PREfAzIONE

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Prefazione
Il libro di Marco Giuman è un esempio di ricerca nel campo dell’archeologia classica. In altri tempi questa specificazione sarebbe risultata strana e superflua ma non lo è nel panorama contemporaneo della disciplina
che, fortunatamente, ha visto arricchirsi e svilupparsi il proprio orizzonte di
ricerca anche in direzione di metodologie fortemente connesse a strumentazioni tecnologiche ampie e sofisticate. Ma, soprattutto, vale la pena sottolineare un esempio di buona ricerca entro un orizzonte che troverebbe
difficile accoglienza dalla gran parte dei custodi dei programmi ministeriali di finanziamento alla ricerca in quanto – questo è ormai il luogo comune – manca di applicativi. E oggi purtroppo il pensiero e la storia culturale sono da molti ritenuti privi di applicativi. Nondimeno, l’Archeologia dello
sguardo corrisponde ad un tema classico di storia della cultura che richiede in primo luogo padronanza delle fonti letterarie e di quelle iconografiche che – applicativi o meno – si acquisiscono anche, se non solamente,
con una lunga frequentazione di biblioteche e musei.
La baskania – che la lingua italiana rende subito evidente nei suoi effetti come ‘malocchio’ – affonda le sue radici in una concezione per così
dire ‘razionale’ e ricca di implicazioni. Un fondamentale punto di riferimento per il lavoro di Marco Giuman è Le simbolisme de l’œil pubblicato
nel 1965 da Waldemar Deonna, un volume che raccoglie diversi studi precedenti dedicati allo stesso argomento da questo singolare quanto attento studioso pieno di curiosità e aperto alle più diverse sollecitazioni culturali. Altro punto di riferimento sono le diverse prospettive sul tema dello
sguardo e dell’occhio elaborate dalla scuola francese a partire da J.-P. Vernant. In tempi più recenti un’altra sintesi utile e innovativa che fa da sfondo al lavoro è L’occhio parlante. Per una semiotica dello sguardo nel mondo antico ad opera di Ilaria Rizzini.
L’Archeologia dello sguardo delinea in cinque capitoli quel percorso ‘razionale’ da cui emergono le diverse testimonianze del potere della baskania.
Nel primo capitolo l’occhio viene individuato come sede dei sentimenti, specchio dell’anima, e proprio per questo in grado di ‘toccare’, di svolgere un’azione attiva e passiva su cose e persone, anche in riferimento alle
teorie ottiche sviluppate nel mondo greco. Un campo d’azione particolarmente forte ed efficace riguarda il rapporto tra occhio e eros, indagato nel
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secondo capitolo, per cui gli effetti sulle vittime di Eros possono assumere i sintomi della malattia e della follia. Il potere dell’occhio e dello sguardo si può manifestare in forme diverse analizzate nei due capitoli seguenti: lo sguardo degli dèi è normalmente insostenibile da parte degli uomini
e un’altra versione di questo pericolo è rappresentata dal ben noto motivo dello sguardo di Medusa; un ulteriore segnale che rivela il potere dello
sguardo concerne il bagliore e il fulgore emanati dagli occhi in modo simile
alla piena luminosità del fuoco, del sole, del metallo lucente. Il potere dello sguardo può manifestarsi anche attraverso una trasgressione rispetto alla
normale attività dell’occhio: rispetto alla continua mobilità dell’occhio, la sua
fissità rimanda ad un potere negativo simile alla fissità della morte; anche la
maggiore dimensione dell’occhio o la moltiplicazione del numero di occhi
o pupille rimandano a animali o personaggi dotati di un potere superiore.
Nel capitolo quattro viene ripreso e commentato anche il ben noto motivo di Medea che si vela e copre gli occhi nel momento in cui produce un
incantesimo mortale su Talos. L’ultimo capitolo passa in rassegna strumenti e procedure gestuali in grado di annullare gli effetti nocivi della baskania.
Date le premesse di quella concezione che prevede uno sguardo che ‘tocca’ e agisce, in modo consequenziale e diremmo ‘razionale’ troviamo attestati oggetti, animali, gesti che sviano e deviano lo sguardo potenzialmente
nocivo o che ingannano presentando la vittima in modo diverso da quello
che è – afflitta da menomazioni o presunte tali e dunque incapace di attirare invidia (phthonos) – come nel caso del gobbo o del calvo.
Il potere fascinatore della baskania va precisandosi nel corso del tempo
e assume una straordinaria ricchezza di implicazioni nelle infinite rielaborazioni del mondo greco-romano e oltre. L’aspetto pericoloso dello sguardo inteso come ‘malocchio’ rappresenta una sorta di specializzazione rispetto ad un più generale potere dell’occhio e dello sguardo ben testimoniato
a partire dai poemi omerici nelle sue ricche e variegate implicazioni. Conviene richiamare qui sinteticamente le radici più antiche di questo percorso ermeneutico.
Fin dal mondo omerico l’atto della visione non è neutrale poiché tende
ogni volta ad esprimere sentimenti, stati d’animo, caratteristiche differenti di
azione, rapporti di forza. Gli eroi omerici che combattono sotto le mura di
Troia si apprestano alla battaglia compiendo il rituale della vestizione delle armi fino a divenire guerrieri «vestiti di bronzo». L’espressione formulare esalta l’importanza della vestizione che rende il guerriero una macchina luminosa e sonora, dotata di armi che ai nostri occhi possono apparire
come dotate di un potere magico. Il bagliore prodotto dalle armi è la prima arma del guerriero omerico e il suo sguardo che emana bagliore simile
a fuoco o al sole rafforza il potere luminoso dell’eroe che sta per abbattersi sul nemico. Priamo è il primo ad accorgersi dello splendore delle nuove
armi di Achille paragonato ad una stella, il Cane d’Orione, e giustamente
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interpretato dal re troiano come cattivo segnale in previsione dello scontro
con Ettore (Hom. Il. XXII 25-32). Quest’ultimo, allo stesso modo, vede risplendere il bronzo di Achille come fuoco o sole ed è subito preso dal panico (Hom. Il. XXII 131-138). Gli occhi di Achille emanano un bagliore
simile a quello del fuoco e questo tipo di sguardo corrisponde all’«occhio
di bronzo» che fa parte delle armi pericolose e distruttive di Atena.
Sul versante femminile possiamo riscontrare gli stessi motivi: le vestizioni che interessano le figure femminili rendendole simili a Afrodite «tutta d’oro» esaltano ancora una volta il potere luminoso di questi personaggi.
Le armi della guerra e della seduzione si equivalgono, agiscono come armi
magiche e in questo contesto il potere dell’occhio e dello sguardo è parte
di una panoplia di armi luminose e sonore.
Continuando nelle implicazioni di questa concezione, il potere luminoso segnala un rango privilegiato che può essere riassunto nell’idea di charis, originariamente non esclusiva del mondo femminile, che si collega al
mondo dei daidala e di ciò che appare come thauma idesthai (meraviglia a
vedersi). Chi detiene la charis rivela una bellezza che rende simili a ‘statue
viventi’, a quei daidala luminosi che escono dall’officina di Efesto e degli
artigiani divini come Dedalo. La caratteristica principale dei daidala risiede in una particolare bellezza e perizia, in una varietà di colore e di luce.
Il rapporto tra charis e daidalon implica alcuni aspetti che possiamo meglio
comprendere a partire da una testimonianza di Platone 1 : quando Carmide entra nella palestra gli occhi di tutti i presenti si rivolgono verso di lui
pieni di meraviglia e lo contemplano come fosse la statua di un dio. L’idea
di una bellezza e di un privilegio che avvicina agli dèi può essere espressa
grazie al confronto con una statua o, meglio, con una statua vivente. Tra le
caratteristiche che fanno apparire le statue come viventi un aspetto ricorrente è rappresentato dall’occhio e dallo sguardo.
La presenza della charis si manifesta attraverso un potere luminoso che
attrae lo sguardo: in questa attrazione possiamo riconoscere il segno del giusto riconoscimento che spetta a chi possiede un privilegio che avvicina al
mondo degli dei e, contemporaneamente, la presenza di un’arma luminosa, di una trappola visiva che agisce mediante il dolos. A seconda della prospettiva, lo sguardo funziona come un’arma della seduzione o, al contrario,
lo sguardo dell’osservatore rimane irretito e diviene vittima del potere luminoso della charis. In questo senso l’idea connessa a thauma idesthai implica la compresenza di due diversi punti di vista: chi detiene la charis diviene
thauma idesthai, ma il riconoscimento di tale privilegio implica un diverso
osservatore che attraverso il proprio sguardo percepisca un effetto luminoso, una bellezza simile a quella dei daidala, un’intensità di splendore tali da
1) Carm. 154 c. Il brano è richiamato in Franzoni 2006, p. 3.
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suscitare quell’effetto di meraviglia – thauma idesthai – che si accompagna
alla presenza della charis. L’occhio e lo sguardo si rivelano strumenti fondamentali della charis poiché attraverso di essi agisce la qualità più forte e visibile del privilegio-charis, la luce.
Se Hera, Afrodite, Elena ma anche Odisseo si rivelano alla fine simili a ‘statue viventi’ poiché possiedono lo splendore della charis che si addice ai daidala, tra le armi magiche che compongono la panoplia della charis
e della seduzione dobbiamo annoverare anche l’occhio e lo sguardo. Afrodite, Eros, Elena, Peitho, le Charites mostrano costantemente questo potere dello sguardo che produce seduzione e persuasione: lo sguardo di Eros
è costantemente paragonato ad un dardo o ad un pharmakon, un veleno.
Ecco come agiscono le Charites: «dalle loro palpebre, se fissavano lo sguardo, spirava amore / che scioglie le membra: bello è lo sguardo di sotto le
ciglia» (Hes. Th. 907-911, trad. E. Vasta).
L’occhio è strumento di seduzione grazie alla luce che da esso emana:
Eros, Afrodite, le Charites, Peitho, Elena manifestano il loro potere attraverso lo sguardo spesso paragonato ad un dardo che colpisce. Da qui anche il
facile scivolamento verso lo sguardo sentito come thelgein, fascinazione e incantesimo ma anche dolos – i daidala per il loro aspetto poikìlos (multicolore)
e àiolos (cangiante) agiscono come una trappola visiva – uno sguardo che
inganna perfettamente in linea con gli aspetti magici e pericolosi di Eros e
con una più ampia concezione relativa al pericolo dello sguardo che colpisce, la baskania o ‘malocchio’, cui si lega anche il timore per gli occhi delle statue. L’epiteto di glaukopis che accompagna costantemente la dea Atena
riassume bene le caratteristiche di uno sguardo che agisce come un’arma
assai pericolosa, l’«occhio di bronzo». Un personaggio che molto ha a che
fare con la concezione più antica del potere dello sguardo è Peitho, di volta in volta figlia o compagna di Afrodite, o parte del suo corteggio insieme
a Eros e alle Charites. Gli occhi di Peitho, ben noti a Eschilo (Eum. 970971), sono lo strumento privilegiato per imporre il potere di Persuasione.
Anche gli sguardi pericolosi di Dioniso, di Artemide, della Gorgone trovano qui le proprie radici da cui si origina una continua e complessa rielaborazione simbolica affidata al linguaggio del mito, della poesia, delle immagini, della filosofia. Da questo contesto emerge anche la lunga storia che
conduce dalla baskania al ‘malocchio’ e che costituisce un capitolo privilegiato della storia delle ‘immagini mentali’ e del loro rapporto con l’‘immagine fisica’, come delineato ad esempio da R. Debray.
Il libro di Marco Giuman aggiorna con metodi e sensibilità del nostro
tempo la storia dello sguardo ‘inquieto’ e in questo senso si rivela felice e
opportuna anche la scelta di inserire una specifica sezione iconografica affidata a Chiara Pilo. Una notazione va infine dedicata anche alle citazioni
che accompagnano l’apertura dei capitoli. Tali riferimenti emergono con
naturalezza e cognizione di causa ove si consideri la spiccata curiosità e
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competenza di Marco nel campo della letteratura, della musica, delle arti
figurative e costituiscono un puntuale contrappunto a ciò che emerge dalla
lettura del testo anche in relazione a suggestioni e aperture provenienti da
epoche e tradizioni diverse dal mondo antico. Al pari di quanto aveva fatto
con Melissa, archeologia delle api e del miele nella Grecia antica, attraverso questo volume Marco Giuman riesce a gettare una rinnovata luce su un fenomeno culturale di lunga durata rendendo quello sguardo ‘inquieto’ meno
arbitrario e più comprensibile nelle ragioni profonde che lo hanno generato. Forse il commento migliore a questo strano ma inestirpabile aspetto
della nostra storia culturale resta un indimenticabile capolavoro del nostro
teatro, Non è vero ma ci credo, in cui il sorriso che ci assale per quanto appare ai nostri occhi palesemente non vero si alterna alla seria consapevolezza della debolezza delle cose umane per cui basta un gobbo, peraltro finto,
per credere che il mondo possa cambiare.
Mauro Menichetti
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