenuto più tardi testo di culto per le generazioni della
New Age.
Capra scopre una fondamentale corrispondenza tra l’idea del Vuoto
del misticismo orientale del Tao – ma anche del Dharmakaya buddista
e del Brahman indù – e il campo quantistico della fisica subatomica,
inteso non come una sorta di contenitore ma, invece, come un continuum che esiste sempre e dappertutto e annulla la distinzione classica tra
materia e spazio vuoto. Nel campo quantistico ci sono solo interazioni
23
Fritjof Capra, Il Tao della fisica (1975), Adelphi, Milano, 1982.
25
tra particelle che possono generarsi spontaneamente dal vuoto e svanire
nuovamente in esso, perché l’esistere e il dissolversi delle particelle sono
semplicemente “forme di moto del campo”.24
Il vuoto di cui tratta la fisica moderna è ben lungi, quindi, dall’essere
semplicemente un vuoto. Al contrario, esso contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo infinito: una relazione essenzialmente dinamica, in cui il vuoto “vive” in ritmi
senza fine di creazione e di distruzione.25
L’idea del vuoto offertaci dalla fisica contemporanea è tra le acquisizioni più sconvolgenti della nuova concezione del mondo, di cui dobbiamo prendere coscienza, anche a motivo di una sua… millenaria attualità.
Nella visione dell’antica sapienza taoista, che rimanda ad un’idea di
interazione dinamica perpetua di polarità opposte (yin e yang), sulla base
di una realtà ultima pensata come il Vuoto (Tao) trascendente e creatore, Fritjof Capra scopre un’analogia di sorprendente modernità.26 La
si coglie, appunto, nell’idea del Vuoto come campo quantistico, quale
dimensione soggiacente nella natura dell’universo, laddove i concetti
(contraddittori nella materia) di ‘corpuscolo’ e di ‘onda’ vengono unificati come aspetti di una medesima entità, al generarsi senza fine di modi
e di processi di interazione, che danno origine ai fenomeni del mondo
sensibile, nella fondamentale interconnessione del Tutto.
3. A grandi tratti, ho richiamato antiche immagini del misticismo
orientale: il Tat Tvam Asi (quello sei tu) e l’esperienza dell’immedesimarsi dell’Io con l’Assoluto, l’Atman-Brahman dell’India induista; il
Tao, principio ineffabile della creazione infinita secondo un ordine e una
necessità sua propria, nell’esoterismo della Cina. Nelle suggestioni che
evocano, si rivelano figure di un Divino impersonale, che dischiude rapimenti della ragione quando si volge, trascendendosi al mistero dell’Essere.
In tale condizione d’animo si può avvertire – a me capita di avvertire
– una qual certa angustia suscitata, invece, dalle visioni dominanti nella
tradizione monoteista del Dio-Persona della cultura giudaico-cristiana,
dal Dio ebraico dell’Alleanza con un popolo eletto al Dio universale incarnato nel Cristo. Sentimento contrastato, ma mi sento di affermare che
vi si avverte, inconfondibile, la preminenza di uno sfondo antropomorfo
24
Ivi, p. 257.
Ivi, p. 258.
26 Ivi, pp. 149 e 245.
25
26
che mi sembra stridere con l’idea alta del Divino. Fa la sua comparsa
un’idea di Dio in atti e sembianze individuati, per così dire, con gli “occhi del corpo”, quasi al delinearsi, entro le scritture della Rivelazione, di
una novella mitologia in epoca cristiana.
Si pensi alla rappresentazione di Dio come il possente Vegliardo della
Cappella Sistina, nella creazione di Adamo dell’epopea di Michelangelo,
arte eccelsa ai vertici del patrimonio dell’umanità, ma che, tuttavia, distoglie dal pensare il Divino come creazione continua di un’Intelligenza
che anima il Tutto. Viene in mente addirittura Senofane (565-470 a.C.)
il quale di fronte al dio in figura umana, criticando l’antropomorfismo
della religione tradizionale di Omero e di Esiodo, osservava che “se tori
e leoni avessero parlato di Dio, ci avrebbero detto indubbiamente che
egli è un toro o un leone”. E aggiungeva: “gli Etiopi dicono che i loro
dei sono neri e camusi, i Traci dicono invece che hanno occhi azzurri e
capelli rossi”.27
Originano da qui le determinazioni di cui discettano, senza posa, teologi ostinati in uno strologare da sofisti che talora è parso nientemeno
che “blasfemo”, decisamente ripudiato nella vicenda dei grandi mistici
cristiani, da Eckhart a Giovanni della Croce.28 Si può ricordare Silesius,
nel Pellegrino Cherubico (I, 25): “Dio è un puro nulla, il qui e ora non lo
toccano, quanto più vuoi afferrarlo, tanto più ti sfugge”. Proposizione in
cui nell’ineffabile majestas del Divino echeggiano, come si vede, accenti
taoisti.
Alla luce di quest’idea del Divino, nella Seconda parte di questa ricerca affronto il problema delle culture del Sacro, come creazioni della
mente simbolica. I miti, le religioni, la mistica come archetipi dell’inconscio, proiezioni di un’ansia di vivere istituzionalizzate ad opera di Chiese
universali, nelle tradizioni secolari che sorreggono le credenze, a fronte
degli eterni dilemmi della giustizia, della provvidenza e del destino.
Dunque, costruzioni culturali, di cui occorre investigare i processi,
nell’impegno ad un’ermeneutica vissuta come presupposto di tolleranza
operosa nel vivere comune.
Voglio sottolineare che propendere per il Divino impersonale piuttosto che per il Dio delle tradizioni ricevute non comporta un qualche
slittamento verso un relativismo dei valori. Al contrario, può favorire, su
basi nuove e laicamente condivise, storicamente già disponibili, il rico27 21 B 15 D-K, 21 B 16 D-K; G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.
1°, Bompiani, Milano, 2004, pp. 160-161.
28 Marco Vannini, La Religione della ragione, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
27
noscimento di un’agenda dell’etica per tutti, come mi provo a suggerire
più avanti (cfr. 2.5 e 3.2).
Commisero l’ateo che si nega alla meraviglia, provo fastidio per il
clericale rinserrato nel fideismo della lettera. In maniera speculare, sembrano comportamenti accomunati dal rifiuto e dall’incapacità di accogliere non già i “miti”, ma piuttosto i segni del “Deus absconditus”,
manifesti nella creazione continua che avvertiamo pulsare come diffusa
nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo del cosmo, il soffio
dell’Anima mundi come la Vita del tutto nel mistero dell’Essere.
La visione che prediligo mi induce a leggere il Divino nel ‘Gran Libro
della Natura’, l’Universo di cui diceva Galileo, scoprendovi le tracce di
un’Intelligenza creatrice che presiede all’ordine e alla complessità indivisibile nel Tutto. Sono le epifanie del Divino.29 Le riconosciamo nel dispiegarsi di un’opera che si attua secondo un suo immanente finalismo, a
tutte le scale del macro- e del microcosmo, nell’Universo che è la “nostra
dimora”,30 l’ambiente da cui la Vita e la Mente sembrano esseri originati,
nella prodigiosa complessità che conosciamo.
Non è una ricaduta nel panteismo della Natura, perché immagino
l’Intelligenza creatrice come trascendente ab aeterno l’Universo che
pure anima e pervade. Tecnicamente, si dovrebbe parlare di “panenteismo”, per quel che ancora vale un lessico ormai consunto. Non abbiamo
le parole adeguate per dire l’infinita potenza del Divino e il suo mistero,
salvo, forse, attingere ad immagini che provengono dal sincretismo di
culture remote, come proporrò più avanti (cfr. 1.3).
Sostengo che possiamo disporre delle epifanie del Divino, esaminando le evidenze forniteci dal progresso della scienza, nelle scoperte di
cosmologi, fisici, biologi, chimici e scienziati cognitivi che ci apprestano
preziose linee di pensiero mentre lasciano a noi lo sforzo e la responsabilità di leggerne le implicazioni e discuterne le conseguenze. Dalla
riflessione sulle epifanie, scientificamente corroborate, ci si può spingere
sino a rappresentarci una filosofia del Divino, integrando due distinte ma
complementari visioni offerte, a partire dalla fine del Novecento, dalle
29 Epifania: apparizione, manifestazione solenne, dal greco “epiphanés”, “visibile”, deriv. di epiphàinesthai, “apparire” (Diz. Garzanti della Lingua Italiana, Milano,
1987).
30 Fritjof Capra, David Steindl, con Thomas Matus, L’universo come dimora (1991),
Feltrinelli, Milano, 1993; Stuart Kauffman, A casa nell’universo. Le leggi del caos e
della complessità (1995), Editori Riuniti, Roma, 2001; Christian De Duve, Polvere
Vitale (1995), Longanesi, Milano, 1998.
28
culture del Principio Antropico (AP: Anthropic Principle) e del Disegno
Intelligente (ID: Intelligent Design).
Il Principio Antropico verte sulle condizioni cosmologiche necessarie
e sufficienti a consentire l’emergere della Vita, che culmina nella comparsa della Mente nell’uomo, come coscienza di sé, consapevolezza dei
vincoli entro cui l’Universo ospita la vita e modo di manifestazione della
Natura.
Il Disegno Intelligente, che non è il creazionismo biblico ma la scienza della complessità irriducibile del vivente, mette in luce il finalismo
sotteso ai processi di autorganizzazione, coordinamento e autoregolazione dei sistemi biologici, finalismo che rinvia ad un Progetto e correlativamente ad una Mente progettuale (di cui però non si impone alcuna figura
filosoficamente o teologicamente preordinata).
1.2.1 Epifanie del Divino: l’Ordine
Nella sua essenza, il tema dell’Ordine rinvia al problema delle regolarità esistenti in Natura e definite sotto forma di leggi e di costanti nella
fisica e di processi in biologia.
Nel quadro di un’evoluzione cosmica, vincolata a quel sistema di leggi, di costanti e di processi, si è manifestata una processione di eventi
– dal Big Bang fino all’emergere della Vita e della Mente – che viene qui
esplorata come ‘epifania’ di un Ordine immanente alla Natura.
Solo per ragioni espositive, ordine e complessità sono affrontati e
discussi separatamente. Nelle epifanie del Divino, essi appaiono intrinsecamente congiunti: non c’è ordine senza complessità, né complessità
senza ordine.
Si racconta che Alain Connes, ritenuto uno dei più grandi matematici
viventi, abbia una volta, in un congresso, interrotto una relazione sulla cosmologia quantistica “sostenendo con gran foga che, per mostrare
rispetto, ci saremmo dovuti alzare tutti in piedi ogni volta che si citava
l’Universo”.31
Più dissacrante, ma solo all’apparenza, l’atteggiamento di Seth Lloyd,
professore di ingegneria meccanica al Mit di Boston e scienziato impe31
L’episodio è riferito da Lee Smolin, L’Universo senza stringhe (2006), Einaudi,
Torino, 2007, p. 244.
29
gnato nella costruzione del computer quantistico, che nel suo recente
libro “Programming the Universe”32 introduce la metafora dell’universo
computazionale.
Se ne può riassumere la tesi di fondo con le parole dell’Autore,
nell’introduzione: “Questo libro racconta la storia del bit e dell’universo.
L’Universo è la cosa più grande che ci sia e il bit è la più piccola quantità
di informazione possibile. L’universo è fatto di bit. Ogni singola molecola, ogni atomo, ogni particella elementare registra bit di informazione. Le interazioni tra questi frammenti di universo cambiano i rispettivi
bit di informazione e quindi modificano l’informazione: in altre parole,
l’universo computa. E siccome il suo comportamento è regolato dalle
leggi della meccanica quantistica, l’universo calcola in modo quantomeccanico, e i suoi bit sono bit quantistici. La storia dell’universo non è
che un lungo, continuo, gigantesco calcolo quantistico, l’universo è un
computer quantistico. La domanda che sorge spontanea è: ma cosa calcola l’Universo? Se stesso, o meglio la sua evoluzione”.33
E Seth Lloyd spiega: “Fin dalla sua nascita l’Universo non ha mai
smesso di calcolarsi. I primi risultati erano molto semplici: le particelle
elementari, le leggi fondamentali della fisica. Con il passare del tempo,
aumentava la quantità di informazione elaborata e di conseguenza anche
la complessità dei prodotti della computazione: galassie, stelle, pianeti”.
Dunque, sottolinea l’autore: “La vita, l’uomo, il linguaggio, la società,
la cultura sono tutti fenomeni che devono la loro esistenza alla capacità
intrinseca della materia e dell’energia di elaborare informazione”. Così,
aggiunge Seth Lloyd: “Il fatto che l’universo sappia calcolare spiega uno
dei grandi misteri della Natura: come sia possibile che da un insieme
di semplici leggi fisiche si generino sistemi complessi, tra cui gli esseri
viventi”.34
Mi preme adesso sottolineare un aspetto essenziale della tesi di Seth
Lloyd: “Grazie alla capacità computazionale dell’universo, ciò che è dotato di profondità logica e termodinamica si evolve in modo necessario
e spontaneo”.35 In sè, la metafora dell’universo computer non è del tutto
nuova. Nell’appendice bibliografica, Seth Lloyd ricorda “altri testi in cui
si paragona l’universo ad un computer” e cita l’opera del suo amico e
collega, il fisico teorico Heinz Pagels (di cui peraltro, con commosse
32
Seth Lloyd, Il programma dell’Universo (2006), Einaudi, Torino, 2006.
Ivi, p. 5.
34 Ibidem, corsivi miei.
35 Ivi, p. 182, corsivo mio.
33
30
parole, rievoca la scomparsa in un tragico incidente di montagna nei dintorni di Aspen, durante un’escursione comune nell’estate del 1988).36
In “Il codice cosmico” (The cosmic code) pubblicato nel 1982,37
Pagels esplorando le proprietà della teoria della fisica quantistica sottostante al mondo degli eventi, evocava la suggestione di un universo,
che in quanto ab initio elabora l’informazione, potesse essere pensato
appunto come un calcolatore cosmico. Le particelle quantistiche ne costituirebbero l’hardware, le leggi della fisica il software, l’evoluzione
cosmica rappresenterebbe quindi l’esecuzione del programma.
In Universo simmetrico del 1985, Pagels, interrogandosi a proposito
dell’origine dell’universo, prendeva in esame alcuni modelli matematici,
secondo cui la struttura dello spazio, del tempo e della materia poteva
essersi formata dal nulla assoluto: “In quei modelli matematici dell’origine dell’universo dal nulla, c’è qualcosa in quel vuoto: la probabilità
descritta dalla ‘funzione d’onda’ dell’universo”.38 Indagando nello stato
di vuoto, Pagels scriveva: “Il Nulla ‘prima’ della creazione dell’universo
è il vuoto più assoluto che si possa immaginare: né spazio, né tempo, né
materia. Si tratta di un mondo senza luogo, senza durata né eternità, senza numero: è ciò che i matematici chiamano ‘l’insieme vuoto’. Eppure
questo vuoto inconcepibile si converte nel ‘pieno’ dell’esistenza, e ciò
come conseguenza necessaria delle leggi fisiche”.
E subito dopo, Pagels si chiedeva: “Ma in quel vuoto, dove possono
essere scritte queste leggi? Che cosa ‘dice’ al vuoto che può dare alla luce
un universo? Sembrerebbe che anche il vuoto sia soggetto ad una legge,
ad una logica che preesiste allo spazio e al tempo”.39
Dunque, leggi che in quanto preesistono, orientano la storia stessa
del divenire dell’universo. Non già regolarità che emergono dal processo
come nel mondo computazionale di Seth Lloyd. Una differenza radicale. Ne discendono implicazioni decisive che comportano un mutamento,
anche epistemologico, di prospettiva. L’idea centrale del libro di Seth
Lloyd è quella che, in un universo computazionale, tutti i sistemi fisici
registrano ed elaborano informazione. Si può concepire che l’informa36 Ivi, pp. 194-196. Sconvolgente leggere la premonizione che della propria morte,
esattamente in un incidente di montagna, aveva avuto lo stesso Pagels, descrivendola
nella chiusa di Il codice cosmico (p. 334 ed. it.).
37 Heinz Pagels, Il codice cosmico (1982), Bollati Boringhieri, Torino, 1984.
38 Heinz Pagels, Universo simmetrico (1985), Bollati Boringhieri, Torino, 1988, p.
340, corsivo originale.
39 Ivi, p. 331, corsivi miei.
31
zione sia manipolata dalla materia. Le leggi della meccanica quantistica, che governano la materia a scala microscopica, impongono ad atomi
e molecole di registrare una quantità finita di informazione. In base al
secondo principio della termodinamica, tutti i sistemi fisici contengono
una certa quantità di informazione sia visibile, sia invisibile (entropia)
che nel corso del tempo e dell’evoluzione dinamica dei sistemi non può
decrescere.40
Bisogna arrivare all’ultima pagina, in un accenno incidentale alla ‘selezione naturale’ come “una delle più brillanti invenzioni del cosmo”,
(“In miliardi di anni, per tentativi ed errori, ogni novità è nata da una
piccola fluttuazione quantistica, le cui conseguenze sono state elaborate dalle leggi fisiche”), per trovare un riferimento alla possibilità di
concepire l’universo computazionale come “un gigantesco organismo
intelligente”41. Ma si tratta dell’ammirazione che in un ingegnere quantomeccanico può suscitare la potenza della “meccanica”, per cui “la danza microscopica di luce e materia ha il potere di generare gli esseri umani
e tutti gli altri viventi”.42
Non c’è in Seth Lloyd l’attenzione verso una mente progettuale insediata nell’Intelligenza creatrice all’opera nell’universo, né il riconoscimento della preminenza di leggi che preesistono allo spazio e al tempo,
malgrado la devozione professata nei confronti di Heinz Pagels, che abbiamo visto rimarcare questo principio.43
Infine è assente, in una visione computazionale dell’universo, ogni
indagine sulla natura delle leggi che, nel senso di una matematizzazione
dei processi, presiedono ad una più complessa matematizzazione del reale: quel dibattito, come vedremo più avanti, avviato da Eugene Wigner
sulla “irragionevole potenza della matematica nelle leggi fisiche”, per
cui si è parlato di ‘platonismo matematico’ e adombrata la metafora di un
‘Dio matematico’.
Sul farsi della modernità, nel Seicento, già Galilei aveva rilevato:
“Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli
occhi (io dico l’Universo), non si può intendere se prima non si impara a
40
Seth Lloyd, op. cit., p. 61.
Ivi, p. 192.
42 Ibidem.
43 A volte mi vien fatto di pensare che alla finezza ‘filosofica’ della fisica di Heinz
Pagels non sia stata estranea la comunione di vita con la moglie Elaine, insigne studiosa
dei vangeli apocrifi e del Cristianesimo delle origini.
41
32
intendere la lingua e conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto
in lingua matematica …”44
La stupefacente acquisizione del Novecento è che il carattere delle
regolarità matematiche è intrinseco ai fenomeni della vita e ne pervade
l’ordine a tutte le scale del macro- e del microcosmo.
Abbiamo assistito ad uno sviluppo senza precedenti della biologia
molecolare, con conquiste epocali nel campo della genetica, dalla scoperta della doppia elica del DNA, da parte di Francis Crick e James Watson,
nel 1953, fino alla sequenziazione del genoma nel 2000. In uno scenario
di inaudita “bellezza” si intravvede una verità profonda: tutti i sistemi viventi fondati sulla cellula risultano da “un’impresa in compartecipazione
tra geni e matematica”.
È questa la strepitosa conclusione di Ian Stewart, matematico inglese
e celebrato divulgatore scientifico, nel suo libro del 1998, “L’altro segreto della vita”45, in cui, tra l’altro, dichiara il suo debito nei confronti
dell’opera pionieristica Crescita e forma (On Growth and Form, 1917) di
D’Arcy Wentworth Thompson, grande scienziato ‘solitario’, naturalista
inglese di inconsueta preparazione matematica e vaste curiosità intellettuali, che ha mostrato come leggi fisiche e matematiche siano coinvolte
nella produzione della forma e della struttura degli organismi viventi.
Spiega Ian Stewart: “Al centro dell’argomento di Thompson c’era
l’esistenza di forti regolarità matematiche individuate nel mondo organico: la forma a spirale delle conchiglie, la curiosa numerologia delle
piante, le strisce bianche e nere delle zebre,le forme fluide delle meduse.
Egli non i limitò a catalogarle, ma si sforzò di trovare i principi fisici
profondi che le spiegavano”.46
La scoperta del DNA – il codice molecolare complesso che prescrive
la forma, lo sviluppo e il comportamento di ogni particolare organismo
vivente sulla Terra – rimane un evento scientifico tra i più importanti
di tutti i tempi. Eppure “nella vita c’è molto più dei geni”. La scoperta
del DNA – continua Stewart – non risolve quelli che Thompson chiamò
gli “enigmi della forma”. Perché, osserva Stewart, se si può condividere l’entusiasmo di Crick, che annunciò il DNA come “il segreto della
vita”, Thompson aveva scorto “un segreto ancora più profondo: il modo
di operare delle leggi fondamentali della natura dietro le scene, dove si
44
Galileo Galilei, Il Saggiatore, Opere, Edizione Nazionale, Barbera, Firenze,
1889, p. 232.
45 Jan Stewart, L’altro segreto della vita (1998), Longanesi, Milano, 2002.
46 Ivi, p. 12.
33
cela l’altro segreto della vita”, il controllo matematico dell’organismo in
crescita.47
Giacché se “i geni orientano l’universo fisico in direzioni specifiche,
inducendolo a scegliere questa sostanza chimica, questa forma, questo
processo piuttosto che altri”, sono pur sempre “le leggi matematiche della fisica e della chimica che controllano la risposta dell’organismo in
sviluppo alle sue istruzioni genetiche”.
Stewart ribadisce questo punto: “Anche se dopo il 1917, la biologia è
cambiata quasi al punto di diventare irriconoscibile, il principale messaggio
di D’Arcy Thompson sopravvive immutato: la vita si fonda su regolarità
matematiche del mondo fisico. La genetica sfrutta e organizza tali regolarità, ma la fisica le rende possibili e limita ciò che possono essere. Le regolarità matematiche sono sfruttate dal mondo organico ad ogni livello di
forma, struttura, schema, comportamento, interazione ed evoluzione”.48
Poi annota: “C’è della matematica nello scheletro molecolare del
DNA e nella dinamica evoluzionistica a lungo termine dell’intero ecosistema globale, nel trotto di un cavallo e nel consumo delle alghe brune
da parte dei ricci di mare, nello sfarzo della coda di un pavone, nelle
ali sgargianti delle farfalle e nei disegni sulle conchiglie marine, nella
disposizione dei semi nel capolino di un girasole49, nell’organizzazione
dei formicai …”
E aggiunge: “Inoltre in numerosi enigmi della biologia ci sono prove
di caratteri matematici – le capacità del centrosoma di costruire tubulina,
lo sviluppo di un embrione, la divisione di una cellula, la dinamica di un
ecosistema – i quali indicano che nuovi tipi di comprensione matematica
potrebbero essere subito dietro l’angolo”.50
47
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 334, corsivo mio.
49 Si pensi alla successione di Fibonacci, dove ogni termine è uguale alla somma dei
due precedenti (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, ecc.) configurabili nella spirale detta
appunto di Fibonacci. La presenza di schemi di Fibonacci ricorre dovunque in natura,
dalle galassie alle conchiglie, dalla goccioline magnetizzate in un mezzo viscoso all’organizzazione dei flosculi nelle piante. Nel regno vegetale, un esempio (Enciclopedia
Europea Garzanti, p. 866) di una serie di numeri di Fibonacci si trova nella distribuzione a spirale dei flosculi delle margherite e dei semi di girasole. In entrambi i casi,
vi sono due insiemi di spirali logaritmiche, una avvolta in senso orario e una in senso
antiorario. I numeri delle spirali non sono uguali nei due sensi ma tendono ad essere
due numeri di Fibonacci consecutivi (in genere 21 e 34 nelle margherite, 34 e 55 nei
girasoli medi).
50 Jan Stewart, op. cit., p. 334.
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