3/2015 Tax Law Quarterly 3/2015 Comitato di direzione Fabrizio Amatucci, Massimo Basilavecchia, Roberto Cordeiro Guerra Lorenzo del Federico, Eugenio Della Valle, Valerio Ficari Maria Cecilia Fregni, Alessandro Giovannini Maurizio Logozzo, Giuseppe Marini Salvatore Muleo, Franco Paparella Livia Salvini, Loris Tosi G. Giappichelli Editore – Torino © Copyright 2015 - Amici della Rivista Trimestrale di Diritto Tributario Registrazione presso il Tribunale di Torino, 5 aprile 2012, n. 22 Direttore responsabile: Eugenio Della Valle Direzione e Redazione c/o Giuseppe Marini Via dei Monti Parioli n. 48 - 00197 Roma Tel. 06-36006227 [email protected] G. Giappichelli Editore - 10124 Torino via Po, 21 - Tel. 011-81.53.111 - Fax 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-348-5821-9 (abbonamento) ISSN 2280-1332 Stampatore: Stampatre s.r.l., di A. Rinaudo, G. Rolle, A. 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Comitato di direzione Fabrizio Amatucci, Massimo Basilavecchia, Roberto Cordeiro Guerra, Lorenzo del Federico, Eugenio Della Valle, Valerio Ficari, Maria Cecilia Fregni, Alessandro Giovannini, Maurizio Logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco Paparella, Livia Salvini, Loris Tosi Comitato scientifico dei revisori Niccolò Abriani, Francisco Adame Martinez, Antonia Agulló Agüero, Jacques Autenne, Mauro Beghin, Pietro Boria, Marc Bourgeois, Andrea Carinci, Giuseppe Cipolla, Silvia Cipollina, Andrea Colli Vignarelli, Gianluca Contaldi, Daria Coppa, Giacinto Della Cananea, Adriano Di Pietro, Augusto Fantozzi, Andrea Fedele, Luigi Ferlazzo Natoli, Stefano Fiorentino, Guglielmo Fransoni, Gianfranco Gaffuri, Franco Gallo, Cesar Garcia Novoa, Alfredo Garcia Prats, Daniel Gutman, Pedro H. Herrera Molina, Manlio Ingrosso, Enrico Laghi, Salvatore La Rosa, Carlos Lopez Espadafor, Raffaello Lupi, Jacques Malherbe, Enrico Marello, Gianni Marongiu, Enrico Marzaduri, Giuseppe Melis, Sebastiano Maurizio Messina, Marco Miccinesi, Salvo Muscarà, Mario Nussi, Carlos Palao Taboada, Leonardo Perrone, Raffaele Perrone Capano, Franco Picciaredda, Francesco Pistolesi, Ana María Pita Grandal, Gianni Puoti, José A. Rozas Valdés, Claudio Sacchetto, Salvatore Sammartino, Roberto Schiavolin, Roman Seer, Maria Teresa Soler Roch, Paolo Stancati, Dario Stevanato, Giuliano Tabet, Francesco Tesauro, Giuseppe Tinelli, Edoardo Traversa, Antonio Uricchio, Juan Enrique Varona Alabern, Marco Versiglioni, Bjorn Westberg, Giuseppe Zizzo Comitato di redazione Antonio Viotto (coordinatore), Ernesto-Marco Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna Cannizzaro, Pier Luca Cardella, Anna Rita Ciarcia, Marco Di Siena, Stefano Dorigo, Antonio Marinello, Pietro Mastellone, Michele Mauro, Annalisa Pace, Damiano Peruzza, Federico Rasi, Laura Torzi, Caterina Verrigni Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione collegiale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di uno dei componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/RTDT_regolamento.html) Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via Po 21 – 10124 Torino INDICE-SOMMARIO pag. Gli Autori e i Revisori IX Dottrina M. Basilavecchia, La determinazione concordata della ricchezza (The consensual assessment of wealth) S. Fiorentino, Cessione in regime di sospensione di accisa e implicazioni nel procedimento tributario (Supply of goods under suspension of excise duty and implications for the tax assessment) A. Giovannini, Crisi dei metodi di accertamento tributario e prospettive di riforma: introduzione (Crisis of methods of tax assessment and possible reforms) P. Marongiu, La voluntary disclosure nei rapporti tributari fra principi generali e interventi legislativi (The voluntary disclosure in tax relationships between general principles and legislative interventions) A. Persiani, La riscossione tributaria erariale tra modifiche recenti ed auspicabili interventi futuri (Collection of national taxes between recent amendments and further desirable modifications) F. Russo, La differente “abilità fiscale” nell’imposta di successione e donazione (The different “tax ability” in the inheritance and gift tax) A. Vignoli, L’attività commerciale della partecipata nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (The commercial activity of the subsidiary in the interpretation of the Italian Supreme Court) B. Westberg, Digital presence – Does it exist? (Esiste la presenza digitale?) 583 597 623 635 669 701 723 737 VIII INDICE-SOMMARIO RTDT - n. 3/2015 pag. Giurisprudenza Corte EDU, sez. IV, causa Rinas c. Finlandia, 27 gennaio 2015, n. 17039/13, con nota di M. Bolognese, Il divieto del cumulo di sanzioni nell’ordinamento internazionale (ne bis in idem): una evitabile prova di forza tra gli artt. 117 e 11 Cost. al vaglio della Consulta (The prohibition against double jeopardy in the international legal order (ne bis in idem): the effects of Arts. 117 and 11 of the Constitution according to the Italian Constitutional Court) Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 – Pres. Cappabianca, Rel. Greco, con nota di M. Pellecchia, La presunzione di residenza fiscale in Italia può essere invocata anche a favore del contribuente (The presumption of tax residence in Italy may be invoked also by the taxpayer) Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 – Pres. Squassoni, Rel. Aceto, con nota di G.G. Scanu, Reati tributari, sequestro preventivo e attualità delle esigenze cautelari (Tax crimes, preventive seizure and actuality of the precautionary needs) 755 773 795 GLI AUTORI Massimo Basilavecchia Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Teramo Marco Bolognese Dottore di ricerca, Università di Macerata Stefano Fiorentino Professore straordinario di Diritto tributario, Università di Salerno Alessandro Giovannini Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Siena Paola Marongiu Ricercatore di Diritto tributario, Università di Genova Massimo Pellecchia Dottore di ricerca, Università Luiss Guido Carli Alessio Persiani Dottore di ricerca, Università Luiss Guido Carli Fabio Russo Dottore di ricerca, Seconda Università degli studi di Napoli Giuseppe Giovanni Scanu Ricercatore di Diritto tributario, Università di Sassari Alessia Vignoli Ricercatore di Diritto tributario, Università di Roma Tor Vergata Björn Westberg Professor in Tax Law and Public Finance, Jonkoping International Businesss School, Sweden X GLI AUTORI E I REVISORI RTDT - n. 3/2015 La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Andrea Carinci (Professore straordinario di Diritto tributario, Università di Bologna); Adriano Di Pietro (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Bologna); Augusto Fantozzi (Professore ordinario di Diritto tributario, Univ. Telematica Giustino Fortunato); Franco Fichera (Professore ordinario di Diritto tributario, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli); Alberto Maria Gaffuri (Professore associato di Diritto tributario, Università di Milano Bicocca); Enrico Marello (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Torino); Claudio Sacchetto (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Torino); Salvatore Sammartino (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Palermo); Giuseppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tributario, Università LIUC di Castellanza). DOTTRINA SOMMARIO: M. Basilavecchia, La determinazione concordata della ricchezza (The consensual assessment of wealth) S. Fiorentino, Cessione in regime di sospensione di accisa e implicazioni nel procedimento tributario (Supply of goods under suspension of excise duty and implications for the tax assessment) A. Giovannini, Crisi dei metodi di accertamento tributario e prospettive di riforma: introduzione (Crisis of methods of tax assessment and possible reforms) P. Marongiu, La voluntary disclosure nei rapporti tributari fra principi generali e interventi legislativi (The voluntary disclosure in tax relationships between general principles and legislative interventions) A. Persiani, La riscossione tributaria erariale tra modifiche recenti ed auspicabili interventi futuri (Collection of national taxes between recent amendments and further desirable modifications) F. Russo, La differente“abilità fiscale” nell’imposta di successione e donazione (The different “tax ability” in the inheritance and gift tax) A. Vignoli, L’attività commerciale della partecipata nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (The commercial activity of the subsidiary in the interpretation of the Italian Supreme Court) B. Westberg, Digital presence – Does it exist? (Esiste la presenza digitale?) 582 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Massimo Basilavecchia LA DETERMINAZIONE CONCORDATA DELLA RICCHEZZA 1 THE CONSENSUAL ASSESSMENT OF WEALTH Abstract La crisi dei metodi di accertamento e l’inefficacia dello schema della dichiarazione controllata hanno determinato nell’ultimo decennio il ricorso a formule ibride e a clausole generali che spesso conducono a risultati imprevedibili in base alle regole sostanziali di determinazione della base imponibile. In questa situazione, lo sviluppo di forme di imposizione concordata – cioè che valorizzano la partecipazione del contribuente – si pone come scelta obbligata per il legislatore, in un momento storico in cui contraddittorio e partecipazione sono valorizzati non solo dalla dottrina ma anche dalla prassi e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. Occorre però chiarire definitivamente il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria non può avere un effetto preclusivo. Parole chiave: metodi di accertamento, partecipazione, contraddittorio, indisponibilità, consenso The crisis of the tax assessment methods and the ineffectiveness of the scheme of controlled tax return determined, in the last decade, the adoption of hybrid formulas and general provisions that often lead to unpredictable results according to the substantive rules aimed at determining the taxable base. In this situation, the development of forms of agreed taxes – that enhance the participation of the taxpayer – stands as an obligatory choice for the lawmaker, in a historical phase in which audi alteram partem and participation are valued not only in literature, but also by the administrative practice and the Constitutional Court and Supreme Court case law. However, it is 1 Contributo non sottoposto a referaggio. Il saggio costituisce la rielaborazione e l’integrazione della relazione tenuta al Convegno AIPDT di Milano presso Università Bocconi, il 26 settembre 2014. 584 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 necessary to clarify that the principle of unavailability of the tax debts cannot have a preclusive effect. Keywords: tax assessment methods, participation, audi alteram partem, unavailability, mutual agreement SOMMARIO: 1. Le conclusioni. – 2. L’accertamento oggi. – 3. Struttura dei metodi di accertamento. – 4. La determinazione concordata come prospettiva di sviluppo. – 5. La razionalizzazione degli istituti deflativi. – 6. Chiudere i conti con l’indisponibilità. 1. Le conclusioni Il tema assegnato pone in relazione la crisi dei metodi di accertamento e lo sviluppo di forme di definizione concordata, indirizzando i lavori del convegno verso un ampliamento della prospettiva (dall’accertamento al processo). È bene dire subito quali sono le conclusioni che si intendono proporre. A mio avviso, l’indubbia crisi che il sistema dei metodi di accertamento, uscito dalla riforma tributaria di quarant’anni fa, vive da quasi un decennio (fisso convenzionalmente l’inizio della crisi nel 2005, con le sentenze della Corte di Cassazione sulla nullità 2 – anche civilistica, per assenza di causa – dei negozi e degli atti elusivi), spinge necessariamente verso un incremento e uno sviluppo anche qualitativo delle forme di determinazione concordata della ricchezza. Nel contempo, però, occorre fare ogni sforzo (e a questo sono chiamati tutti gli interpreti della vicenda, dal legislatore alla giurisprudenza) perché 2 Cass., sez. V, sent. 21 ottobre 2005 (28 aprile 2005), n. 20398; Cass., sez. V, sent. 26 ottobre 2005 (12 maggio 2005), n. 20816; Cass., sez. V, sent. 14 novembre 2005 (10 marzo 2005), n. 22932. La Suprema Corte posta di fronte all’assenza, all’epoca dei fatti in contestazione, di adeguati strumenti normativi di contrasto ai fenomeni elusivi, ha pensato di contrastarle adottando soluzioni interpretative: mentre nelle sentt. n. 20398 e n. 22932 la Corte ha concluso riconoscendo la nullità radicale per difetto di causa dei negozi collegati attraverso cui è realizzato il c.d. dividend washing e il c.d. dividend stripping, nella sent. n. 20816, relativamente ad una operazione di usufrutto azionario, la Corte ha invece ipotizzato un’ipotesi di simulazione relativa o di frode alla legge ex art. 1344 c.c. A riguardo CORASANITI, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della corte suprema, in Dir. prat. trib., n. 2, 2006, p. 235. Massimo Basilavecchia 585 allo sviluppo delle forme di determinazione concordata si accompagni un recupero di regole certe, non solo sui metodi di accertamento (che, nella loro impostazione anni sessanta, devono considerarsi ormai superati dal tempo) ma anche sulla necessaria coerenza che la fase di accertamento deve assicurare rispetto alle regole sostanziali di determinazione del tributo dovuto, rimesse oggi prevalentemente all’applicazione da parte del contribuente. In estrema sintesi: maggiori, ma soprattutto migliori, e soprattutto ancora più tempestive, occasioni di determinazione concordata; minore formalismo e maggiore semplicità strutturale di tali istituti; loro inserimento in un contesto che ne permetta l’avvio sin dalla fase di adempimento spontaneo degli obblighi tributari. Se si vuole, determinazione concordata come rottura dell’isolamento in cui contribuente e fisco hanno tendenzialmente sinora operato, nelle due fasi di attuazione del tributo rispettivamente a loro affidate. In questo senso, sono indirizzate molte delle modifiche introdotte dai decreti delegati attuativi della delega attribuita al governo dalla L. n. 23/2014: innovazioni che non è qui possibile analizzare. 2. L’accertamento oggi Lo stato dell’arte, sulla determinabilità concordata della ricchezza – direi soprattutto della base imponibile – registra oggi una prevalenza di opinioni favorevoli, talune più convinte della utilità degli istituti in sé considerati, talune più condizionate da ragioni pratiche (il sistema è più efficiente con formule consensuali). Non vi è dubbio che la Corte costituzionale, nella recente sentenza sulla mediazione 3, abbia notevolmente contribuito alla legittimazione delle formule consensuali; ma resto convinto che, più di ogni altra considerazione, le forme concordate debbano essere accettate per il semplice motivo che non vi è alcuna ragione per escludere una partecipazione del cittadino al proce3 Corte cost., 16 aprile 2014 (26 febbraio 2014), n. 98, in GT-Riv. giur. trib., 2014, p. 469, con commento di GLENDI, La Consulta chiude i conti con la c.d. mediazione tributaria “ancien régime”, ivi, p. 477. La Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di incostituzionalità sollevate da alcune Commissioni tributarie riguardo all’istituto del reclamo/mediazione. La precedente versione della mediazione tributaria è stata giudicata incostituzionale solo nella parte in cui prevedeva, in caso di mancata proposizione, l’inammissibilità del successivo ricorso. 586 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 dimento, che è un risultato acquisito dal diritto amministrativo da un quarto di secolo, e dal quale non si può tornare indietro 4. Di fronte ad un’“azione amministrativa” così penetrante e dalle conseguenze assai incisive sul patrimonio (quanto meno) del contribuente, non è concepibile che un’area di dialogo, “equivalente” (più che “alternativa”, come ha scritto in un bel saggio recente Marco Versiglioni 5) alla giustizia processuale, sia negata alle parti della vicenda (non solo al contribuente, ma anche all’amministrazione). È questa la filosofia che sembra ispirare la recente, importantissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19667/2014, che teorizza la ineludibilità di un momento informativo funzionale alla partecipazione del contribuente all’azione impositiva, rilevando che il principio della partecipazione al procedimento, sancito dalla L. n. 241/1990, non può essere trascurato nel diritto tributario, anche se in tale settore esso è destinato ad imporsi secondo regole diverse da quelle reperibili nel corpo della legge generale sui procedimenti amministrativi. Dalla sentenza si ricava, peraltro, anche la rilevanza del contraddittorio in funzione difensiva, quale mezzo di realizzazione di una effettività della tutela. L’importanza del contraddittorio è stata ancora ribadita dalla Corte costituzionale (sent. n. 132/2015) muovendo dalla disposizione sugli accertamenti antielusivi, e , in termini astratti, è stata ribadita da ultimo dalle stesse Sezioni Unite, sia pure in una sentenza – non condivisibile – cha ha inteso ridimensionare l’obbligo di contraddittorio al di là dei tributi armonizzati. Pur nell’intento riduttivo, le Sezioni Unite non hanno potuto evitare un appello monito al legislatore, affinché generalizzi il contraddittorio preventivo (sent. 9 dicembre 2015, n. 24823); ed è di questi giorni un’ordinanza della CTR di Firenze, che rimette alla Corte Costituzionale la questione del contraddittorio garantito solo per alcuni tributi. Ma, a ben vedere, è anche la filosofia alla base dei più recenti e illuminati documenti di prassi, come la recente Circolare 6 agosto 2014, n. 25/E del4 Sottolinea questo aspetto De Mita, in una relazione del 1999 (“Profili storici e costituzionali del concordato tributario”) pubblicata, quale commento indiretto a Cass. n. 20732/2010, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 63. Pur in una visione autonomistica dell’accertamento con adesione, la funzione essenzialmente informativa (“contestuale e ravvicinata”), rafforzata dalla forma dialogica e dalla funzione di pronta stabilizzazione del rapporto, è sottolineata anche da MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, soprattutto p. 167 ss.; questa ricostruzione a noi pare non lontana da quella qui proposta, nella misura in cui pone al centro della questione la migliore efficacia dell’accertamento in un modulo partecipativo. 5 VERSIGLIONI, Diritto tributario ed “equivalent dispute resolution”, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 223. Dello stesso Autore, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001. Massimo Basilavecchia 587 l’Agenzia delle Entrate, in tema di indirizzi per le attività di controllo. È una Circolare dalla quale traspare l’esigenza di migliorare la qualità dell’atto impositivo tenendo conto delle ragioni del contribuente controllato, e, in qualche modo, della “sostenibilità” dell’accertamento 6. La crisi dei metodi di accertamento, in questo contesto, determina ulteriori ragioni a sostegno del potenziamento e della valorizzazione di forme di determinazione concordata. Quella crisi, infatti, nasce dalla insufficienza dei due profili che caratterizzano l’impostazione dell’accertamento nella riforma tributaria 7. Tali profili, nonostante le significative modificazioni normative, sono rimasti stabili per quarant’anni, e il loro superamento è avvenuto non tanto sul piano della produzione di nuove norme, quanto per effetto di una rivoluzione giurisprudenziale che ha sostituito schemi evidentemente ritenuti non più idonei con forme (quanto meno) prater legem, non a caso dichiarate applicabili d’ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo, e dunque effettivamente imputabili non all’ufficio impositore, ma direttamente al giudice. Entrando “a gamba tesa” (ma qui non intendo assegnare cartellini gialli o rossi, mi limito a constatare) sul sistema dei metodi, la giurisprudenza si è riservata la discrezionalità valutativa di ammettere, o meno, schemi giuridici posti in essere nell’autonomia contrattuale, di conservare la rilevanza fiscale di operazioni di dubbia ispirazione, di considerare o meno provato il diritto ad applicare, nell’attuazione del tributo, elementi favorevoli al contribuente. I due pilastri della riforma sono stati spazzati via, e anche tecniche di controllo (quali gli accertamenti bancari), che in teoria avrebbero potuto essere applicate in coerenza con il sistema, sono state considerate un modo per attingere alla ricchezza in modo molto più sostanziale e “libero”, rispetto a quanto avveniva con l’applicazione ortodossa degli artt. 38 e 39 del D.P.R. n. 600/1973. I fiumi di inchiostro scritti su abuso del diritto, su antieconomicità, su elusione, su pianificazione fiscale “aggressiva”, sulla tendenziale equivalenza tra movimenti finanziari e materia imponibile, consentono di essere in questa sede molto sintetici. 6 Si rinvia, se si vuole, a quanto scritto commentando la Circolare di cui al testo, in L’evoluzione dei controlli: verso un accertamento “sostenibile”?, in Corr. trib., 2014, p. 2761. 7 LUPI, L’esercizio del potere impositivo col consenso del destinatario, introduzione al saggio di CROVATO, Il consenso nella determinazione dei tributi, Roma, 2012, p. XIV), analizzando la crisi dei metodi di accertamento, sostiene che gli accordi siano il punto di emersione della matrice amministrativistico economica repressa nella redazione della legge da quella legalistico-processuale, troppo attenta a sottolineare il carattere pubblicistico della tassazione. 588 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Rinviando a quanto scritto in altra occasione 8, il dato più allarmante dell’evoluzione registratasi negli ultimi anni è quello della frattura tra la determinazione dell’imponibile sulla base delle norme sostanziali, e quella che può essere compiuta dall’amministrazione (o con esiti ancor più imprevedibili, dal giudice tributario, non solo di merito ma anche di legittimità). Alcune recenti sentenze (luglio 2014) della Suprema Corte 9 in materia di accertamenti bancari rendono evidente che la tecnica accertativa tende a diventare non lo strumento, il mezzo per stabilire l’imponibile effettivo, ma 8 BASILAVECCHIA, Metodi di accertamento e capacità contributiva, in Rass. trib., 2012, p. 1107; ID., Efficacia diretta dell’art. 53 Cost., in SALVINI-MELIS (a cura di), L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, Padova, 2014, p. 87. 9 Ad es. 2 luglio 2004, n. 15050, la quale richiede, per escludere la rilevanza dei prelevamenti, che il contribuente fornisca una prova documentale (e non presuntiva) di quali siano i beneficiari dei pagamenti. Il rigore sembra eccessivo, sia sotto il profilo del contenuto della prova contraria (la norma parla, genericamente, di beneficiario del prelevamento, ipotizzando quindi che possa trattarsi di un movimento finanziario diverso da un pagamento (ad es. una restituzione di somme date in prestito), sia sotto il profilo della qualità della prova. Soprattutto nel caso di persone fisiche, o di conti di soggetti collegati al contribuente, non si vede perché non si possano apprezzare presunzioni soprattutto per prelevamenti di entità non particolarmente levata, corrispondente ai bisogni della vita quotidiana. Ma soprattutto lascia perplessi l’affermazione secondo la quale l’Agenzia delle Entrate, per i versamenti, «non ha nessun obbligo di individuare (e, quindi, di provare) la fonte di produzione del reddito e, di conseguenza, di specificare quale delle fattispecie indicate nel d.P.R. n. 917/86 sia produttiva dello stesso», in quanto essa dimentica che l’unico metodo che consente all’ufficio di prescindere dall’individuazione della fonte produttiva e dalla qualificazione in base alle categorie reddituali, è l’accertamento sintetico, che però è basato sulle spese, e non sulle entrate del contribuente. Non meno significativa è la sent. 24 luglio 2014, n. 16896 (e così pure 2 luglio 2014, n. 15049), la quale nello stabilire che «debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive che quelle passive, senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili (l’impugnata sentenza, escludendo i versamenti ai fini del computo dei ricavi, e procedendo alla deduzione presuntiva di costi, ha violato tali principi di diritto)» si pone in contrasto con le argomentazioni sulla base delle quali la Corte costituzionale (sent. n. 225/2005) ha ammesso la legittimità delle presunzioni in parola, condizionandola alla tassazione del solo differenziale presuntivamente accertabile tra importo del prelevamento (che di per sé non può che rappresentare una spesa) e conseguente ricavo ipotizzabile, a fronte della spesa effettuata al di fuori del contesto contabile. Il diverso metro interpretativo spesso riscontrabile nelle sentenze della Suprema Corte in materia di accertamenti bancari rispetto a quanto argomentato dalla Corte costituzionale ha probabilmente influenzato quest’ultima nel decidere, nel senso della illegittimità costituzionale, le questioni relative alla presunzione relativa che considera come compensi dell’attività di lavoro autonomo professionale i prelevamenti per i quali il contribuente non indica i relativi beneficiari (sent. n. 228/2014). Massimo Basilavecchia 589 un modo surrettizio di accertare una “capacità contributiva” generica: non è più il reddito complessivo del TUIR quello che viene autoritativamente imposto, ma una generica “attitudine alla contribuzione”, desunta da operazioni e movimenti considerati rappresentativi di ricchezza imponibile, a prescindere dal nesso di collegamento con gli elementi strutturali dell’imposizione sul reddito (quali fatti siano stati posti in essere, a quali categorie reddituali siano ascrivibili, quali regole concorrano a individuare l’imponibile). 3. Struttura dei metodi di accertamento I due capisaldi strutturali dell’accertamento erano costituiti da una netta separazione di compiti e di ruoli tra contribuente e fisco; il primo, in solitudine, dichiara l’imponibile e gli altri elementi del tributo, dopo aver effettuato una serie di adempimenti contabili più o meno gravosi. In una corrispondente solitudine (più o meno completa), il fisco controlla, accerta, sanziona, valutando ex post un fatto imponibile di cui può conoscere le dimensioni anche sulla base di atti non provenienti dal contribuente. A questo primo profilo, si collega il secondo: la rettifica della dichiarazione si articola in modi diversi in funzione del corretto modo di adempimento degli obblighi contabili e dichiarativi ed ha un oggetto sostanzialmente quantitativo, ossia mira a stabilire se si possa individuare un maggiore imponibile: le regole sui metodi descrivono presupposti e modalità per poter procedere alla rettifica, e indicano il materiale probatorio di cui l’amministrazione finanziaria deve poter disporre, per poter rettificare la dichiarazione (ossia aumentare l’imponibile, o ridurre la perdita). I due profili sono accomunati da un’originaria impostazione formalistica, che nel tempo si perde, ma non completamente: regole dichiarative e condizioni per la rettifica sono oggetto di disciplina minuziosa, la loro analisi diventa spesso fine a se stessa, si perde di vista il risultato sostanziale della congruità del risultato: alla contabilità si attribuisce un credito che ben presto risulta eccessivo e smentito dalla realtà quotidiana. Questa logica non è mai abbandonata del tutto, nemmeno quando il sistema individua la necessità di combattere, con rilevazioni statistico-matematiche, l’evasione dei contribuenti medio-piccoli da infedele dichiarazione dei ricavi o compensi conseguiti: nemmeno gli studi di settore – la stessa giurisprudenza del 2009 delle Sezioni Unite lo riconosce – rompono gli schemi classici dei metodi di accertamento, e la loro effettiva innovatività si traduce 590 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 a ben vedere nella sola valorizzazione del contraddittorio; l’obiettivo di superare i formalismi per attingere alla veritiera rappresentazione del fatto imponibile risulta solo in parte conseguito, nonostante lo sforzo organizzativo, tanto che negli ultimi anni si assiste ad un’evidente insoddisfazione dell’Agenzia delle Entrate verso le risultanze degli studi, e la stessa normativa deve disciplinare l’evenienza, non eccezionale come si sarebbe stati indotti a pensare, di accertamenti presuntivi sull’ammontare dei ricavi che prescindano dagli studi, o comunque ne superino le risultanze. Che l’obsolescenza del sistema sia evidente, lo conferma la legge di stabilità per il 2015, che apre spazi ad un dialogo permanente tra amministrazione finanziaria e contribuente, liberalizzando i tempi del ravvedimento operoso e nel contempo trasformandolo in un atto di adeguamento informato, al quale il contribuente accede potendo conoscere gli elementi informativi di cui l’amministrazione dispone. Si conferma che, al di là delle forme strettamente consensuali dell’imposizione, delle quali si dirà più avanti, tutta l’attività di accertamento tende a superare schemi rigidi e divisioni anacronistiche dei ruoli, per avviarsi verso una struttura molto più flessibile e, si spera, più efficiente. 4. La determinazione concordata come prospettiva di sviluppo Nel contesto ora descritto, determinare la ricchezza in forma concordata è possibile, è utile, non è forse indispensabile, posto che ad una quantificazione equilibrata e soddisfacente possono ben provvedere, almeno in astratto, il giudice tributario e la stessa Amministrazione finanziaria, tenuta a perseguire la giusta imposizione secondo il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost. Un nuovo metodo basato sul dialogo diviene invece necessario quando il risultato dell’accertamento risulta, almeno in larga parte, imprevedibile rispetto alle norme sostanziali applicabili: solo il tempestivo confronto tra contribuente e fisco può ricondurre a ragionevolezza la determinazione dell’imponibile. Due equivoci possibili devono essere immediatamente rimossi. La determinazione concordata, potenziata, razionalizzata e valorizzata nei termini che si diranno, non è un modo per sottrarre spazio alla giurisdizione. L’inevitabile effetto deflativo deve essere preventivato e auspicato, ma non è l’obiettivo, né tanto meno è una forma di reazione alla esuberanza giurisprudenziale sui concetti indeterminati. Al contrario, proprio perché la giuri- Massimo Basilavecchia 591 sdizione possa rendere al meglio il proprio servizio, e in assoluta imparzialità, è necessario che possa attenuare il suo impegno quantitativo, e vederlo affiancato da una consistente soluzione stragiudiziale dei conflitti. Ma anche le parti potrebbero presentarsi diversamente nel processo, se fossero avvezze ad una consuetudine di dialogo, nella quale troverebbero composizione le divergenze valutative e interpretative meno radicali. In secondo luogo, non si deve pensare che l’auspicata valorizzazione delle forme concordate sia condizionata (e dipenda soltanto) dall’obsolescenza della normativa sull’accertamento. L’impostazione formalistica sui metodi di accertamento è infatti superata oggi dalla prassi. Ed in tale logica, il dialogo diventa come detto imprescindibile. Ma se dovessimo immaginare una riforma normativa dell’accertamento, di portata complessiva, certamente non potremmo pensare ad un ritorno al formalismo e alla minuziosità dei metodi. Un’aspirazione sostanziale, oggettivamente, non è più rinunciabile, anche se va disciplinata e resa coerente al diritto sostanziale. Anche in una prospettiva ordinamentale diversa, le ragioni per potenziare le forme di accertamento concordato restano forti, e invariate rispetto all’attuale: indietro non si tornerà (probabilmente). In definitiva, sebbene l’aspirazione all’incremento della determinazione concordata nasce anche e soprattutto dalla crisi dei metodi di accertamento normativamente stabiliti dalla legislazione degli anni ’70, non è prevedibile, né auspicabile, che una futura soluzione all’inadeguatezza normativa faccia arretrare il campo delle definizioni consensuali. Quella soluzione, infatti, traccerà un diverso rapporto tra dichiarato e accertato, modificando significativamente l’assetto attuale. Ma, anche se su basi diverse, è auspicabile che torni ad esservi certezza sulle regole di accertamento e sulla loro coerenza con il dato sostanziale. Questo comporterà recuperare un valore fisiologico della determinazione concordata: il rischio – oggettivamente, remoto –, nella confusione attuale, è che, come accadeva nel sistema ante-riforma, il concordato sostituisca i controlli. Ma l’ampiezza dei poteri istruttori del fisco esclude una tale evenienza, e una riscrittura, su basi più moderne, della sequenza dichiarazione – accertamento, non potrebbe che fornire, alla determinazione concordata, un quadro di riferimento determinato che conservi, anche in sede consensuale, una oggettiva riferibilità alle regole sostanziali di applicazione del singolo tributo. 592 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 5. La razionalizzazione degli istituti deflativi Dopo la sentenza della Corte costituzionale, la mediazione (qui non interessa il reclamo, che non è basato sull’accordo, ma sulla convergenza sulla constatazione che l’atto impositivo sia da rimuovere per illegittimità o infondatezza) si è consolidata nell’ordinamento tributario, ove ha un ruolo di assoluto rilievo tra “contenzioso” e “processo”, ed anzi se ne può immaginare uno sviluppo, sia in senso verticale – quanto a valore delle liti cui l’istituto si applichi – sia in senso orizzontale, mediante la generalizzata applicazione a tutte le liti, anche non derivanti da atti dell’Agenzia delle Entrate. Le ragioni per un intervento riformatore ad avviso di chi scrive sono le seguenti. La prima attiene alla semplificazione del sistema, che deve essere razionalizzato riducendo la gerarchia tra i diversi istituti, che non è stata determinante al fine di indirizzare i contribuenti verso le forme di definizione più incentivate. Spinge in questo senso la constatazione che le logiche alle quali deve ispirarsi la determinazione consensuale della materia imponibile non possono essere diverse nel passaggio dall’uno all’altro strumento: o quanto meno un’eventuale diversità deve corrispondere ad una effettiva differente ratio a sostegno degli istituti in comparazione tra loro. Ora, lasciando da parte le definizioni agevolate nelle quali il contribuente si “arrende” e, provvedendo subito a pagare il dovuto, ottiene benefici sanzionatori (e non solo: si pensi al risparmio che deriva in termini di costi accessori dal mancato affidamento all’agente della riscossione, là dove ad esempio si definisce per acquiescenza un accertamento esecutivo), sembrano oggi venute meno le ragioni per differenziare i benefici nel passaggio dall’accertamento con adesione alla mediazione o alla conciliazione. L’art. 17 bis, che disciplina la mediazione, è basato sull’idea che l’ufficio legale deputato a gestire la relativa pratica possa e debba fare di più, rispetto a quanto può fare il reparto (“team”) davanti al quale si è svolto, eventualmente, il tentativo di accertamento con adesione. Ancorché questa diversità sia a mio avviso erronea, e comunque irragionevole e ingiustificata, essa è assunta dalla legge, e soprattutto dalla lettura che ne fornisce l’Agenzia delle Entrate, come tratto discriminante tra accertamento con adesione e mediazione. Dunque, in termini collaborativi la parte pubblica è non meno corresponsabile di quella privata, se l’accertamento con adesione non viene perfezionato, e dunque non si vede perché l’accordo Massimo Basilavecchia 593 raggiunto “dopo” debba determinare benefici minori per il contribuente rispetto a quello raggiunto “prima”, quando il costo dell’attività processuale non è addebitabile ad una sola delle parti. Anzi, l’intesa raggiunta sulle soglie del processo, o all’interno dello stesso, è meritevole di particolare attenzione proprio perché sancisce il superamento di un conflitto formalizzato dagli atti processuali; e la chiusura “conciliata” della lite potrebbe essere, in una riscrittura dell’art. 48, D.Lgs. n. 546/1992 che superi il ruolo esclusivamente notarile del giudice tributario, incoraggiata da un ruolo propulsivo, o comunque più incisivo, assegnato al collegio giudicante. 6. Chiudere i conti con l’indisponibilità Il ventennio trascorso dalla reintroduzione di forme concordate di determinazione dell’imponibile non ha fatto venir meno una serie di resistenze teoriche, di principio, rispetto alla compatibilità di tali forme di definizione con la “indisponibilità” dell’obbligazione tributaria, e/o con l’inderogabilità dell’obbligo di contribuzione in base alla capacità contributiva ex art. 53 Cost. 10. Tuttavia, credo che le resistenze opposte 11 siano ormai destinate a venir meno, nel tempo, e che anche la sentenza della Corte costituzionale sulla mediazione contribuisca a rimuovere quelle obiezioni, non formulando rilievi sotto tale aspetto 12. 10 In termini riassuntivi il dibattito si può ripercorrere partendo da AA.VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007; AA.VV., Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2008; FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 253; GUIDARA, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010 (del quale si segnala la serrata critica all’indisponibilità, se riferita genericamente all’“obbligazione tributaria”); VERSIGLIONI, Accordo, cit.; CROVATO, op. cit.; MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007. 11 Tra gli altri, da ultimo soprattutto G. Falsitta, attento sostenitore della dottrina della indisponibilità (si veda Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, p. 282; ma anche Natura e funzione dell’imposta: con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in AA.VV., Profili autoritativi, cit., p. 45), ritiene che la pretesa disponibilità del credito/debito tributario è illegittima perché confliggente con un doppio principio: quello fissato dagli artt. 2, 3 e 53 Cost., che impone alla legge d’imposta l’equità e l’imparzialità della sua applicazione; quello derivante dal diritto comunitario, che giudica qualunque forma di disposizione del debito/credito tributario come una forma di distorsione della concorrenza. 12 Le tesi favorevoli agli accordi, sia pure con ragionevoli limitazioni desunte però non 594 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 La più recente sentenza della Corte costituzionale 13 sulla transazione fiscale sembra solo in apparenza più restrittiva. È vero infatti che essa ribadisce, senza peraltro approfondire, il principio della indisponibilità del tributo, ma è pur vero che essa lo colloca nell’ambito delle regole stabilite dalla legislazione ordinaria, ammettendo che il legislatore ordinario possa, nel rispetto delle regole costituzionali nazionali ed europee, stabilire i limiti entro i quali il principio si destinato ad operare e nel contempo gli ambiti sottratti all’applicazione del principio. Il dibattito non può qui essere ripercorso, esso è arricchito di una serie di contributi importanti e complessi, dei quali non sarebbe possibile proporre una sintesi argomentata. Tuttavia, da un punto di vista “laico”, si può osservare che vi sono almeno due dati provenienti dall’ordinamento che non sono più trascurabili, e che consentono di superare l’impasse, quanto meno dimostrando che l’indisponibilità delle prerogative pubbliche di accertamento e di riscossione del tributo non può essere inquadrata nel contesto della questione della indisponibilità di talune obbligazioni soprattutto di diritto pubblico. Il primo, è costituito dalla natura dispositiva del processo tributario, ormai acquisita quanto meno con riguardo al rapporto tra giudice e prova. I poteri istruttori ufficiosi possono essere disposti solo nel limite dei fatti dedotti dalle parti, senza consentire la ricerca inquisitoria della verità, e nel contempo la mancata contestazione specifica dei fatti affermati dal ricorrente può determinare, a carico dell’amministrazione finanziaria, la preclusione che equipara i fatti non contestati a quelli provati. In appello, le questioni non riproposte si considerano rinunziate e su di esse scatta una preclusione insuperabile. Sebbene rimanga in diverse pronunce giurisprudenziali la distinzione tra le parti del processo, in funzione della indisponibilità del diritto fatto valere dall’amministrazione finanziaria, l’affermazione appare sempre meno argomentata e sostanzialmente basata su argomenti tralatici; che ignorano, ad esempio, che il diritto indisponibile in senso stretto non è soggetto a prescrizione, mentre invece il “credito” tributario lo è. da astrazioni concettuali ma da analisi di conformità dell’ordinamento a valori costituzionali, hanno un’ampiezza ormai prevalente rispetto a chi sostiene l’indisponibilità assoluta del tributo: per una critica ai diversi fondamenti normativi di volta in volta individuati dai sostenitori della “indisponibilità”, RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in AA.VV., Profili autoritativi, cit., p. 110. 13 Corte cost., 25 luglio 2014, n. 225, in Il Fisco, 2014, p. 3383, sulla quale un primo commento è di De Mita in Il Sole 24 Ore del 14 settembre 2014. Massimo Basilavecchia 595 Insomma, all’ordinamento va data una coerenza: e se il processo è costruito su un asse portante che è il carattere dispositivo, non si può contemporaneamente affermare che la situazione giuridica dell’amministrazione sia (assolutamente) indisponibile. Il secondo elemento è costituito dal fatto che, da un ventennio, la legge ammette che l’azione amministrativa di attuazione del tributo, sia di accertamento, sia di riscossione, possa essere condizionata da valutazioni di economicità. Sebbene nella generalità dei commenti e nella prassi dell’Agenzia il riferimento all’economicità dell’azione di sostegno della pretesa venga evidenziato come un elemento innovativo introdotto dalla mediazione tributaria, la prima menzione di tale criterio si rinviene già nella norma sull’autotutela (art. 2 quater, D.L. n. 564/1994) che, sebbene sul punto non attuata dai previsti decreti applicativi di fissazione dei criteri valutativi, ha implicitamente sancito la concorrenza dei valori di cui all’art. 97 Cost. con quelli di cui all’art. 53 Cost. Quindi è vero che l’amministrazione non può discrezionalmente determinare la base imponibile in base a criteri di convenienza o di opportunità, ma questo non significa che l’azione amministrativa debba diventare antieconomica e spingersi sino al punto di inseguire a tutti i costi, e magari sacrificando altre forme di lavoro, un’ipotesi di tassazione che, in fatto o in diritto, possa risultare poi insostenibile davanti al giudice o inefficace sul piano della effettiva riscossione. L’esperienza di questi anni non ha visto l’emersione di vicende patologiche, legate agli istituti deflativi, in misura superiore a quanto si verificava in assenza di tali istituti. Questo vuol dire che il complesso dei controlli interni ed esterni alle amministrazioni (e magari il monitoraggio delle categorie professionali e imprenditoriali) è in grado di assicurare un sufficiente argine a eccessi di discrezionalità, o a veri e propri abusi. Se l’atto che sancisce l’accordo è motivato – così come la legge prevede – il percorso logico e ricostruttivo compiuto consensualmente resta tracciabile, e soggetto a verifiche di legittimità di ogni tipo; ma se da un lato va esclusa l’ammissibilità di “sconti” e di considerazioni di mera opportunità, è bene rimarcare che deve essere garantita al singolo funzionario la tranquillità di operare per la soluzione più giusta (intesa anche nel senso di più efficiente) senza timori di successive smentite fondate solo su atteggiamenti più restrittivi. È questo un importante tassello su cui costruire un ripensamento del concorso dei diversi istituti deflativi, perché (dopo che la Corte costituziona- 596 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 le, pur senza rilevare la incostituzionalità della disciplina, ha fatto giustizia dell’improprio uso del termine mediazione, segnalando l’incongruenza della qualificazione normativa, rispetto all’assenza evidente del mediatore terzo) appare ingiustificato ipotizzare che, ad una fase di accertamento con adesione retta da regole più restrittive, e magari svolta ad avviso di accertamento già emanato, possa fare seguito una fase di mediazione basata su criteri valutativi diversi e più ampi, come se l’economicità (intesa come valutazione costi/ benefici circa la sostenibilità della pretesa) possa condizionare in modo diverso il team accertamento e il team legale dell’Agenzia delle Entrate. È anche maturo il tempo per ripensare in termini più generali la possibilità di accordi alternativi al processo (ADR, alternative dispute resolution; per attenta dottrina, meglio dire EDR, con equivalent che prende il posto di alternative, al fine di escludere una qualificazione deteriore), ampliando la prospettiva in funzione della ormai notevole gamma di atti impositivi impugnabili, non tutti attinenti a una pretesa tributaria quantificabile. L’introduzione del reclamo-mediazione, sotto questo aspetto, ha in qualche modo innovato, riferendosi ad una serie non predefinita di atti impugnabili emessi dall’Agenzia delle Entrate, ma il limite di valore che condiziona l’applicazione dell’istituto ha vanificato in parte la portata innovativa. Appare soprattutto maturo il tempo per una compliance affidata al dialogo preventivo: la determinazione concordata dell’imponibile dovrà essere presto affidata, soprattutto nei frequenti casi di sindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali, ad un dialogo anticipato (un mix tra adesione, interpello ordinario e interpello antielusivo): le scelte compiute con i decreti delegati degli ultimi mesi vanno nella direzione giusta, ma vanno ancor più valorizzate, adattandole alle controversie che toccano la fiscalità delle imprese medio-piccole. Stefano Fiorentino CESSIONE IN REGIME DI SOSPENSIONE DI ACCISA E IMPLICAZIONI NEL PROCEDIMENTO TRIBUTARIO SUPPLY OF GOODS UNDER SUSPENSION OF EXCISE DUTY AND IMPLICATIONS FOR THE TAX ASSESSMENT Abstract Nel presente lavoro si esaminano alcune questioni, in tema di procedimento tributario, connesse alla circolazione dei beni in regime di sospensione di accisa. In particolare, l’indagine, in considerazione della fisiologica traslazione economica di tale tributo, si sofferma sugli effetti ai fini dell’accertamento IVA, imposte sui redditi ed IRAP, conseguenti all’illecita immissione al consumo dei beni in regime sospensivo. La ricerca, prendendo le mosse dal differente profilo di imputazione giuridica dell’immissione al consumo in qualità di soggetto passivo dell’accisa ovvero di mero responsabile d’imposta, esamina le differenti implicazioni sulla traslazione economica dell’accisa, con lo scopo di derivarne conseguenze logicamente coerenti con l’accertamento degli altri tributi potenzialmente coinvolti in seguito all’illecita immissione al consumo. Sempre in tale ottica, opportuno risalto è dato alla disciplina procedurale ed agli obblighi strumentali previsti nel Testo Unico Accise (TUA), che si reputa debbano assumere coerente rilievo anche ai fini dei correlati accertamenti tributari svolti fuori dal settore doganale. Parole chiave: circolazione di beni, accisa, procedimento tributario, imposte dirette, IVA This paper focuses on some issues, concerning tax proceedings, related to the supply of goods under the excise duty suspension regime. In particular, this research, given the physiological economic translation of this tax, considers the effects for the assessment of VAT, income taxes and regional business tax (Imposta Regionale sulle Attività Produttive, IRAP), resulting from the unlawful placing in the market of goods under the suspension regime. The research, starting from the different legal qualification between placing in the market as a subject to excise duty or as a mere responsible for the 598 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 payment of the duty, examines the different implications of the economic translation of the excise duty, with the aim to derive consequences consistent with the assessment of other taxes potentially involved in the unlawful placing in the market. In the same context, an appropriate emphasis is given to the procedural discipline and to the duties provided in the Excise Duty Act (Testo Unico Accise, TUA), which are relevant also for the purpose of the connected tax assessments carried out beyond the customs sector. Keywords: movement of goods, excise duty, tax assessment, income taxes, VAT SOMMARIO: 1. Premessa e definizione della linea d’indagine: gli “automatismi” nell’immissione al consumo tra accisa ed altri tributi gravanti sulla circolazione dei beni in sospensione. – 2. Immissione al consumo del bene in regime sospensivo di accisa: criticità di una rigida separazione dei diversi profili impositivi coinvolti. – 3. Cenni al presupposto ed al soggetto passivo delle accise: implicazioni sostanziali sull’obbligazione di pagamento imputabile al cedente/depositario e riflessi in ambito IVA, imposte sui redditi e IRAP. – 4. Profili procedurali nella circolazione dei beni in sospensione: imputazione degli obblighi (formali) e riflessi sull’imputazione giuridica dell’immissione al consumo del bene al cedente/speditore. – 5. Cenni alle ipotesi in cui la procedura non si chiude in modo informatizzato ad opera del destinatario: conferme sulla riconducibilità a tale soggetto delle attività e degli adempimenti correlati alla chiusura ed al buon esito della cessione in sospensione. – 6. Segue: la specificità dell’ipotesi di indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario quale ulteriore conferma della responsabilità di quest’ultimo per la fase di chiusura del trasporto in sospensione. – 7. Obblighi strumentali previsti dal TUA ed accertamenti tributari correlati a tali vicende: implicazioni sistematiche e di concreta adeguatezza dei procedimenti di imposizione ai principi di capacità contributiva, imparzialità e buon andamento. – 8. Segue: conferme dal principio di proporzionalità ex art. 5 TUE. – 9. Conclusioni. 1. Premessa e definizione della linea d’indagine: gli “automatismi” nell’immissione al consumo tra accisa ed altri tributi gravanti sulla circolazione dei beni in sospensione La presente indagine è rivolta ad esaminare le implicazioni scaturenti dalla contestazione di illegittima cessione di beni in regime di sospensione di accisa 1 e le correlate implicazioni in tema di IVA, imposte sui redditi ed IRAP. 1 In tema di accise, senza pretesa di completezza, FORTE, Iva, accise e grande mercato europeo, Milano, 1990; PACE, Il mondo delle accise: le imposte di fabbricazione. I monopoli fiscali e Stefano Fiorentino 599 In via di primissima approssimazione, può essere sin d’ora accennato il trait d’union che può nascere tra regole sulla circolazione dei beni in sospensione di accisa ed accertamento tributario di IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Come si vedrà, in ambito doganale, il non corretto assolvimento dell’operazione di cessione di un bene in regime di sospensione di accisa, è tendenzialmente correlata ad una contestazione di illegittima immissione al consumo del bene stesso, ovviamente alla stregua e nel rispetto delle peculiari regole di circolazione in questione 2. Ma, a ben vedere, da una simile contestazione può scaturire una conseguente rettifica in tema di IVA, imposte sui redditi ed IRAP. L’accertamento di tali obbligazioni tributarie, infatti, appare anch’esso logicamente correlato, sia pure con autonomia e diversità di presupposti, alla illegittima immissione al consumo del bene originariamente ceduto in sospensione di accisa. Ciò perché, se è negato il regime di sospensione dell’accisa alla cessione del bene, diviene ovviamente esigibile l’obbligazione di pagamento dell’accisa ex art. 2, D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 (TUA) 3. È anche vero poi che l’accisa, nel caso di immissione al consumo, si presume “fisiologicamente” inclusa nel corrispettivo di vendita per effetto di un fenomeno di traslazione economica che caratterizza notoriamente il meccanismo applicativo di tale tributo 4. Perle imposte doganali, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, IV, Padova, 1994, p. 267 ss.; PISTOLESI, Le imposte di fabbricazione e di consumo, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1994, p. 735 ss.; CERRATO, Spunti intorno alla struttura e ai soggetti passivi delle accise, in Riv. dir. trib., 1996, I, p. 215; FICHERA, L’armonizzazione delle accise, in Riv. dir. fin., 1997, I, p. 216; SCHIAVOLIN, Accise, in Enc. dir., Agg. IV, 2000, p. 22; PADOVANI, Le imposte di fabbricazione e di consumo, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2002, p. 311 ss.; BORIA, Le accise, in FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 967 ss.; CIPOLLA, Presupposto, funzione economica e soggetti passivi delle accise nelle cessioni di oli minerali ad intermediari commerciali, in Rass. trib., n. 6, 2003, p. 1859; CERIONI, L’armonizzazione comunitaria delle imposte indirette sulla produzione e sui consumi e la disciplina delle accise in Italia, in AA.VV., Il diritto tributario comunitario, Milano, 2004, p. 709; CIPOLLA, Accise, in CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, I, Milano, 2006, p. 72; SCUFFI, Diritto doganale e delle accise: gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in Il Fisco, n. 19, 2008, p. 3381; VERRIGNI, Contributo allo studio delle accise, Padova, 2012, p. 1 ss.; SCUFFIALBENZIO-MICCINESI, Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, Milano, 2014. 2 Per una sintetica ricognizione della normativa di riferimento si rinvia ai paragrafi successivi del presente lavoro. 3 Testo Unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, c.d. TUA. 4 Sul punto si veda, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1872: «... l’incisione dei soggetti che immettono in consumo i prodotti è giustificata, in termini economici, dalla possibilità che i soggetti stessi hanno di 600 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 tanto, se la cessione in sospensione di accisa è correttamente operata, vi sarà la legittima indicazione di un corrispettivo in fattura che ovviamente non tiene conto dell’importo corrispondente appunto all’accisa ancora dovuta sul bene. Di contro, se la cessione del bene sul quale è dovuta l’accisa è associata alla sua (illegittima) immissione al consumo, l’ammontare dell’accisa stessa, in quanto asseritamente dovuta all’atto della cessione, inciderà sulla corretta definizione fiscale del “prezzo” di vendita del bene. In virtù di un tale fisiologico “automatismo”, contestando l’illegittima immissione al consumo del bene e, quindi, maggiorando presuntivamente per ciò solo il prezzo dichiarato dell’importo corrispondente all’accisa dovuta, la contestazione di irregolarità nel regime di circolazione in sospensione di accisa può, quindi, sorreggere, automaticamente e di per sé, ingenti contestazioni di corrispettivi non dichiarati; importi cioè tendenzialmente rilevanti, ai fini della base imponibile accertabile ai fini IVA, IRES o IRPEF ed ai fini IRAP, per il “mero” venir meno del regime di sospensione di accisa 5. Oggetto della presente indagine è appunto l’approfondimento di tale potenziale correlazione tra discipline tributarie settorialmente diverse 6, verificando eventuali criticità, con l’obiettivo di favorire un’applicazione sistematicamente coerente, anche sul piano dei principi europei, delle norme tributarie alle vicende sottostanti. 2. Immissione al consumo del bene in regime sospensivo di accisa: criticità di una rigida separazione dei diversi profili impositivi coinvolti Come chiarito in premessa, le questioni oggetto della presente indagine assumono la centralità di un particolare evento, rilevante sia sul piano dogatrasferire sui consumatori l’onere del tributo conglobando nel prezzo della cessione il tributo. In particolare, la traslazione del tributo effettuata dal soggetto passivo delle accise ha natura economica ed occulta e si realizza aumentando il corrispettivo teorico dell’operazione dell’onere dell’imposta ...». 5 Esula dalla presente indagine ogni approfondimento dei profili concernenti la base imponibile ed il presupposto dei tributi in esame. Ai fini dell’obiettivo indagato, infatti, è sufficiente assumere la fisiologica rilevanza dell’accisa quale corrispettivo della cessione del bene immesso al consumo, per derivarne le correlate implicazioni impositive come se fossero riferibili direttamente al “prezzo” fiscalmente tassabile nella cessione, in ossequio ovviamente al regime di ciascun tributo coinvolto nello specifico fenomeno di circolazione della ricchezza. 6 Incidentalmente può essere segnalato che una simile interrelazione, al di là degli aspetti teorici, è concretamente e diffusamente rinvenibile in attività istruttorie nate in ambito doganale e poi confluite nell’attività accertativa di altri tributi. Stefano Fiorentino 601 nale che su quello degli altri tributi implicati: il buon fine del trasporto in sospensione di accisa, ovvero la mancata e non corretta realizzazione dello stesso con la conseguente contestazione di illegittima immissione al consumo del bene ceduto in regime di sospensiva. È utile ribadire, preliminarmente, che la contestazione di corrispettivi non dichiarati corrispondenti all’accisa dovuta per illegittima immissione al consumo del bene, non è regolata da specifiche disposizioni tributarie in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP; né tantomeno è dato cogliere nella normativa un nesso in termini di pregiudizialità “dipendenza” di tali accertamenti rispetto a quello doganale concernente l’accisa. Alle attività accertative tributarie da porre in essere fuori dal settore doganale, sembrerebbero quindi applicabili le modalità di controllo, sul piano dei riferimenti normativi ed in merito al corretto adempimento degli obblighi strumentali, nonché sotto il profilo motivazionale e probatorio 7, operanti “in via generale” per la contestazione di corrispettivi non dichiarati. Vero è che, però, l’illegittima immissione al consumo in questione presuppone comunque logicamente, seppure in assenza di un nesso di pregiudizialità giuridica, l’illegittimità ed il venir meno del regime di sospensione. Accadimento, quest’ultimo, riconducibile invece ad una puntuale regolamentazione sul piano doganale, con peculiare e specifica ripartizione di obblighi strumentali e responsabilità tra i diversi soggetti coinvolti nella cessione in regime di sospensione; tutto ciò, come si vedrà, con importanti riflessi sia sul piano della qualificazione degli obblighi di pagamento imputabili al cedente/depositario 8, sia sul piano dell’imputazione ad esso di una responsabilità “colpevole” 9. 7 Per un’ampia e recente disamina di tale tematica nei suoi tratti generali, nonché con particolare riferimento al rapporto tra attività istruttorie, motivazione e legittimità dell’accertamento, si veda, anche per le ulteriori indicazioni bibliografiche, CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, p. 90 ss. e p. 147 ss. 8 Come si chiarirà nel prosieguo, infatti, un conto è, anche ai fini della presente indagine, se l’obbligazione di pagamento dell’accisa è imputabile al cedente/depositario in quanto soggetto passivo che ha realizzato l’immissione al consumo e con essa il presupposto dell’accisa, altro è se il medesimo obbligo di pagamento è ad esso imputabile quale responsabile d’imposta ovvero mero garante (per approfondimenti su tali profili, CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1859 ss.). 9 Ferma la necessità di valutazioni e precisazioni che saranno svolte nel prosieguo, è però evidente che il modo in cui il cedente/depositario ha assolto (o meno) gli obblighi formali a lui imputati dalla normativa in tema di circolazione sulle accise, può incidere in modo determinante sulla imputazione, al medesimo soggetto, di una condotta “colpevole” nella vicenda che ha condotto all’immissione al consumo del bene. 602 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Al di là degli approfondimenti da farsi, può, quindi, essere affermato sin d’ora come non possa reputarsi appagante risolvere le questioni tributarie correlate alla illegittima immissione al consumo dei beni in questione attraverso un’applicazione rigidamente segmentata delle diverse procedure accertative gravanti sul fenomeno. In tal senso è utile ricordare che la dottrina tributaria ha da tempo segnalato, in via generale, la necessità di superare una prospettiva di analisi rigidamente incentrata sull’atto di accertamento, per orientare l’indagine in senso più ampio, rivolta cioè ad una considerazione dell’azione impositiva come momento di mediazione tra interessi pubblici e privati implicati nelle vicende del prelievo tributario 10. Anche in tale condivisibile prospettiva d’indagine, andrà quindi effettuata una adeguata considerazione della specifica disciplina settoriale che regolamenta la circolazione di beni in sospensione di accisa, con particolare attenzione agli obblighi strumentali ivi previsti; ciò, da un lato, in ragione del già descritto automatismo che lega la circolazione dei beni in sospensione di accisa, la traslazione del tributo per l’immissione al consumo, e l’accertamento di corrispettivi non dichiarati ai fini IVA imposte sui redditi e IRAP; dall’altro, nella consapevolezza che le vicende inerenti agli obblighi strumentali incombenti sui contribuenti, così come alle correlate attività istruttorie, rilevando nell’azione impositiva rivolta all’attuazione del prelievo tributario connesso al fenomeno economico in questione, possono (e per certi aspetti devono) riflettersi sulla motivazione e sulla legittimità della successiva attività di accertamento anche se svolta fuori dal settore doganale 11. 10 LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, p. 42. Sulla importante e condivisibile precisazione, peraltro, che tale una impostazione nel privilegiare opportunamente anche l’indagine su aree di interesse del procedimento impositivo diverse dall’attività di accertamento in senso stretto debba valorizzare la tendenziale unitarietà dell’azione impositiva, cfr. DEL FEDERICO, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva, in Riv. trim. dir. trib., 2013, p. 856. 11 Sull’importanza crescente, nella recente dinamica accertativa, del controllo circa l’esatto e puntuale adempimento degli obblighi strumentali imposti ai contribuenti, quale funzione preliminare e fondamentale, rispetto all’accertamento della capacità contributiva, cfr. per tutti, BASILAVECCHIA, Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovi equilibri (dalla strumentalità alla sussidiarietà), in Dir. prat. trib., 2005, I, p. 5; FANTOZZI, Accertamento tributario, in Enc. giur., 2006, p. 5 ss. Stefano Fiorentino 603 3. Cenni al presupposto ed al soggetto passivo delle accise: implicazioni sostanziali sull’obbligazione di pagamento imputabile al cedente/depositario e riflessi in ambito IVA, imposte sui redditi e IRAP La normativa del Testo Unico Accise (TUA) 12 indubbiamente distingue, sul piano letterale, il momento genetico dell’obbligazione di pagamento dell’accisa, riferito alla fabbricazione o all’importazione 13, da quello concernente l’esigibilità della medesima, che implica l’immissione al consumo del bene. L’opinione della dottrina prevalente attribuisce, in modo convincente, un rilievo decisivo alla immissione al consumo, quale fatto che perfeziona e integra il presupposto del tributo, unitamente alla sussistenza del fatto “genetico”, corrispondente appunto alla fabbricazione (o all’importazione) 14. Ciò in quanto la mera fabbricazione (ovvero l’importazione) di tali beni, pur essendo, essenzialmente per esigenze di controllo 15, fatto già rilevante sul piano normativo non è in sé idonea ad esprimere la capacità contributiva colpita dal tributo, in assenza della immissione al consumo dei beni stessi 16. Con12 Cfr. art. 2, D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504. Su tale specifico profilo, che implica l’importazione da paese extra Unione Europea, cfr. FALSITTA (aggiornamento R. Schiavolin), Le accise (imposte di fabbricazione e di consumo), in FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2010, pp. 875-876. 14 FALSITTA, Le accise, cit., p. 875, rileva che «al di là della definizione legale del presupposto, deve ritenersi che questo risulti dal collegamento e dal coordinamento dei due fatti della fabbricazione, da una parte, e dell’immissione al consumo, dall’altra; in definitiva, le accise hanno un presupposto complesso, a formazione progressiva, risultante dalla combinazione necessaria di tali due fatti, il secondo dei quali, in particolare, assume la funzione di perfezionare, di completare, la fattispecie impositiva iniziata con la mera fabbricazione dei prodotti»; sostanzialmente in linea anche CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1860 ss., il quale Autore però nega la ricostruzione in termini di fattispecie progressiva, non considerando la fabbricazione quale fatto integrante il presupposto del tributo, ma piuttosto la sola immissione al consumo. 15 FALSITTA, Le accise, cit., p. 875; CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1860 ss. 16 Né tantomeno può sostenersi, sul piano dell’inquadramento giuridico del tributo, la natura di imposta sui consumi, stante la rilevanza meramente economica della rivalsa sul consumatore: così, FALSITTA, Le accise, cit., p. 878, ove si afferma che «il semplice dato ... della traslazione economica del tributo sul consumatore finale, non è sufficiente a far rientrare i tributi in esame nell’alveo delle imposte sui consumi» ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici in senso adesivo (nota 13); il medesimo Autore, peraltro, riconduce le accise ove la rivalsa è normativamente disciplinata (sia quale diritto che quale obbligo) ai tributi sui consumi in senso stretto; contra, su tale ultimo profilo, nel senso cioè che anche in presenza di un diritto/obbligo di rivalsa normativamente previsto il tributo in questione non sia riconducibile ad un’imposta sui consumi in senso stretto: CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1873 ss. 13 604 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 divisibilmente, infatti, la capacità contributiva in questione è stata di recente definita dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione quale «attitudine economica, dei fabbricanti o degli importatori, di presentarsi sul mercato per vendere i prodotti a terzi» 17. La ricostruzione del presupposto nei termini considerati, consolidata in dottrina e giurisprudenza, determina importanti conseguenze sull’obbligazione di pagamento dell’accisa, sia sul piano dell’esigibilità ovvero dell’estinzione della stessa 18, sia in termini di qualificazione dell’obbligo di pagamento imputato al soggetto passivo. Ciò è in particolare vero per l’imputazione di tale obbligo di pagamento al cedente/depositario, profilo rilevante ai fini della presente indagine. Come correttamente affermato, infatti, solo se l’immissione al consumo è giuridicamente riferibile al cedente/depositario, questi è obbligato al pagamento dell’obbligazione tributaria quale soggetto passivo che ha realizzato il presupposto del tributo 19. Diversamente, se cioè l’immissione al consumo non è a lui giuridicamente imputabile, l’obbligo di pagamento dell’accisa, che pure è normativamente imputabile al cedente/depositario in coobbligazione solidale con «il soggetto nei cui confronti si verificano i presupposti per l’esigibilità dell’imposta» 20, è da considerarsi ad esso giuridicamente imputabile solo in qualità di responsabile d’imposta e/o di eventuale garante 21. 17 Cfr., Cass. 6 novembre 2013, n. 24912 nella quale occasione si è sottolineato come l’esigibilità dell’imposta è sottoposta al regime sospensivo di cui all’art. 1, comma 2, lett. g) del TUA fino all’immissione in consumo dei prodotti sui quali la stessa grava, assumendo rilievo, ai fini dell’imposizione, l’attitudine economica, dei fabbricanti e produttori, a presentarsi sul mercato per vendere i prodotti a terzi, ovvero al verificarsi di una causa estintiva dell’obbligazione. È evidente, infatti, come l’«attitudine economica, a presentarsi sul mercato per vendere i prodotti a terzi» a cui la Corte fa riferimento, sia concetto molto vicino all’«immissione al consumo». 18 Per implicazioni di tale profilo nell’ipotesi di abbuono si veda l’art. 4 TUA. Sul tema, Cass. n. 24912/2103, cit., laddove in particolare i Supremi Giudici affermano che, ove la merce soggetta ad accisa sia stata rubata da terzi prima della sua immissione in consumo, l’imposta non è dovuta, dovendosi assimilare il furto alle cause estintive dell’obbligazione impositiva previste dall’art. 4 del menzionato T.U., quale ipotesi di caso fortuito; in dottrina, TRIMELONI, “Abbuono” e “sgravio” sulle imposte di fabbricazione: una terminologia legislativa ambigua, in Dir. prat. trib., 1976, II, p. 1182 ss. 19 CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1865. Una tale affermazione, è recentemente ribadita dalla Corte di Cassazione (sent. n. 24912/2103, cit.) anche in termini di coerenza di un tale obbligo di pagamento con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. 20 Cfr. testualmente art. 2, comma 4, lett. a), TUA. 21 Cfr. CIPOLLA, Presupposto, funzione economica, cit., p. 1866. Fatte salve, come già ac- Stefano Fiorentino 605 La ricognizione sin qui condotta sul presupposto del tributo e sull’obbligazione di pagamento dell’accisa imputabile in capo al cedente/depositario, già consente di esprimere alcune considerazioni sugli implicati profili in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Può affermarsi, infatti, che solo nell’ipotesi in cui l’obbligazione di pagamento dell’accisa è imputata al cedente/depositario nella qualità di soggetto passivo che ha realizzato il presupposto del tributo 22, la contestazione nata in ambito doganale sorregge logicamente una correlata contestazione in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Questo perché solo in tale ipotesi e, cioè, se l’immissione al consumo (il presupposto del tributo) è giuridicamente riferibile al cedente, è coerentemente sostenibile che l’accisa dovuta sia stata da questi (sia pure illecitamente) “traslata” a terzi e come tale esprima corrispettivo non fatturato ai fini IVA, imposte sui redditi e IRAP. Al contrario, laddove emergesse che l’obbligazione di pagamento dell’accisa è imputabile, sul piano sostanziale, al cedente/depositario (solo) in qualità di responsabile d’imposta, può affermarsi che una simile prospettazione è ragionevolmente incompatibile con l’assunto che poggia sulla avvenuta traslazione economica dell’accisa da parte del cedente/depositario a terzi. In altre parole, l’imputazione al cedente dell’obbligo di pagare l’accisa evasa sulla cessione in sospensione, se in concreto riconducibile al suo ruolo di responsabile d’imposta, non conduce, né è coerente, con l’accertamento di tale importo quale presumibile corrispettivo non dichiarato dal medesimo cedente/depositario ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Incidentalmente, può essere altresì rilevato che ciò che sembra assumere rilievo decisivo fuori dal settore delle accise, è la giuridica e sostanziale riferibilità dell’immissione al consumo al cedente ovunque avvenuta e, quindi, anche se l’immissione al consumo è avvenuta fuori dal territorio italiano 23. È vero, infatti, che l’individuazione del territorio nazionale nel quale è avvenuta l’immissione al consumo è circostanza giuridicamente ed espressamente rilevante per stabilire la competenza tra Stati membri, in punto di accertabilità e riscossione dell’accisa evasa. Ma un tale accadimento 24, al di là cennato, le ipotesi in cui la perdita dei beni in sospensione, anche in ragione di eventuali furti, determina l’estinzione dell’obbligazione di pagamento, ai termini ed alle condizioni specificamente stabilite dall’art. 4 TUA. 22 E, quindi, solo se è a questi giuridicamente imputabile l’immissione al consumo del bene. 23 Circostanza invece decisiva per stabilire se l’accisa è accertabile e riscuotibile dallo Stato italiano, o meno (vedi TUA, art. 7, comma 1, lett. e), ultimo periodo). 24 E cioè la riferibilità giuridica e sostanziale dell’immissione al consumo al cedente, quand’anche l’immissione al consumo fosse avvenuta materialmente in altro Stato membro. 606 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 del suo rilievo ai fini dell’individuazione dello Stato cui riferire il gettito dell’accisa, rappresenta comunque circostanza logicamente coerente per presumere che il cedente abbia (illecitamente) traslato economicamente a terzi l’importo della medesima accisa; come tale è elemento idoneo a supportare un conseguente accertamento tributario in Italia sul corrispettivo “non dichiarato” all’atto della cessione del bene, ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP, ferma restando poi l’applicazione di ciascun tributo al medesimo corrispettivo evaso secondo la propria disciplina di riferimento. 4. Profili procedurali nella circolazione dei beni in sospensione: imputazione degli obblighi (formali) e riflessi sull’imputazione giuridica dell’immissione al consumo del bene al cedente/speditore Si è visto come il presupposto del tributo e con esso la diversa natura dell’obbligazione di pagamento imputabile al cedente/speditore per l’accisa dovuta, consentano di affermare che solo nell’ipotesi in cui sia giuridicamente riferibile a tale soggetto l’immissione al consumo del bene in sospensione, la contestazione nata in ambito doganale possa sorreggere coerentemente quelle in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP in capo al medesimo cedente. Fermo un tale risultato argomentativo, scaturente direttamente dalla ragionevole operatività della traslazione economica dell’accisa, nonché dalla qualificazione sostanziale dell’obbligazione di pagamento di tale tributo in stretta coerenza con l’art. 53 Cost., va ora esaminato il procedimento che regola la circolazione dei beni in sospensione di accisa. Ciò, in particolare, con riferimento agli obblighi formali imputati al cedente speditore ed alle indicazioni ritraibili dall’assetto e dalla ripartizione di tali obblighi, nonché dalla loro eventuale violazione, in merito all’attribuzione di una responsabilità “colpevole” per l’illegittima immissione al consumo dei beni. In argomento, come è noto, il D.Lgs. 29 marzo 2010, n. 48, in attuazione della Direttiva 2008/118/CE e del Reg. (CE) 24 luglio 2009, n. 684 ha apportato importanti innovazioni con particolare riferimento all’introduzione in Italia del documento amministrativo telematico (c.d. e-AD). L’obbligo di presentare esclusivamente l’e-AD, in particolare, decorre dal 1° gennaio 2011 per tutti gli operatori che spediscono prodotti in sospensione di accisa, come indicato nella Determinazione del 1° aprile 2010, n. 38869 25. 25 In tale documento era altresì confermata la facoltà di continuare ad utilizzare il DAA cartaceo secondo le precedenti modalità applicative sino al 31 dicembre 2010. Stefano Fiorentino 607 La disciplina di riferimento nella normativa interna, va ricercata primariamente nell’art. 6 TUA, comma 5 s., come modificati dall’art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 57; nonché, ai sensi di quanto statuito dall’art. 3, comma 2 del D.Lgs. 29 marzo 2010, n. 48, nella Determinazione dell’Agenzia delle Dogane 7 dicembre 2010, n. 158235 26. Ciò che emerge immediatamente dalle indicate novità normative, concerne la diversa regolamentazione di avvio e conclusione del procedimento di circolazione dei beni in sospensione, oggi interamente incentrati su adempimenti da realizzare in modo informatico. In particolare, ai sensi del comma 5 dell’art. 6 TUA, «La circolazione, in regime sospensivo, dei prodotti sottoposti ad accisa deve aver luogo con un documento amministrativo elettronico di cui al regolamento (CE) n. 684/2009 della Commissione, del 24 luglio 2009, emesso dal sistema informatizzato previo inserimento dei relativi dati da parte del soggetto speditore». Come recita testualmente la norma, il documento amministrativo elettronico è generato direttamente dal sistema informatizzato “doganale”. Ed infatti, in esito all’inserimento ad opera del depositario mittente (rectius speditore) dei dati e delle notizie predefinite nell’art. 3 della Determinazione dell’Agenzia delle Dogane n. 158235/2010, il sistema genera l’e-AD, attribuendo allo stesso un codice ARC (AAD Reference Code). La norma in questione sancisce testualmente che il documento elettronico ed il relativo codice ARC sono generati solo «a seguito della convalida della bozza di e-AD» (art. 3, comma 5), laddove «Se i dati inseriti dallo speditore nella bozza di e-AD non sono validi ...» (ivi compreso quello del destinatario legittimato a ricevere) «... il sistema informatizzato ne dà immediata comunicazione». L’Agenzia delle Dogane, in un documento di prassi del 2010 27, ha chiarito che il procedimento informatico in questione implica un’informazione «in tempo reale» delle autorità doganali ed è, quindi, funzionale a migliorare e facilitare i controlli posti in essere in tale ambito. Dopo l’emissione del documento informatico, i beni in sospensione devono circolare con l’e-AD ed il relativo codice ARC 28. Una volta quindi regolarmente avviata, «la circolazione di prodotti sottoposti ad accisa in re26 Le cui indicazioni operano anche in modifica di quanto già sancito nel D.M. 25 marzo 1996, n. 210. 27 Agenzia delle Dogane, Circolare 21 dicembre 2010, n. 16/D, in Bancadati Big, Ipsoa. 28 Per completezza si segnala che gli obblighi del trasportatore sono sostanzialmente analoghi alla previgente disciplina, laddove lo stesso dovrà utilizzare una copia cartacea dell’e-AD in luogo del precedente DAA. 608 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 gime sospensivo si conclude nel momento in cui i medesimi sono presi in consegna dal destinatario» 29. La medesima disposizione prosegue chiarendo che la circostanza inerente alla chiusura della procedura di circolazione «... è attestata, fatta eccezione per quanto previsto al comma 11, dalla nota di ricevimento trasmessa dal destinatario nazionale all’Amministrazione finanziaria mediante il sistema informatizzato e da quest’ultimo validata». La conclusione della procedura, quindi, similmente all’avvio della stessa, deve avvenire, ad opera del destinatario, «mediante il sistema informatizzato». Detto ciò, nella vigente procedura informatizzata, proprio in merito alla fase di conclusione della procedura, è ravvisabile un importante cambiamento rispetto al sistema previgente. Non è più riscontrabile, infatti, l’imputazione in capo allo speditore di uno specifico obbligo di appuramento del buon esito del trasporto, così come invece sancito espressamente nella pregressa regolamentazione 30. Quanto detto merita un chiarimento. È vero, infatti, che ai sensi dell’art. 3, comma 8, lett. c), della già citata Determinazione n. 158235/2010, lo speditore «è tenuto ... a constatare la conclusione della circolazione, annotando nel registro di carico e scarico, accanto agli estremi dell’e-AD, quelli della convalida della nota di ricevimento». Allo stesso tempo, però, non v’è dubbio, come può evincersi già dal tenore letterale, che il vigente “obbligo” di constatare la conclusione della circolazione rappresenti situazione affatto diversa rispetto al ben più gravoso obbligo di appuramento del buon esito del trasporto, così come disciplinato in capo allo speditore ex art. 3, D.M. n. 210/1996 nella previgente regolamentazione. Ed infatti, da un lato, le esigenze di controllo sono garantite dal doveroso e preventivo accesso alla procedura informatizzata, il cui corretto avvio da parte dello speditore implica, in sé, un’informativa in tempo reale degli uffici 29 Art. 6, comma 6, TUA. Cfr. D.M. n. 210/1996, art. 3, comma 1: «Il buon fine di ogni spedizione di prodotti in regime sospensivo è appurato dallo speditore con la ricezione del terzo esemplare del DAA contenente, nell’apposita casella C, l’attestazione di ricezione della merce redatta e firmata dal destinatario o da un suo rappresentante». Dall’esame delle previgenti disposizioni che statuivano gli obblighi dello speditore di beni in regime di sospensiva, artt. 3 e 4 del D.M. n. 210/1996, peraltro, poteva evincersi l’esistenza di un regime di prove normativamente “vincolato” circa l’appuramento del buon esito del trasporto (art. 3). Quanto appena detto, al di là dell’inequivocabile tenore letterale delle disposizioni di cui al medesimo art. 3, trovava espressa conferma nel successivo art. 4, comma 2, del D.M. n. 210/1996. Tale ultima disposizione, infatti, nel prevedere la possibilità di un obbligo di prova “attenuato” in capo allo speditore circa il buon esito della spedizione, tra l’altro espressamente limitata ai soli fini dello svincolo della cauzione impegnata, ribadiva testualmente che «Restano in tal caso fermi, ai fini probatori, gli obblighi di cui all’art. 3, comma 1». 30 Stefano Fiorentino 609 doganali coinvolti nel controllo sulla circolazione dei beni in sospensione; dall’altro, è unicamente il destinatario che può (e deve) chiudere la procedura di circolazione, sempre mediante informativa inviata al sistema informatizzato “doganale”. Coerentemente con tale assetto procedurale, nonché bilanciando opportunamente le conseguenti responsabilità tributarie, nella attuale normativa lo speditore può (solo) “constatare” la conclusione della procedura di circolazione, essenzialmente al fine della successiva annotazione nel proprio registro di carico e scarico. Nel sistema vigente, quindi, gli obblighi inerenti alla procedura di circolazione del bene in sospensione di accisa, risultano fondamentalmente regolamentati nel seguente modo. Il depositario/mittente, all’atto della cessione/spedizione del bene in regime sospensivo, ha l’obbligo di avviare correttamente e preventivamente la procedura informatizzata, che implica, come già detto, l’informativa “in tempo reale” delle autorità doganali sul relativo trasporto, con l’effetto di favorire un agevole ed efficace esercizio del potere di controllo. La procedura di trasporto deve essere poi chiusa dal destinatario con modalità anch’essa informatizzata, che prevede analoga comunicazione all’autorità doganale. Se si hanno ben presenti le finalità di fondo che presiedono al regime doganale europeo di circolazione dei beni in sospensione di accisa 31, l’assenza, nella disciplina vigente, di un obbligo di appuramento in capo allo speditore può essere peraltro apprezzata in una linea di coerente evoluzione e non di rottura con la precedente regolamentazione. Ciò anche in merito alla irrilevanza, o quantomeno alla secondarietà, degli aspetti strettamente civilistici e fattuali correlati al concreto svolgimento del trasporto stesso 32. 31 Tali finalità, come tradizionalmente affermato, sono essenzialmente indirizzate a favorire la libera circolazione dei beni nel mercato comune armonizzando al contempo i controlli attraverso procedure specifiche che garantiscano il diretto ed agevole coinvolgimento delle autorità doganali. 32 In merito alla previgente disciplina, la stessa Agenzia delle Dogane, Circolare 18 febbraio 2004, n. 7/D, in Bancadati Big, Ipsoa, ha precisato testualmente che: «... nei casi di trasferimenti tra impianti in regime sospensivo, ovvero dai depositi alla dogana di esportazione, qualunque sia la clausola contrattuale della cessione, incombe sul depositario l’obbligo di emissione del documento ... (DAA), nonché la responsabilità del carico fiscale (accise) sul prodotto trasferito, sino al buon esito della spedizione, certificato, secondo quanto previsto dalla direttiva comunitaria e dalla normativa nazionale, attraverso l’appuramento del relativo esemplare 3 del DAA e, a tal fine, presta una apposita garanzia e redige l’elenco dei DAA spediti, da consegnare all’ufficio finanziario competente ai fini dei controlli ...». Coerentemente la stessa Agenzia ha chiarito ancora nel medesimo documento: «Come si rileva con immediatezza, né il proprietario, né il vettore che entra nella materiale disponi- 610 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Nella disciplina vigente, infatti, l’obbligo più rilevante è sempre riferibile al cedente/speditore; tale è, infatti, la comunicazione preventiva di tipo informatizzato incombente sul medesimo cedente, che genera appunto il documento amministrativo telematico (e-AD). Come già rilevato, del resto, è con l’assolvimento di tale adempimento che l’autorità doganale è immediatamente e preventivamente informata della effettuanda cessione in sospensione, così da poter eventualmente esplicare agevolmente il proprio controllo, sia prima che dopo il trasporto. Va peraltro evidenziato che nella regolamentazione procedimentale vigente il cedente/speditore, una volta correttamente assolto l’obbligo di comunicazione informatizzata e conseguente emanazione del documento di circolazione elettronico non deve, né tantomeno può, appurare il buon esito del trasporto sino al deposito del destinatario. Nell’ipotesi in cui la procedura informatizzata sia stata correttamente aperta (dal depositario/mittente) e successivamente regolarmente chiusa dal destinatario con la “formale” presa in consegna dei beni, l’eventuale contestazione di illegittima immissione al consumo dei medesimi beni, anche qualora fosse oggettivamente riscontrata, non appare, quindi, tendenzialmente imputabile al cedente, ma piuttosto al destinatario. E cioè, fatti salvi concreti elementi probatori suffraganti la partecipazione dolosa del cedente all’illegittima immissione al consumo, ovvero la sua mancanza di “buona fede”, il “corretto” assolvimento degli obblighi formali a lui imputati dall’art. 6 TUA e la successiva “regolare” chiusura della procedura ad opera del destinatario, assumono in sé rilievo per escludere, in base alla normativa del TUA, la riferibilità giuridica dell’immissione al consumo in capo al cedente. Ovviamente, quanto sin qui affermato non esclude affatto, anche in tale ipotesi, l’eventuale responsabilità del depositario/cedente per il pagamento dell’accisa evasa in qualità di responsabile d’imposta (garante) 33. Ma, come già chiarito, una tale imputazione dell’obbligazione di pagamento dell’accisa al cedente, è logicamente incompatibile con l’imputazione, in capo al medesimo cedente, di corrispettivi non dichiarati corrispondenti appunto all’accisa evasa. bilità del prodotto durante il trasporto, rilevano quali responsabili del carico fiscale per accisa o possono dare informazioni circa il suo esito ... a nulla rilevando, ai fini della responsabilità per il pagamento delle accise, l’effettiva proprietà del prodotto, né l’eventuale presenza a monte dei trasferimenti di clausole contrattuali inerenti il trasporto, previste da disposizioni di diritto comune nazionale ovvero da regolamenti internazionali in tale materia». 33 Si veda l’art. 6, comma 4, TUA. Stefano Fiorentino 611 5. Cenni alle ipotesi in cui la procedura non si chiude in modo informatizzato ad opera del destinatario: conferme sulla riconducibilità a tale soggetto delle attività e degli adempimenti correlati alla chiusura ed al buon esito della cessione in sospensione Si è rilevato che nel regime vigente la specifica regolamentazione della cessione in sospensione prevede modalità strettamente vincolate, di tipo informatizzato, concernenti l’apertura e la chiusura della procedura di circolazione dei beni in sospensione. Si è peraltro precisato che nel nuovo contesto il cedente/speditore non ha l’obbligo di appurare il buon esito del trasporto, né può attivarsi in qualche modo per completare gli adempimenti di “chiusura” della procedura di circolazione in sospensione di accisa. Conferme in tal senso possono essere ritratte anche dalle specifiche ipotesi, normativamente contemplate, in cui la procedura, pur essendo correttamente aperta, non si conclude con la presa in consegna del destinatario e l’invio ad opera di quest’ultimo della nota di ricevimento mediante sistema informatizzato. L’ipotesi in questione è essenzialmente disciplinata dal comma 11 dell’art. 6 TUA 34. In primo luogo si rileva che la disposizione in questione, già sul piano letterale, denota espressamente una eccezionalità e residualità di applicazione. La norma in particolare prevede una ben circoscritta ipotesi in cui per le merci avviate dal cedente nazionale all’interno del mercato comune, la procedura di circolazione può essere “eccezionalmente” chiusa direttamente dall’Ufficio Doganale del mittente, anche senza la ricezione della nota di ricevimento informatizzata; ciò è possibile, però, esclusivamente sulla base di «... un’attestazione delle Autorità competenti dello Stato membro di destinazione» 35. 34 Tale disposizione prevede, infatti, che «In assenza della nota di ricevimento non causata dall’indisponibilità del sistema informatizzato, la conclusione della circolazione di merci spedite dal territorio nazionale può essere effettuata, in casi eccezionali, dall’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria competente in relazione al luogo di spedizione delle merci sulla base dell’attestazione delle Autorità competenti dello Stato membro di destinazione; per le merci ricevute nel territorio nazionale, ai fini della conclusione della circolazione da parte dell’Autorità competente dello Stato membro di spedizione, in casi eccezionali, l’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria competente attesta la ricezione delle merci sulla base di idonea documentazione comprovante la ricezione stessa» (art. 6, comma 11). 35 Per le merci ricevute nel territorio nazionale, sempre in casi eccezionali, l’Ufficio finanziario di destinazione può altresì attestare «la ricezione delle merci sulla base di idonea documentazione comprovante la ricezione delle stesse». 612 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Solo in ipotesi eccezionali, pertanto, e con espressa inapplicabilità di tale procedura all’ipotesi di indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario 36, la procedura può essere chiusa senza l’intervento del soggetto destinatario 37. Anche in tale eccezionale circostanza, peraltro, la lettera della normativa non sembra delineare condotte riferibili specificamente al cedente/speditore; né tantomeno può rilevarsi in capo al medesimo soggetto, sia pure in tale residuale e non ordinaria eventualità, un obbligo di appuramento del buon esito del trasporto. Detto ciò è ragionevole ritenere che nell’ambito di tale previsione, che, si ripete, è espressamente qualificata di natura eccezionale, la diligenza del cedente che ha correttamente avviato la procedura informatizzata, in assenza di puntuale regolamentazione, non potrà che essere valutata caso per caso, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza 38; fermo restando, peraltro, che l’esame di tale disciplina induce ad affermare che neppure la mancata chiusura, in via informatizzata ad opera del destinatario, ovvero in via eccezionale ex art. 6, comma 11, TUA, consenta automaticamente di imputare giuridicamente e sostanzialmente l’immissione al consumo al depositario/ mittente. Se è ragionevole ritenere, infatti, che rientri nella diligenza del cedente/speditore “constatare” la regolare chiusura della procedura, dovendo egli registrare la nota di ricevimento 39, è evidente come la mancata integrazione delle circostanze richieste per la chiusura ex comma 11, ed in particolare l’acquisizione della idonea attestazione da parte delle autorità dello Stato membro di destinazione, possa in concreto palesare anche condotte e responsabilità unicamente riferibili al destinatario 40. 36 Cfr. testualmente art. 6, comma 11. Per completezza si aggiunge che, nelle ipotesi di cessione all’esportazione fuori dal territorio della Comunità, i commi 7 e 12 prevedono analogamente la chiusura della procedura di trasporto mediante nota di esportazione direttamente compilata dall’Ufficio doganale di esportazione (comma 7), ovvero, in casi eccezionali, dall’Ufficio finanziario del luogo di spedizione (comma 12). Le tassative e predeterminate modalità di chiusura della procedura, con il coinvolgimento diretto dell’autorità doganale, si collocano quindi in perfetta aderenza con le conclusioni già ritratte. 38 Ragionevolezza che, come si vedrà meglio in seguito, trova fondamentale riferimento in subiecta materia nel principio europeo di proporzionalità. 39 Cfr. Determinazione dell’Agenzia delle Dogane n. 158235/2010, cit. 40 Pur apparendo sicuramente una condotta diligente ed opportuna per il cedente, anche in mancanza di uno specifico obbligo in tal senso, comunicare formalmente all’Ufficio doganale di spedizione la mancata chiusura della procedura informatizza da parte del destinatario, circostanza, tra l’altro, direttamente rilevabile dal sistema informatizzato dopo la creazione del documento e-AD. 37 Stefano Fiorentino 613 In ogni caso, al di là di ulteriori approfondimenti che saranno svolti nel prosieguo dell’indagine, anche dall’esame della regolamentazione ex comma 11 dell’art. 6 TUA sembra confermarsi, da un lato, una primaria ed automatica responsabilità tributaria del cedente per l’immissione al consumo solo in merito alla non corretta apertura della procedura di circolazione in sospensione; dall’altro, come l’imputabilità giuridica e sostanziale dell’immissione al consumo al cedente venga tendenzialmente meno in caso di corretta chiusura della procedura di trasporto, in modo informatizzato ad opera del destinatario, ovvero eccezionalmente ex art. 6, comma 11. 6. Segue: la specificità dell’ipotesi di indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario quale ulteriore conferma della responsabilità di quest’ultimo per la fase di chiusura del trasporto in sospensione Si è già detto che la procedura residuale prevista dal comma 11 dell’art. 6 TUA non è applicabile nell’ipotesi di mancanza della nota di ricevimento per «indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario»; come testualmente chiarito dalla medesima disposizione, infatti, la procedura prevista nel comma 11 può avere luogo «in assenza della nota di ricevimento non causata dall’indisponibilità del sistema informatizzato». L’ipotesi della indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario, è, peraltro, considerata nel comma 9 del medesimo art. 6, laddove è previsto che in tale circostanza il destinatario possa presentare al proprio Ufficio finanziario un documento cartaceo contenente gli stessi dati della nota di ricevimento informatizzata 41. Ma, come è testualmente indicato, ciò non fa venir meno l’obbligo di inviare la nota informatizzata appena il sistema è nuovamente disponibile. In tal senso può dirsi che la norma attribuisce giuridica rilevanza all’«indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario» solo quale circostanza temporanea; l’insorgere di una tale problematica, quindi, non fa venir meno per il destinatario l’obbligo, al fine della regolare chiusura 41 Il comma 9 dell’art. 6, recita, infatti: «Qualora il sistema informatizzato risulti indisponibile nello Stato al momento del ricevimento dei prodotti da parte del soggetto destinatario nazionale, quest’ultimo presenta all’Ufficio competente dell’Amministrazione finanziaria un documento cartaceo contenente gli stessi dati della nota di ricevimento di cui al comma 6, attestante l’avvenuta conclusione della circolazione. Non appena il sistema informatizzato sia nuovamente disponibile nello Stato, il destinatario trasmette la nota di ricevimento che sostituisce il documento cartaceo di cui al primo periodo». 614 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 del procedimento di circolazione, di inviare la nota di ricevimento informatizzata per la chiusura della procedura già aperta dal cedente/speditore 42. Nella disciplina di cui all’art. 6 TUA non è quindi ravvisabile alcuna regolamentazione normativa che preveda specifici obblighi e adempimenti sostitutivi in capo al cedente, per il caso in cui il destinatario non chiuda una procedura informatizzata regolarmente avviata, a causa della dichiarata indisponibilità, vera o presunta, del sistema informatizzato del medesimo destinatario. Una tale impostazione è puntualmente confermata anche dalla regolamentazione attuativa contenuta nella Determinazione dell’Agenzia delle Dogane n. 158235/2010 43. Ciò detto, è altresì vero che anche in tale ipotesi risulta confermata la tendenziale riferibilità dell’adempimento di chiusura in capo al destinatario, né la normativa legislativa o direttoriale chiarisce, in una simile circostanza, quali siano gli adempimenti che il cedente/speditore debba o possa assumere per sopperire all’eventuale negligenza del destinatario, laddove questi affermi di non poter procedere alla emissione della nota di ricevimento informatizzata per indisponibilità del proprio sistema informatizzato. Anche una tale circostanza, quindi, ferma la possibilità per il cedente, sul piano della opportuna diligenza, di comunicare al proprio Ufficio doganale il protrarsi della mancata chiusura della procedura informatizzata già regolarmente aperta, non sembra consentire un’automatica imputazione al cedente dell’immissione al consumo del bene in sospensione di accisa quale soggetto passivo del tributo e, quindi, della conseguente traslazione economica a terzi. 42 Ovviamente appena il sistema sarà nuovamente disponibile. In tale disciplina è possibile rilevare una regolamentazione applicabile all’ipotesi di indisponibilità del sistema informatizzato del destinatario, prevista dall’art. 9, comma 5 (Procedure di riserva). Qualora cioè il sistema informatizzato dell’Agenzia o del destinatario risulti indisponibile e la nota di ricevimento informatizzata non possa essere presentata, il destinatario che ha ricevuto i beni in sospensione, può chiudere (temporaneamente) la procedura con una nota di ricevimento non informatizzata, fermo restando, in capo al destinatario, l’obbligo di chiudere la procedura con la nota informatizzata appena il sistema è disponibile. In altre parole, come già detto, la procedura informatizzata correttamente avviata dal cedente, non potrà che essere chiusa dal destinatario mediante la nota di ricevimento informatizzata, laddove, anche in caso di indisponibilità temporanea del sistema informatizzato, la nota di riserva emessa dal destinatario ha valore meramente provvisorio ed alla stessa dovrà necessariamente seguire la nota di ricevimento informatizzata. 43 Stefano Fiorentino 615 7. Obblighi strumentali previsti dal TUA ed accertamenti tributari correlati a tali vicende: implicazioni sistematiche e di concreta adeguatezza dei procedimenti di imposizione ai principi di capacità contributiva, imparzialità e buon andamento La disamina sin qui condotta ha evidenziato gli obblighi formali scaturenti dalla normativa del TUA sulla circolazione dei beni in sospensione, così come incombenti sugli operatori ed in particolare sul soggetto depositario/ mittente e sul destinatario. In esito ad una ricognizione della disciplina vigente dal 1° gennaio 2011, è stata in particolare evidenziata l’assenza di un obbligo di appuramento del buon esito del trasporto direttamente ravvisabile in capo al depositario/cedente 44. Nel contesto attuale, il corretto avvio della procedura informatizzata da parte del cedente, infatti, assolve in sé un fondamentale onere informativo direttamente finalizzato a favorire il controllo delle autorità doganali, che delimita e circoscrive la responsabilità di tale soggetto con riferimento alla circolazione dei beni in sospensione in ambito doganale 45. In altre parole, al cedente/speditore che abbia diligentemente applicato la normativa doganale, con particolare riferimento agli obblighi ed alle attività a lui imputate dal vigente TUA, non è più normativamente correlata la responsabilità per la chiusura della procedura (informatizzata) di circolazione del bene in sospensione; ne consegue che, già sul piano della ripartizione degli obblighi formali, non può essere giuridicamente imputata a tale sog44 In merito alla disciplina vigente sino all’anno 2010, sussisteva un obbligo di appuramento del buon esito ex art. 3, D.M. n. 210/1996, espressamente imputato al cedente/ speditore. Si può dire, quindi, che la responsabilità per la corretta chiusura della procedura di circolazione era normativamente imputabile al cedente/speditore, in capo al quale sussisteva uno stringente obbligo di appuramento del buon esito della stessa. Se tale obbligo, di tipo essenzialmente documentale, era stato però assolto in modo conforme alla normativa, la responsabilità per un trasporto ed una immissione al consumo eventualmente realizzati in modo difforme da come formalmente attestato dal destinatario e dall’Ufficio doganale di destinazione nel DAA, non sembrava in linea di principio contestabile allo speditore anche nel sistema previgente. Fatte salve, ovviamente, le ipotesi in cui, ferma la regolarità documentale dell’appuramento ex art. 3, D.M. n. 210/1996, fosse stata specificamente dimostrata la connivenza (dolo) dello speditore e del cedente in una eventuale frode nella circolazione dei beni, ovvero quantomeno la necessaria consapevolezza dello speditore della frode perpetrata dal destinatario secondo le regole della normale diligenza professionale. 45 Fatti salvi, ovviamente come già detto, concreti elementi probatori suffraganti la partecipazione dolosa del cedente all’illegittima immissione al consumo o comunque la sua condotta concretamente non diligente. 616 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 getto, nella qualità di soggetto passivo del tributo, l’immissione al consumo del bene per effetto di violazione di obblighi formali ricadenti “solo” su altri soggetti (essenzialmente il destinatario), allo stesso modo in cui non è giuridicamente imputabile una responsabilità di tipo oggettivo 46. Un tale profilo, come rilevato, assume specifico rilievo ai fini della presente indagine, laddove si è chiarito che solo se è giuridicamente imputabile l’immissione al consumo al depositario/cedente nella qualità di soggetto passivo del tributo, sono ad esso ragionevolmente riferibili gli effetti della traslazione economica dell’accisa e con essi le contestazioni in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Visti gli obblighi formali del TUA ed acclarata la loro specifica valenza ai fini dell’imputazione giuridica dell’immissione al consumo al cedente, può sostenersi, per ragioni sistematiche e di coerenza dei procedimenti di imposizione scaturenti da tali dinamiche, che tali obblighi strumentali devono assumere diretto rilievo non solo nel settore delle accise, ma anche ai fini dell’accertamento IVA, imposte sui redditi e IRAP; ciò, ovviamente con particolare riferimento ai profili concernenti l’accertamento di corrispettivi non dichiarati, direttamente connessi all’illecita immissione al consumo dei beni. Quanto detto, al di là di una intima ragionevolezza, trova sostegno nelle condivisibili affermazioni della dottrina più recente in tema di accertamento tributario. Come è stato condivisibilmente sostenuto in via generale, infatti, l’attuale frammentazione delle fattispecie imponibili cui fa seguito una com46 Con specifico riferimento all’accisa, cfr. la Corte di Cassazione (sent. n. 24912/2013, cit.) ha testualmente affermato: «... chi esercita una qualsiasi attività professionale deve adottare le cautele ad essa consone, in quanto conosce o può conoscere i rischi tipici della sua sfera professionale, di modo che deve porre in essere i mezzi idonei alla loro eliminazione. Ma ciò non implica una sua indiscriminata responsabilità per ogni rischio e, più in generale, una sanzione di responsabilità obiettiva ...». I principi testé enunciati sono peraltro puntualmente e similmente rinvenibili nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, laddove ha sancito la contrarietà al diritto europeo di regimi nazionali dai quali emerga una responsabilità di tipo oggettivo. La Corte di Giustizia, nella sent., 21 dicembre 2011, n. 499/10, ai punti 24, 25 e 26, ha recentemente ribadito che: «... provvedimenti nazionali che danno luogo, de facto, ad un sistema di responsabilità solidale oggettiva eccedono quanto è necessario per preservare i diritti dell’Erario (v. sentenza Federation of Technological Industries e a., cit., punto 32). Far ricadere la responsabilità del pagamento dell’IVA su un soggetto diverso dal debitore di tale imposta, per quanto tale soggetto sia un depositario fiscale autorizzato tenuto ad adempiere obblighi specifici indicati nella direttiva 92/12, senza che possa sottrarvisi fornendo la prova di essere completamente estraneo alla condotta di tale debitore dell’imposta deve, pertanto, essere ritenuto incompatibile con il principio di proporzionalità ...». Stefano Fiorentino 617 plessa e spesso incongruente articolazione di situazioni soggettive e conseguenti attività di controllo, impone approcci ricostruttivi volti a cercare unità e coerenza del procedimento impositivo, valorizzando, esegeticamente e sul piano sistematico, l’aderenza concreta di tali procedure al principio di capacità contributiva, nonché alle regole di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa 47. Vanno cioè superati approcci rigidamente legati alla segmentazione del dato positivo così come irragionevolmente “ancorati” a modelli ricostruttivi pregiudizialmente orientati (es. teoria dichiarativa o costitutiva dell’obbligazione tributaria); i principi (costituzionali ed europei), infatti, impongono oggi la necessità di ricercare un equilibrio concreto, nella moderna dinamica accertativa, tra «autoritatività del prelievo e dell’azione impositiva e pariteticità del rapporto obbligatorio» 48. A tali fondamentali e decisivi argomenti, può aggiungersi la non secondaria esigenza di un opportuno e ragionevole coordinamento, evidentemente da perseguire in via interpretativa in assenza di indicazioni legislative, tra procedure accertative, sicuramente diverse e autonome 49, ma purtuttavia entrambe riconducibili a procedimenti impositivi gravanti (sia pure parzialmente) sulle medesime vicende fattuali e negoziali 50. 47 Cfr. per tutti FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 266 s.; SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001. 48 In tali termini, nonché nella espressa valorizzazione della nozione di procedimento con riferimento alle modalità attuative del tributo ed alla opportuna valorizzazione delle diverse situazioni soggettive coinvolte, cfr. DEL FEDERICO, op. cit., p. 858; SALVINI, Procedimento amministrativo (dir. trib.), in CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, V, Milano, 2006, p. 4532 s. In argomento, per la riferibilità del procedimento tributario allo schema dei procedimenti amministrativi unitamente alla natura provvedimentale dell’atto di accertamento, si veda per tutti, oltre alla recente ed accurata disamina di DEL FEDERICO, op. cit., (alla quale si rinvia anche per le ulteriori indicazioni bibliografiche): FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 358; MUSCARÀ, Riesame e rinnovazione degli atti nel diritto tributario, Milano, 1992, p. 46 s. Contra, e cioè negando una simile assimilazione in ragione delle specificità e peculiarità del procedimento tributario rispetto alla nozione propria del diritto amministrativo, oltre alla prevalente giurisprudenza, si veda in dottrina PERRONE, Riflessioni sul procedimento tributario, in Rass. trib., 2009, p. 52; RUSSO-FRANSONI, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, p. 120 s. e più di recente COMELLI, Poteri e atti nell’imposizione tributaria, Padova, 2012, p. 58 s. 49 Tali sono, da un lato, la variegata procedura di “accertamento doganale” (su tale peculiare procedimento cfr. di recente SCUFFI-ALBENZIO-MICCINESI, op. cit.; CALIFANO, op. cit., p. 350 ss., ai quali si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici), gestita dall’Agenzia delle Dogane, dall’altro la “tradizionale” procedura di accertamento tributario per imposte sui redditi, IVA ed IRAP riferibile ai poteri dell’Agenzia delle Entrate. 50 Sull’esigenza di un coordinamento tra differenti procedure accertative potenzialmente 618 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 In ragione degli argomenti complessivamente indicati, si reputa di confermare la diretta rilevanza degli obblighi formali previsti dal TUA e della relativa attività istruttoria, anche ai fini della legittimità e fondatezza dei correlati accertamenti in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Quanto appena affermato non è privo di implicazioni 51. Un conto è, infatti, contestare al cedente, ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP, l’immissione al consumo dell’accisa in un quadro di non regolare e corretta attuazione della procedura informatizzata ed in tale scenario valorizzare concreti elementi comprovanti l’illegittima immissione al consumo dei beni; in simili circostanze, infatti, la violazione di obblighi formali imputabili al cedente dalle norme sulla circolazione in sospensione di accisa, come già detto, determina una tendenziale responsabilità del cedente anche sugli ulteriori aspetti tributari correlati alla cessione, fatta salva, ovviamente, nell’ambito del diritto di difesa, la possibilità di provare la propria estraneità alla violazione 52. In altre parole, se il depositario/mittente ha violato gli obblighi formali previsti dalla normativa doganale ed è, quindi, a lui tendenzialmente imputabile, già sul piano procedurale, sia pure presuntivamente, l’immissione al consumo del bene quale soggetto passivo del tributo, discendono ex se, a carico di tale soggetto, tutte le correlate implicazioni sul piano tributario anche ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Tali risultanze istruttorie potrebbero cioè sorreggere tendenzialmente di per sé una rettifica, di tipo presuntivo, per corrispettivi non dichiarati ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP, ferma ovviamente la possibilità per il cedente di provare la propria concreta estraneità rispetto alla illecita immissione al consumo. Diversamente, se dall’istruttoria in ambito accise risulta che il cedente/ speditore ha assolto diligentemente gli obblighi formali a lui imputabili, si dovrà ragionevolmente presumere la sua buona fede in merito all’illecita immissione al consumo, e con essa la tendenziale assenza di responsabilità tributaria 53 per le eventuali frodi commesse da altri soggetti nell’ambito del trasporgravanti sui medesimi accadimenti nell’ottica di garantire la corretta ricostruzione del presupposto dei tributi, sia pure nell’ambito di un indagine essenzialmente rivolta alle implicazioni dell’accertamento parziale e integrativo, si veda di recente BAGAROTTO, La frammentazione dell’attività accertativa ed i principi di unicità e globalità dell’accertamento, Torino, 2014, pp. 94-95. 51 Sui riflessi tra attività istruttorie e legittimità della successiva azione impositiva, con particolare riferimento all’aspetto motivazionale, cfr. di recente ampiamente CALIFANO, op. cit., p. 83 ss., p. 93 ss. e p. 147 ss. 52 Oltre, ovviamente, all’insussistenza della violazione stessa. 53 Segnatamente ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Stefano Fiorentino 619 to dei beni in sospensione; a meno che, ovviamente, l’Ufficio finanziario non dimostri, con distinto onere probatorio ed in aggiunta alla prova della illecita immissione al consumo del bene, la partecipazione dolosa del cedente, ovvero la mancanza della sua buona fede e, quindi, la concreta imputabilità dell’immissione al consumo a tale soggetto in qualità di soggetto passivo del tributo. Ciò peraltro in una prospettiva che, sul piano della ripartizione degli oneri probatori, appare non dissimile, sia pure specularmente contrapposta 54, rispetto a quella già consolidata nei confronti dell’acquirente di operazioni IVA soggettivamente inesistenti (frodi carosello) 55. 8. Segue: conferme dal principio di proporzionalità ex art. 5 TUE Si è già rilevato sul piano dell’esigenza generale di applicazione sistematica dell’ordinamento tributario e di adeguatezza dei procedimenti impositivi ai principi generali di capacità contributiva, buon andamento e imparzialità, una diretta e coerente rilevanza degli obblighi formali previsti dal TUA e della relativa attività istruttoria, anche ai fini degli accertamenti tributari esplicati fuori dal settore delle accise. Ciò anche perché le contestazioni nei diversi ambiti sono nei fatti avvinte da un nesso di pregiudizialità logica, ancorché lo stesso non si traduca in alcun vincolo espressamente sancito nella disciplina positiva. Ma un tale risultato argomentativo si reputa possa ricevere ulteriore e importante conforto dal principio di proporzionalità sancito dall’art. 5 del medesimo Trattato, così come interpretato e reso applicabile dalla Corte di Giustizia (anche) nei singoli ordinamenti nazionali 56. È utile ricordare, infatti, come la Corte di Giustizia europea ha espresso numerose pronunce in argomento, ribadendo costantemente l’esigenza di adeguare gli interventi sanzionatori e repressivi ai principi di proporzionalità e di certezza, affermati ora54 Riferibile cioè al soggetto cedente e non all’acquirente. In argomento, di recente, si veda LOMBARDI, Profili fiscali delle operazioni soggettivamente inesistenti tra modifiche normative e nuovi orientamenti giurisprudenziali, in Dir. prat. trib., n. 5, 2013, Parte prima, p. 1151 ss.; MONDINI, Corresponsabilità tributaria per le evasioni Iva commesse da terzi, in Rass. trib., n. 3, 2014, p. 453. 56 In proposito, ex multis, Corte Giust., sent. 26 settembre 2000, causa C-478/98, Commissione c. Belgio; sent., 9 marzo1999, causa C-212/97, Centros, in Giur. it., 2000, p. 767; sent., 15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura; sent., 17 luglio 1997, causa C-28/95 LeurBloem; sent., 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95, C-47/96, Garage Molenheide et aa., in Banca dati Big, Ipsoa. 55 620 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 mai pacificamente quali principi generali del diritto nell’Unione Europea 57. Un tale principio, inoltre, è stato significativamente evocato, in tema di frodi carosello, per sancire che le misure repressive finalizzate a reprimere le frodi, non solo sul piano strettamente sanzionatorio ma anche sul piano impositivo in merito al disconoscimento del diritto di detrazione, potranno colpire solo chi «sapeva o avrebbe dovuto sapere delle attività fraudolente» poste in essere dalle controparti contrattuali 58. La Corte di Giustizia ha cioè espressamente affermato che non è compatibile con il principio di proporzionalità una disciplina che faccia ricadere la responsabilità del tributo in capo ad un soggetto in ragione della frode commessa da un terzo, in particolare quando il soggetto non è sostanzialmente coinvolto nel meccanismo fraudolento e non abbia influenza sui comportamenti fraudolenti del terzo 59. A tali indicazioni, come è noto, si è peraltro uniformata anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione 60. 57 Si vedano, tra le tante, Corte Giust., sent., 26 ottobre 1995, causa C-36/94 Siesse, punto 67; sentt., 14 maggio 1996, cause riunite C-153/94 e C-204/94, Faroe Seafood e a., punto 112; sent., 12 luglio 2001, causa C-262/99, punto 67, Louloudakis; sent., 8 maggio 2008, cause riunite C-95/07 e C-96/07, Ecotrade, in Banca dati Big, Ipsoa; in dottrina, ex multis, FORNIELES GIL, Il principio di proporzionalità, in AA.VV., I principi europei del diritto tributario, a cura di Di Pietro-Tassani, Padova, 2013, p. 159 ss. 58 Tale principio è ormai pacifico nella giurisprudenza europea ed è stato anche di recente ribadito: Corte Giust., 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagébenkft, in www.curia.europa.eu, 2012, al punto 50; Corte Giust., 6 dicembre 2012, c. 285/11, BonikEood, in www.curia.europa.eu, 2012, al punto 43, espressamente prevede che: «spetta all’amministrazione tributaria dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di cessioni». 59 In tal senso, Corte Giust., sent. 21 febbraio 2008, causa C-271/06, Netto Supermarkt, punti 22 e 23, ove si afferma che «... qualsiasi suddivisione del rischio tra questi ultimi e il fisco, in seguito ad una frode commessa da un terzo, dev’essere compatibile col principio di proporzionalità (sentenza Teleos e a., cit., punto 58). 23 Ciò non si verifica quando un regime fiscale faccia ricadere l’intera responsabilità del pagamento dell’IVA sul fornitore, indipendentemente dal coinvolgimento o meno di quest’ultimo nella frode commessa dall’acquirente (v., in tal senso, sentenza Teleos e a., cit., punto 58). Infatti come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 45 delle sue conclusioni, sarebbe chiaramente sproporzionato imputare a un soggetto passivo i mancati introiti tributari causati dai comportamenti fraudolenti di terzi sui quali egli non ha alcuna influenza». 60 In proposito si segnala il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità. Tra le tante, Cass., sent., 5 settembre 2014, n. 18767: «... Con specifico riferimento, poi, all’ipotesi delle operazioni soggettivamente inesistenti, la Corte europea ha, da ultimo, ri- Stefano Fiorentino 621 Gli orientamenti appena citati, che producono implicazioni agevolmente riferibili al tributo doganale ed all’IVA in quanto tributi armonizzati, assumono peraltro una diretta rilevanza anche per gli altri profili tributari implicati (imposte sui redditi e IRAP). La portata generale di tale principio e con esso l’esigenza che ogni ordinamento nazionale garantisca la tutela valoriale che da esso consegue, è in grado infatti di produrre effetti “armonizzanti” 61, dal punto di vista applicativo, su tutte le vicende tributarie correlate alla circolazione dei beni in sospensione di accisa, con particolare riguardo agli effetti fiscali scaturenti dall’imputazione giuridica e conseguente responsabilità dell’immissione al consumo del bene. 9. Conclusioni In ragione del quadro sistematico e dei principi sin qui delineato, può osservarsi conclusivamente come l’applicazione e la corretta interpretazione della normativa doganale in tema di circolazione dei beni in sospensione di accisa, nonché la sottostante attività istruttoria, assuma un ruolo che va oltre il proprio specifico settore di riferimento, influenzando, nell’ambito di una visione coerente ed unitaria dell’ordinamento tributario, tutti gli aspetti inerenti ai “procedimenti di imposizione” implicati da tali vicende. In primo luogo, si è rilevato che solo se l’immissione al consumo del bene è giuridicamente imputabile al depositario/mittente in qualità di soggetto passivo dell’accisa, è coerente valorizzare in capo a tale soggetto gli effetti della traslazione economica ai fini IVA, imposte sui redditi ed IRAP. Diversamente, laddove l’obbligo di pagare l’accisa in capo a tale soggetto fosse sostanzialmente qualificabile in termini di responsabilità d’imposta o di mera garanzia, sarà tendenzialmente esclusa per il cedente l’imputazione degli efbadito che se – tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, o comunque a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, si deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto ...». 61 Sulle implicazioni generali di tale tematica si rinvia a DI PIETRO-TASSANI (a cura di), op. cit. 622 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 fetti di traslazione economica e con essi le conseguenze in ambito IVA, imposte sui redditi ed IRAP. L’indagine ha altresì palesato che imprescindibili esigenze sistematiche e di conformità ai principi costituzionali ed europei impongono una coerente rilevanza della disciplina che circoscrive e ripartisce gli obblighi formali tra i diversi soggetti coinvolti nel regime di sospensione di accisa, anche ai fini del procedimento di imposizione concernente l’IVA, le imposte sui redditi e l’IRAP; ciò in particolare per le rettifiche di corrispettivi non dichiarati corrispondenti all’accisa illecitamente immessa al consumo. Alessandro Giovannini CRISI DEI METODI DI ACCERTAMENTO TRIBUTARIO E PROSPETTIVE DI RIFORMA: INTRODUZIONE 1 CRISIS OF METHODS OF TAX ASSESSMENT AND POSSIBLE REFORMS Abstract I tornanti della storia contemporanea impongono di ricercare nuove strade per avviare una stagione di vera riforma del sistema tributario, fatta non di interventi occasionali, asistematici o comunque limitati a singoli “spicchi” della disciplina esistente, ma di interventi ampi e organizzati sistematicamente su nuove basi, comprendenti, oltre all’accertamento, il sistema sanzionatorio, quello della riscossione, la disciplina sulle tutele e il sistema di diritto sostanziale. Ancor prima è necessario ripensare alcuni schemi o modelli teorici che hanno condizionato in maniera pesantissima scelte politiche e normative, percorsi giurisprudenziali e la prassi amministrativa degli ultimi decenni e che rischiano di condizionare in maniera frenante scelte future: dal concetto di “reddito effettivo” a quello di “realtà” delle ricostruzioni giuridiche, da quello di effettività delle tutele a quello di disponibilità dell’obbligazione d’imposta, a quello di discrezionalità amministrativa. Parole chiave: riforma tributaria, accertamento, reddito, obbligazione d’imposta, discrezionalità The trends of contemporary history require to look for new roads to start a season of real reform of the tax system not based on occasional, unsystematic interventions nor merely limited to single “slices” of the existing framework, but on wide and systematically organized changes, including tax assessment, tax penalties, tax collection rules, taxpayers’rights protection and tax substantive rules. However, before any legislative change, it is necessary to rethink some schemes or theoretical models that have strongly influenced political choices and regulations, case law and administrative practice 1 Contributo non sottoposto a referaggio. 624 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 of the recent decades and that threaten to delay future reforms. From the concept of “effective income” to the one of “reality” of the legal interpretations, from the concept of effectiveness of taxpayers’rights protection, to the one of tax rulings and, finally, to the one of administrative discretion. Keywords: tax reform, tax assessment, income, tax duty, discretionality SOMMARIO: 1. Per una riforma tributaria di sistema: le nuove economie, le esigenze della finanza pubblica e il “vecchio” fisco. – 2. La “cassetta degli arnesi”: su alcuni modelli e concetti teorici arrugginiti. 1. Per una riforma tributaria di sistema: le nuove economie, le esigenze della finanza pubblica e il “vecchio” fisco I tornanti della storia contemporanea impongono di ricercare nuove strade per avviare una stagione di riforma del sistema tributario, fatta non di interventi occasionali, asistematici o limitati a singoli “spicchi” della disciplina esistente, ma di interventi ampi e organizzati sistematicamente su nuove basi, comprendenti, oltre all’accertamento, il sistema sanzionatorio, quello della riscossione, la disciplina sulle tutele e il sistema di diritto sostanziale. La normazione attuale, d’altra parte, è sempre più caotica, mal scritta, disorganica e con evidenti “buchi neri”. Il sistema che ne risulta, perciò, è estremamente complesso, costosissimo nella gestione, foriero di controversie interpretative defatiganti, lontano dai venti sostanzialistici che dall’Europa si alzano sul terreno della tutela delle libertà. È un sistema concettualmente, culturalmente vecchio. Accanto a questa valutazione, si pongono esigenze e preoccupazioni che vanno “oltre il diritto” e che sospingono con forza verso il cambiamento. A fronte di ricchezze sottratte in misura ingente alla contribuzione; di esigenze di finanza pubblica difficilmente comprimibili in maniera sensibile, a meno di non intaccare porzioni importanti di welfare; a petto di un debito statale crescente ed a stringenti vincoli di bilancio; di un crescente aumento dell’età media di vita della popolazione; di cambiamenti epocali dell’economia e della finanza domestica ed internazionale 2, ma a patto anche di una 2 Gli studiosi che si sono occupati di questi argomenti, specie in economia e scienza delle Alessandro Giovannini 625 elevata pressione fiscale, i metodi di verifica e determinazione della materia imponibile costituiscono fulcro essenziale per la tenuta del Paese e per la redistribuzione della ricchezza, nello spirito e in attuazione dei princìpi costituzionali di eguaglianza e solidarietà. Si tratta, allora, di cambiare gioco e non più soltanto qualche regola del gioco. Intendiamoci, le fondamentali scelte di sistema per la composizione armonica di queste esigenze competono soltanto alla politica nazionale ed europea. Noi, come studiosi, possiamo contribuire solo con idee e progetti, consapevoli del fatto che l’armamentario tecnico oggi utilizzabile, nei suoi tratti portanti, è ancora quello introdotto con le leggi di riforma degli anni settanta e pensato negli anni cinquanta e sessanta 3. Sebbene elaborato da scienziati illuminati e da una dotta classe dirigente, esso mostra i segni del tempo. La sua inadeguatezza rispetto alle moderne economie e la sua insufficienza a fronteggiare i nuovi scenari dell’evasione e dell’elusione sono fatti difficilmente confutabili. E non perché la crisi attenga ai singoli metodi o ai singoli istituti in sé considerati: la crisi, come ho detto, riguarda parti consistenti del sistema e coinvolge tanto il diritto sostanziale, quanto quello procedimentale; tanto il diritto sanzionatorio, quanto quello delle tutele. Le problematiche relative all’accertamento, che si affrontano in questo convegno, sono soltanto una faccia, pure importante, del più ampio e parzialmente decadente prisma sistematico 4. 2. La “cassetta degli arnesi”: su alcuni modelli e concetti teorici arrugginiti Non intendo soffermarmi sulle “ricette” che potrebbero essere utilizzate per soddisfare o alleviare le esigenze prima indicate: non è mio compito in questa sede. Quel che voglio mettere in evidenza, invece, sono alcuni profili finanze, sono molti. Per tutti, cfr. VISCO, in AA.VV., La crisi dell’imposizione progressiva sul reddito, a cura di Gerelli-Valiani, Milano, 1984, e più recentemente ID., Audizioni nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma fiscale presso al VI Commissione del Senato della Repubblica, 9 febbraio 2012, in Senato.it., e ID., Come dimezzare l’evasione in tre anni, in Nens.it; PICKETTY, Il capitale nel XXI secolo, trad. it. a cura di Arecco, Milano, 2014. Tra i tributaristi, LUPI, Manuale giuridico di scienza delle finanze, Roma, 2012; TREMONTI, La paura e la speranza, Milano, 2008. 3 AA.VV., Stato dei lavori della Commissione per la riforma tributaria, Milano, 1964. 4 GALLO, Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, e ID., Ripensare il sistema fiscale in termini di maggiore equità distributiva, in Astrid, 2014. 626 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 teorici, fiducioso che troveranno riscontro nella sensibilità e nell’acutezza di riflessione anche di altri ricercatori. È mia convinzione che sia giunto il momento non solo di apportare radicali cambiamenti al sistema normativo, come ho fin qui auspicato, ma di ripensare anche e preliminarmente alcuni schemi o modelli teorici che hanno condizionato in maniera pesantissima scelte politiche e normative, percorsi giurisprudenziali e la prassi amministrativa degli ultimi decenni, e che rischiano di condizionare in maniera frenante scelte future. Tra i molti profili, ne indico tre, che affronto in termini molto sintetici e quindi in maniera senz’altro incompleta. A) Sulle ricchezze apolidi, sul reddito “cartolare” come reddito effettivo e sull’opportunità di una sua determinazione ex ante Ho in mente, in primo luogo, gli schemi di rappresentazione ed individuazione del reddito accolti nella nostra legislazione, i quali non appaiono più adeguati né all’economia nazionale, né a quella internazionale. Come ricordato recentemente dall’OCSE e in sede di G20, vi è l’urgenza di elaborare nuovi criteri d’identificazione territoriale di grandi ricchezze, ormai apolidi e dematerializzate. Ad iniziare da quelle relative alle transazioni finanziarie, sostanzialmente prive di tassazione, per finire a quelle collegate al commercio elettronico o di produzione tecnologica, sfuggenti ai tradizionali criteri di ancoraggio al territorio dei singoli stati. In discussione, dal punto di vista giuridico, è il concetto di sovranità (fiscale) 5. L’altra urgenza, tutta interna al nostro ordinamento, è ripensare il concetto di “effettività” del reddito. E non perché si debba tassare un reddito inesistente, ma perché i meccanismi di determinazione contabile e cartolare, sui quali si è finora retto il nostro sistema, oltre a produrre costi rilevantissimi per contribuenti e amministrazione finanziaria, non assicurano per nulla che la capacità contributiva dichiarata e tassata sia davvero effettiva. Le stime sull’evasione riguardante l’economia legale lo dimostrano chiaramente. Per prospettare un esempio in positivo, tra i molti possibili, la legislazione IRES offre un’ulteriore testimonianza poiché, davanti a realtà economiche identiche, legittima la quantificazione del reddito in misura diversa a seconda dell’applicazione o non applicazione degli IAS. 5 Cfr. G. TESAURO, Sovranità degli Stati e integrazione comunitaria, Napoli, 2006. Alessandro Giovannini 627 Il reddito, come l’effettività, sono concetti convenzionali e come tali devono essere studiati ed applicati. Se si condivide questo punto di vista, allora, non diviene azzardato immaginare l’introduzione di metodologie anticipate di determinazione della materia imponibile, almeno per un’ampia platea di contribuenti: anziché accertarla ex post, determinarla ex ante singolarmente o per classi di contribuenti e zone territoriali. Progettare la contribuzione per il futuro, insomma, piuttosto che verificare a ritroso fatti dei quali si è persa la memoria storica ed innescare, così, controversie basate su indizi o prove e controprove diaboliche, oppure verificare a ritroso interpretazioni normative applicate a fenomeni già palesati dal contribuente in dichiarazione. Qualora fossero finalmente introdotte, come io auspico, metodologie ex ante di determinazione della materia imponibile, predicare la violazione dell’art. 53 Cost. con riguardo all’effettività sarebbe un fuor d’opera. B) Sulla relazione giuridica d’imposta, sull’interesse fiscale, sulla equiordinazione delle posizioni delle parti e sulla effettività delle tutele dei “beni della vita” Vi è un’altra figura teorica sulla quale occorre tornare con mente disposta ad accogliere nuove pulsioni ricostruttive. È la relazione giuridica d’imposta. Tentare una radicale riconciliazione con il principio di realtà del diritto e con il principio di effettività della tutela delle libertà: ecco che cosa oggi manca, secondo me, nel nostro modo di guardare al rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente. Il principio di realtà e quello di effettività, per come si sono sviluppati in altri paesi e nell’ordinamento comunitario ed internazionale e per come sono entrati negli studi di altri rami del diritto domestico, consistono in questo: nella funzionalizzazione del sistema alle esigenze sostanziali che esso stesso sistema deve soddisfare secondo scelte consacrate dal diritto positivo. Così da mettere in secondo piano il formalismo e le costruzioni astratte, comprese alcune situazioni giuridiche ingiallite dal tempo, come l’interesse legittimo o il diritto potestativo 6, che allontanano la protezione effettiva ed im6 Tra i molti FALZEA, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, in Riv. dir. civ., 2000, I, p. 679 ss.; BUSNELLI, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il muro degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, I, p. 335 ss.; MOTTO, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012; CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, p. 143 ss.; MATTARELLA, Pubblica amministrazione e interessi, in AA.VV., Il diritto amministrativo oltre i confini, Milano, 2007, p. 114 ss.; GENTILI, Il diritto come discorso, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, Milano, 2013. 628 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 mediata dei “beni della vita” che incorporano quelle esigenze 7. In diritto tributario gli interessi qualificati e i corrispondenti beni, costituzionalmente rilevanti, sono due, paralleli e tra di loro speculari: corretta percezione dei tributi in ragione della capacità contributiva di ciascuno, secondo gli artt. 2, 3, 23, 81 e 53 Cost.; tutela delle libertà del singolo, ad iniziare da quella riconducibile al diritto di proprietà, garantito, nelle sue varie espressioni, dagli artt. 23, 41, 42, 43, 47 e dallo stesso art. 53 Cost. 8. Sono beni equiordinati, tanto in termini di garanzie costituzionali, quanto in termini di situazioni giuridiche soggettive e di interessi protetti coincidenti con quegli stessi “beni della vita”. L’interesse fiscale, come bene “super primario”, non esiste sul piano costituzionale. Un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato è incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza. Con la sent. 11 ottobre 2012, n. 223, anche la Corte costituzionale sembra giunta a questa conclusione, così superando precedenti arresti. Per i giudici di palazzo della Consulta la «eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali […] ma è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale […] non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale». Come – aggiungo io – non può consentire deroghe a primari interessi raccolti in altre norme costituzionali, anche di fonte europea, ugualmente fondanti l’ordine costituito, come si deve dire per il diritto all’effettività della difesa, per il giusto procedimento e per il giusto processo. L’interesse fiscale è finalmente morto, almeno nei termini nei quali lo avevamo finora conosciuto ed ereditato dall’idea orlandiana di stato. Ebbene, intorno ai beni costituzionalmente rilevanti, per come prima indicati, ed alla equiordinazione delle posizioni giuridiche delle parti, occorre riorganizzare sia la disciplina dell’accertamento, del contraddittorio antici7 ROSS, Tû-Tû, in SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, p. 165 ss.; ID., Direttive e norme, Milano, 1978, p. 194 ss.; OLIVECRONA, Linguaggio giuridico e realtà, in SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 239 ss. e OLIVECRONA, Il concetto di diritto soggettivo secondo Grozio e Pufendorf, in ID., La struttura dell’ordinamento giuridico, Milano, 1972, p. 292 ss. Si vedano anche gli autori richiamati nella nota precedente. 8 Cfr. GALLO, Proprietà, diritti sociali e imposizione fiscale, in Giur. comm., 2010, p. 197 ss. Alessandro Giovannini 629 pato, degli interpelli e della compliance, sia quelle della tutela pregiurisdizionale e della tutela giurisdizionale. Anche la riforma delle tutele, comprensiva della riforma processuale 9, infatti, è un cardine essenziale e un paese ad avanzata civiltà giuridica, come il nostro, non può più affidarsi a strumenti ed organi dalle origini ottocentesche, superati dalle lancette della storia e senz’altro inadeguati a fronteggiare le nuove economie, la scala internazionale dell’evasione, i sofisticati mezzi di abuso del diritto e la complessità del sistema normativo, ormai fortemente intrecciato con quello europeo ed internazionale. C) Sulla disponibilità dell’obbligazione e sulla discrezionalità Questo ragionamento ci conduce, dritti dritti, ad altri due concetti che esigono una profonda rivisitazione. Mi riferisco a quello dell’indisponibilità dell’obbligazione d’imposta ed a quello della discrezionalità amministrativa. Di questi argomenti mi sono occupato in altre occasioni e pertanto non intendo ripetere cose già dette 10. Mi limito solo a queste scheletriche osservazioni. Personalmente – insieme ad altri studiosi 11 – non condivido la tesi dell’indisponibilità. Non mi sembra convincente, di fronte al sistema giuridico attuale e nella progettazione di un sistema futuro, continuare ad affermare che l’obbligazione tributaria, siccome obbligazione ex lege, radicata nell’art. 53 e ordinata dagli artt. 2 e 3 Cost., non possa formare oggetto di rideterminazione “concordata”. Può darsi che mi sbagli, ma io credo che alla base della teoria sull’indisponibilità si ponga ancora l’idea che la potestà amministrativa, compresa quella impositiva, trovi unico mezzo di espressione nel provvedimento autoritativo; che il provvedimento, a sua volta, quasi fosse caratterizzato da una sorta di “superiorità” assiologica, sia l’unico strumento atto a perseguire l’interesse pubblico generale; e che, per questi motivi, anche i rapporti tra sin9 Cfr. F. TESAURO, Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., 2013, p. 328 ss. Se si vuole, GIOVANNINI, Il diritto tributario per princìpi, Milano, 2014, p. 87 ss., e prima ID., Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. trib., 2013, p. 51 ss. 11 Penso soprattutto a RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, p. 89 ss.; ma anche all’articolata ricostruzione di VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, specie p. 478 ss. 10 630 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 golo e amministrazione siano indisponibili quanto alle situazioni giuridiche correlate. Penso che le cose non stiano così o non stiano più così. Alcuni studiosi di diritto amministrativo e di diritto civile lo hanno scritto con estrema chiarezza (tra gli altri Clarich, Mattarella, Nigro, Busnelli ed ancora prima Benvenuti, Merusi). Anzitutto, l’indisponibilità della situazione giuridica non è un prius rispetto al diritto positivo, né costituisce, per così dire, un crisma del diritto di credito tributario. L’indisponibilità in tanto esiste in quanto non vi è una previsione normativa che, preselezionando interessi pubblici tra di loro comparabili, consenta alla P.A. di rideterminare l’obbligazione seguendo criteri oggettivi e di rinunciare a successive fasi del procedimento, compresa quella processuale. È necessario pertanto distinguere tra situazione giuridica soggettiva, potere pubblico e potestà, e interesse pubblico. Per me, infatti, mentre il diritto di credito erariale, come situazione giuridica, è disponibile, rimangono senz’altro indisponibili il potere, la potestà e l’interesse pubblico primario. L’indisponibilità e l’irrinunciabilità attengono al potere e alla potestà quali elementi strutturali dello Stato, dei suoi organi ed uffici. Irrinunciabile, poi, è il pubblico interesse, il quale deve essere sempre perseguito pure quando quel potere si adatta a composizioni pattizie del credito. Il pubblico interesse, infatti, rappresenta non tanto o soltanto un valore, quanto un bene giuridico strettamente inteso, causa stessa del potere impositivo, ed è per questo che si erge a bene comune: questo sì, come detto, irrinunciabile e indisponibile. Perseguire il pubblico interesse, però, non significa rendere indisponibile anche la situazione giuridica. Conformarla ad una “realtà” accertata e ricomposta in contraddittorio col contribuente e conformarlo ad esigenze pubbliche ulteriori, preselezionate dalla legge e verificabili oggettivamente, quand’anche con criteri impliciti, diviene semplicemente una modalità di attuazione di quell’interesse. Questo interesse, infatti, non coincide con la riscossione o percezione di un tributo pur che sia o di un tributo di ammontare il più elevato possibile: l’interesse, siccome espressione dell’ordine legale, coincide con la corretta determinazione e percezione del tributo, secondo schemi che convenzionalmente e storicamente si ritengono i più adeguati a rappresentare una realtà data. E questo interesse, se ben si riflette, è comune tanto all’amministrazione, quanto al contribuente, perché emanazione diretta del principio di legalità, che sorregge vuoi l’azione amministrativa, vuoi il comportamento del singolo. Alessandro Giovannini 631 È per questi motivi che occorre tornare a riflettere anche sul concetto di attività vincolata e attività discrezionale dell’amministrazione finanzia 12. E non perché la disponibilità dell’obbligazione si debba accompagnare di forza ad un’attività discrezionale: possono senz’altro coesistere attività vincolata e disponibilità dell’obbligazione. E il vincolo può riguardare sia la fase di esercizio della potestà funzionale all’atto d’accertamento, sia la fase successiva alla sua adozione. Infatti, se è la legge a selezionare interessi pubblici secondari e regole oggettive di valutazione, seppure implicite, non credo si possa parlare di discrezionalità amministrativa in senso proprio, neppure nella fase di “riesame” dell’atto. Il motivo per il quale è auspicabile interrogarsi su quei concetti, dunque, è un altro ed attiene, per così dire, al “diritto che verrà”. Il cuore del problema, infatti, non è tanto se, esercitata la potestà impositiva in termini vincolati, i princìpi costituzionali legittimino l’amministrazione a prendere in considerazione interessi pubblici secondari, quanto se l’interesse primario rimesso alle sue dirette cure sia ponderabile con interessi per i quali la legge non detta, neppure implicitamente, criteri di valutazione. Se questa valutazione fosse possibile, si potrebbe parlare, in effetti, di discrezionalità amministrativa, e non più soltanto di scelta o discrezionalità tecnica, almeno secondo il significato che Massimo Severo Giannini attribuì a quella categoria, poi entrata nel nostro abbecedario giuridico, specie giurisprudenziale. La discrezionalità amministrativa – lo ricordo di passata – attiene alla facoltà degli organi della P.A. di compiere scelte sul modo migliore di realizzare l’interesse pubblico specifico o primario, quello, cioè, pertinente allo scopo perseguito nel caso concreto e rimesso alla cura del singolo organo amministrativo. Ancora più in particolare, essa, discrezionalità, si esprime nel potere di valutare detto interesse pubblico primario non isolatamente, ma ponendolo a confronto con altri interessi, pubblici o privati, coi quali esso va ad interferire e che possono dirsi secondari 13. 12 Per PERRONE, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, p. 33, l’amministrazione finanziaria possiede un «insopprimibile margine di libertà di apprezzamento […] nella formazione degli atti e nello svolgimento delle operazioni diretti alla determinazione delle dimensioni del tributo», sebbene quella libertà di apprezzamento non possa qualificarsi come discrezionalità amministrativa. In termini parzialmente diversi, DEL FEDERICO, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, p. 1393 ss. 13 Cfr., per il “nocciolo” della nozione, ancora ritenuto ampiamente soddisfacente dagli 632 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Qui, tuttavia, quel che deve essere chiaro è un profilo contenutistico, più che nominalistico o definitorio. Se non si vuole evocare la discrezionalità amministrativa e si preferisce continuare a parlare di scelte tecniche, sta pure bene. Purché s’afferrino contenuto e confini della categoria che si sta indagando. Provo a spiegarmi meglio. L’amministrazione, a mio modo di vedere, può compiere la ponderazione in discussione, ma nel ferreo rispetto di alcune condizioni: che gli interessi siano preselezionati dalla legge, che siano tutti di natura economica, che siano tutti di fonte o d’impronta pubblicistica e che la valutazione comparativa espressa su di essi trovi corrispondenza in una motivazione verificabile ex post. L’amministrazione non può esaminare né interessi diversi da quelli economici, né interessi egoistici o particolaristici del privato. E pure quando dovesse essere chiamata a valutare situazioni oggettive di questi, non potrebbe considerare il suo interesse individuale, ma dovrebbe verificare, preliminarmente, se la situazione a lui riferibile possa essere riportata allo Stato come espressione di un interesse pubblico economico, di un interesse di carattere generale. Entro questi confini, se il legislatore ritiene di dover offrire rilievo a più interessi pubblici reputati pregevoli di protezione e si determina ad investire l’amministrazione del compito di verificarli comparativamente con l’interesse primario suo proprio, nessuno strappo costituzionale, a mio avviso, può essere predicato. E neppure mi pare si possa invocare, in termini generali ed astratti, il divieto di aiuti di stato di matrice europea, disciplinato dall’art. 107, par. 1, TFUE. A proposito degli aspetti fin qui esaminati, vi è forse una questione culturale che in filigrana si pone sullo sfondo. Come giustributaristi, secondo me, occorre avvicinarci ad un concetto “allargato” di finanza pubblica ed iniziare a guardare alle entrate e alle spese come a tessere di un mosaico unitario, non come a scomparti tra di loro isolati: l’unitarietà concettuale e giuridica dello Stato fa da pendant all’unitarietà concettuale e giuridica della finanza pubblica e degli interessi che questa deve soddisfare. Inforcare questi occhiali significa anche rivalutare il legame tra art. 53 e art. 81 Cost., alla cui luce può e deve essere letta l’intera trama costituzionale. amministrativisti e generalmente seguito, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, ora in Scritti, I, Milano, 2000, tesi che Giannini ha poi ripreso e sviluppato in molti lavori successivi. Alessandro Giovannini 633 E allora e conclusivamente, non solo la teoria dell’indisponibilità del credito non può più costituire barriera dommatica preclusiva, ma anche la categoria della comparazione dell’interesse primario e degli interessi secondari deve essere filtrata da nuovi studi costituzionalmente orientati. «Non bisogna toccare gli idoli: la doratura resta sulle mani», ammonisce Flaubert in “Madame Bovary”. Un po’ di coraggio, tuttavia, può non guastare nella molta strada che vi è ancora da compiere su questi argomenti. 634 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Paola Marongiu LA VOLUNTARY DISCLOSURE NEI RAPPORTI TRIBUTARI FRA PRINCIPI GENERALI E INTERVENTI LEGISLATIVI THE VOLUNTARY DISCLOSURE IN TAX RELATIONSHIPS BETWEEN GENERAL PRINCIPLES AND LEGISLATIVE INTERVENTIONS Abstract Il provvedimento introduce nell’ordinamento fiscale italiano la disciplina della collaborazione volontaria – la c.d. voluntary disclosure – allo scopo di contrastare fenomeni di evasione fiscale consistenti nell’allocazione fittizia della residenza fiscale all’estero e nell’illecito trasferimento o detenzione all’estero di attività che producono reddito. I soggetti, pertanto, che sono titolari di attività e di beni all’estero e ne hanno omesso la dichiarazione in Italia, contravvenendo alle norme in materia di monitoraggio fiscale, possono così sanare la propria posizione nei confronti dell’Erario pagando, senza possibilità di compensazione fiscale, l’intero ammontare delle imposte dovute e le sanzioni in misura ridotta. Parole chiave: dichiarazione volontaria, estero, patrimoni, emersione, monitoraggio The Act introduces a voluntary disclosure programme in the Italian tax system, in order to prevent the fictitious transfer of tax residence abroad and the unlawful transfer or possession of assets abroad. Therefore, the subjects that own undeclared activities or assets abroad infringe the “tax monitoring” regulations on the disclosure of such assets, have the chance to legalize the situation through the payment of the taxes due and reduced tax administrative penalties. Keywords: voluntary disclosure, abroad, assets, declaration, “tax monitoring” regulation 636 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Voluntary disclosure e scudo fiscale: due ipotesi a confronto. – 3. Profili soggettivi della voluntary disclosure. – 4. Gli oneri posti a carico del contribuente. – 4.1. … e dell’Amministrazione finanziaria. – 5. Gli effetti premiali della procedura di voluntary disclosure. – 6. Voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio. – 7. Osservazioni di sintesi. 1. Premessa «A short-term boost to revenues is often a primary goal of a volontary compliance programme»: questo è uno degli obiettivi che il Documento OCSE del settembre 2010 – “Offshore volontary disclosure – Comparative analysis, Guidance and Policy Advice” – suggerisce nel delineare i criteri guida dei programmi e delle misure che devono essere adottate dai Governi – queste almeno le raccomandazioni offerte ed espresse nel citato Documento dall’Organismo internazionale parigino – nell’ambito di un più vasto e incisivo contrasto ai fenomeni di illecito fiscale internazionale 1. Negli ultimi anni, infatti, il contesto fiscale internazionale ha subito importanti mutamenti caratterizzati da una maggiore trasparenza 2, da un più frequente e agevolato scambio di informazioni e dal venir meno del segreto bancario in molte piazze finanziarie, tradizionalmente “protezioniste” 3, assunti 1 Già nel 2013, prima, quindi, dell’intervento normativo con il D.L. n. 4, poi non convertito, l’Amministrazione finanziaria ha sensibilizzato i propri Uffici nella lotta all’evasione internazionale, impartendo, nella Circolare n. 25/E del luglio 2013, specifici e dettagliati indirizzi operativi. 2 Ma una maggiore trasparenza, grazie alla massa di informazioni messa a disposizione, ha permesso a molti Stati di apprendere, in modo preciso e completo, i modelli e il volume degli affari messi in atto dalle singole banche e società finanziarie, tanto che le Autorità americane hanno avviato procedure contro il Credit Suisse per asserite violazioni di norme di regolamentazione bancaria e borsistica interna, venute alla luce in base ai dati forniti al Fisco degli Stati. 3 L’esempio più significativo è rappresentato dalla Svizzera, la quale, il 6 maggio 2014, ha firmato a Parigi – congiuntamente con Singapore – la “resa” sul segreto bancario in sede OCSE, così spogliandosi di quella veste, oramai assunta da molti anni, di paradiso fiscale all’interno del vecchio Continente nel quale albergavano ingenti somme sottratte ad imposizione nei Paesi di residenza del titolare di conti o altre tipologie di investimento. L’accordo non indica, però, un termine entro il quale “dire addio” al segreto bancario, sebbene la data ultima sembra essere stata indicata nel settembre 2017. Nei confronti degli Stati Uniti, invece, la Svizzera ha già firmato l’Accordo FACTA (per una più ampia illustrazione si rinvia alla nota successiva), con entrata in vigore il 1° luglio 2014, per effetto del quale la Confederazione elvetica cala “la maschera” sul segreto bancario e apre la strada Paola Marongiu 637 quali strumenti per porre un freno alla sottrazione di redditi all’imposizione, sì che i contribuenti, che si sono “resi colpevoli” di una siffatta condotta, avvertono, ora, con maggiore preoccupazione, la possibilità di essere intercettati dalle “sentinelle” del Fisco. In questo scenario di inasprimento del contrasto all’evasione fiscale internazionale 4, in coerenza con le indicazioni formulate dall’OCSE e dalla Commissione europea, secondo cui «Le autorità nazionali devono inoltre facilitare la possibilità di mettersi in regola per chi voglia farlo, ad esempio, prevedendo programmi di denuncia volontaria» 5 e nella convinzione che la lotta all’evasione può passare anche attraverso la regolarizzazione volontaria del contribuente, purché con adeguate garanzie, il legislatore tributario italiano non è stato inerte e, mediante l’approvazione della L. n. 186 del dicembre 2014, ha varato la procedura, di carattere temporaneo 6, della voluntary disclosure, introducendo, all’interno del D.L. n. 197/1990, recante la diallo scambio di informazioni automatico nei rapporti con gli Stati Uniti sui conti dei cittadini americani detenuti presso propri Istituti di credito. A tale fine, l’Amministrazione finanziaria elvetica ha predisposto un documento – e, precisamente, una lettera di informazione – nel quale chiede l’autorizzazione del cliente, cittadino americano, a comunicare all’IRS (Internal Revenue Service) i suoi dati finanziari, illustrando, altresì, le conseguenze del diniego. 4 In questa nuova sfida, avvertita in modo più forte a livello mondiale, è sicuramente da segnalare la legge FACTA (Foreign Account Tax Compliance Act), approvata dal Governo americano nel 2010, con l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale in ambito internazionale attraverso la tassazione dei capitali detenuti all’estero dai contribuenti americani. I destinatari della normativa sono gli Istituti finanziari esteri presso i quali sono depositati conti o altre forme di investimento riconducibili a soggetti fiscalmente residenti negli Stati Uniti, obbligati a trasmettere, annualmente e in forma automatica, all’Autorità fiscale americana (IRS) tutte le relative informazioni. Rilevanti le conseguenze per gli Istituti di credito che non aderiscono al FACTA, i quali sarebbero, di fatto, esclusi dal mercato finanziario americano e sarebbero soggetti ad una vera e propria penale sotto forma di ritenuta del 30% applicata ad ogni forma di pagamento di origine americana, colpendo direttamente l’Istituto. 5 Il riferimento corre al Comunicato stampa del 27 giugno 2012, nel quale la Commissione ha presentato misure concrete avanzate a livello comunitario «nella lotta contro la frode e l’evasione fiscale», fra cui, prendendo spunto dalla Direttiva dell’Unione Europea sullo scambio di informazioni, l’opportunità di «approfondire tale cooperazione e rafforzare gli strumenti comuni» e ha, al contempo, esortato gli Stati membri «a migliorare le loro capacità amministrative a livello di riscossione delle imposte», offrendo anche l’assistenza tecnica necessaria. 6 Il legislatore ha, infatti, fissato un termine alla procedura, individuato nel 30 settembre 2015, poi prorogato, per effetto del D.L. 30 settembre 2015, n. 153, conv. con modificazioni dalla L. 20 novembre 2015, n. 187, al 30 novembre 2015, con possibile integrazione dell’istanza entro il 30 dicembre 2015. 638 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 sciplina del c.d. monitoraggio fiscale 7, gli articoli da 5 quater a 5 septies 8. Per effetto dell’autodenuncia – almeno questo è l’obiettivo del legislatore – l’autore della violazione, per accedere ai benefici di legge, deve indicare spontaneamente all’Amministrazione finanziaria, mediante la presentazione di una apposita istanza, gli investimenti e tutte le attività, produttive di reddito tassabile, costituite o detenute all’estero 9, anche indirettamente o per interposta persona, producendo i documenti e le informazioni per la ricostruzione dei redditi impiegati per costituirli, acquistarli o frutto della loro dismissione o utilizzo a qualsiasi titolo. Previsione che copre tutti i periodi di imposta in relazione ai quali, alla data di presentazione dell’istanza, non sono scaduti i termini per l’accertamento o la contestazione della violazione degli obblighi di dichiarazione, dovendosi, poi, distinguere – quanto alla decadenza dal potere impositivo in capo all’Amministrazione finanziaria e alla misura delle sanzioni – fra beni che provengono da Paesi appartenenti all’Unione Europea ovvero beni collocati in Paesi inclusi nella c.d. “black list”. Aderendo a questa procedura – questa è sicuramente la ratio della nuova previsione – il contribuente dovrebbe prendere il c.d. “ultimo treno”, perso il quale detenere all’estero investimenti o beni non dichiarati al Fisco italiano, alla luce anche del mutato scenario internazionale, renderebbe definitivamente illecita la detenzione di capitali all’estero, la loro conseguente sottrazione ad imposizione in Italia e la possibilità di nazionalizzarli. L’Italia si è così allineata ad altri Paesi, i quali, assecondando le direttive impartite dall’OCSE, hanno già implementato programmi di voluntary disclosure, prevedendo il pagamento, in misura piena, delle imposte dovute per gli anni ancora accertabili, oltre agli interessi maturati, e delle sanzioni in forma ridotta. 7 Almeno in linea puramente generale, le violazioni, commesse da chi detiene capitali all’estero non dichiarati, ai sensi del D.L. n. 167/1990, possono ricondursi a tre diverse tipologie: a) non aver assoggettato ad imposizione in Italia i redditi da cui hanno originato le attività finanziarie e i redditi a queste ultime connesse; b) non aver rispettato la normativa in tema di monitoraggio fiscale di cui al predetto decreto legge; c) aver verosimilmente commesso reati penalmente rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 74/2000. 8 Norme contenute nella L. 15 dicembre 2014, n. 186, pubblicata in G.U. in data 17 dicembre 2014. 9 È da precisare che il legislatore ha accordato al contribuente la possibilità di regolarizzare la propria posizione con il Fisco anche in caso di redditi sì sottratti a tassazione ma non trasferiti all’estero e conservati, pertanto, entro i confini nazionali (la c.d. voluntary disclosure nazionale), di cui, però, il presente lavoro non si occuperà. Paola Marongiu 639 Ad esempio, negli Usa la normativa del 2009 ha introdotto un sistema di voluntary disclosure molto severo e rigido. L’Internal Revenue Service (che corrisponde alla nostra Agenzia delle Entrate) è ricorsa a questo strumento per indurre gli evasori a regolarizzare la loro posizione fiscale e a dichiarare i capitali nascosti all’estero, senza, tuttavia, che i contribuenti non virtuosi potessero beneficiare di sconti sulle sanzioni o sulle imposte. Al pari, il sistema britannico ha concesso agli evasori di pagare le imposte non versate sulle somme detenute all’estero, mettendosi così in regola con il Fisco. Anche la Francia ha adottato simili meccanismi: la Regularisation des avoirs a l’étranger ha voluto scoprire la localizzazione di capitali all’estero, senza alcuna riduzione delle imposte dovute e la non irrogazione di sanzioni penali, mentre in Germania si mirava a recuperare i capitali stranieri e le imposte non versate, dove più di 20.000 contribuenti hanno aderito a voluntary compliance programmes, consentendo al Governo di Berlino di incassare quasi un miliardo di euro 10. 2. Voluntary disclosure e scudo fiscale: due ipotesi a confronto Prima di procedere ad una disamina della nuova procedura, pare opportuno interrogarsi sulla natura della disclosure italiana e, cioè, se essa possa in qualche modo assimilarsi ad una sorta di scudo fiscale. Già all’indomani dell’emanazione del D.L. n. 4/2014 (poi non convertito e nel quale era contenuto il primo modello di disclosure), gli Organi di Governo avevano avuto modo di chiarire che il rientro dei capitali dall’estero funziona come meccanismo di adesione volontaria, non come scudo né condono, non essendovi uno “sconto” sulle imposte (da pagare integralmente), ma sulle sanzioni, in considerazione, inoltre, del differente assetto internazionale nel quale questa misura di contrasto e di lotta all’evasione si annida. Invero, e a prescindere dalle dichiarazioni governative, la domanda può sorgere spontanea se appena si considera che, almeno sotto il profilo della natura giuridica della disclosure, essa potrebbe ascriversi alle forme di defini10 Il “segreto” di tale successo deve attribuirsi all’estrema chiarezza del programma, all’identificazione delle fattispecie coperte, ai periodi di imposta interessati, al funzionamento delle premialità, limitando, in questo modo, i margini di incertezza nell’irrogazione delle sanzioni e di ulteriori attività accertative da parte degli Uffici del Finanzamt. Ciò perché il buon esito della procedura non deve (e non può) dipendere solamente dall’incidenza dei costi per il contribuente, ma anche dalla convinzione, per quest’ultimo, di essere di fronte ad un’opportunità imperdibile. 640 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 zione agevolata degli illeciti tributari, al pari di quanto è avvenuto con l’ultimo scudo fiscale e con le versioni che lo hanno preceduto. Giova solo ricordare che la prima edizione dello scudo è avvenuta ad opera del D.L. 25 settembre 2001, n. 350 (conv., con modificazioni, dalla L. 23 novembre 2001, n. 409), i cui articoli da 11 a 20 hanno appunto inserito, in vista dell’introduzione dell’euro, uno strumento volto ad incentivare il rientro di capitali in Italia, attraverso la regolarizzazione o il rimpatrio, da parte di residenti fiscalmente in Italia, di attività esportate o detenute all’estero, in violazione dei vincoli valutari e degli obblighi tributari di cui al D.L. n. 167/1990, nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili in Italia. Il secondo scudo, attuato con la legge finanziaria 2003, ha disposto, all’art. 20, la riapertura dei termini per l’effettuazione delle operazioni di emersione delle attività finanziarie detenute all’estero, apportando solo alcune modifiche alla precedente versione, ma lasciandone pressoché inalterate le principali caratteristiche. Infine, il D.L. n. 78/2009 (c.d. decreto anticrisi), pur con alcune novità rispetto ai precedenti scudi, ha nuovamente concesso ai contribuenti la possibilità di sanare la propria posizione con il Fisco in relazione ai beni offshore non precedentemente rimpatriati o regolarizzati. Ora (ritornando ai rapporti fra scudo e disclosure), se si muove dalla concezione per cui il comune denominatore, per ricondurre un istituto nella categoria degli strumenti di definizione agevolata, è di consentire una riduzione (almeno) delle sanzioni altrimenti irrogabili in relazione all’illecito definito in modo agevolato e di riguardare illeciti riferibili alla disciplina del monitoraggio fiscale (vale a dire attività costituite o detenute offshore che prevedono obblighi dichiarativi in Italia), anche lo schema dell’attuale disclosure potrebbe, prima facie, indurre a considerarla uno “scudo fiscale”. Osservandoli in modo più ravvicinato, scudo fiscale 11 e disclosure potrebbero sì sembrare species dello stesso genus – istituti di definizione agevolata 11 Una delle ragioni che ha indotto il Governo ad attuare questa strategia di attrazione in Italia dei capitali, illegalmente detenuti o “trasportati” all’estero, può, in qualche misura, imputarsi all’unificazione monetaria, che sarebbe intervenuta di lì a pochi giorni, e al mutato perimetro di confine, dove, cioè, l’“estero” non sarebbe stato più costituito da tutti gli altri Stati, diversi da quello da cui si esporta, ma solo da alcune “isole felici”, specificamente individuate, e sempre più orientate a scambi di informazioni. In questo scenario era, quindi, opportuno, e forse necessario, mettere a punto una normativa – quale quella adottata – che, da un lato, fosse capace di contenere fenomeni di migrazione dei capitali fuori dall’Italia e, dall’altro lato, fungesse da stimolo, attraverso la previsione di precisi incentivi, al rientro di quelli già “fuori”. Era, quindi, ovvio, che la platea dei soggetti, con capitali “illegali”, si stava progressivamente assottigliando, sì che sarebbe stato più difficile nascondersi. Paola Marongiu 641 con la quale il contribuente giunge ad un “accordo” con il Fisco – ma, invero, presentano un’impostazione di fondo e una ratio sottostante che precludono una totale e piena sovrapposizione, sebbene presentino alcuni tratti comuni. In relazione a tale ultimo aspetto, evidenti sono le omogeneità con riguardo all’ambito soggettivo e a quello oggettivo di applicazione, ascrivibili al fatto che entrambi gli istituti – voluntary disclosure e scudo fiscale – costituiscono lo strumento, predisposto dal legislatore, per porre rimedio e sanare eventuali violazioni alla normativa in tema di monitoraggio. E così, quanto all’ambito soggettivo, esso, giusto il disposto dell’art. 11 del D.L. n. 350/2001 12, 13 bis, comma 1, lett. a) e b) del D.L. n. 78/2009 13, riguarda(va) le persone fisiche 14, gli enti non commerciali, le società semplici 15, ivi comprese le associazioni equiparate ai sensi dell’art. 5 TUIR, residenti in Italia 16. E, cioè, gli stessi soggetti che possono beneficiare della disclosure. Quanto all’ambito oggettivo, la sanatoria si applica(va) ai redditi derivanti da attività costituite e/o detenute all’estero 17, anche se intestate a società fi12 In dottrina, si segnala SALVINI, Lo scudo fiscale, in Il Fisco, n. 42, 2001, p. 13577, che svolge una articolata analisi del nuovo istituto circa il suo ambito oggettivo e i limiti della sua opponibilità «solo ad accertamenti che abbiano ad oggetto imponibili che astrattamente abbiano potuto originare disponibilità all’estero: tipicamente, accertamenti di ricavi o compensi non dichiarati». 13 La norma, conv., con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, è stata oggetto di vari emendamenti, che, attraverso il D.L. 3 agosto 2009, n. 103, conv., con modificazioni, dalla L. 3 ottobre 2009, n. 141, ne hanno modificato il contenuto. 14 Ivi comprese, giusta la precisazione della Circolare 4 dicembre 2011, n. 99/E, quelle titolari di reddito di impresa e di lavoro autonomo. 15 La possibilità di accordare il beneficio dello scudo anche alle società di capitali è stata oggetto di discussione in sede di conversione, ma si è poi optato per la soluzione negativa. Si sosteneva, infatti, a favore dell’ampliamento, che l’esclusione avrebbe potuto compromettere l’utilizzo dell’emersione da parte dei soci di società di capitali a ristretta base azionaria, potendo l’Amministrazione finanziaria muovere dalle dichiarazioni di uno dei soci per svolgere indagini nei confronti del soggetto societario, non coperto dallo scudo. 16 In occasione della terza edizione dello scudo, l’Amministrazione finanziaria è intervenuta e ha circoscritto, nella Circolare 10 ottobre 2009, n. 43, l’ambito soggettivo di applicazione della sanatoria escludendone i contribuenti fiscalmente residenti in Italia in base ad Accordi internazionali ratificati dall’Italia e che prestano attività lavorativa all’estero presso organismi comunitari, in quanto non destinatari della normativa in materia di monitoraggio. Analoga esclusione viene evidenziata per i residenti nel Comune di Campione d’Italia in relazione alle disponibilità detenute presso Istituti elvetici, sempreché si riferiscano ad attività lavorative, trattamenti pensionistici o altre forme di lavoro prestate in territorio svizzero. 17 La Circolare 1° ottobre 2001, n. 85/E, in considerazione della finalità del provvedimento – di consentire, cioè, l’emersione di attività comunque riferibili al contribuente – ha 642 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 duciarie o possedute dal contribuente per interposta persona, detenute in violazione della disciplina sul monitoraggio, al pari di quanto prevede l’attuale struttura della adesione volontaria. Infine, si riscontrano alcune omogeneità in relazione agli aspetti premiali. Lo scudo, nella sua prima edizione, e, precipuamente, il rimpatrio, escludeva l’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie ed escludeva, altresì, la punibilità per i reati di infedele ed omessa presentazione della dichiarazione, di cui agli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000, salvo che il procedimento penale non fosse già stato avviato, mentre non potevano usufruire del beneficio i reati più gravi e, cioè, sostanzialmente quelli di dichiarazione fraudolenta, nella duplice modalità ex artt. 2 e 3 del medesimo decreto. Non dissimile appare, sotto questo profilo, l’impianto della disclosure. Diverso si prospetta, invece, l’iter con cui il legislatore ha previsto la riemersione dei capitali dall’estero nello scudo (nella duplice forma del rimpatrio o della regolarizzazione 18) di cui bisogna fare menzione, come precisato nella Circolare 11 agosto 2015, n. 30/E, nella relazione di accompagnamento alla richiesta di accesso alla procedura di collaborazione volontaria, e nella disclosure. Là, con una procedura alquanto semplificata e dotata della più ampia riservatezza 19, non potendo, infatti, il Fisco conoscere i titolari degli assets esteprecisato che deve trattarsi di interposizione fittizia e non reale, dovendola, infatti, escludere ogniqualvolta sussista un valido atto negoziale idoneo a trasferire situazioni da un soggetto ad un altro. 18 Il contribuente poteva, infatti, liberamente scegliere fra i due strumenti finalizzati all’emersione dei capitali dall’estero, avendo la stessa Amministrazione finanziaria precisato, nella Circolare n. 85/E, in occasione del primo scudo, che il provvedimento normativo lascia(va) ampia discrezionalità. Era, quindi, consentito, ad esempio, avvalersi del rimpatrio per il capitale e della regolarizzazione per le attività finanziarie ovvero fare rientrare solo una parte del capitale e regolarizzare quella rimanente. 19 Assume una posizione critica sulla scelta operata dal legislatore GIOVANNINI, Scudo fiscale e anonimato, in Rass. trib., n. 1, 2002, p. 253, in considerazione del fatto che, pur riconoscendone l’appeal, «è probabile che l’esigenza sottesa alla segretezza, da un lato, ostacoli un efficace contrasto alla reiterazione di violazioni di natura tributaria e, da un altro, finisca in qualche modo per agevolare il fenomeno del riciclaggio di denaro di provenienza illecita». Riservatezza che – prosegue l’Autore nella sua acuta e puntuale ricostruzione – «ostacola ricognizioni tese a verificare, per gli anni di imposta successivi a quelli coperti dal condono, la reale fonte della ricchezza e la persistenza dell’evasione, ma comporta anche un impiego di energie istruttorie che si potrebbe rivelare del tutto inutile», con la conseguenza di vanificare l’accertamento, «atteso che tale dichiarazione sembrerebbe suscettibile di coprire, fino a concorrenza dell’imponibile ivi esposto, quello eventualmente accertato secondo le regole ordinarie». Paola Marongiu 643 ri, il contribuente residente doveva presentare ad una banca o ad un altro intermediario, incaricato di trasmetterla all’Agenzia delle Entrate, una dichiarazione, anonima e segretata 20, nella quale si sarebbe indicato l’ammontare, senza alcuna descrizione analitica, del denaro o delle altre attività finanziarie di cui si intendeva procedere al rimpatrio ovvero alla regolarizzazione 21. Di segno opposto è, invece, l’attuale struttura nella disclosure, nella quale cade l’anonimato e subentra la totale trasparenza nei confronti del Fisco, in quanto, non essendo riuscita l’Amministrazione finanziaria ad identificare autonomamente il contribuente, quest’ultimo si autosegnala come titolare di somme o di altri beni di sconosciuta provenienza, affinché il “braccio operativo fiscale” dello Stato lo possa inserire nei suoi database. Non solo. La trasparenza imposta al contribuente produce altresì l’effetto di obbligarlo a indicare il nominativo delle persone che sono cointeressate o comunque coinvolte nelle operazioni estere, per le quali viene meno la certezza di non essere indagate dall’Amministrazione finanziaria. Un onere che rischia, tuttavia, di assumere i connotati di una denuncia nei confronti di coloro che, pur avendone la possibilità e pur essendo i destinatari, almeno formalmente e giuridicamente, della normativa, hanno deciso di non aderirvi e che, sicuramente, incide sull’appetibilità della disclosure, in ragione del fatto, inoltre, che non è prevista, rispetto allo scudo, la non utilizzabilità degli elementi emersi in sede di adesione volontaria, a sfavore dei soggetti riconducibili al contribuente autodenunciante. 20 Il vincolo della riservatezza viene, tuttavia, meno, se, nel corso dei procedimenti e dei processi penali, l’Autorità giudiziaria debba esaminare atti e documenti presso banche, seppur limitatamente, ai sensi del comma 6 dell’art. 14 del D.L. n. 350, alla necessaria acquisizione delle fonti di prova e della prova, in quanto – si legge in un interessante commento allo scudo in TOSI, Lo scudo fiscale: efficacia ai fini dell’accertamento amministrativo e penale, in Il Fisco, n. 44, 2001 p. 13931 – essendo «difficile immaginare che, qualora ad un intermediario fosse richiesto, nonostante la precisazione dell’art. 14, di fornire copia delle dichiarazioni riservate, egli assuma un atteggiamento renitente, anche alla luce del rischio di subire la perquisizione di cui al citato art. 248, comma 2, del codice procedura penale». 21 In verità, l’art. 14, comma 2, del decreto che ha introdotto il primo scudo, garantisce il completo anonimato ai soggetti che effettuano il rimpatrio, mentre non altrettante garanzie erano state accordate nel caso di regolarizzazione. In questa veniva, infatti, meno la riservatezza assoluta, dovendo gli intermediari comunicare all’Agenzia delle Entrate i soggetti procedenti (segnalazioni nominative). Chiara è, però, la ratio di una simile differenziazione: se le attività, che continuano a permanere all’estero, fossero state segretate, esse si sarebbero nuovamente sottratte ad ogni forma di controllo e di presidio, vanificando, perciò, lo spirito della normativa. 644 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 In secondo luogo, là era il contribuente a comunicare agli intermediari i redditi conseguiti all’estero e questi applicavano le ritenute alla fonte e le imposte sostitutive che avrebbero dovuto essere già corrisposte al momento della percezione (se i redditi fossero stati regolarmente denunciati), mentre nella procedura di disclosure il contribuente si limita a comunicare all’Amministrazione finanziaria il possesso di redditi esteri e, in generale, di attività localizzate all’estero e il Fisco procede alla determinazione delle imposte e all’irrogazione delle relative sanzioni. Ebbene, dalle considerazioni che precedono, appare chiaro che un’eventuale sovrapposizione fra scudo e voluntary risulterebbe un’operazione non facile, che incontrerebbe nello stesso dettato normativo un forte ostacolo, preclusa, inoltre, da una politica fiscale che sempre più deve confrontarsi a livello mondiale e che sempre più deve porre in atto strumenti capaci di constatare, in modo incisivo e penetrante, i fenomeni di evasione, anche internazionale, garantendo così un maggiore equilibrio nella diffusione della ricchezza tassabile. 3. Profili soggettivi della voluntary disclosure Iniziando l’analisi dai soggetti ammessi alla dichiarazione volontaria, l’art. 5 quater li individua, denominandoli «autore della violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1», sì che, atteso l’esplicito rinvio, occorre ripercorrere il testo normativo testé citato, onde chiarire l’ambito soggettivo di applicazione. E così, si rinvengono «le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici ed equiparate di cui all’art. 5 TUIR, residenti in Italia, che nel periodo di imposta, detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia». Requisito indispensabile è, pertanto, la residenza nel territorio dello Stato dei soggetti ivi indicati, dovendo fare riferimento alla relativa nozione, che, con riguardo alle persone fisiche, è contenuta nell’art. 2, comma 2, TUIR. E cioè «le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile». A ciò si aggiunga che, siccome previsto dal comma 2 bis del medesimo art. 2, si considerano «residenti, salvo prova contraria del contribuente, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Paola Marongiu 645 Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze» (c.d. Paesi “black list”) 22. Ne consegue che anche tali ultimi soggetti, in quanto destinatari della normativa sul monitoraggio 23, sono sottoposti al rispetto delle norme in materia di voluntary disclosure 24, salvo appunto dimostrare, con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, l’effettivo e concreto trasferimento di residenza e, quindi, l’impossibilità, in capo all’Amministrazione finanziaria, di esercitare alcun potere impositivo, se non per i redditi prodotti in Italia. Inoltre, in relazione alle persone fisiche, la norma in tema di monitoraggio sancisce, nel caso di attività finanziarie o patrimoniali in comunione ovvero in cointestazione, l’obbligo dichiarativo anche a carico di ciascun soggetto intestatario, indicandone la percentuale di possesso 25. Maggiori difficoltà interpretative, con riguardo all’individuazione dei soggetti tenuti agli obblighi di monitoraggio, si pongono, invece, nell’ipotesi in cui il titolare di conti e depositi esteri abbia rilasciato la procura o la delega a favore di soggetti, persone fisiche, residenti in Italia. A tal riguardo l’Agenzia delle Entrate ha più volte precisato che «per effetto di consolidati orientamenti giurisprudenziali, sono tenuti agli obblighi di monitoraggio non solo i titolari degli assets esteri, ma anche coloro che ne hanno la disponibilità o la possibilità di movimentazione» 26, con l’effetto di ampliare, forse in modo eccessivo e non giustificato dalla ratio sul monitoraggio, la sfera dei soggetti gravati da tali adempimenti, ricomprendendovi, pertanto, anche il delegato, se munito di una delega al prelievo e non soltan22 Su una attenta e puntuale ricostruzione, a seguito della Finanziaria 2008, delle ragioni e delle criticità sottese al passaggio da un’elencazione in positivo dei Paesi non virtuosi («Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato») ad una loro individuazione in negativo, si rinvia a MARINI, I nuovi confini dei paradisi fiscali, in Rass. trib., n. 3, 2008, p. 636. 23 Nella stessa direzione si esprime la Circolare 13 settembre 2010, n. 45/E. 24 Anzi, la «presentazione della richiesta di accesso alla procedura di collaborazione volontaria internazionale» – si legge nella Circolare 13 marzo 2015, n. 10/E – «nel confermare la suddetta presunzione, consente di considerare l’istanza quale riaffermazione dello status di residente in Italia per i periodi di imposta interessati dalla procedura». 25 Onere cui fa riferimento anche la Circolare n. 10/E del marzo 2015. 26 Così la stessa Circolare n. 45/E e la Circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E. Da ultimo, inoltre, la Circolare 16 luglio 2015, n. 27/E ha ribadito la propria posizione, confermandola in tal senso. 646 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 to di una mera delega ad operare per conto dell’intestatario (delegante) e a prescindere dal soggetto in favore del quale è avvenuto il prelievo. Una simile interpretazione di prassi ha prestato, tuttavia, il fianco a non poche critiche e lo continuerà a prestare, vista l’equiparazione, contenuta nella Circolare n. 10 del marzo 2015, fra «“attività” (…) “cointestate a più soggetti o nella disponibilità di più soggetti», facendo leva, in questa ultima ipotesi, per ampliare l’ambito soggettivo della procedura, alla mancata specificazione, nel testo normativo, del «titolo giuridico che estrinseca la stessa» 27. Invero, se si muove dalla duplice considerazione che l’obbligo dichiarativo, di cui al citato art. 4, concerne solo le attività produttrici di reddito imponibile in Italia e che, invece, è escluso per quelle i cui redditi sono già tassati, un’esegesi corretta della nozione di “detenzione”, cui il citato art. 4 in tema di monitoraggio fa riferimento, dovrebbe indurre ad una lettura in chiave non civilistica, ma fiscale, nel senso, cioè, di possesso dell’attività estera da cui il soggetto possessore consegue il reddito oggetto di monitoraggio e di conseguente tassazione in Italia. Con la conseguenza che dovrebbero essere, invece, esonerati dal relativo adempimento coloro che, iure et nomine alieno, si limitano a movimentare i suddetti investimenti per conto di altri, non traendo, di fatto, alcun profitto dalle somme. E anche da una lettura dell’art. 1 TUIR si giunge alle medesime conclusioni. In tema di IRPEF, infatti, il criterio di collegamento del presupposto di imposta con il soggetto passivo è «il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6», che, alla luce della dottrina attualmente maggioritaria, non coincide con la nozione civilistica di “detenzione”, ma con la “titolarità della fonte” produttiva di reddito da parte del soggetto passivo sì che obbligare alla dichiarazione (e, quindi, legittimare l’Amministrazione finanziaria alla eventuale irrogazione di sanzioni nel caso di violazione) anche coloro che semplicemente detengono per conto di altri, potrebbe condurre ad una palese violazione dell’art. 53 Cost. Se ciascuno «deve contribuire alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva», l’obbligo di pagare le imposte non può ricadere su un soggetto diverso dall’effettivo titolare e percettore del reddito, in relazione al quale (solo) deve valutarsi la maggiore capacità contributiva. 27 La Circolare riporta l’esempio dei soggetti che abbiano deleghe di firma ad operare su un conto. Paola Marongiu 647 Ma i giudici di legittimità hanno, invece, superato queste obiezioni, facendo leva sulla ratio sottostante al monitoraggio, da rinvenire «nella straordinaria necessità e urgenza di adottare disposizioni di natura fiscale atte a consentire la possibilità di controllo di talune operazioni finanziarie da e verso l’estero» 28 e giungendo a ritenere sussistente l’obbligo dichiarativo anche per «colui che, all’estero, abbia la detenzione e/o la disponibilità di fatto di somme di denaro non proprie, con il compito fiduciario di trasferirle all’effettivo beneficiario o di utilizzarle per conto dell’effettivo titolare» 29. E tale attività di controllo è efficacemente esperibile dando alla nozione di “detenzione” – queste le parole con cui i giudici di Cassazione si sono espressi – «un significato onnicomprensivo perché anche la detenzione nell’interesse altrui (iure et nomine alieno) costituisce idoneo strumento (voluto pure dal detentore nell’interesse altrui) di occultamento (e, quindi, di sottrazione al “controllo”) degli “investimenti” e delle attività finanziarie indicati nella norma». È, infatti, sufficiente – si continua a leggere nella sentenza di legittimità – «aver trasmesso istruzioni e volontà dell’effettivo titolare perché tale attività integra comunque una opera di vera e propria movimentazione degli investimenti e/o delle attività finanziarie rilevanti ai fini della norma» 30. Tuttavia, se si guarda alla disclosure e, in particolare, al fatto che l’adesione, piena e volontaria, deve (e può) provenire solo dal soggetto che dispone delle attività all’estero e che eventuali violazioni della normativa sul monitoraggio possono imputarsi solo a quest’ultimo, a maggiore ragione trova con28 Con questa motivazione i giudici di Cassazione hanno rigettato, nella sent. 11 giugno 2003, n. 9320, il ricorso di un contribuente che lamentava la violazione dell’art. 4, commi 1 e 2, del D.L. n. 167/1990, in quanto la CTR di Milano lo aveva ritenuto obbligato alla dichiarazione dell’ammontare dell’investimento estero nonché delle movimentazioni che nell’anno in contestazione – correva il 1990 – ebbero ad interessare l’investimento stesso. 29 In questi termini si esprime la Suprema Corte di Cassazione nella sent. n. 10332/2007, in Corr. trib., 2007, p. 3432 ss., con nota di FICARI, «Disponibilità» e «titolarità» di fondi esteri fra detenzione e possesso ai fini del monitoraggio fiscale, il quale critica le conclusioni cui sono pervenuti i Supremi Giudici in ragione del fatto che l’obbligo dichiarativo può gravare solo sul possessore, inteso come «il soggetto che ha il potere di disporre, con un proprio atto della volontà, contemporaneamente della fonte e del reddito» e conclude affermando che «il riferimento al termine “detenzione” di cui all’art. 4 deve essere ritenuto atecnico e non espressivo del significato che ne viene dato nel diritto civile quale situazione di fatto caratterizzata dall’assenza dell’animus rem sibi habendi». 30 Nella sent. 21 luglio 2010, n. 17051 i giudici di Cassazione hanno rigettato il ricorso di un contribuente al quale l’Amministrazione finanziaria aveva contestato la violazione agli obblighi in tema di monitoraggio in quanto soggetto che, sebbene non effettivo proprietario o beneficiario delle somme, era, comunque, il fiduciario di terzi. 648 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 forto l’interpretazione della nozione di “detenzione” nell’accezione fiscale, essendo solo il possessore effettivo del reddito colui che lo ha precedentemente sottratto ad imposizione in Italia e che ora decide di “scoprirsi”, non avendo, al contrario, il mero detentore alcun potere decisionale al riguardo. Proseguendo l’analisi, ai fini della disclosure, dei destinatari della relativa normativa, per i soggetti diversi dalle persone fisiche e, precipuamente, per «gli enti non commerciali e le società semplici ed equiparate» – così esordisce l’art. 4, comma 1, del decreto in materia di monitoraggio – essi si considerano residenti in Italia se, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. d), TUIR, «per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato» e, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del medesimo T.U. (con una equiparazione, quanto all’aspetto probatorio, ai soggetti persone fisiche, di cui all’art. 2, comma 2 bis, TUIR), si considerano altresì residenti in Italia «i trust e gli altri istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli inclusi nella c.d. white list, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato». Ma se per tale categoria di soggetti non si rinvengono particolari difficoltà applicative e interpretative, date la giurisprudenza e la prassi copiose che ne definiscono l’operatività, non può trascurarsi la seconda parte di cui è composto l’art. 5 quater, il quale impone a coloro che intendono accedere alla procedura di voluntary disclosure, di «indicare spontaneamente tutti gli investimenti e tutte le attività di natura finanziaria costituiti o detenuti all’estero, anche indirettamente o per interposta persona». Di identico contenuto, quanto ai profili soggettivi, è l’art. 4, comma 1, del decreto n. 167/1990 (che, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 5 quater, assume rilevanza anche ai fini della procedura in esame), il quale, nel specificare i soggetti obbligati alla compilazione del quadro RW, menziona «i soggetti che pur non essendo possessori diretti degli investimenti esteri e delle attività estere di natura finanziaria, siano i titolari effettivi dell’investimento, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lett. u), e dall’allegato tecnico del decreto legislativo 27 novembre 2007, n. 231» (il decreto antiriciclaggio) 31. 31 L’obbligo, imposto ai titolari effettivi, di redigere il modello RW, ha, quale fondamento normativo, la nuova legge europea del 2013. Si è così cercato di ovviare all’improprio utilizzo di prestanomi, non residenti nel territorio dello Stato, attraverso i quali, in quanto esclusi da tale obbligo, prima dell’intervento normativo, erano aggirate le disposi- Paola Marongiu 649 Due espressioni differenti – «indirettamente o per interposta persona per la voluntary disclosure e “titolare effettivo”» per il monitoraggio – ma la cui ratio sembra la medesima: far emergere attività riconducibili non solo al soggetto direttamente intestatario ma anche a coloro che, per suo conto, ne detengono o ne amministrano il patrimonio, ponendo fine – almeno questo l’intendimento legislativo – a quelle politiche di intestazione fittizia di società o di altri beni all’estero. Ciò significa, pertanto, che l’obbligo dichiarativo si estende e riguarda le ipotesi in cui le attività estere, pur essendo intestate a società, di ogni tipo, o a entità giuridiche diverse dalle società, quali fondazioni o trust, sono, invece, riconducibili a persone fisiche, ad enti non commerciali ovvero a società semplici ed equiparate, nella loro veste di titolari effettivi delle attività stesse. Innanzitutto, quanto alla definizione di “titolare effettivo”, essa, pur riferita alla disciplina sul monitoraggio, può, senza sostanziali travolgimenti e in considerazione, ad ogni modo, della espressa menzione, pur con una formulazione differente (“indirettamente o per interposta persona”), considerarsi applicabile anche ai fini della autodichiarazione spontanea. Mutuata dal decreto in tema di antiriciclaggio, l’espressione “titolare effettivo” annovera, se si tratta di società, la persona fisica che possiede, o controlla un’entità giuridica, attraverso il possesso o il controllo, diretto o indiretto, di una partecipazione sufficiente, delle partecipazioni al capitale sociale o dei diritti di voto, ritenendosi tale criterio integrato laddove la partecipazione corrisponda al 25% più uno di partecipazione al capitale sociale e, inoltre, la persona fisica che esercita, in altro modo, il controllo sulla direzione di una entità giuridica. Se, invece, si tratta di entità giuridica, diversa dalla società, quali le fondazioni e altri istituti giuridici, come il trust, il titolare effettivo coincide, in linea generale, con la persona fisica beneficiaria del 25% o più del patrimonio di un’entità giuridica. Lo status, pertanto, di “titolare effettivo”, più ampio rispetto a quello contenuto nel decreto in materia di antiriciclaggio, è riferibile non solo alle persone fisiche, ma anche agli altri soggetti tenuti agli obblighi in tema di monitoraggio (e, quindi, anche ai fini della procedura de qua per effetto del rinvio operato), vale a dire agli enti non commerciali e alle società semplici ed equiparate, purché residenti in Italia. zioni dichiarative e si provvedeva al trasferimento di attività finanziarie al di fuori del territorio nazionale. 650 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 La precisazione corre d’obbligo, posto che la normativa antiriciclaggio (cui l’art. 4, comma 1, del D.L. n. 167/1990 rinvia e alla quale ultima norma rinvia l’art. 5) menziona solo espressamente le persone fisiche, mentre la Circolare ministeriale 32, emanata a stretto giro temporale dall’adozione della legge europea del 2013 33, che ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina del monitoraggio fiscale domestico 34, chiarendone le modalità di attuazione, ha ampliato l’ambito soggettivo, estendendolo altresì «agli altri soggetti tenuti agli obblighi di monitoraggio in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi». In relazione ai beni, di cui il titolare effettivo può essere il destinatario finale in quanto soggetto che ha l’effettiva disponibilità di attività finanziarie e patrimoniali, ancorché formalmente intestate ad altri soggetti, è ad essi riconducibile il possesso di partecipazioni o interessenze in società o altre entità e istituti giuridici non fittiziamente interposti, sì che la dichiarazione, ai fini dell’emersione di assets esteri, deve essere resa dal socio o dal beneficiario. Tuttavia, quanto alle partecipazioni in società, è da operare un distinguo. Solo, infatti, con riferimento alle partecipazioni in società di diritto estero ricorre, in capo al titolare effettivo, l’obbligo dichiarativo, mentre un simile adempimento non si impone nel caso di partecipazioni in società residenti che effettuano investimenti all’estero. Ed evidente è anche la ragione di una 32 Si tratta della Circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E, intitolata “Le nuove disposizioni in materia di monitoraggio fiscale. Adempimenti dei contribuenti. Ritenuta sui redditi degli investimenti esteri e attività estere di natura finanziaria”, alla quale la Circolare sulla collaborazione volontaria rinvia integralmente. Di identico contenuto, ma in forma più succinta, il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 18 dicembre 2013. 33 La legge del 6 agosto 2013, n. 97, intitolata “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’Italia all’appartenenza all’Unione Europea”, risponde alla necessità di adempiere ad obblighi comunitari per i quali la Commissione europea, nel quadro del sistema EU Pilot, ha dato avvio nei confronti dello Stato italiano a casi di pre-infrazioni, nonché a procedure di infrazione. Tutte le disposizioni contenute nella predetta legge mirano ad evitare la condanna dello Stato italiano al pagamento di sanzioni pecuniarie in favore dell’Unione Europea e a prevenire aggravi finanziari a carico delle casse dello Stato. 34 Fra le principali novità, vi è, senza dubbio, da segnalare il potenziamento del ruolo di sostituto di imposta degli intermediari finanziari che intervengono nella riscossione di flussi finanziari costituiti da redditi di capitale e redditi diversi derivanti da investimenti detenuti all’estero o da attività estera di natura finanziaria. Inoltre, l’introduzione di una nuova ritenuta d’ingresso a titolo di acconto sui redditi di fonte estera, che concorrono a formare il reddito complessivo e l’ampliamento dell’obbligo, posto a carico degli intermediari, di comunicare all’Agenzia delle Entrate non solo le movimentazioni da e verso l’estero effettuate da parte di soggetti residenti ma anche quelle compiute dai non residenti. Per ulteriori approfondimenti, si rinvia alle Circolari 19 giugno 2014, n. 19/E e del 10 luglio 2014, n. 21/E. Paola Marongiu 651 simile differenziazione: nell’ultima fattispecie, infatti, trattandosi di un soggetto residente, l’Amministrazione finanziaria, pur nel rispetto dei principi generali e delle norme all’uopo preposte, può svolgere le opportune forme di controllo per accertare, ed eventualmente contestare, i redditi conseguiti dai soci, attività che, invece, le è preclusa nei confronti di soggetti non residenti. Ulteriore profilo che, nell’ambito della autodichiarazione, deve tenersi a mente è la localizzazione della società nella quale il titolare effettivo detiene la partecipazione, aprendosi un “varco”, rispettivamente, fra Paesi o territori che consentono, o meno, un adeguato scambio di informazioni (e, cioè, rispettivamente, i c.d. Paesi collaborativi e non collaborativi). Se con riguardo ai primi non sorgono interessanti problemi ai fini della procedura in esame, in quanto Paesi che sono inseriti nella c.d. white list ovvero Paesi che, sebbene ivi non compresi, consentono all’Amministrazione finanziaria italiana adeguati controlli ricorrendo allo strumento dello scambio di informazioni tramite una convenzione per evitare la doppia imposizione sul reddito, uno specifico accordo internazionale ovvero sono Paesi nei cui confronti operano le disposizioni comunitarie in materia di assistenza amministrativa, al pari non succede nel caso di Paesi non collaborativi. In questo caso, infatti, occorre comunicare, se il contribuente detiene una partecipazione superiore al 25% in una società localizzata in uno di questi ultimi Paesi, in luogo del valore della partecipazione, «le attività patrimoniali e finanziarie detenute all’estero dalla società» 35, dando attuazione al c.d. approccio look trough, nonché la percentuale di partecipazione posseduta nella società stessa, dovendosi indicare il valore dei beni di tutti i soggetti controllati situati in Paesi non collaborativi e di cui il contribuente risulta il titolare effettivo, fino a quando – si legge nella Circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E – «nella catena partecipativa sia presente una società localizzata nei suddetti Paesi e sempreché risulti integrato il controllo secondo la normativa antiriciclaggio». In via definitiva, sembra chiaro che assume centrale rilevanza e preferenza il dato sostanziale e concreto rispetto a quello meramente formale e nominativo, nel senso, cioè, che diventa quasi irrilevante, ai fini dell’obbligo della autodichiarazione, l’esistenza di schermi protettivi che, fino ad ora, avevano certamente costituito una barriera importante e uno strumento largamente utilizzato per la sottrazione di materia imponibile in Italia. 35 Queste sono le indicazioni che l’Amministrazione finanziaria fornisce, nella Circolare 14 maggio 2014, n. 10, in merito alla compilazione del quadro RW. 652 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 E una simile scelta si pone sì in aderenza alla ratio della normativa in materia di voluntary disclosure e, cioè, l’emersione di assets esteri mai precedentemente dichiarati, in una prospettiva, oramai internazionale, di contrasto all’evasione fiscale, ma la cui attuazione è, tuttavia, affidata – se una critica può sollevarsi – a meccanismi e procedure che pongono a carico del contribuente oneri di dichiarazione, che assume, quasi, la natura di confessione, piuttosto che stimolare l’Amministrazione finanziaria ad eseguire controlli più mirati e più efficaci nella realizzazione di un simile obiettivo. Sono, al contrario, esclusi dall’obbligo del monitoraggio e, quindi, della dichiarazione volontaria, gli enti commerciali, le società, siano esse società di persone ovvero di capitali, ad eccezione delle società semplici, gli enti pubblici e gli altri soggetti indicati nell’art. 74, comma 1, T.U. Sul versante delle persone fisiche, sono esonerati dall’obbligo i contribuenti, la cui residenza fiscale in Italia è determinata ex lege ovvero in base ad accordi internazionali ratificati in Italia e che prestano attività continuativa all’estero fintantoché non rientrino in Italia e conservino le disponibilità all’estero. Non sono, invece, ammessi – per espressa previsione normativa – a beneficiare della voluntary disclosure coloro che «hanno avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, per violazione di norme tributarie, relativi alle attività di cui al comma 1 del presente articolo» (così l’art. 5 quater, comma 2) 36. La ratio di una simile previsione può rinvenirsi nell’opportunità di non riconoscere effetti premiali 37 a chi sia già stato identificato ovvero sottoposto ad accertamento per violazione degli obblighi in tema di monitoraggio da parte dell’Amministrazione finanziaria, onde evitare, da un lato, di porre nel nulla l’attività ispettiva e di controllo fino a quel momento esercitata e, dall’altro lato, di trattare alla stessa stregua, quanto ai benefici e agli sconti sulle 36 Una formulazione che ricalca quella del ravvedimento operoso ex art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 e che potrebbe lasciare intravvedere una qualche equiparazione o assimilazione, almeno sotto il profilo delle sanzioni ridotte, ma non certo per la ratio che sottende i due diversi istituti. 37 Da un’attenta lettura della norma si evince, però, che lo sbarramento opera nei confronti delle attività riferite agli investimenti esteri da regolarizzare, sì che esso non riguarderà chi, ad esempio, ha subito un controllo formale sulla liquidazione delle imposte né chi è stato destinatario di attività che, in generale, esulano «dall’ambito oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria indicato al comma 1 del presente articolo» (così, testualmente l’art. 5 quater, comma 2). Paola Marongiu 653 sanzioni, soggetti che spontaneamente si autodenunciano e soggetti, invece, che attendono di essere scoperti, dovendo, quindi, leggere questa misura quale strumento per incrementare l’appeal alla collaborazione volontaria. Al pari opera tale preclusione qualora la “formale conoscenza” sull’inizio delle operazioni di indagine sia stata «acquisita da soggetti solidalmente obbligati in via tributaria o da soggetti concorrenti nel reato», sebbene tale circostanza può rivelarsi, agli effetti pratici, eccessivamente ostativa nei confronti del contribuente che intende presentare l’istanza di voluntary disclosure ma che potrebbe non essere a conoscenza dell’esistenza delle cause impeditive per mancata comunicazione da parte del soggetto che ne ha ricevuto notizia. A tal riguardo, l’Amministrazione finanziaria ha precisato, nella Circolare 16 luglio 2015, n. 27/E, che la norma, attesa la sua incerta interpretazione, con riguardo a tale ultima previsione, «introduce una presunzione di conoscenza che non deve essere considerata in senso assoluto». 4. Gli oneri posti a carico del contribuente L’impalcatura della voluntary disclosure, come strutturata dal legislatore, prevede, in primo piano, e senza ombra di dubbio, un’iniziativa da parte del contribuente, ma, non meno, l’adempimento di alcuni oneri in capo all’Amministrazione finanziaria. Iniziando l’analisi sotto il primo profilo, l’art. 5 quater, comma 1, lett. a) impone di «indicare spontaneamente all’Amministrazione finanziaria tutti gli investimenti e tutte le attività di natura finanziaria» di fonte estera. Innanzitutto, quanto all’oggetto della dichiarazione, la formulazione ha un perimetro molto ampio, che coincide con tutti i beni e le attività che devono dichiararsi nel modello RW, fra cui i conti correnti e i depositi esteri, la partecipazione al capitale o al patrimonio di soggetti non residenti, i titoli non rappresentativi di merci, i titoli pubblici esteri e italiani emessi all’estero, le polizze di assicurazione sulla vita contratte all’estero, i metalli preziosi detenuti all’estero, le forme di previdenza gestite da soggetti esteri, le altre attività estere di natura finanziaria, i beni immobili, i beni mobili registrati, quali barche e autovetture, le opere d’arte e gli altri beni patrimoniali in genere. È da precisare che tali beni possono rimanere allocati all’estero, non essendone richiesto il rimpatrio, fermo rimanendo l’obbligo, in capo al titolare residente, di indicarli nelle periodiche e successive dichiarazioni dei redditi e di corrisponderne le relative imposte, se produttivi di un’entrata. 654 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Inoltre, il contribuente, che decide di aderire alla voluntary disclosure, deve fornire al Fisco tutta la documentazione necessaria e, in generale, le informazioni utili ed estremamente dettagliate, necessarie alla ricostruzione dei redditi, non oggetto di tassazione in origine in Italia e utilizzati per la formazione degli assets esteri. Onere che, tuttavia, potrebbe risultare alquanto difficile, se non in alcuni casi quasi impossibile adempiere (dovendo il contribuente reperire presso gli intermediari esteri la documentazione di supporto), con il rischio di pregiudicare l’esito positivo della procedura, e che forse travalica anche le stesse richieste informative che la norma sul monitoraggio fiscale impone ai contribuenti che, regolarmente, compilano il quadro RW della dichiarazione dei redditi. E ciò potrebbe compromettere l’appetibilità della procedura se il contribuente, che ha effettuato investimenti in Paesi c.d. black list (e di cui dovrebbe fornire la relativa documentazione) non superasse la presunzione relativa di cui all’art. 12 del decreto in materia di monitoraggio, che equipara l’esistenza di disponibilità finanziarie in Paesi a fiscalità privilegiata a redditi non dichiarati e, quindi, non assoggettati a tassazione. Per altro, il dato normativo è chiaro in tal senso, non lasciando ombre sul fatto che il riconoscimento deve essere pieno e consapevole della violazione degli obblighi dichiarativi ai fini della normativa sul monitoraggio fiscale conseguente all’omessa indicazione, nella dichiarazione dei redditi, degli investimenti all’estero e delle attività finanziarie non detenute nel territorio dello Stato suscettibili di produrre reddito tassabile in Italia e delle violazioni di omessa e infedele dichiarazione nel caso di imponibili riferibili alle attività costituite o possedute all’estero. D’altro lato, però, volendo mitigare gli inconvenienti che da una simile previsione si ripercuotono sul contribuente, l’Amministrazione finanziaria, nel pretendere il rispetto di tale onere, non dovrebbe obliterare l’art. 6 dello Statuto del contribuente, secondo cui al contribuente non possono essere «richiesti documenti e informazioni che possono essere già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre Amministrazioni pubbliche». Si potrebbe obiettare che, trattandosi di una autodenuncia, l’Amministrazione finanziaria, in verità, non conosce, in relazione ai beni esteri, la posizione fiscale del contribuente e le sarebbe, quindi, arduo reperirne i relativi documenti, in considerazione del fatto che – questa la ratio – il contribuente, che ha occultato quella parte di redditi, di fonte estera, li deve “confessare”. Ma il principio scolpito nello Statuto non infrange e non esonera il contribuente dall’autodichiararsi e dal far emergere tutti quei redditi, mai pre- Paola Marongiu 655 cedentemente soggetti ad imposizione in Italia, sì che lo spirito della voluntary disclosure è, almeno sotto questo profilo, salvato. Esso impone all’Amministrazione finanziaria, in una prospettiva di collaborazione nella gestione del rapporto tributario, di procurarsi aliunde i documenti in possesso di altre Amministrazioni pubbliche. E così, se il contribuente dichiara, nell’istanza di voluntary disclosure, di possedere determinati beni all’estero, nessuna norma preclude al Fisco italiano di procedere, attraverso gli strumenti di cui è dotato, all’acquisizione dei relativi documenti presso le competenti e corrispondenti Autorità estere. In altre parole, potrebbe configurarsi un’ipotesi di scambio di informazioni al contrario, dove, cioè, l’Amministrazione finanziaria non si attiva per scoprire materia imponibile sottratta a tassazione (a questo provvede l’autodichiarazione del contribuente), ma per rinvenire i documenti che ne attestano, semmai, l’esistenza e la misura. E potrebbe non costituire una barriera invalicabile neppure la collocazione dei beni e delle attività finanziarie o patrimoniali in un Paese a fiscalità privilegiata, in quanto anche questi Governi stanno progressivamente abbandonando quella politica di protezione e di tutela dei contribuenti non fiscalmente in regola nel Paese di residenza e, anzi, proprio per spogliarsi definitivamente di un “vestito” oramai scomodo, stanno adottando misure di segno contrario a quelle fino ad ora applicate. La richiesta di disclosure dovrà riguardare – così specifica l’art. 5 quater, comma 1, lett. a) – tutti i periodi di imposta per i quali, alla data di presentazione dell’istanza, «non siano scaduti i termini per l’accertamento o la contestazione delle violazioni degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1». Quanto al profilo normativo, verranno in rilievo le norme per l’individuazione dei periodi di imposta suscettibili di accertamento e, precipuamente, l’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, l’art. 37 del D.L. n. 223 del luglio 2006, conv., con modificazioni, nella L. n. 248/2006, il quale ha disposto il raddoppio dei termini nel caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 e, infine, l’art. 12, comma 2 bis, del D.L. n. 78/2009 che ha introdotto il raddoppio dei termini per l’accertamento di redditi localizzati in Paesi c.d. black list 38. 38 In sede di definitiva approvazione, è stato escluso, ai fini della delimitazione degli anni accertabili, il raddoppio dei termini, ai sensi dell’art. 12, comma 2 bis e ter, del D.L. n. 78/2009, qualora l’Italia, entro il 2 marzo 2015, stipuli con i Paesi a fiscalità privilegiata, 656 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Appare evidente che, onde garantire una corretta individuazione dell’ambito temporale (peraltro ampio, che rappresenta un forte disincentivo) di riferimento della procedura di disclosure, l’applicazione della disciplina sui termini per l’esercizio del potere accertativo da parte dell’Amministrazione finanziaria in relazione alle imposte sui redditi debba essere letta, in combinato disposto, con l’art. 20 del D.Lgs. n. 472/1997, che individua il termine per la contestazione ovvero l’irrogazione delle sanzioni «nel 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi». Se, forse (almeno questo è l’auspicio), non sorgeranno particolari problemi applicativi nell’ipotesi in cui il contribuente abbia detenuto beni e attività finanziarie in Paesi c.d. collaborativi, dovendosi, in tale ipotesi, fare riferimento alle “ordinarie” norme in tema di accertamento, ferma rimanendo la distinzione fra dichiarazione presentata ed omessa, e irrogazione o contestazione delle sanzioni, non si configurerà il medesimo scenario nel caso in cui il contribuente debba dichiarare, in sede di disclosure, attività localizzate in Paesi c.d. black list, dovendo fare i “conti” con una normativa ad hoc, più favorevole alla parte pubblica. Il riferimento corre all’art. 12, articolato nei suoi commi, del D.L. n. 78/2009 (“Contrasto ai paradisi fiscali”), la c.d. Tremonti ter. Senza alcuna pretesa di esaustività (non essendo, fra l’altro, la sede opportuna), ma al solo fine di offrire un quadro normativo il più completo possibile anche ai fini dell’analisi della voluntary, pare opportuno illustrare le ragioni sottese ad una simile scelta normativa. In un contesto mondiale, nel quale si profilava e si profila necessaria e sempre più avvertita l’esigenza di regolamentare i mercati e i commerci internazionali, il contrasto alla evasione e all’elusione, non solo domestica, ma anche globale, rappresentava e rappresenta senza dubbio un aspetto del quale un’intesa sullo scambio effettivo di informazioni e qualora ricorrano, congiuntamente, le altre condizioni di cui all’art. 5 quinquies, commi, 4, primo periodo, lett. c), e 5. E una simile previsione ha già prodotto i primi risultati: la Svizzera (23 febbraio 2015), il Liechtenstein (26 febbraio 2015) e il Principato di Monaco (2 marzo 2015) hanno sottoscritto l’Accordo, che, prevedendo lo scambio di informazioni su richiesta ai fini fiscali secondo lo standard OCSE, pone fine al segreto bancario e che, cancellando, ai fini della procedura, tali Paesi dalla black list, permette ai cittadini italiani, con investimenti in quei Paesi, sub condicione della sussistenza degli altri requisiti, di accedere alla regolarizzazione alle condizioni più favorevoli previste dalla legge. Delimitazione degli anni accertabili che è stata ulteriormente ribadita nelle Circolari 16 luglio 2015, n. 27/E, dell’11 agosto 2015, n. 30/E e del 28 agosto 2015, n. 31/E. Paola Marongiu 657 difficilmente si può prescindere e anzi costituisce un punto di partenza dal quale muoversi per “mettere nell’angolo” ordinamenti fiscali privilegiati che, attraverso meccanismi capaci di agevolare gli investimenti nei propri Paesi, possono alterare le regole della concorrenza 39. E così, sul versante italiano, il Governo, nell’ambito di un progetto di più ampio respiro 40, ha risposto con l’inserimento, nel D.L. n. 78, dell’art. 12, che, al comma 2, introduce una presunzione legale relativa di evasione nel caso di disponibilità detenute all’estero e, precipuamente, in Paesi a fiscalità privilegiata, nascosti all’Amministrazione finanziaria, in violazione delle norme in tema di monitoraggio, mentre i successivi bis e ter, in deroga agli ordinari termini di decadenza per la notifica degli avvisi di accertamento e di irrogazione (o contestazione) delle sanzioni, ne ha previsto il raddoppio. Ritornando, ora, all’analisi oggetto della presente trattazione, il dubbio, peraltro già sollevato all’indomani dell’introduzione della previsione normativa ad opera della c.d. legge Tremonti ter e a seguito dell’ampio utilizzo cui è ricorsa l’Amministrazione finanziaria nell’emettere i relativi avvisi di accertamento e di contestazione delle violazioni degli obblighi dichiarativi ai fini del monitoraggio nel caso di investimenti detenuti in Paesi non collaborativi, riguarda la delimitazione degli anni che devono formare oggetto della dichiarazione spontanea da parte del contribuente. Chi aderisce alla voluntary, può, infatti, decidere di dichiarare l’esistenza e il quantum di attività finanziarie localizzate in paradisi fiscali al periodo di 39 Che la frode e l’evasione fiscale «abbiano assunto proporzioni notevoli», tanto da costituire «una delle principali preoccupazioni nell’Unione Europea e nel mondo in quanto comporta la perdita di miliardi di euro» è un allarme che è stato denunciato anche in sede europea nella proposta, avanzata nel giugno 2013, di Direttiva del Consiglio «recante modifica della direttiva 2011/16/UE per quanto riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale». In tale documento, muovendo dalla constatazione che «Gli Stati membri hanno ora espresso chiaramente il desiderio di andare oltre gli attuali livelli di cooperazione», si rafforza la convinzione circa «la necessità di promuovere lo scambio automatico di informazioni come norma europea e internazionale di trasparenza» e si propone di «ampliare il campo di applicazione dello scambio automatico di informazioni nell’Unione al di là di quanto previsto negli accordi vigenti in materia nell’Unione», definendo “necessaria”, in un quadro di potenziamento del ricorso a tale strumento, «un’iniziativa a livello dell’Unione sia dal punto di vista del mercato interno sia in termini di efficacia ed efficienza». 40 Ci si riferisce agli impegni assunti in occasione del G-20 di Londra del 2009, di freno alla localizzazione di attività finanziarie in Paesi black list, dando con ciò inizio a quel processo, che troverà una esplicita consacrazione nelle raccomandazioni OCSE del settembre 2010, destinate ad assumere il ruolo di “vademecum” nel contrasto all’evasione internazionale. 658 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 imposta 2010 (e non anche quelle relative ai precedenti periodi di imposta), e, cioè, a decorrere dall’entrata in vigore della normativa che, in questa specifica ipotesi, ha ampliato l’arco temporale di accertamento e di irrogazione delle sanzioni. E nell’effettuare siffatta scelta il contribuente sarebbe confortato dai principi generali contenuti nello Statuto e da quelli che governano l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie. Quanto ai primi, rileva, in primo luogo, l’art. 1, il quale, al comma 1, attribuisce, con una clausola di fissità rinforzata, alle norme dello Statuto il duplice carattere di principi attuativi di norme costituzionali e di principi generali dell’ordinamento tributario, sì che una previsione – quale quella di considerare oggetto di voluntary anche gli anni antecedenti l’entrata in vigore della normativa che ha ampliato i periodi di imposta suscettibili di accertamento e di irrogazione delle sanzioni per violazione delle norme in tema di monitoraggio in riferimento ai paradisi fiscali – potrebbe suscitare una questione di legittimità costituzionale. Infatti, l’art. 3 (rubricato “Efficacia temporale delle norme tributarie”), comma 1, sancisce l’irretroattività delle leggi tributarie, in considerazione anche del canone generale scolpito nelle disposizioni preliminari al codice civile, di guisa che l’operatività del raddoppio dei termini, nel caso di accertamento e di irrogazione delle sanzioni per violazione delle norme in tema di monitoraggio con specifico riferimento ai paradisi fiscali e, quindi, ai fini del computo degli anni oggetto di voluntary, non può che trovare ingresso per le infrazioni commesse successivamente all’entrata in vigore della normativa che l’ha disposto. Conclusione che trova ulteriore conforto nell’art. 10 dello Statuto del contribuente, che codifica il principio del legittimo affidamento: il contribuente, che si autodenunzia, ha riposto fiducia nel quadro normativo esistente al momento di compimento dell’asserita violazione, consapevole che solo a decorrere dal periodo di imposta 2010, l’Amministrazione finanziaria avrebbe avuto a disposizione, ai fini dell’esercizio del potere impositivo, un “ventaglio” temporale più ampio. E ciò senza considerare che il contribuente, forte di un determinato “apparato” normativo, può anche non aver conservato la documentazione, relativa agli investimenti esteri in Paesi black list, anteriore al 2010, sì che, ora, in sede di disclosure, tale circostanza gli “costerebbe” l’accesso e il buon esito della procedura. Non va, inoltre, obliterato che l’affidamento, recependo un principio di matrice comunitaria, costituisce attuazione ed esplicitazione del più generale principio, anche esso di provenienza europea, di certezza del diritto, che Paola Marongiu 659 non può essere leso da norme con efficacia retroattiva che incidono su situazioni regolate da leggi precedenti 41. Alle medesime conclusioni conduce, poi, l’analisi del corpus normativo – il D.Lgs. n. 472/1997 – che presidia l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie, il cui art. 3, richiamando il principio di legalità, al comma 1 dispone che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione», mentre al successivo comma 3, in attuazione del principio del favor rei, di ispirazione penalistica, riconosce l’applicazione della sanzione più favorevole fra quelle stabilite dalla legge in vigore al momento della commissione della violazione e le leggi posteriori. Ora, correlando tale norma con l’art. 12, comma 2 ter, della c.d. legge Tremonti ter, che, con riguardo alle violazioni in tema di monitoraggio per le attività finanziarie localizzate in paradisi fiscali, ha disposto il raddoppio dei termini per l’irrogazione delle relative sanzioni, è giocoforza ritenere che l’ampliamento dell’ambito temporale non può operare per quelle poste in essere in epoca antecedente alla sua entrata in vigore. Deve, inoltre, considerarsi che, muovendo dalla ratio del raddoppio dei termini – l’esigenza di assicurare all’Agenzia delle Entrate maggior tempo per accertare fatti particolarmente complessi – nel caso della voluntary una simile preoccupazione non avrebbe fondamento, posto che il contribuente dichiara esso stesso, in modo pieno e veritiero, le proprie disponibilità all’estero, “esonerando” la parte pubblica da ogni attività investigativa. Ne discende che l’Amministrazione finanziaria, ai fini del computo degli anni oggetto di voluntary, non potrebbe invocare (come, invece, ha fatto 42 nel passato per accertare e sanzionare evasioni in Paesi black list) la disciplina più favorevole, sì che le sarebbe inibita ogni attività impositiva e di irrogazione delle sanzioni che, nel caso di assets esteri detenuti in Paesi black list, travalichi il 2010, anno di entrata in vigore della disciplina che, raddoppiandolo, ne ha esteso l’arco temporale. Un’eventuale applicazione retroattiva della norma – volendo cercare un “supporto” alla tesi erariale – non si giustifica neppure sul piano della ragio41 Per interessanti spunti di riflessione sulle ragioni che permettono di ricondurre il divieto di retroattività al principio di affidamento, di cui anche la Corte di Giustizia si avvale, sempre più frequentemente, nelle proprie sentenze, si rinvia a AMATUCCI, Retroattività della norma tributaria in ambito comunitario e tutela del contribuente, in Rass. trib., n. 2, 2010, p. 326. 42 E come ribadisce nella Circolare esplicativa della procedura di collaborazione volontaria internazionale. 660 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 nevolezza, non sussistendone i presupposti e incontrando un ulteriore limite nel divieto, in più occasioni affermato dalla Consulta, di porsi in contrasto con altri valori o interessi costituzionalmente protetti. Né, sempre guardando alla prospettiva del Fisco, si potrebbe argomentare e difendere l’applicazione retroattiva dell’art. 12, comma 2 bis e ter, del D.L. n. 78/2009, ai periodi di imposta antecedenti la sua entrata in vigore, facendo leva su una sua presunta natura procedurale (come in diverse occasioni l’Amministrazione finanziaria ha tentato, invece, di fare e come, tuttora, in sede di chiarimenti alla voluntary disclosure, ribadisce a chiare lettere 43). Se si muove, infatti, dalla definizione di norma procedurale 44 e la si raffronta a quella di norma sostanziale 45, nella duplice articolazione di norme impositrici e di norme sanzionatorie, si arguisce – ed è di immediata evidenza – che una disposizione, quale quella di specie, che incide su aspetti di carattere sostanziale e, in ragione della funzione afflittiva, sanzionatori, non può qualificarsi in questi termini. Altro problema, che potrebbe porsi, riguarda le violazioni penali che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. Se, da un lato, è, infatti, pacifico che una simile circostanza, per espressa previsione normativa, comporta l’applicabilità del raddoppio dei termini 46, dall’altro lato non è chiaro (né la Circolare fornisce adeguati chiarimenti al riguardo) quali anni debbano formare oggetto della procedura se i reati in questione sono estinti per intervenuta prescrizione. E in un contesto di incertezza potrebbe “passare” l’interpretazione di molti Uffici secondo cui, anche in presenza di un reato prescritto, scatta il raddoppio dei termini. 43 La Circolare n. 10 del marzo 2015 è molto chiara nell’evidenziare che la deroga, ai fini della procedura in esame, al regime del raddoppio dei termini, di cui al summenzionato art. 12, ne conferma la natura procedurale. Al pari si legge nella Circolare 16 luglio 2015, n. 27/E. 44 E cioè di «norma che regolamenta gli atti della procedura che conduce all’imposizione e alla esazione del tributo e delle sanzioni amministrative», così, FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, p. 82 ss. 45 Con riguardo alle prime, sono tali «quelle disposizioni che descrivono gli elementi di ciascuna fattispecie tributaria», mentre ricadono nell’ambito applicativo delle seconde «tutte quelle disposizioni di diritto tributario che individuano gli elementi costitutivi di ciascuna fattispecie penale ed extrapenale», op. loc. ult. cit. 46 E la Circolare lo ribadisce anche in relazione alla procedura di collaborazione volontaria internazionale, a prescindere dal fatto che il suo perfezionamento comporti la non punibilità del reato tributario. Paola Marongiu 661 4.1. …e dell’Amministrazione finanziaria Precisato che il contribuente deve autodenunciarsi, la relativa richiesta deve avvenire tramite l’invito di cui all’art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 218/1997 e il pagamento entro i quindici giorni antecedenti la data fissata per la comparizione ovvero secondo le altre modalità indicate nel successivo comma 1 bis (del medesimo art. 5) che dispone l’adesione ai contenuti all’invito 47 ovvero entro venti giorni dalla sottoscrizione dell’accertamento con adesione. Inoltre, il contribuente dovrà versare, in un’unica soluzione o al massimo in tre rate, entro il termine di presentazione del ricorso, le somme dovute e determinate nell’atto di contestazione delle sanzioni, ex art. 16 del D.Lgs. n. 472/1997, per la violazione degli obblighi dichiarativi in tema di monitoraggio, di cui all’art. 4, comma 1, del D.L. n. 167/1990. Si profila opportuno chiarire se, atteso il riferimento esplicito all’art. 16, la norma, cioè, che regolamenta il procedimento di irrogazione delle sanzioni, la relativa disciplina possa “trasferirsi” in toto anche in materia di voluntary. In particolare, due potrebbero essere gli interrogativi. In primo luogo, se l’atto di irrogazione, nell’ambito della disclosure, possa definirsi ai sensi del comma 3 del medesimo art. 16. La risposta è affermativa e la si rinviene nel successivo art. 5 quinquies, il cui comma 6 lo prevede espressamente 48 e specifica, altresì, le somme che, a titolo di sanzioni, devono porsi a confronto ai fini della definizione. In secondo luogo, se, in mancanza di definizione agevolata, il trasgressore possa presentare deduzioni difensive. Anche in questa ipotesi, la risposta dovrebbe essere positiva, in considerazione del fatto che la norma – l’art. 5 quater, comma 1, lett. b) – parla di “atto di contestazione” («le somme dovute in base all’atto di contestazione»), lasciando supporre che l’Amministrazione finanziaria segua il procedimento ordinario, che inizia, appunto, con la notificazione dell’atto di contestazione. Solo un dubbio, invero, potrebbe sorgere. 47 Per ulteriori approfondimenti e interessanti spunti critici circa questa forma di adesione anticipata (congiuntamente all’adesione al processo verbale di constatazione), si rinvia a PIERRO, I nuovi modelli di definizione anticipata del rapporto fiscale (adesione al verbale e adesione all’invito), in Rass. trib., 2009, IV, pp. 965-996. 48 La norma così dispone: «Il procedimento di irrogazione delle sanzioni per violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1, del presente decreto è definito ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni». 662 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 L’art. 5 quater stabilisce che il contribuente deve provvedere al pagamento delle somme dovute «in base all’atto di contestazione o al provvedimento di irrogazione delle sanzioni», specificando, qualche riga successiva, «ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. n. 472 del 1997». Ora, nella procedura ordinaria, se il contribuente non presenta deduzioni difensive avverso l’atto di contestazione, questo si trasforma in provvedimento irrogativo delle sanzioni, suscettibile di impugnazione e sottoposto, pertanto, al giudizio del giudice tributario. Una conclusione non certo aderente allo spirito della norma in tema di disclosure e, cioè, di far emergere i contribuenti non virtuosi (e, possibilmente, di “fare cassa”), sì che appare difficile ipotizzare che il legislatore abbia, invece, voluto lasciare al sindacato del giudice l’ultima “parola”. È certo, tuttavia, che la formulazione della disposizione non è chiara e può essere foriera di soluzioni ondivaghe e di interpretazioni non sempre uniformi. Tralasciando, per ora, ogni considerazione ulteriore e continuando, invece, l’analisi, l’effettivo pagamento delle somme impone all’Amministrazione finanziaria di comunicare, entro trenta giorni, «all’Autorità giudiziaria la conclusione della procedura di collaborazione volontaria», mentre il mancato versamento delle somme l’autorizza ad emettere – ai sensi dell’art. 5 quinquies, comma 10 – «un nuovo atto di contestazione con la rideterminazione della sanzione entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di notificazione dell’invito o a quello di redazione dell’atto di adesione o di notificazione dell’atto di contestazione». 5. Gli effetti premiali della procedura di voluntary disclosure Nei confronti di coloro che aderiscono alla procedura di autodenuncia si producono effetti positivi, innanzitutto, sul piano penalistico, come emerge, a chiare lettere, dal testo dell’art. 5 quinquies, comma 1, lett. a) e b), rubricato “Effetti della procedura di collaborazione volontaria” 49, ma, non meno, sul versante delle sanzioni amministrative tributarie. 49 Per una prima analisi, ancorché sotto il vigore del D.L. n. 4/2014, poi non convertito e dal quale la voluntary è stata espunta, si rinvia alle osservazioni svolte da CORSO, La straordinaria necessità e urgenza di fare rientrare i capitali detenuti all’estero, in Corr. trib., n. 7, 2014, pp. 519-522, il quale assume una posizione leggermente critica nei confronti di questo istituto, evidenziandone un «appeal non decisivo per fare uscire dall’ombra chi ha ritenuto più sicuri taluni lidi stranieri». Paola Marongiu 663 Con riguardo ai profili penali, la norma esclude la punibilità per i reati di cui «agli articoli 2 e 3» del D.Lgs. n. 74/2000 e, quindi, rispettivamente, di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» e di «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici» e, altresì, per «i delitti di cui agli articoli 4 e 5 del medesimo decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e successive modificazioni» e, cioè, rispettivamente, di infedele ed omessa dichiarazione. Quanto alle sanzioni amministrative tributarie, contenute nell’art. 5 quinquies, comma 3, per violazione agli obblighi dichiarativi sul monitoraggio, esse sono determinate in misura pari alla metà del minimo edittale se le attività estere sono trasferite in Italia o in un Paese che garantisce lo scambio di informazioni ovvero – secondo la previsione della lett. c) del medesimo articolo – se «l’autore della violazione» (da notare la identità di espressione in tutto il testo) autorizza l’intermediario estero «a trasmettere alle autorità finanziarie italiane richiedenti tutti i dati concernenti le attività oggetto di collaborazione volontaria» (c.d. “waiver”). Questo il dato normativo la cui applicazione non darà origine a particolari difficoltà, posto che la verifica circa l’effettivo trasferimento in Italia (o in altro Paese collaborativo) degli assets detenuti prima all’estero, sarà “superabile” – ma il legislatore non lo specifica – con l’esibizione di un documento che ne attesti l’effettività. Nel caso, invece, dell’autorizzazione, di cui sub lett. c), lo stesso dato normativo prevede l’allegazione dell’autorizzazione alla richiesta di collaborazione. Sanzioni severe sono, invece, previste nel caso in cui il soggetto, che accetta la voluntary, esibisca o trasmetta «atti o documenti falsi, in tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero», in quanto – così l’art. 5 septies – «è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni». 6. Voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio Nella medesima legge in cui è disciplinata la voluntary disclosure, il legislatore ha inserito un’autonoma fattispecie di reato – l’autoriciclaggio – aggiungendo al codice penale l’art. 648 ter. La nuova norma 50 punisce colui che, dopo aver commesso o concorso a 50 Il legislatore ha, in questo modo, colmato una profonda lacuna del sistema penalistico italiano, il quale non prevede(va) una sanzione per chi ricicla(va) in prima persona e, 664 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 commettere un delitto non colposo, riutilizza, destinandoli ad investimenti in attività finanziarie, economiche, imprenditoriali e speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del fatto, sì da «ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa» 51, salvo il caso in cui – questa la esplicita esclusione di cui al comma 4 del medesimo art. 648 ter – il profitto del reato sia destinato «alla mera utilizzazione o al godimento personale». Quanto ai rapporti fra il reato di autoriciclaggio e i reati più propriamente tributari, il profitto del reato coincide con il risparmio di imposta, che invero, non può qualificarsi in termini di arricchimento personale, quanto di mancato impoverimento conseguente all’evasione di imposta. E da qui sorgono due problematiche. La prima consiste nella ascrivibilità, o meno, del risparmio di imposta alle “altre utilità”, cui fa riferimento la norma, risparmio che potrà risultare difficile isolare, ai fini della integrazione della condotta delittuosa, dal resto del patrimonio dell’autore del fatto illecito, in considerazione, inoltre, del notevole lasso di tempo fra la condotta di evasione e quella di “impiego, sostituzione e trasferimento”. La seconda è che la determinazione del risparmio fiscale è un’attività che può dare origine ad interpretazioni arbitrarie da parte degli organi accertatori. Ed è proprio in questa fase che emergono le forti correlazioni con la procedura di disclosure. È, infatti, altamente probabile che, in sede di dichiarazione volontaria, il Fisco acquisisca la conoscenza di elementi tali da integrare il reato di autoriciclaggio, circostanza alla quale segue l’obbligo a carico dei Pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio – categoria alla quale appartengono i Funzionari dell’Amministrazione finanziaria – di trasmettere la notizia di reato all’Autorità giudiziaria. Con l’assurda conseguenza che, con riguardo alle fattispecie strettamente tributarie, giusto il disposto dell’art. 5 quinquies, comma 1, lett. a) e b) e solo per gli imponibili riferibili alle attività costituite o detenute all’estero, cioè, sostituisce(va) il profitto del reato da egli stesso commesso, con la conseguenza che, nell’attuale formulazione, l’autoriciclaggio diventa un reato proprio. 51 Espressione questa che ha due corollari: il primo è un freno alla possibile interpretazione generalizzata che potrebbe assegnare rilevanza penale alla semplice modalità di sostituzione, trasferimento o impiego; il secondo è che il semplice versamento del profitto del reato presupposto non integra il delitto di autoriciclaggio in quanto condotta inidonea «ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa» del denaro. Paola Marongiu 665 opera la causa di non punibilità, mentre la natura delittuosa permarrebbe in relazione al reato di autoriciclaggio. 7. Osservazioni di sintesi L’impianto della disclosure presenta, certamente, alcuni profili interessanti, nel senso che, con la sua adesione, il contribuente non virtuoso mette fine ad una condotta – la detenzione all’estero di capitali non dichiarati – che non poteva perpetrarsi, ma, anzi, in un quadro mondiale profondamente mutato, che ha assunto forme sempre più diffuse di controllo e di repressione degli illeciti internazionali, rischiava di assumere connotati “pericolosi”. Ma anche dal lato del legislatore, la procedura di adesione volontaria contribuisce a mettere un “punto” a quel modus operandi fino ad ora seguito, sia perché si propone quale effettivo e concreto strumento di tax compliance, sia perché è indice dell’approccio ad una logica nuova, rispetto alle precedenti forme condonistiche, e condivisa, a livello internazionale, di lotta all’evasione. Ciò premesso, se da un lato, non sembra che il contribuente italiano abbia altre chanches di regolarizzazione, diverse da quelle offerte dalla adesione volontaria, non meno evidenti sono, tuttavia, le criticità che l’attuale intelaiatura della disclosure nasconde. Innanzitutto, e come già precisato, l’assenza di anonimato costituisce un primo, e importante, elemento che può disincentivare l’adesione ad una simile procedura e che vale a distinguerla, in modo radicale, dai precedenti scudi e condoni fiscali, circostanza, quella dell’assenza di anonimato, che integra per l’Amministrazione finanziaria una occasione, di non poca rilevanza, di ulteriore mappatura dell’economia sommersa, perché da una singola posizione sarà possibile ricostruire quelle di altri soggetti che, pur potenzialmente interessati dalla voluntary, abbiano, tuttavia, deciso di non aderirvi. Altro tema su cui si ha modo di discutere è il ruolo degli intermediari, che hanno aiutato o consigliato il cliente di portare denaro all’estero, nel senso, cioè, di eliminare il rischio di considerarli correi e applicare loro, per l’effetto, le relative sanzioni. La preoccupazione risiede nel fatto che il professionista, per non subire eventuali sanzioni, potrebbe disincentivare il cliente ad aderire alla disclosure così come deve chiarirsi il dubbio se, in relazione ai fatti emersi durante la procedura di volontaria collaborazione, possa scattare a carico del professionista, che assiste il cliente, l’obbligo di segnalazione ai fini della normativa antiriciclaggio ex D.Lgs. n. 231/2007. 666 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Non meno interessanti si rivelano le contestazioni relative alla presunta violazione, ad opera della disposizione in commento, della libera circolazione dei capitali, principio che trova, nel TFUE, la propria collocazione normativa. In particolare, si potrebbe obiettare che il limite all’operatività del raddoppio dei termini, al fine degli anni oggetto di voluntary disclosure, solo nel caso di assets esteri localizzati in Paesi che hanno stipulato l’Accordo con l’Italia, costituisca e integri una forma di violazione della suddetta libertà rispetto a beni o attività ubicati in Paesi ancora black list. Ma forse la Corte di Giustizia, per non vanificare lo sforzo e l’affermarsi di una politica internazionale di lotta all’evasione, giustificherà questa disparità di trattamento alla luce di quelle Rules of reason, che già in altre occasioni hanno mandato “indenni” da incompatibilità con il diritto comunitario disposizioni fiscali nazionali. Altre considerazioni devono, poi, svilupparsi, in relazione alla fruizione di eventuali crediti di imposta per i tributi che gli interessati avessero pagato all’estero, se si considera che l’art. 165, comma 8, T.U. ne preclude il riconoscimento nel caso di «omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata». Se dal punto di vista del contribuente, un’eventuale autodenuncia su assets offshore può rivelarsi non propriamente economica – fattore che incide, inevitabilmente, sul reale successo della procedura – o comunque vantaggiosa solo limitatamente ai profili di carattere sanzionatorio, dal punto di vista, invece, della parte pubblica, il rapporto svantaggio/vantaggio è sicuramente invertito. E le ragioni sono diverse. Innanzitutto, le Amministrazioni fiscali degli Stati hanno progressivamente affinato gli strumenti investigativi, disponendo non solo dei già penetranti poteri di controllo, ma anche, e precipuamente, di una complessa e articolata impalcatura di accordi internazionali che garantiranno, in un rapporto di reciprocità e di parità di trattamento, anche da e nei confronti di Governi prima esclusi, una più completa ed efficace collaborazione sullo scambio di informazioni e che contribuiranno a rendere sempre più articolato lo spostamento di capitali in giro per il mondo alla ricerca del regime fiscale meno gravoso 52. 52 Sulla rilevanza della cooperazione internazionale quale ulteriore strumento per contrastare i fenomeni di evasione, si rinvia, per una più approfondita disamina, a TOSI, La collaborazione con le Amministrazioni straniere ai fini della repressione degli illeciti fiscali in materia di imposte dirette, in Il Fisco, n. 36, 2001, p. 11731. Paola Marongiu 667 Altra considerazione, di non poco conto, è la tendenza ad attribuire al reato di riciclaggio internazionale la medesima attenzione riservata all’evasione fiscale internazionale, tanto che anche le legislazioni fiscali degli Stati non collaborativi dovranno presto essere oggetto di intervento per adeguarsi alle Raccomandazioni del GAFI (o FATF, Financial Action Task Force) 53, che annovera i reati tributari fra quelli prodromici al riciclaggio a prescindere dalla circostanza che siano, o meno, considerati tali dalla normativa del Paese in cui ha sede la Banca 54. Una politica e una mentalità radicalmente diverse rispetto a quelle fino ad ora poste in atto che non potranno non riflettersi anche nei rapporti con la clientela, tanto che i principali istituti di credito, ovunque localizzati, hanno avviato incontri per dissuaderla, seppur ad uno stadio di mera “pressione morale”, a conservare conti non dichiarati nel Paese di residenza. In sintesi, anche l’Italia sta affrontando la voluntary disclosure, sebbene in ritardo rispetto ad altri Paesi (europei e non europei), che, già da alcuni anni, hanno avviato e introdotto simili procedure e dai quali, tuttavia, si discosta per l’obiettivo che intende perseguire. L’assetto della voluntary disclosure italiana, siccome strutturata dal legislatore, “baratta” il rientro dei capitali con sconti sulle sanzioni amministrative ed esclusione della punibilità, in quanto il Governo è mosso dalla necessità di “fare cassa” ed è, perciò, costretto ad assumere iniziative di politica economica e fiscale anche di compromesso. Diverso è stato, invece, lo spirito di altri legislatori, i quali, non disposti a minare e a scalfire il proprio ruolo di Autorità pubblica, forse coadiuvati da una situazione economico-sociale meno grave di quella italiana, hanno scelto semplicemente di individuare i capitali occultati all’estero, per controllar53 È questo un Organismo intergovernativo, sorto nel 1989 in occasione del G7 di Parigi e il cui Segretariato è ospitato presso l’OCSE, che persegue lo scopo di promuovere politiche per il contrasto del riciclaggio di denaro di origine illecita, del finanziamento del terrorismo e della proliferazione di armi di distruzione di massa. Gli obiettivi sono attuati attraverso la predisposizione di strumenti giuridici che possano concretamente contrastare l’utilizzo criminale del sistema finanziario e a tale fine ha approntato, nel 1990, 40 Raccomandazioni, cui si aggiungono 9 Raccomandazioni speciali, revisionate nel 1996 e nel 2003, successivamente aggiornate nel 2012 (c.d. nuove 40 Raccomandazioni). Queste Raccomandazioni, riconosciute e ratificate, oltre che dai Paesi membri, anche da numerosi Organismi internazionali, costituiscono un corpus di riferimento per le legislazioni nazionali dei Paesi membri (attualmente 34). 54 Basti pensare che la Svizzera, a seguito e per effetto del cambiamento di “vento” sia in ambito UE, sia in quello OCSE, ha previsto la punibilità del riciclaggio del provento di reati fiscali gravi (la soglia, oltre la quale si configura l’evasione fiscale, è stata fissata in 300 mila franchi svizzeri) anche nella fiscalità diretta, in vigore per la fiscalità indiretta già dal febbraio 2009. Le nuove disposizioni dovrebbero entrare in vigore verso la metà del 2015. 668 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 li meglio, e di non premiare gli evasori, facendo leva, invece, su un più diffuso e più avvertito ius civis. Ma è anche vero che l’evasione ha, in Italia, proporzioni sconosciute ad altri Paesi onde misure diverse si giustificano proprio perché diverse sono le concrete situazioni e, perciò, la disciplina della voluntary disclosure merita la massima attenzione perché il problema non è disquisire sui sommi principi ma cercare di smantellare, gradualmente, e di utilizzare quel consistente bacino di risorse nascoste. Alessio Persiani LA RISCOSSIONE TRIBUTARIA ERARIALE TRA MODIFICHE RECENTI ED AUSPICABILI INTERVENTI FUTURI COLLECTION OF NATIONAL TAXES BETWEEN RECENT AMENDMENTS AND FURTHER DESIRABLE MODIFICATIONS Abstract La recente L. n. 23/2014 delega il Governo ad intervenire anche nel settore della riscossione tributaria erariale, perseguendo il contemperamento tra esigenze del Fisco e salvaguardia dei diritti dei contribuenti. Anche alla luce dell’applicazione del principio di proporzionalità nel contesto della CEDU, l’Autore analizza i recenti interventi legislativi in materia di riscossione, evidenziandone i profili di condivisibilità e di criticità. Successivamente l’Autore si sofferma sulle ulteriori aree di possibile intervento da parte del legislatore delegato nel contesto della disciplina della riscossione, con particolare riguardo alla disciplina dell’aggio di riscossione. Parole chiave: riscossione tributaria, legge delega, CEDU, principio di proporzionalità, aggio di riscossione Recent Law no. 23/2014 delegates the Government to intervene also in the field of national tax collection, in order to balance the interests of Tax Authorities with the safeguard of taxpayers’rights. Having also regard to the application of the proportionality principle in the context of ECHR rules, the Author analyses positive and negative aspects of recently enacted provisions in the field of tax collection and then examines further areas of tax collection in which the Government may also intervene, focusing on the compensation for the tax collection. Keywords: tax collection, delegation law, ECHR, proportionality principle, tax collection compensation 670 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I recenti interventi legislativi in materia di riscossione tra tutela dei diritti dei contribuenti e (talvolta eccessivo) sacrificio degli interessi erariali. – 2.1. Le modifiche all’iscrizione di ipoteca e del provvedimento di fermo amministrativo. – 2.2. I limiti all’espropriazione immobiliare. – 2.3. La definizione di un paniere di beni essenziali non espropriabili. – 3. Riscossione, principio di proporzionalità ed ulteriori possibili aree di intervento: la disciplina dell’aggio di riscossione e del rimborso delle spese sostenute dall’agente della riscossione. – 4. Conclusioni. 1. Premessa Con la legge delega n. 23/2014 il legislatore si è impegnato a procedere ad un’ampia revisione di molti istituti dell’ordinamento tributario 1. Tra le aree per le quali si delinea un intervento di riforma vi è anche quella della riscossione dei tributi. In particolare, si prevede che il Governo, oltre a procedere al «riordino della disciplina della riscossione delle entrate degli enti locali» 2 secondo criteri e principi scanditi in modo puntuale 3, interven1 Senza voler analizzare puntualmente le previsioni della legge delega n. 23/2014, non v’è dubbio, sotto il profilo generale, che essa tocchi molteplici e delicati ambiti del nostro sistema tributario – su tutti la disciplina del catasto, delle agevolazioni tributarie, del contenzioso, del contrasto all’elusione, delle sanzioni penali-tributarie, del reddito d’impresa e dell’IRAP – prevedendo interventi in senso riformatore. Non sfugge, peraltro, come le norme della legge delega talora dettino principi e criteri direttivi estremamente specifici e dettagliati – è il caso della riforma della disciplina del catasto, ad esempio – talora, invece, si limitino a prevedere criteri piuttosto indeterminati, come accade, ad esempio, in materia di accertamento, per il quale si dispone genericamente una «razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina dell’attuazione e dell’accertamento relativa alla generalità dei tributi» (art. 3, comma 1, lett. a), legge delega n. 23/2014). Sempre sotto il profilo generale, si è anche evidenziato come la legge delega sia ben lungi dall’avere una portata realmente sistematica: come rilevato da CARINCI, Ma non c’è lo slancio del «grande» riordino, in Il Sole 24 Ore. La riforma del fisco, 12 marzo 2014, p. 3, «manca l’aspirazione ad una revisione globale del sistema, avendo preferito un approccio di tipo casistico, di carattere manutentivo, volto a porre rimedio alle questioni la cui soluzione è di più immediata urgenza e spendibilità (anche mediatica)». Pur prendendo implicitamente atto dei limiti della legge delega, GIOVANNINI, La legge delega fiscale, in www.aipdt.it, comunque rileva che «i decreti attuativi di questa legge possono divenire strumenti iniziali di cambiamento, anche se parziali e solo parzialmente risolutivi di alcune delle problematiche […]; strumenti per avviare un cammino di ammodernamento del sistema tributario e, con esso, del sistema Paese». 2 Così l’art. 10, comma 1, lett. c), legge delega n. 23/2014. 3 Si vedano i principi dettati dall’art. 10, comma 1, lett. c), nn. da 1) a 8), legge delega n. 23/2014. Alessio Persiani 671 ga, più in generale, sulla riscossione tributaria nell’ottica di realizzare un maggiore «contemperamento delle esigenze di efficacia della riscossione con i diritti del contribuente», ponendo attenzione ai profili «attinenti alla tutela dell’abitazione, allo svolgimento dell’attività professionale e imprenditoriale, alla salvaguardia del contribuente in situazioni di grave difficoltà economica, con particolare riferimento alla disciplina della pignorabilità dei beni e della rateizzazione del debito» 4-5. Concentrando in questa sede l’attenzione sulla riscossione delle entrate erariali 6, va rilevato che la salvaguardia dei diritti dei contribuenti sottoposti alle procedure di riscossione coattiva costituisce un tema che negli ultimi anni sta acquisendo un rilievo crescente nel panorama dottrinario 7 e giurisprudenziale 8, dopo un non breve periodo in cui tali finalità 4 Così l’art. 10, comma 1, lett. e), legge delega n. 23/2014. Va rilevato, invero, come l’istituto della rateazione dei debiti tributari formi oggetto anche di altra previsione della legge delega e, precisamente, dell’art. 6, comma 5, che delega il Governo ad intervenire nel senso di ampliare l’ambito di applicazione della rateazione, agendo comunque in coerenza con «la finalità della lotta all’evasione fiscale e contributiva e con quella di garantire la certezza, l’efficienza e l’efficacia dell’attività di riscossione». 5 In fase di correzione delle bozze del presente contributo il Governo ha approvato in via definitiva le norme di attuazione della legge delega in tema di riscossione a mezzo del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159. Il decreto in parola – attuativo, tra l’altro, proprio della previsione dell’art. 10, comma 1, lett. e) sopra citata – reca una molteplicità di interventi, che si concentrano soprattutto nelle aree della dilazione di pagamento, dei pagamenti rateali e della sospensione della riscossione e che, purtroppo, non toccano i profili di criticità di cui si tratterà nel successivo par. 2 e nei relativi sottoparagrafi. Il decreto interviene, invece, sulla disciplina di determinazione dell’aggio di riscossione e di ciò si darà conto nel successivo par. 3. 6 E lasciando da parte, dunque, il complesso tema del riordino della riscossione dei tributi locali. 7 In tempi recenti, si vedano DE MITA, Evasione e riscossione nella crisi del diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2012, pp. 1292-1293; NUCERA, La tutela del contribuente nella riscossione coattiva, in Rass. trib., 2012, pp. 1052-1072; TINELLI, Statuto dei diritti del contribuente e riscossione coattiva, in Riv. dir. trib., 2012, pp. 3-50. Con specifico riguardo, poi, alle criticità in punto di tutela del contribuente destinatario di un accertamento in materia doganale si vedano ARMELLA-BALDI, La difficile tutela dalla esecutività degli atti di rettifica emessi dall’Agenzia delle dogane, in Corr. trib., 2013, pp. 801-807; MARCHESELLI, La riscossione dei diritti doganali, tra tutela degli interessi finanziari della UE, efficienza dei mercati e diritti fondamentali, in Dir. prat. trib., 2014, pp. 69-144. 8 Il riferimento è, in particolare, ad alcune pronunce dei giudici di merito, quali, ad esempio, CTP Milano, sez. I, 1° ottobre 2009, n. 521, in Boll. trib., 2010, pp. 711-712 che ha respinto la richiesta di sequestro conservativo dell’azienda del contribuente ritenendo quest’ultimo quale extrema ratio, esperibile solo dopo aver iscritto ipoteca legale sui beni 672 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 avevano avuto portata recessiva nel nostro ordinamento 9. Alla centralità del contemperamento tra la tutela dei diritti dei contribuenti e gli interessi degli enti creditori ad un celere e certo incasso delle somme dovute non sono estranee, a nostro avviso, neppure le influenze provenienti dall’esterno del nostro ordinamento. Come si è altrove rilevato 10, all’individel debitore e dopo aver proceduto al sequestro conservativo dei suoi beni personali; CTR Lazio, sez. I, 28 settembre 2010, n. 453, in GT-Riv. giur. trib., 2012, pp. 172-173, che ha ritenuto illegittimo il fermo amministrativo iscritto dall’agente della riscossione in quanto il valore dei beni sottoposti al provvedimento era sproporzionato rispetto al credito vantato; CTP Lecce, sez. II, 9 ottobre 2012, n. 321 che ha respinto la richiesta avanzata dall’Amministrazione finanziaria di procedere ad iscrizione ipotecaria anteriormente all’adozione dell’avviso di accertamento a motivo del valore di «gran lunga superiore all’importo accertato» del patrimonio immobiliare del debitore, tenuto conto, peraltro, dell’assenza di tentativi da parte della contribuente di procedere all’alienazione del patrimonio medesimo; CTP Bergamo, sez. I, 31 luglio 2013, n. 143 che ha dichiarato l’illegittimità del sequestro dei conti correnti aziendali a motivo del pregiudizio che ciò avrebbe comportato per l’operatività dell’azienda e, in ultima analisi, per la stessa garanzia del credito erariale; CTR Liguria, 25 novembre 2013, n. 130 che, del pari, ha censurato la legittimità del fermo amministrativo a motivo della sproporzione rispetto all’ammontare del credito vantato, configurando «l’applicazione indiscriminata delle ganasce fiscali un eccesso di potere da parte del concessionario della riscossione», in special modo nei casi in cui «il provvedimento cautelare non risulti adeguatamente motivato e sussista una sproporzione tra misura adottata e credito tributario». 9 Infatti, le importanti riforme della riscossione tributaria coattiva avvenute dapprima sul finire degli anni ’90 con la L. 28 settembre 1998, n. 337 e, poi, alla metà degli anni 2000 con il D.L. 30 settembre 2005, n. 203 da un lato hanno certamente accresciuto l’incisività dei poteri dei soggetti incaricati della riscossione tributaria, ma, dall’altro lato, hanno attribuito un rilievo limitato al piano delle tutele del contribuente-debitore, tenuto conto che i principali interventi si sono risolti nell’accentuazione della procedimentalizzazione delle attività di riscossione – su cui si veda BASILAVECCHIA, La riscossione dei tributi, in Rass. trib., 2008, p. 22 ss. – e nell’introduzione di un termine decadenziale per la notificazione delle cartelle di pagamento, avvenuta sulla spinta di Corte cost., 15 luglio 2005, n. 280. Per un commento della pronuncia si vedano ALLENA, I termini della riscossione: moniti della Corte Costituzionale ed interventi del legislatore, in Riv. dir. trib., 2005, pt. II, p. 649 ss.; CARINCI, Termini di notifica della cartella di pagamento e funzioni del ruolo: perplessità applicative e dubbi sistematici in merito al nuovo art. 25 del d.P.R. n. 602/1973, in Rass. trib., 2005, p. 1669 ss. 10 Sia consentito rinviare, anche per l’inquadramento del rapporto tra le previsioni della CEDU e l’ordinamento interno, a MELIS-PERSIANI, Riscossione coattiva e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcune riflessioni, in Rass. trib., 2011, pp. 901-923. Il crescente peso del principio di proporzionalità nell’ambito della riscossione tributaria è autorevolmente sottolineato anche da BASILAVECCHIA, La riscossione dei tributi nel quadro costituzionale, in Riv. trim. dir. trib., 2014, pp. 3-13, il quale evidenzia come anche la giurisprudenza costituzionale in tema di riscossione, pur preoccupata dell’interesse pubblico, non abbia perso occasione per «rilevare irrazionalità, disparità di trattamento, ingiustificati privilegi». Alessio Persiani 673 duazione del corretto bilanciamento tra gli interessi erariali e la salvaguardia dei diritti proprietari pongono riferimento anche l’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ed il correlato principio di proporzionalità, vero e proprio fulcro attorno al quale ruota l’intera previsione del citato art. 1. Tale profilo, peraltro, è degno di attenzione ancor maggiore alla luce della recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha avuto modo di verificare l’osservanza del principio di proporzionalità da parte dei legislatori nazionali proprio nel contesto, qui rilevante, della riscossione dei tributi 11. Ora, al fine di valutare gli spazi di attuazione della menzionata previsione della legge delega non possono trascurarsi le evoluzioni normative recentemente intervenute nell’ambito della riscossione coattiva. Infatti, a partire dal 2011 e sia pur con interventi episodici e raramente caratterizzati dal tratto della sistematicità 12, il legislatore ha più volte e sotto diversi aspetti modificato la disciplina di tale delicata fase di attuazione del rapporto tributario, recependo, in modo più o meno esteso, le istanze che erano state avanzate nel senso di una più ampia tutela dei diritti dei contribuenti 13. Tali interventi, auspicabili e benvenuti per porre rimedio alla pregressa situazione di eccessivo squilibrio a favore degli interessi del Fisco 14, sono stati indicati dalla 11 Il riferimento è, in particolare, alla pronuncia della Corte EDU, 20 settembre 2011, n. 14902/04, OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos v. Russia – su cui sia consentito rinviare a MELIS-PERSIANI, Il principio di giusto bilanciamento tra interesse fiscale e diritti proprietari nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di riscossione tributaria, in AA.VV., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana, a cura di Bilancia-Califano-Del Federico-Puoti, Torino, 2014, pp. 256-262 – e alla più recente sentenza della Corte EDU del 25 luglio 2013, n. 27183/04, Rousk v. Sweden di cui diremo nel corso della trattazione. 12 Come evidenzia anche BASILAVECCHIA, La riscossione dei tributi nel quadro costituzionale, cit., p. 13 facendo riferimento «alla tecnica degli interventi frammentari da “manovra”». 13 Sol che si pensi che diversi tra gli interventi che esamineremo nel prosieguo sono stati recati dall’art. 52, D.L. 21 giugno 2013, n. 69 e che la relazione di accompagnamento di tale previsione ne individuava la finalità nel miglioramento «delle relazioni con i debitori», anche in attuazione dell’impegno assunto dal Governo con la Risoluzione della Camera dei Deputati, Commissione VI Finanze della Camera, atto del 21 maggio 2013, n. 7/00014, Interventi per una maggiore flessibilità dei meccanismi di riscossione coattiva dei tributi, approvata il 22 maggio 2013, con la quale si proponeva l’introduzione nel corpus normativo della riscossione tributaria di «elementi di flessibilità che consentano di contemperare la tutela degli interessi erariali con quella di salvaguardare la sopravvivenza economica delle famiglie ed imprese colpite dalla crisi». 14 Come sottolineato da FALSITTA, Prefazione, in AA.VV., La riscossione dei tributi, a cura di Basilavecchia-Cannizzaro-Carinci, Milano, 2011, p. XI, prima di tali modifiche si era 674 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Corte dei Conti tra le concause del recente indebolimento dell’attività di riscossione 15. Al di là del fatto che, restringendo la prospettiva alle entrate pubbliche aventi natura tributaria, non sembrano del tutto condivisibili taluni toni allarmistici della magistratura contabile 16, sembra opportuno procedere all’analisi delle principali modifiche normative, soffermando maggiormente l’attenzione, nel corso dell’analisi, su quelle innovazioni che a nostro avviso destano maggiori perplessità in punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze del Fisco e dei contribuenti, anche al fine di verificare se e in che modo vi varcato «ogni limite di ragionevolezza e proporzionalità», essendo indotti a «ricordare con rimpianto e nostalgia gli “esattori ottocenteschi”, segugi disarmati perché quasi totalmente sprovvisti di poteri investigativi penetranti ed invasivi e, tuttavia, capaci di mantenere entro limiti ragionevoli le percentuali delle “quote inesigibili”». 15 Si veda il documento della Corte dei Conti di maggio 2013, Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 22, ove afferma che le recenti innovazioni normative hanno «finito per indebolire oggettivamente l’azione di riscossione coattiva dei tributi». Un cenno nel medesimo senso si trova anche nelle audizioni del 20 marzo 2014 e del 2 aprile 2014, rispettivamente, dell’Amministratore delegato di Equitalia S.p.A. e del Direttore dell’Agenzia delle Entrate dinanzi al Senato della Repubblica – VI Commissione Finanze e Tesoro nell’ambito dell’«Indagine conoscitiva sugli organismi della fiscalità e sul rapporto tra contribuenti e Fisco». Quanto all’audizione dell’Amministratore delegato di Equitalia S.p.A. questi, riprendendo le considerazioni della magistratura contabile, evidenzia come le recenti modifiche normative abbiano sottovalutato come «la posizione creditoria dello Stato sia ormai divenuta per molti versi deteriore rispetto alle possibilità di tutela che la legge riconosce al creditore privato munito di titolo esecutivo e i crediti dello Stato risultino meno tutelati rispetto a quelli di natura privatistica». Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate si limita ad affermare che «un ulteriore elemento essenziale del contrasto all’evasione è la riscossione coattiva nel cui ambito l’introduzione della recente normativa ne ha indebolito l’azione». 16 Nell’incipit della sezione del rapporto dedicato all’attività di riscossione nel 2012 si riferisce di un «preoccupante indebolimento» dell’andamento della riscossione e di «risultati cedenti» dell’attività di riscossione rispetto alla crescente massa dei ruoli trasmessa dagli enti creditori. Tuttavia, avendo riguardo alle entrate pubbliche aventi natura tributaria che rilevano in questa sede, ci si avvede che nel 2012 la riscossione di ruoli emessi dall’Amministrazione finanziaria centrale – comprendente i ruoli emessi dall’Agenzia delle Entrate e dall’Agenzia delle Dogane – ha subito rispetto al 2011 un calo tutto sommato contenuto, pari al 5,06% (circa 210 milioni di euro in termini assoluti) e che i risultati non sono granché diversi per le altre entrate erariali, ove si è registrata una flessione del 6,86% (circa 19 milioni di euro in termini assoluti). Il «preoccupante indebolimento» dell’attività di riscossione segnalato dalla magistratura contabile è invece riconducibile in gran parte al settore previdenziale, ove nel 2012 si è registrata una flessione della riscossione di oltre il 27% e un calo in termini assoluti di circa 715 milioni di euro, e al variegato ambito delle entrate non aventi natura tributaria, ove nel 2012 si è registrato un calo della riscossione vicino al 10%, pari a circa 141 milioni di euro. Alessio Persiani 675 sia spazio per il legislatore delegato per apportare ulteriori cambiamenti volti a perseguire l’obiettivo enunciato dalla legge delega 17. 2. I recenti interventi legislativi in materia di riscossione tra tutela dei diritti dei contribuenti e (talvolta eccessivo) sacrificio degli interessi erariali Tra i diversi interventi in materia di riscossione susseguitisi a partire dal 2011 intendiamo concentrare l’attenzione sui diversi limiti posti dal legislatore ai poteri dell’agente della riscossione, specie con riferimento all’iscrizione di ipoteca e del provvedimento di fermo amministrativo, nonché all’avvio dell’espropriazione forzata 18. Una prima osservazione, valida per la generalità delle modifiche che si analizzeranno può comunque essere svolta: a seguito degli interventi de quibus, sono state poste all’azione dell’agente della riscossione restrizioni di norma non applicabili nei confronti della generalità dei creditori privati agenti sulla scorta dell’ordinaria disciplina processualcivilistica. Scelta che se può in diversi casi apprezzarsi nell’ottica di un più attento bilanciamento dei contrapposti interessi, appare comunque peculiare e distante, almeno in linea generale, dal tradizionale privilegio accordato nel nostro ordinamento all’interesse erariale, quantomeno nella fase di 17 Come accennato nella precedente nota n. 5, occorre prendere atto che il legislatore delegato non ha ritenuto di dover intervenire sulle criticità di cui si tratterà in riferimento al provvedimento di fermo amministrativo, all’espropriazione immobiliare ed al paniere dei beni essenziali. Un intervento vi è stato, invece, per la disciplina dell’aggio di riscossione. 18 Oltre a quelle menzionate, va riconosciuto che rilevanti modifiche sono state apportare altresì alla disciplina della dilazione dei pagamenti, ove si è assistito ad una notevole estensione dell’arco temporale massimo nel quale il debito tributario può essere rateizzato: infatti il contribuente, in funzione della propria situazione economica come calcolata sulla base di appositi parametri, può ora scegliere se richiedere un piano di rateazione ordinaria fino ad un massimo di settantadue rate mensili ovvero un piano di rateazione straordinaria fino ad un massimo di centoventi rate mensili, entrambi prorogabili fino ad un massimo di ulteriori settantadue o centoventi mesi. Al di là della circostanza che tale estensione ci pare venga bene incontro alle esigenze della generalità dei contribuenti in situazione economica disagiata, almeno con riferimento al lasso temporale della dilazione, riteniamo che le previsioni della legge delega – e in particolare quelle di cui all’art. 6, comma 5 – già indichino con puntualità le linee guida che il legislatore delegato dovrà seguire nel senso di ampliare l’ambito applicativo dell’istituto. Sul tema si vedano le riflessioni di CARINCI, La riforma della rateazione in materia di tributi erariali nella legge delega, in Il Fisco, 2014, p. 2468 ss. Rileviamo, peraltro, che l’art. 10, D.Lgs. n. 159/2015 ha ulteriormente innovato la disciplina della dilazione dei pagamenti. 676 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 esecuzione di una pretesa tributaria definitivamente accertata nell’an e nel quantum 19. 2.1. Le modifiche all’iscrizione di ipoteca e del provvedimento di fermo amministrativo Prendendo le mosse dai limiti che sono stati posti all’iscrizione di ipoteca e del provvedimento di fermo amministrativo, occorre rilevare come gran parte di essi appaiano ragionevoli e si possano collocare in una prospettiva di migliore realizzazione del principio di proporzionalità. È questo il caso delle previsioni che hanno fissato un limite minimo dell’ammontare del credito affinché l’agente della riscossione possa procedere all’iscrizione di ipoteca 20 o che, tanto per l’ipoteca quanto per il fermo am19 È sufficiente ricordare, al riguardo, le note affermazioni della giurisprudenza costituzionale secondo cui «l’esecuzione esattoriale rappresenta un caso particolare di esecuzione, diverso dall’ordinario processo esecutivo», essendo un «procedimento nel quale si manifesta, più energicamente forse che non in altri, data l’importanza dell’interesse tutelato (tra l’altro quello fondamentale di garantire il regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato) il principio dell’esecutorietà dell’atto amministrativo: un principio che, quale che sia la sua ragione giustificatrice, è certamente fondamentale nel nostro ordinamento e comporta come conseguenza che, di regola, il giudice ordinario non possa modificare o revocare l’atto amministrativo o sospenderne l’esecuzione, impedire, cioè, che l’atto stesso spieghi intera la sua efficacia» (Corte cost., 7 luglio 1962, n. 87). 20 Il riferimento è, in particolare, al limite di 20.000 euro di cui all’art. 77, comma 1 bis, D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall’art. 3, comma 5, D.L. 2 marzo 2012, n. 16. La fissazione di tale limite minimo costituisce l’approdo finale di un percorso articolato e composto da molteplici tappe, tutte susseguitesi nel volgere di un periodo di tempo relativamente ristretto. Anzitutto, occorre menzionare il disposto dell’art. 3, comma 2 ter, D.L. 25 marzo 2010, n. 40 che, nel fissare il limite di ottomila euro per l’iscrizione di ipoteca, aveva sostanzialmente recepito in via normativa le conclusioni raggiunte da Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4077, in Corr. trib., 2010, pp. 1455-1461 con nota di PICIOCCHI, Illegittima l’iscrizione dell’ipoteca se il debito non supera ottomila euro. Per un commento della previsione recata dal menzionato D.L. n. 40/2010 si veda BASILAVECCHIA, Moderati i poteri dell’agente della riscossione, in Corr. trib., 2010, pp. 1903-1906. Successivamente, le disposizioni di cui all’art. 7, comma 2, lett. gg-decies) e gg-undecies), D.L. 13 maggio 2011, n. 70 avevano innalzato il predetto limite a ventimila euro, limitatamente, però, ai casi di pretesa erariale contestata o ancora contestabile in giudizio e di ipoteca da iscriversi sulla casa adibita ad abitazione principale dal debitore esecutato, fermo restando il più contenuto limite di 8 mila euro in tutti gli altri casi e, tipicamente, in tutte le ipotesi di riscossione coattiva dirette nei confronti delle attività d’impresa. Come detto, con le recenti modifiche recate dal D.L. n. 16/2012 il limite di ventimila euro è stato esteso alla generalità dei casi, con l’ulteriore precisazione aggiunta dall’art. 52, comma 1, lett. h), D.L. 21 giugno 2013, n. 69 che l’agente della riscossione può procedere con l’iscrizione di ipoteca a prescindere dall’integrazione Alessio Persiani 677 ministrativo di beni mobili registrati, hanno previsto la notifica al debitore di una comunicazione preventiva rispetto all’adozione della misura in questione 21. Al di là dell’evidente coerenza del primo intervento con il principio di proporzionalità, specialmente per i soggetti esercenti un’attività d’impresa la cui posizione tende ad essere maggiormente pregiudicata dall’iscrizione di ipoteca e dai connessi vincoli sul regime di circolazione del bene ipotecato, attenzione merita l’obbligo di comunicazione preventiva della stessa iscrizione di ipoteca 22. Si tratta, infatti, di previsione che appare non solo opportudelle condizioni – introdotte dallo stesso D.L. n. 69/2013 e di cui diremo oltre – necessarie per procedere ad espropriazione forzata degli immobili. A quest’ultimo proposito, merita evidenziare come il legislatore con le previsioni da ultimo citate abbia altresì inteso assumere posizione in riferimento alla dibattuta questione relativa alla natura meramente cautelare ovvero di atto funzionale alla procedura espropriativa dell’iscrizione di ipoteca. In particolare, dapprima con il D.L. n. 16/2012 il legislatore ha introdotto nel corpo dell’art. 77, D.P.R. n. 602/1973 il comma 1 bis che consente l’iscrizione di ipoteca «anche al solo fine di assicurare la tutela del credito da riscuotere», successivamente il D.L. n. 69/2013 ha ulteriormente ribadito la finalità di garanzia dell’ipoteca, condizionando la relativa iscrizione ad un ammontare del credito per cui si procede assai inferiore rispetto a quello richiesto per l’espropriazione forzata immobiliare. In questo senso, la relazione di accompagnamento all’art. 52, comma 1, lett. h), D.L. n. 69/2013 precisa che l’iscrizione di ipoteca è autonomamente esperibile, «non essendo necessariamente preordinata all’esecuzione». Sulla natura dell’iscrizione di ipoteca, si vedano DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in Giust. trib., 2007, p. 427 ss.; GUIDARA, Questioni vecchie e nuove in tema di misure cautelari disposte dall’agente della riscossione, in Boll. trib., 2009, p. 1080 ss. 21 Con riferimento all’iscrizione di ipoteca, la comunicazione preventiva è stata prevista dal comma 2 bis dell’art. 77, D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall’art. 7, comma 2, lett. ubis), D.L. n. 70/2011. Quanto al fermo di beni mobili registrati, si veda l’art. 86, comma 2, D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 52, comma 1, lett. m-bis), D.L. n. 69/2013. Va ricordato, poi, che l’iscrizione tanto dell’ipoteca quanto del fermo amministrativo sono rese note al debitore anche mediante una comunicazione di avvenuta iscrizione. Per il fermo amministrativo tale comunicazione è prevista dall’art. 4, comma 1, secondo periodo D.Int. 7 settembre 1998, n. 503. Per l’ipoteca, invece, la comunicazione cui l’agente della riscossione provvede nella prassi sembra trovare fondamento nella disciplina generale sul procedimento amministrativo, come evidenzia CTP Cosenza, sez. I, 19 marzo 2009, n. 253. 22 Quanto alla comunicazione preventiva del fermo amministrativo, la previsione normativa si limita a recepire una prassi già adottata dall’agente della riscossione e cui facevano riferimento la nota dell’Agenzia delle Entrate 9 aprile 2003, n. 57413 e la Risoluzione della stessa Agenzia 9 gennaio 2006, n. 2/E. In quest’ottica, ci pare debbano ritenersi superati quei dubbi di legittimità in merito alla comunicazione preventiva del fermo amministrativo nel previgente regime sollevati da DEL FEDERICO, Fermo sui beni mobili e ipoteca, in AA.VV., La riscossione dei tributi, cit., pp. 235-236. 678 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 na sotto il profilo dell’equo contemperamento dei contrapposti interessi, ma addirittura necessaria alla luce della natura provvedimentale dell’atto in questione 23 e – come recentemente statuito dalla giurisprudenza di legittimità – del suo intimo collegamento con la tutela del diritto di difesa e del contraddittorio 24. Quanto al fermo amministrativo, talune considerazioni si impongono in special modo per il regime di esclusione tout court del fermo qualora il debitore dimostri, entro i trenta giorni seguenti alla notificazione della comunicazione preventiva, che il bene da sottoporre a fermo è strumentale all’esercizio dell’impresa 25. Anzitutto, il generico riferimento al nesso di strumentalità del bene mobile rispetto all’impresa e la possibile accezione in senso meramente contabile-documentale di tale nesso potrebbe prestarsi ad ipotesi di strumentalità “di comodo”, specie nell’ambito delle imprese di minori dimensioni. Inoltre, e più in generale, l’esclusione assoluta dell’assoggettabilità al fermo amministrativo di tutti i beni mobili strumentali all’esercizio dell’impresa non sembra in linea con l’approccio seguito dal legislatore in merito al rapporto tra espropriazione forzata esattoriale e beni d’impresa. Occorre rilevare, infatti, che con lo stesso D.L. n. 69/2013 che ha modificato la disciplina del fermo amministrativo nel senso sopra delineato il legislatore è altresì interve23 Come ben argomenta GUIDARA, Le nuove “intimazioni” di pagamento introdotte dal decreto sviluppo, in Rass. trib., 2011, pp. 1507-1512. 24 Si veda la recente Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667 che ha riconosciuto alla modifica in commento valenza interpretativa «in quanto esplicita in una norma positiva il precetto imposto dal rispetto del principio fondamentale immanente nell’ordinamento tributario che prescrive la tutela del diritto di difesa del contribuente mediante l’obbligo di attivazione da parte dell’amministrazione del contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo» e ha esteso il regime di notifica della comunicazione in discorso anche al regime antecedente al D.L. n. 70/2011. Si tenga altresì conto che gli atti finalizzati all’esecuzione – tra cui rientrano anche i provvedimenti di iscrizione di ipoteca e di fermo amministrativo, entrambi qualificabili, secondo l’orientamento espresso dalla citata Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667, come strumenti autonomi «di coazione finalizzati all’esecuzione indiretta del credito» – costituiscono i primi atti notificati al debitore successivamente all’avviso di accertamento, la cui notifica nelle forme dovute potrebbe, in ipotesi, anche mancare. Sulle criticità che in tal caso si originano in punto di tutela dei diritti dei contribuenti si vedano CARINCI, L’accertamento esecutivo tra punti fermi e perduranti profili di criticità, in Il Fisco, 2014, p. 2863 ss.; GLENDI, Nuovi profili della tutela cautelare a fronte degli atti “impoesattivi”, in Corr. trib., 2012, p. 537 ss.; GLENDI, Notifica degli atti “impoesattivi” e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. prat. trib., 2011, p. 496 ss. 25 Si veda l’art. 86, comma 2, D.P.R. n. 602/1973. Alessio Persiani 679 nuto sulle norme che disciplinano la pignorabilità dei beni mobili utilizzati nell’esercizio dell’impresa. Ebbene, adeguandosi all’evoluzione sul punto del codice di rito 26, il legislatore tributario ha esteso all’ambito dell’espropriazione forzata esattoriale il regime di impignorabilità relativa dei beni «indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere», potendo questi essere pignorati nei limiti di un quinto del relativo valore e solo «quando il presumibile valore di realizzo degli altri beni rinvenuti dall’ufficiale esattoriale o indicati dal debitore non appare sufficiente per la soddisfazione del credito» 27. Se dunque il legislatore ha ritenuto di dover salvaguar26 Il riferimento è, in particolare, alla riforma del codice di procedura civile di cui alla L. 24 febbraio 2006, n. 52, il cui art. 3 ha trasformato il previgente regime di impignorabilità assoluta di «strumenti, oggetti e libri indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere» di cui all’allora art. 514, n. 4) c.p.c. in un regime di impignorabilità relativa, disciplinato dall’attuale art. 515, comma 3, c.p.c. Tale regime di impignorabilità relativa si fonda su un limite massimo alla pignorabilità di carattere quantitativo – vale a dire un quinto del valore dei beni in questione – e su un vincolo di sussidiarietà, potendo tali beni essere pignorati solo in caso di insufficienza degli altri beni del debitore. Per la riespansione del regime di impignorabilità assoluta nei casi in cui il bene strumentale sia unico e non frazionabile o, più in generale, qualora non sia possibile pignorare uno o più beni per il valore limite di un quinto si segnala l’interessante pronuncia del Trib. Trani, sez. civ., 5 novembre 2014 che esclude la soluzione della pignorabilità dell’unico bene per l’intero (con applicazione del limite del quinto al ricavato della vendita) a motivo del contrasto di tale soluzione con la ratio di conservazione al debitore dei beni strumentali all’esercizio della sua impresa, nonché per la possibile insoddisfazione del creditore a causa dell’applicazione del limite del quinto sul ricavato della vendita (pur in presenza della vendita dei beni strumentali). 27 Così l’art. 62, comma 1, D.P.R. n. 602/1973, nel testo risultante a seguito delle modifiche recate dall’art. 52, comma 1, lett. d), n. 1), D.L. n. 69/2013. Nel regime precedente a tali modifiche l’espropriazione esattoriale era ispirata al principio opposto, di tendenziale insensibilità al regime di impignorabilità – allora assoluta, peraltro – dei beni indispensabili all’esercizio dell’impresa o della professione. Infatti, nel disporre che «i beni mobili indicati nel numero 4 del primo comma dell’articolo 514 del codice di procedura civile possono essere pignorati nei casi in cui sono soggetti al privilegio previsto dall’articolo 2759 del codice civile», il previgente art. 62, comma 1 derogava al regime processualcivilistico applicabile nei confronti della generalità dei creditori e consentiva all’agente della riscossione di pignorare i beni in discorso in tutti i casi in cui il credito azionato fosse riferito alle imposte sui redditi. Il menzionato art. 52, D.L. n. 69/2013, nel recepire l’impostazione del codice di rito in punto di impignorabilità relativa dei beni d’impresa, l’ha altresì estesa alla generalità dei debitori, ivi compresi quelli costituiti in forma societaria e quelli connotati da una prevalenza del capitale sul lavoro; soggetti, questi, nei cui confronti non trova applicazione il regime di impignorabilità relativa di cui all’art. 515, comma 3, c.p.c. Proprio all’illustrata estensione soggettiva dell’ambito di applicazione del citato art. 62, comma 1 fa riferimento, a ben vedere, la relazione di accompagnamento dell’art. 52, comma 1, lett. d), n. 1), D.L. n. 69/2013, laddove specifica che «con la novella in commento si prevede di estendere le limitazioni stabilite dal codice di procedura civile alla pignorabilità dei beni strumentali 680 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 dare i diritti dei debitori esercenti un’attività d’impresa o professionale mediante un regime di impignorabilità relativa dei beni indispensabili all’esercizio dell’attività e, più precisamente, ponendo un vincolo di pignoramento parziale dei beni stessi e di sussidiarietà rispetto agli altri beni pignorabili, non sembra logico prevedere che i beni connotati da mera strumentalità rispetto all’esercizio dell’attività economica – e dunque anche quelli non qualificabili come indispensabili per il suo esercizio 28 – siano sottratti in via assoluta ed inderogabile al fermo amministrativo. In altri termini, pur muovendosi nella prospettiva del fermo amministrativo quale atto non direttamente preordinato all’espropriazione forzata 29 ma riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria 30, non v’è dubbio che essa abbia la funzione prioritaria di evitare che i beni siano sottratti alla riscossione e di indurre il debitore all’adempimento, in modo da evitare per quanto possibile il pignoramento 31. Ebbene, non sembra coerente con il perseguimento utilizzati da imprenditori ditte individuali, a imprese che abbiano forma giuridica di società e nei casi di prevalenza del capitale sul lavoro». Inoltre, sempre nel quadro nell’ottica di favor per i beni strumentali per l’esercizio dell’impresa si colloca altresì l’allungamento a 300 giorni del periodo di efficacia del pignoramento dei beni stessi di cui all’art. 62, comma 1 bis, D.P.R. n. 602/1973, ciò che consente al debitore di mantenere attiva la produzione per un ulteriore e congruo periodo di tempo, salvaguardando l’occupazione e cercando risorse per assolvere il debito tributario. 28 La differenza tra beni indispensabili all’esercizio dell’attività d’impresa o professionale e beni meramente strumentali è ben illustrata dalla giurisprudenza civilistica che ha ritenuto sottratti al regime di impignorabilità previsto dal codice di rito quei beni che, pur strumentali, «costituiscano una dotazione sovrabbondante rispetto alle necessità lavorative» (Cass., sez. III, 25 febbraio 2009, n. 4488; Cass., sez. III, 7 febbraio 2008, n. 2934) o che svolgano una funzione «surrogabile da altro mezzo» (Trib. Monza, 13 maggio 2002). 29 Tesi, questa, sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità meno recente – ci si riferisce a Cass., sez. un., 31 gennaio 2006, n. 2053 e Cass., 23 giugno 2006, n. 14701 – e da una parte della dottrina tributaria, tra cui RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano 2005, p. 27. 30 Vale rilevare come tale qualificazione, affermata dall’indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità in relazione al fermo amministrativo, sia stata recentemente estesa anche all’iscrizione di ipoteca. Si veda la menzionata Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667 e, più di recente, l’ordinanza Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15354. Nel senso della qualificazione del provvedimento di fermo amministrativo quale «strumento autonomo di coazione finalizzato all’esecuzione indiretta del credito» si veda anche CANNIZZARO, Il fermo e l’ipoteca nella riscossione coattiva dei tributi, Torino, 2013, p. 80. 31 In questo senso si veda DEL FEDERICO, Fermo sui beni mobili e ipoteca, cit., p. 227. Anche CANNIZZARO, op. ult. cit., p. 80 sottolinea che il fermo amministrativo è, in ultima analisi, rivolto a sollevare «l’amministrazione dall’onere di attivare dispendiosi, in termini di tempo e di mezzi economici, procedimenti di espropriazione forzata». Alessio Persiani 681 di tali finalità alterare a svantaggio dell’agente della riscossione quel corretto bilanciamento tra le esigenze alla celere esazione del credito erariale e la tutela dei diritti dei contribuenti imprenditori o professionisti individuato, nel contesto della disciplina generale dell’espropriazione forzata, nel regime di impignorabilità relativa dei beni indispensabili per l’esercizio dell’impresa o della professione, con l’effetto di attenuare l’efficacia della misura de qua e la sua capacità di induzione all’adempimento del debitore, incentivato, anzi, a sottrarre alla riscossione beni successivamente aggredibili con il pignoramento in quanto non indispensabili all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale 32-33. Se così è, allora, un approccio normativo univoco e coerente avrebbe consigliato di estendere alla disciplina del fermo amministrativo gli stessi limiti previsti per la pignorabilità dei beni indispensabili per l’attività d’impresa o professionale 34. Precisamente, tenuto conto delle possibili difficoltà che, almeno in alcuni casi, potrebbe porre il limite del quinto rispetto all’applicazione del fermo amministrativo 35, il legislatore avrebbe potuto con32 Tenuto conto che il fermo amministrativo investe beni mobili registrati, va rilevato che essi costituiscono beni indispensabili all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale solo in una cerchia relativamente ristretta di casi (si pensi all’impresa di autotrasporto o all’agente di commercio). Con la conseguenza, dunque, che nella maggior parte dei casi l’agente della riscossione non potrà disporre il fermo amministrativo di beni che, successivamente, saranno pignorabili liberamente, al di fuori dei vincoli posti dal regime di impignorabilità relativa di cui al menzionato art. 62, D.P.R. n. 602/1973. 33 Senza trascurare, peraltro, l’incidenza che sull’illustrata incoerenza è probabilmente derivata dal diverso momento genetico delle norme in commento. Infatti, mente la novellata disciplina della pignorabilità dei beni di cui all’art. 62, comma 1, D.P.R. n. 602/1973 era stata prevista già nella versione originaria dell’art. 52, D.L. n. 69/2013, le modifiche all’art. 86 sul fermo amministrativo sono state inserite in sede di conversione del D.L. stesso e, precisamente, con un emendamento approvato nel contesto dell’esame del decreto da parte delle commissioni parlamentari. A quanto risulta dai resoconti parlamentari, il dibattito sul merito dell’emendamento è stato piuttosto limitato. 34 E, in ipotesi, di estendere anche alla disciplina del fermo amministrativo la nozione di beni indispensabili all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale su cui si fonda il regime di impignorabilità previsto dal menzionato art. 62, oltre che dal codice di rito. Ciò che, probabilmente, contribuirebbe ad attenuare gli illustrati dubbi (e possibili abusi) in merito alla nozione di strumentalità, salvaguardando, al contempo, i diritti di quella ristretta cerchia di imprenditori e professionisti per i quali i beni mobili registrati costituiscono effettivamente un bene insostituibile per l’esercizio dell’attività. 35 Tenuto conto che il fermo amministrativo grava su beni mobili registrati, si pensi al caso dell’unico automezzo dell’impresa, rispetto al quale, evidentemente, risulterebbe impossibile applicare un provvedimento di fermo amministrativo limitato ad un quinto del relativo valore. Ciò non varrebbe, viceversa, per il caso di una flotta aziendale di automezzi, rispetto ai quali un provvedimento di fermo amministrativo parziale ben potrebbe essere disposto. 682 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 dizionare l’adozione della misura in parola quantomeno al medesimo vincolo di sussidiarietà previsto con riferimento all’espropriazione 36. Con la conseguenza che l’agente della riscossione, anche in coerenza con l’orientamento della giurisprudenza più attenta al principio di proporzionalità 37, avrebbe potuto disporre il fermo amministrativo dei beni mobili registrati dell’imprenditore o del professionista in tutti i casi in cui questi non fosse stato in grado di offrire beni diversi per l’adeguata garanzia del credito tributario. 2.2. I limiti all’espropriazione immobiliare Venendo alle modifiche apportate alla disciplina dell’espropriazione forzata esattoriale ed all’individuazione dei beni espropriabili, rilievo centrale assumono i limiti posti all’espropriazione immobiliare. Tra questi una riflessione particolare merita, a nostro avviso, la sottrazione dell’abitazione principale all’espropriazione immobiliare 38. Non può sfuggire, infatti, come in tale previsione il punto di equilibrio individuato dal legislatore tra i contrapposti interessi del Fisco e dei contribuenti-debitori sacrifichi in modo quasi assoluto i primi a vantaggio dei secondi 39. Ebbene, ci pare che un tale sacrificio – ripetiamo, quasi assoluto – dell’interesse statale alla riscossione delle imposte susciti qualche perplessità, tenuto conto che una tale scelta non può ritenersi imposta o raccomandata né dalle declinazioni del principio di proporzionalità operate a livello internazionale dalla Corte di Strasburgo, né dalla tutela costituzionale di cui il diritto all’abitazione gode nel nostro ordinamento. 36 Ferma restando, comunque, la distinzione esistente tra il piano della disciplina del fermo amministrativo e quello del pignoramento dei beni. Sotto questo profilo, dunque, non possono condividersi le affermazioni di CTR Lombardia, sez. 50, 21 giugno 2013, n. 131 ove i giudici, al fine di giustificare l’illegittimità del fermo amministrativo degli automezzi dell’impresa, fanno leva sulle previsioni in tema di impignorabilità relativa dei beni indispensabili all’esercizio dell’impresa, peraltro motivando in modo non condivisibile l’applicabilità di tale regime di impignorabilità nei confronti di un debitore costituito in forma societaria. 37 Si veda, al riguardo, CTP Milano n. 521/2009 menzionata nella precedente nota n. 8. 38 Si veda l’art. 76, comma 1, D.P.R. n. 602/1973. Tale regime è stato – a nostro avviso correttamente – ritenuto applicabile anche alle procedure esecutive iniziate precedentemente all’entrata in vigore del citato art. 76, comma 1, come risultante dalle modifiche di cui all’art. 52, comma 1, lett. g), D.L. n. 69/2013, facendo leva sulla natura procedimentale della previsione. Si veda Cass., sez. III, 12 settembre 2014, n. 19270. 39 Tenuto conto che l’espropriazione dell’unico immobile adibito ad abitazione principale del debitore è consentita unicamente nel caso in cui l’immobile abbia caratteristiche tali da qualificarsi come immobile c.d. “di lusso”. Alessio Persiani 683 Con riferimento agli orientamenti internazionali, va rilevato che la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo indica bensì la necessità di un bilanciamento delle diverse prerogative erariali e dei contribuenti particolarmente attento allorché l’espropriazione forzata abbia ad oggetto la casa di abitazione, ma non certo un’esclusione tout court di tale immobile all’esecuzione forzata delle autorità fiscali. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza Rousk, in cui si discuteva della legittimità dell’operato sia dell’Amministrazione finanziaria svedese preposta all’attività di accertamento sia dell’autorità, anch’essa riconducibile allo Stato svedese, incaricata di riscuotere coattivamente i crediti tributari. In un contesto fattuale affatto particolare 40 e in cui il contribuente lamentava di aver subito ad opera dell’autorità incaricata della riscossione l’espropriazione della propria abitazione per una pretesa tributaria che l’Amministrazione finanziaria aveva annullato in autotutela lo stesso giorno in cui si era tenuto il pubblico incanto per la vendita della casa, la Corte di Strasburgo ha bensì evidenziato l’interferenza della privazione dell’abitazione con il diritto alla vita privata e familiare dell’individuo garantito dall’art. 8 della CEDU, ma, lungi dal ritenere l’espropriazione illegittima in sé, si è limitata a rilevare la violazione del principio di proporzionalità per non aver le autorità svedesi posto in essere procedure che potessero consentire al contribuente di far effettivamente valere le proprie ragioni 41. La scelta del legislatore – quantomeno nella sua opzione di non espropriabilità dell’abitazione del debitore – neppure risulta del tutto coerente con il tessuto dei valori costituzionali e, in particolare, con la tutela che in base all’art. 47, comma 2 della Carta fondamentale deve accordarsi al diritto all’abitazione 42. Non può trascurarsi, infatti, che il diritto all’abitazione si in40 Particolarità costituita dallo svolgimento delle attività amministrative di accertamento e riscossione con ritmi particolarmente serrati, sol che si pensi che l’ente incaricato di procedere alla riscossione (Kronofogdemyndigheten) del credito tributario aveva iscritto il credito nei propri registri nel mese di aprile 2003 e dopo poco più di quattro mesi – il 3 settembre 2003, precisamente – si era già conclusa la procedura di espropriazione della casa di abitazione del debitore. 41 Si veda, in particolare, il par. 137 della sentenza Rousk, ove la Corte evidenzia bensì che «the loss of one’s home is a most extreme form of interference with the right to respect for the home», ma, al successivo par. 138, subito precisa che «it will sometimes be necessary for the State to attach and sell property, including an individual’s home, in order to secure the payment of taxes due to the State through enforceable debts». Ed infatti, la Corte di Strasburgo si limita a censurare la normativa svedese unicamente sotto il profilo del mancato rispetto del principio di proporzionalità, rilevando che «these measures must be enforced in a manner which ensures that the individual’s right to his or her home is properly considered and protected». 42 Su cui si veda BARGELLI, (voce) Abitazione (dir. alla), in Enc. dir., Annali VI, 2012, 684 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 serisce nel novero dei diritti sociali e che, come tale, esso ben può formare oggetto di bilanciamento con altri interessi aventi dignità costituzionale che si collochino al medesimo livello, ivi incluso il principio di capacità contributiva quale valore regolatore dei rapporti politici sul versante economico 43. L’opportunità di bilanciamento del diritto all’abitazione con i diversi e concorrenti interessi costituzionalmente tutelati ci pare ben espressa da una fondamentale pronuncia della Corte costituzionale in tema di diritto di abitazione ai cui contenuti il legislatore del novellato art. 76, comma 1, D.P.R. n. 602/1973 sembra aver fatto un implicito – ma, come diremo, solo parziale – riferimento. Le condizioni poste dall’art. 76 in merito alla qualificazione dell’abitazione come non di lusso 44, alla sua destinazione a residenza del depp. 1-19 nonché BILANCIA, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, in Ist. feder., 2010, pp. 231-248. Sull’importanza del diritto all’abitazione nel panorama dei diritti sociali costituzionalmente garantiti e sulla sua ricomprensione, al pari degli altri diritti sociali, tra i diritti cc.dd. “finanziariamente condizionati” si veda anche AA.VV., I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Relazione predisposta in occasione dell’incontro della delegazione della Corte costituzionale con il Tribunale costituzionale della Repubblica di Polonia, Varsavia 30-31 marzo 2006, in www.cortecostituzionale.it, p. 10. 43 Non v’è dubbio che l’interesse statale alla riscossione dei tributi riconducibile – come evidenzia BASILAVECCHIA, La riscossione dei tributi nel quadro costituzionale, cit., p. 8 – al principio di capacità contributiva si collochi ad un livello quantomeno equiordinato rispetto al diritto sociale di abitazione e che, dunque, non si versa nelle ipotesi di bilanciamento ineguale tratteggiato da LUCIANI, Sui diritti sociali, in Dem. dir., n. 4, 1994, n. 1, 1995, p. 569 con riferimento ai condizionamenti economici alla realizzazione dei diritti sociali, laddove sarebbe precluso porre sullo stesso piano il fine ed il mezzo. Va rilevato, peraltro, che tale posizione sulla pretesa disomogeneità dei valori cui si correlano i diritti sociali da un lato e l’equilibrio di bilancio dall’altro lato non è unanimemente condivisa, specie a seguito delle modifiche relative all’art. 81 Cost. sul c.d. “pareggio di bilancio”. A quest’ultimo riguardo si veda MORRONE, Pareggio di bilancio e Stato costituzionale, in Lavoro e dir., 2013, p. 357 ss. 44 Taluni dubbi possono sollevarsi in merito all’idoneità del criterio prescelto dal legislatore per l’individuazione degli immobili di lusso. In primo luogo, sono note le criticità in merito alla rispondenza della classificazione catastale rispetto alla situazione reale; criticità dipendenti dal mancato aggiornamento delle classificazioni catastali rispetto all’effettivo stato di conservazione degli immobili. Ebbene, se spesso tale discrasia risulta favorevole al contribuente, vi sono casi in cui l’effetto è opposto e a questi sfavorevole. Si veda, a conferma, il paradossale caso riportato in Al Catasto il «lusso» non passa mai di moda, in Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2014, p. 5, relativo ad un immobile dell’Appennino ligure classificato nella categoria catastale A/8 – e, dunque, come villa, rientrante tra gli immobili di lusso cui non si applica l’esclusione dall’espropriazione immobiliare in discorso – in quanto nel 1929, in cui fu effettuata la classificazione catastale, era dotato di impianto elettrico, impianto dell’acqua calda, bagni piastrellati e soffitti di altezza superiore a 3 metri. In tali ipotesi di classamento catastale non adeguato alla realtà fattuale spetta al contribuente agire per ot- Alessio Persiani 685 bitore e alla titolarità solo di tale immobile da parte debitore stesso rinviano, infatti, alle statuizioni della Corte costituzionale riferite ad una normativa tenere «una definizione mirata e specifica relativa alla sua proprietà»: come affermato da Cass., 8 settembre 2008, n. 22557 e recentemente ribadito da CTP Campobasso, 6 febbraio 2014, n. 52/1/14, in base al principio di capacità contributiva va riconosciuto «a ogni titolare d’immobile la facoltà di chiedere una diversa classificazione catastale e quindi una diversa rendita del bene, e ovviamente, in caso di risposta negativa di rivolgersi al giudice», che «procederà ad una valutazione in cui ben può tener conto di mutate condizioni, della vetustà dell’edificio, della non rispondenza dell’immobile alle esigenze attuali; e potrà eventualmente disapplicare i criteri elaborati dall’Amministrazione». Inoltre, sotto altro profilo, la qualificazione di un immobile come di lusso appare tutt’altro che univoca nell’ordinamento tributario. Fino al recente art. 33 del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, l’identificazione delle case di abitazione di lusso ai fini IVA avveniva, infatti, mediante rinvio ai criteri di cui al D.M. 2 agosto 1969 – si vedano il n. 21 della Tabella A, Parte II ed il n. 127 undecies) della Tabella A, Parte III allegata al D.P.R. n. 633/1972 laddove escludevano l’applicabilità in tale ipotesi delle aliquote ridotte del 4% e del 10%. Ai fini dell’imposta di registro dovuta in misura proporzionale, invece, a seguito delle modifiche recate dall’art. 10, D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 all’art. 1 della Tariffa – Parte Prima allegata al D.P.R. n. 131/1986 gli immobili di lusso sono identificati mediante il riferimento alla classificazione catastale – vale a dire alle categorie A/1, A/8 e A/9, dovendosi ritenere superato – almeno secondo l’avviso espresso dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare 21 febbraio 2014, n. 2/E – il rinvio ai criteri di cui al menzionato D.M. del 1969 ai fini dell’interpretazione della nota II bis) dell’art. 1, della Tariffa – Parte Prima allegata al D.P.R. n. 131/1986. Il recente D.Lgs. n. 175/2014 ha, come detto, modificato il quadro di riferimento, introducendo anche nel contesto dell’IVA il riferimento alle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, pervenendosi, almeno nelle intenzioni del legislatore, ad un’uniformazione della definizione di immobile di lusso ai fini di tali imposte. Tuttavia – come rileva BUSANI, Bonus prima casa, l’accatastamento fissa l’agevolazione, in Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2014, p. 21 – le modifiche hanno interessato unicamente il n. 21 della Tabella A, Parte II allegata al D.P.R. n. 633/1972, con la conseguenza che nel contesto dell’IVA, e precisamente al n. 127 undecies) della Tabella A, Parte III allegata al D.P.R. n. 633/197, permane tuttora il riferimento ai criteri dettati dal D.M. 2 agosto 1969, con incoerenze impositive di non poco conto sulle singole fattispecie; incoerenze che la Circolare dell’Agenzia delle Entrate 30 dicembre 2014, n. 31/E ha tentato di superare accedendo ad un’interpretazione sistematica del predetto n. 127 undecies), dando rilievo anche in tale ambito alle categorie catastali e non – come prevede la lettera della disposizione – ai criteri di cui al D.M. 2 agosto 1969. In questo quadro normativo di interpretazione tutt’altro che agevole, il criterio prescelto dal legislatore dell’art. 76, D.P.R. n. 602/1973 si differenzia ulteriormente da tutti quelli sin qui esposti, operandosi un congiunto riferimento alle categorie catastali A/8 e A/9 – restando dunque esclusi, senza apparente motivazione, gli immobili di categoria A/1 – e al più volte citato D.M. del 1969. Inoltre, e sotto un profilo più generale, non può trascurarsi come il riferimento ai criteri dettati dal D.M. del 1969 possa porre diverse difficoltà operative. Al di là di alcune ipotesi di integrazione dei criteri accertabili con relatività facilità – è il caso della superficie dell’immobile – va rilevato che per molti degli standard fissati dal decreto – si pensi alla valutazione di pregio dei pavimenti, degli infissi, delle pareti o dei soffitti – sarebbe necessario un approfondito sopralluogo dell’immobile, che nella prassi raramente avviene. 686 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 regionale siciliana sulle condizioni cui il sindaco di un comune – dopo aver acquisito un immobile abusivo al patrimonio edilizio comunale – poteva concedere il diritto reale di abitazione al debitore ed ai componenti della sua famiglia. In tal caso la stessa Corte ebbe a precisare come il riconoscimento di tale diritto non potesse avvenire «né a favore degli aventi causa a qualsiasi titolo di chi ha commesso l’abuso o di altri possessori successivi, né a favore di imprese o società» e, inoltre, che il diritto reale di abitazione non potesse essere concesso «relativamente a edifici aventi caratteristiche di abitazione di lusso o di “seconda casa”», atteso che «in questi casi si esorbiterebbe dall’interesse pubblico (costituzionalmente tutelato) che presiede al provvedimento del sindaco, diretto a soddisfare un’esigenza abitativa primaria, riferibile soltanto ai bisognosi (chi non ha altra casa) e nei limiti di tale diritto sociale (necessità di assicurare un livello di vita che non sia inferiore a quello di una “vita dignitosa”)» 45. Solo in presenza di tali condizioni – aggiunge la Corte – si assiste ad un «bilanciamento non irrazionale tra l’esigenza di disciplinare il grave problema dell’abusivismo edilizio e l’esigenza (di rilievo anche costituzionale) di assicurare un’abitazione ai bisognosi». Ora, pur consapevoli della diversità dell’interesse antagonista del diritto all’abitazione nella citata pronuncia costituzionale e nella normativa tributaria che ci occupa, il legislatore avrebbe forse potuto operare un più equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi del Fisco e del contribuentedebitore avendo proprio riguardo al bilanciamento effettuato dalla normativa siciliana ed espressamente approvato dai giudici costituzionali. In altri termini, al pari di quanto fatto dal legislatore regionale siciliano, anche il legislatore tributario del citato art. 77 avrebbe potuto lasciare ferma l’espropriabilità della casa di abitazione del debitore e riconoscere contestualmente al debitore stesso un diritto reale di abitazione, come tale idoneo a salvaguardare i bisogni abitativi suoi e della sua famiglia 46-47. Ciò che avrebbe con45 Così Corte cost., 5 maggio 1994, n. 169, la cui importanza è evidenziata anche da SCAGLIARINI, Diritto sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in www.gruppodipisa.it, p. 11. 46 È ben vero che l’espropriazione e la vendita a terzi di un immobile gravato dal diritto di abitazione appare tutt’altro che agevole e, indubbiamente, l’immobile può avere un’appetibilità sul mercato piuttosto limitata. Tuttavia, non sembra irragionevole ipotizzare, almeno nelle menzionate ipotesi di debitori privi di altri beni espropriabili, quantomeno un tentativo di vendita dell’immobile; tentativo che, ove avesse esito positivo, permetterebbe al Fisco di recuperare, in tutto o in parte, le somme dovute. 47 La particolare delicatezza del corretto bilanciamento degli interessi erariali e dei diritti dei contribuenti rispetto all’espropriazione della casa di abitazione è sottolineata Alessio Persiani 687 tribuito a ridurre le ipotesi di completo sacrificio delle prerogative erariali e a rendere maggiormente conforme al principio di ragionevolezza il bilanciamento tra gli interessi, aventi pari dignità costituzionale, riconducibili al diritto all’abitazione ed al principio di capacità contributiva. 2.3. La definizione di un paniere di beni essenziali non espropriabili Perplessità in punto di corretto bilanciamento tra le esigenze di certa e celere riscossione dei tributi e salvaguardia dei diritti dei contribuenti-debitori suscita altresì un’altra innovazione collocata – ma, come diremo subito, in modo opinabile – nel quadro della disciplina dell’espropriazione immobiliare. Intendiamo riferirci alla preclusione dell’espropriazione di uno «specifico paniere di beni definiti “beni essenziali”», da individuarsi con apposito decreto ministeriale 48. Nell’attesa che tale decreto venga emanato, può anzitutto sollevarsi qualche dubbio in merito alla collocazione sistematica della disposizione: tenuto conto del limite all’espropriazione della casa di abitazione posto dalla precedente lett. a) dello stesso art. 77 sembra difficile ipotizzare beni immobili ulteriori e connotati da tale essenzialità per le esigenze primarie del debitore da risultare non aggredibili mediante la procedura espropriativa. Con la conseguenza che i beni essenziali cui la previsione in discorso si riferisce dovrebbero individuarsi, con tutta probabilità ed a dispetto della collocazione della norma, tra i beni mobili del debitore. Tuttavia, anche ad accogliere una tale lettura, non è chiaro quali possano essere i beni sottratti alle procedure espropriative in virtù della previsione in discorso. Non è chiaro, cioè, se l’emanando decreto ministeriale di individuazione del paniere di “beni essenziali” sia rivolto ad integrare l’elenco di beni assolutamente e relativamente impignorabili di cui alla normativa processualcivilistica 49; limiti, questi, che anche l’agente della riscossione deve osservare 50. Tenuto conto che il decreto ministeriale in questione dovrà essere emanato d’intesa con l’ISTAT, si potrebanche da BASILAVECCHIA, La riscossione dei tributi nel quadro costituzionale, cit., p. 12, nota n. 13. 48 Si tratta, precisamente, dell’art. 76, comma 1, lett. a-bis), D.P.R. n. 602/1973. 49 Il riferimento è, in particolare, alle disposizioni di cui agli artt. 514, 515 e 516 c.p.c. che nel prevedere un regime di impignorabilità assoluta o relativa di determinati beni mobili, ne sanciscono l’inidoneità – assoluta o limitata a talune ipotesi – a formare oggetto di esecuzione forzata. 50 Giusta il rinvio generale alle norme processualcivilistiche in tema di espropriazione forzata recato dall’art. 49, comma 2, D.P.R. n. 602/1973. 688 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 be pensare che i “beni essenziali” in parola debbano individuarsi tra quelli costituenti il paniere per il calcolo dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo 51. Anche seguendo tale approccio, tuttavia, non sembra agevole individuare all’interno del paniere “beni essenziali” che non siano già ricompresi tra quelli sottoposti a limiti più o meno intensi di pignorabilità da parte del codice di rito: è questo il caso degli alimenti e delle bevande 52, dell’abbigliamento 53, di mobili ed elettrodomestici per la casa 54. Residuano, rispetto al paniere ISTAT, i mezzi di trasporto – che difficilmente possono annoverarsi tra i “beni essenziali” per le esigenze del debitore e che, come detto, il legislatore tributario già sottopone a specifici limiti di pignorabilità allorché si tratti di beni indispensabili per l’esercizio di un’attività economica – gli apparecchi televisivi, telefonici ed informatici – non inclusi tra i beni impignorabili dal codice di rito e la cui ricomprensione è stata da tempo auspicata dalla stessa Corte costituzionale 55 – e i beni per la cura della persona, che, al di là del loro valore economico sovente trascurabile, potrebbero rientrare, almeno in alcuni casi, tra gli «utensili di casa indispensabili al debitore» assolutamente impignorabili ex art. 514, n. 2) c.p.c. Se così è, la norma in commento sembra poter assolvere, tutt’al più, ad una finalità di aggiornamento dell’elenco dei beni impignorabili in base alla normativa processualcivilistica, per tenere conto dell’evoluzione economica, sociale e culturale. In quest’ottica, tuttavia, sembra lecito avanzare dubbi sul modo in cui l’intervento legislativo è stato calibrato: sarebbe stata preferibile, infatti, una modifica del codice di rito – come tale applicabile anche alla riscossione tributaria – piut51 La composizione di tale paniere è pubblicata sul sito istituzionale dell’ISTAT al seguente indirizzo www.istat.it. 52 In relazione ai beni commestibili, infatti, l’art. 514, n. 3) c.p.c. prevede la loro impignorabilità limitatamente alla quantità necessaria «per un mese al mantenimento del debitore» e delle persone della sua famiglia con lui conviventi. 53 Si veda il riferimento fatto dall’art. 514, n. 2) c.p.c. ai vestiti e alla biancheria. 54 Sia pur con alcuni limiti, anche in tal caso si tratta di beni inclusi tra quelli assolutamente impignorabili: si veda la menzione recata nell’art. 514, n. 2) c.p.c. ai «tavoli per la consumazione dei pasti con le relative sedie, gli armadi guardaroba, i cassettoni, il frigorifero, le stufe ed i fornelli da cucina anche se a gas o elettrici, la lavatrice». 55 Il riferimento è, in particolare, all’ordinanza Corte cost., 22 ottobre 1990, n. 492 che, nel ritenere non meritevole di censura sotto il profilo costituzionale l’esclusione del televisore dall’elenco dei beni impignorabili, aveva comunque evidenziato che «in considerazione della rilevanza sociale che, dall’ultima modifica legislativa della norma impugnata ad oggi, alcuni beni hanno assunto, appare ormai opportuno un nuovo apprezzamento in sede legislativa della realtà verificatasi nella vita sociale, che possa condurre ad un’eventuale modifica dell’elenco dei beni impignorabili in modo da renderlo più aderente a tale evoluzione». Alessio Persiani 689 tosto che una previsione di incerto contenuto, di difficile attuazione e, comunque, irragionevolmente limitata al solo ambito della riscossione delle entrate soggette al regime di cui al D.P.R. n. 602/1973. 3. Riscossione, principio di proporzionalità ed ulteriori possibili aree di intervento: la disciplina dell’aggio di riscossione e del rimborso delle spese sostenute dall’agente della riscossione Da quanto sin qui esposto emerge chiaramente come le modifiche apportate negli ultimi anni dal legislatore alla disciplina della riscossione coattiva abbiano riguardato proprio molti degli ambiti – la tutela dell’abitazione, lo svolgimento dell’attività professionale e imprenditoriale, la salvaguardia dei contribuenti in situazioni di grave difficoltà in riferimento alle previsioni sulla pignorabilità dei beni e alla rateizzazione dei debiti – cui fa riferimento l’art. 10, comma 1, lett. e), legge delega n. 23/2014. In tali ambiti, si è detto, il legislatore si è già avviato verso la realizzazione di quel principio di proporzionalità sub specie di equo contemperamento di contrapposti interessi prefigurato dalla legge delega. Si è evidenziato, anzi, come la legge delega potrebbe costituire l’occasione per eliminare talune incoerenze della vigente disciplina; incoerenze che, come detto, finiscono per comprimere talvolta in modo eccessivo le prerogative statali alla riscossione dei tributi dovuti. Oltre a ciò, i decreti legislativi da emanare sulla scorta della legge delega potrebbero costituire l’occasione per intervenire su taluni profili critici che tuttora persistono nel contesto della disciplina della riscossione. La menzionata previsione dell’art. 10, infatti, nel fare riferimento «in particolare» agli ambiti sopra menzionati, non vieta di perseguire una migliore attuazione del principio di proporzionalità anche in altri e diversi ambiti della riscossione tributaria. Fermo restando che criticità sono emerse con riferimento a diversi istituti 56, riteniamo opportuno concentrare in modo particolare l’attenzione sulla 56 È il caso, ad esempio, della procedura di sospensione della riscossione di cui alla L. n. 228/2012, ove, in caso di inerzia dell’ente creditore prolungata per più di duecentoventi giorni dalla presentazione un’apposita dichiarazione presentata dal contribuente, si prevede l’annullamento di diritto dei crediti posti in riscossione non solo – come è probabilmente accettabile – nei casi di prescrizione, decadenza, sgravio e avvenuta soddisfazione del credito, ma anche – ed in modo del tutto ingiustificato – per le ipotesi di mera sospensione, in via amministrativa o giudiziale, del corso della riscossione. Per un più approfondito esame del- 690 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 disciplina dell’aggio di riscossione e del rimborso delle spese sostenute dall’agente della riscossione quale area in cui, a nostro avviso, maggiormente si evidenziano possibili incoerenze con il principio di proporzionalità, anche per come esso risulta declinato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. A seguito dell’incremento della misura dell’aggio avvenuta negli ultimi an57 ni , si sono infatti acuiti i rilievi critici mossi alla disciplina; rilievi che hanl’istituto e delle relative criticità rinviamo a CARINCI, Introduzione del silenzio assenso all’istanza di autotutela e modifiche al sollecito per i crediti minori, in Corr. trib., 2013, p. 234 ss.; BASILAVECCHIA, Sospensione legale della riscossione: un percorso parallelo alla tutela giurisdizionale?, in Corr. trib., 2013, pp. 719-722 e BASILAVECCHIA-CORRADO-LUPI, Autocertificazione all’esattore per sospendere la riscossione: serviva proprio l’estinzione del credito?, in Dialoghi trib., 2013, pp. 84-88. Va rilevato che l’art. 1, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 159/2015 ha risolto la criticità segnalata, escludendo l’annullamento nei casi di sospensione della riscossione. Altra area ove sono emerse criticità è quella dei cc.dd. “accertamenti esecutivi”. Oltre al deficit di tutela segnalato in precedenza per il caso di mancata corretta notificazione dell’avviso di accertamento, vanno rilevate le carenze sul versante della tutela cautelare dei diritti dei contribuenti: anche a distanza di tre anni dall’effettivo avvio della riforma degli accertamenti esecutivi, i dati sul contenzioso tributario resi disponibili dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per i primi tre trimestri del 2014 mostrano come circa il 20% del totale delle istanze di sospensione cautelare presentate dai contribuenti continuino ad essere trattate oltre i centottanta giorni, con possibile lesione delle prerogative dei contribuenti stessi rispetto all’avvio da parte dell’agente della riscossione delle procedure esecutive. 57 La disciplina dell’aggio di riscossione è recata dall’art. 17, D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, che nella sua versione originaria rimetteva la fissazione della relativa misura, da effettuarsi con cadenza biennale, ad «un decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica» tenendo conto dei seguenti parametri: «a) costo normalizzato, pari al costo medio unitario del sistema, rapportato al carico dei ruoli calcolato senza tener conto del venti per cento dei concessionari aventi i più alti costi e del cinque per cento di quelli aventi i più bassi costi; b) situazione sociale ed economica di ciascun ambito, valutata sulla base di indici di sviluppo economico elaborati da organismi istituzionali; c) tempo intercorso tra l’anno di riferimento dell’entrata iscritta a ruolo e quello in cui il concessionario può porla in riscossione». Il D.Int. 4 agosto 2000 determinava l’aggio in una misura percentuale delle somme iscritte a ruolo riscosse differenziata per ambito provinciale, con oscillazioni non irrilevanti che sfioravano il 30% della soglia minima dell’aggio stesso: dalla misura più bassa del 7,40% prevista dall’art. 14 del suddetto decreto per la provincia autonoma di Bolzano si saliva, infatti, fino al 9,38% applicabile ai ruoli riscossi per la provincia di Crotone (art. 25). Successivamente alla riforma del sistema di riscossione attuata con il D.L. n. 203/2005, la misura dell’aggio è stata rideterminata dall’art. 32, comma 1, lett. a), D.L. n. 185/2008, che – superando il precedente meccanismo di fissazione a livello interministeriale fondato, almeno in parte, sui costi sostenuti per l’attività di riscossione – l’ha fissata, con atto d’imperio, al 9% «delle somme iscritte a ruolo riscosse e dei relativi interessi di mora». A seguito dell’intervento di cui all’art. 5, D.L. 6 luglio 2012, n. 95, la misura dell’aggio è stata determinata nell’8% «delle somme iscritte a ruolo riscosse e dei relativi interessi di mora». Alessio Persiani 691 no recentemente portato diversi giudici nazionali a dubitare della sua legittimità nella prospettiva sia costituzionale 58 sia europea 59-60. Non è questa la sede per analizzare funditus il contenuto delle diverse ordinanze di rimessione 61. Tuttavia, ed anche a voler ammettere la spettanza all’agente di ri58 Il riferimento è alle ordinanze CTP Roma 23 settembre 2010, n. 271, CTP Torino 18 dicembre 2012, n. 147 e CTP Latina 29 gennaio 2013, n. 40 che, sotto diversi profili, hanno ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate dalle parti. Per alcune riflessioni sulle ordinanze si vedano DE MITA, La riscossione servizio già pagato. L’aggio è un extra, in Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2013, p. 23; CANNIZZARO, Alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’«aggio» di riscossione, in Corr. trib., 2013, pp. 1283-1288. Va rilevato che la Corte costituzionale, con l’ord. 21 giugno 2013, n. 158, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione sollevata dalla Commissione romana. Tuttavia, tale ordinanza si fonda sull’assenza di motivazione in ordine alla rilevanza della questione, non avendo il giudice remittente «in alcun modo illustrato, anche solo sommariamente, le ragioni di infondatezza degli altri motivi di ricorso, pure spiegati in via principale nel giudizio a quo ed aventi “priorità logica”» e in alcun modo scalfisce la validità degli argomenti – o, quantomeno, di alcuni di essi – addotti a sostegno dell’illegittimità costituzionale della disciplina dell’aggio. Più di recente, la Corte costituzionale, con l’ord. 9 luglio 2015, n. 147, ha ritenuto non integrato il requisito di rilevanza delle questioni sollevate dalle Commissioni tributarie di Torino e Latina, evidenziando la carenza delle descrizioni delle fattispecie concrete su cui avrebbe dovuto incidere il giudizio della Corte stessa. Anche in tal caso, tuttavia, la mancata integrazione dei requisiti di ammissibilità delle questioni costituzionali ha impedito ai giudici di vagliare il merito degli argomenti addotti a sostegno delle stesse questioni. 59 Si veda la questione pregiudiziale sollevata dinanzi alla Corte di Giustizia UE da CTP Latina, ord. 29 gennaio 2013, n. 41 relativa al possibile contrasto tra la disciplina dell’aggio di riscossione e la normativa europea in materia di aiuti di Stato. Per un commento si veda CANNIZZARO, Rinvio alla Corte di giustizia UE sulla natura di aiuto di Stato dell’aggio di riscossione, in Corr. trib., 2013, pp. 1596-1602. 60 A ciò si aggiungano, poi, le reazioni critiche di quella giurisprudenza di merito che, al di fuori della sottoposizione di questioni di costituzionalità, ha dichiarato la non debenza dell’aggio qualora l’agente della riscossione non offra la prova delle attività svolte e compensate a mezzo dell’aggio stesso. Il riferimento è a CTP Treviso, sez. VIII, 25 settembre 2012, n. 84, che, dopo aver evidenziato che all’aggio di riscossione può riconoscersi, alternativamente, natura sanzionatoria ovvero retributiva rispetto all’attività svolta dall’agente della riscossione, sottolinea come nel primo caso l’illegittimità deriverebbe dall’assenza di inadempimenti ad opera del debitore e dall’estraneità dell’irrogazione dello stesso aggio rispetto alla disciplina delle sanzioni tributarie e, nel secondo caso, discenderebbe, almeno nel caso di specie, dalla mancata prova ad opera dello stesso agente dell’attività svolta in grado di giustificare la richiesta delle somme addebitate. A nostro avviso, si tratta di posizione non condivisibile, in quanto giunge alla disapplicazione nel caso di specie di una norma di legge, vale a dire l’art. 17, D.Lgs. n. 112/1999, ciò che non rientra tra i poteri del giudice tributario il quale, se del caso, può sollevare una questione di costituzionalità della norma stessa, come dimostrano, del resto, le ordinanze citate nella precedente nota n. 58. 61 Rinviamo, in proposito, ai contributi menzionati nelle precedenti note nn. 58 e 59. 692 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 scossione di un compenso per l’attività svolta 62, non sembra che l’attuale sistema di determinazione dell’aggio di riscossione possa ritenersi del tutto in linea con il principio di proporzionalità, inteso quale ragionevole collegamento tra la misura dell’aggio e l’ammontare dei costi sostenuti dall’agente per l’attività di riscossione, come espresso dalla recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo 63 e, in tempi più risalenti, da una pronuncia della Corte costituzionale avente ad oggetto proprio la legittimità del compenso spettante agli allora concessionari del servizio di riscossione per l’attività svolta 64. 62 Spettanza, invero, su cui sono stati avanzati non pochi dubbi. Sul punto si veda anzitutto la tesi di DE MITA, Per l’aggio un’imposizione priva di causa, in Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2011, p. 18 ripresa anche in DE MITA, La riscossione servizio già pagato, cit., p. 23 che, argomentando sulla scorta dell’art. 10, comma 2, n. 10), legge delega 9 ottobre 1971, n. 825, evidenzia la non debenza degli aggi di riscossione, essendosi per essi prevista «l’incorporazione […] nelle aliquote stabilite per i singoli tributi». Per la non spettanza dell’aggio di riscossione a motivo dell’eliminazione dell’obbligo del c.d. “non riscosso per riscosso” cui l’aggio si è da sempre collegato e della concentrazione dell’attività di riscossione nelle mani dello stesso ente creditore – sebbene questi eserciti tale attività per il tramite di Equitalia S.p.A. – si veda NUZZO, Prime note sul diritto all’aggio da riscossione. Profili storico-ricostruttivi, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 987 ss. 63 Il riferimento è alla menzionata sentenza Yukos, in cui si discuteva della legittimità dell’operato dell’Amministrazione finanziaria russa e delle autorità nazionali incaricate della riscossione dei tributi nei confronti della società petrolifera Yukos, dapprima di proprietà statale e privatizzata negli anni 1995-1996 nell’ambito del piano di privatizzazione di talune imprese strategiche russe intrapreso e portato avanti dall’allora Presidente Boris Eltsin. Nei confronti di tale società l’Amministrazione finanziaria russa emetteva diversi avvisi di accertamento in riferimento al periodo compreso tra il 2000 ed il 2003 per aver la società stessa posto in essere comportamenti elusivi della legislazione tributaria applicabile, procedendo, in sostanza, all’abbattimento della base imponibile rilevante ai fini delle imposte dirette allora vigenti in Russia per il tramite di manovre di transfer pricing, rivolte al trasferimento della maggior parte dei ricavi rivenienti dall’attività di estrazione, raffinazione e commercializzazione del petrolio a favore di società riconducibili al gruppo Yukos e beneficiarie di regimi fiscali agevolati, a motivo della loro collocazione in aree ben individuate della Russia. Nel ritenere violato il principio di proporzionalità da parte delle autorità russe, la Corte di Strasburgo ha evidenziato come le autorità procedenti si fossero rifiutate di calcolare il quantum dovuto a titolo di spese per la procedura esecutiva secondo un metodo diverso da quello della percentuale fissa; metodo quest’ultimo che aveva restituito una somma – 1,16 miliardi di euro – evidentemente sproporzionata rispetto a quanto ragionevolmente prospettabile. 64 Il riferimento è a Corte cost., 30 dicembre 1993, n. 480 che, nell’escludere il contrasto con il principio di eguaglianza dell’allora sistema di determinazione del compenso previsto da una legge della Regione Sicilia, evidenziava come «la prevista determinazione di tale compenso in misura percentuale del tributo (1%) con il contestuale correttivo di un prestabilito importo minimo e massimo fosse volta a realizzare (con l’utilizzazione di un meccanismo necessariamente articolato in termini medi e forfettari) un opportuno ed effettivo Alessio Persiani 693 Anzitutto, è bene circoscrivere il novero delle attività remunerate dall’aggio: giusta il disposto dell’art. 17, comma 6, D.Lgs. n. 112/1999 65, le spese sostenute dall’agente della riscossione per lo svolgimento delle procedure esecutive formano oggetto di autonomo rimborso, secondo i criteri dettagliatamente stabiliti da apposito decreto ministeriale 66. Ne consegue che le attività da remunerarsi mediante l’aggio sono quelle precedenti la fase di riancoraggio della remunerazione al costo del servizio; contemporaneamente impedendo, per un verso, che, in caso di iscrizione di tributi di importo eccessivamente limitato la misura percentuale del compenso scendesse al di sotto del livello minimo di remuneratività del servizio e, per converso, che, in caso di iscrizione di tributi di ammontare elevato il compenso stesso salisse notevolmente al di sopra della predetta soglia di copertura del costo della procedura». Proprio in virtù di tale ragionevole collegamento tra compenso per l’attività di riscossione e costi sostenuti per lo svolgimento dell’attività stessa la Corte aveva escluso forme censurabili di «discriminazione in danno del contribuente chiamato a corrispondere un compenso di importo in tesi superiore a quello del tributo iscritto in ruolo», atteso il «complessivo meccanismo di compensazione e bilanciamento di un tale inconveniente con il vantaggio (economicamente più rilevante e probabilmente anche statisticamente più frequente) del contenimento del compenso stesso entro il limite massimo, per singola voce, corrispondentemente stabilito». 65 L’art. 17, comma 6, D.Lgs. n. 112/1999 dispone che «all’agente della riscossione spetta, altresì, il rimborso degli specifici oneri connessi allo svolgimento delle singole procedure». 66 Si veda, al riguardo, il D.M. 21 novembre 2000 e la tabella di cui all’allegato A che indica puntualmente le somme da rimborsare per ciascuna delle attività afferenti la fase dell’espropriazione forzata svolte dall’agente della riscossione. Nell’incipit del decreto si chiarisce che la determinazione delle somme da rimborsare è avvenuta sulla scorta di «un criterio di riconoscimento del grado di laboriosità delle varie procedure individuate, espresso dal tempo medio stimato occorrente per svolgere efficientemente ciascuna attività, valorizzato al costo medio al minuto del personale, comprensivo di una quota parte dei costi generali afferenti la specifica attività esecutiva». Fermo restando che si tratta di importi determinati da un provvedimento ormai risalente nel tempo e per il quale, dunque, sarebbe auspicabile un aggiornamento che tenga conto delle mutate condizioni economiche – aggiornamento cui dovrebbe provvedere il D.M. da emanarsi ai sensi dell’art. 17, comma 6.1, D.Lgs. n. 112/1999, come introdotto dall’art. 10, comma 13 quater, lett. b), D.L. n. 201/2011 – non ci si deve lasciar ingannare dall’apparente esiguità di alcuni degli importi: essi sono applicabili, infatti, ai crediti di ammontare non superiore a 1.032,91 euro. Per i crediti fino a 5.164,56 euro gli importi spettanti a rimborso sono raddoppiati, per quelli fino a 51.645,68 gli importi sono triplicati, fino a giungere ad importi decuplicati per crediti superiori a 516.456,89 euro. A tali somme si aggiunge in ogni caso il rimborso per le spese vive sostenute per quelle attività che devono essere necessariamente compiute da soggetti terzi rispetto all’agente della riscossione, quali, ad esempio, la stima peritale dei beni pignorati, l’assistenza della forza pubblica o l’assistenza legale nei giudizi di opposizione. Va rilevato che il D.Lgs. n. 159/2015 ha previsto l’attualizzazione degli importi recati dal menzionato D.M. del 2000 spettanti all’agente della riscossione per l’attivazione delle procedure esecutive e cautelari. 694 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 scossione coattiva 67 e successive all’iscrizione a ruolo 68, per le imposte per cui questo continua ad essere previsto 69, dovendosi identificare, in sostanza, nella formazione e notificazione della cartella di pagamento ed, eventualmente, dell’avviso di mora, nell’esperimento delle misure di tutela del credito erariale diverse dal fermo amministrativo e dall’ipoteca immobiliare 70, nell’invio delle comunicazioni precedenti e successive all’iscrizione del fermo amministrativo e dell’ipoteca e nell’esame dell’istanza di dilazione del debito tributario eventualmente presentata dal debitore 71. Se così è, nella cennata prospettiva del principio di proporzionalità e di necessario collegamento dell’aggio alle spese sostenute dall’agente della riscossione sembra dubbia la 67 Dovendo l’ultima attività da remunerarsi mediante l’aggio – in quanto non coperta dal rimborso di cui al menzionato art. 17, comma 6 – individuarsi, con tutta probabilità, nella notificazione, ove richiesta, del c.d. “avviso di mora” di cui all’art. 50, comma 2, D.P.R. n. 602/1973. 68 Essendo la formazione del ruolo rimessa, giusta l’art. 12, comma 1, D.P.R. n. 602/1973, agli uffici competenti dell’ente creditore delle somme. Pertanto, non sembra condivisibile l’affermazione contenuta nel messaggio INPS 29 marzo 2007, n. 8205 ove individua la ratio della disciplina dell’aggio «nell’opportunità di operare un ampio trasferimento sui debitori degli oneri dell’attività di riscossione coattiva, evitando così che la generalità dei cittadini debba sostenere impropriamente i costi derivanti dagli inadempimenti che originano le iscrizioni a ruolo». Le spese per le procedure di riscossione coattiva formano oggetto di separato rimborso a favore dell’agente della riscossione; rimborso il cui ammontare dovrebbe, come detto, essere aggiornato alla situazione economica attuale, ma che non può trovare un’illegittima duplicazione nell’aggio di riscossione. 69 Quali, a titolo di esempio, le imposte di registro e sulle successioni e donazioni, atteso che – a seguito della c.d. “concentrazione della riscossione nell’accertamento” di cui all’art. 29, D.L. n. 78/2010 – la formazione del ruolo è ormai venuta meno per le imposte sui redditi, per l’IRAP e per l’IVA. 70 Essendo le spese per l’iscrizione e la revoca del fermo amministrativo e per l’iscrizione e la cancellazione di ipoteca specificamente menzionate nella tabella A allegata al menzionato D.M. 21 novembre 2000. 71 Nel testo dell’audizione dell’Amministratore delegato di Equitalia S.p.A. citata alla precedente nota n. 15 si menziona quale ulteriore attività dell’agente della riscossione non oggetto di specifica remunerazione quella di gestione delle dichiarazioni eventualmente presentate dai debitori per richiedere la sospensione delle azioni di riscossione e l’annullamento della pretesa in base alla disciplina menzionata nella precedente nota n. 56. Obiettivamente, ci pare che tale attività di gestione abbia un contenuto estremamente circoscritto, limitandosi l’agente della riscossione – come sottolineato dalla Direttiva Equitalia 11 gennaio 2013, n. 2 – a verificare la conformità della dichiarazione resa al modello predisposto, alla presenza della documentazione a corredo e dei documenti di identità richiesti in caso di autocertificazioni. L’attività di maggiore complessità, relativa alla valutazione di fondatezza di quanto dichiarato e documentato dal debitore, «è riservata in via esclusiva all’ente creditore». Alessio Persiani 695 legittimità di un aggio addebitato in pari misura nel caso di tributi la cui riscossione avvenga mediante iscrizione a ruolo e di tributi in cui l’avviso di accertamento, a seguito della riforma operata dal legislatore nel 2010 sui cc.dd. “accertamenti esecutivi”, ha assorbito anche le funzioni proprie del ruolo e della cartella di pagamento 72. Senza voler accedere alle posizioni estreme di coloro che, in presenza di tributi riscossi mediante accertamenti esecutivi, negano la spettanza di qualsiasi somma all’agente della riscossione 73, non sembra revocabile in dubbio l’opportunità di una differenziazione, seppur lieve 74, dell’aggio addebitato in tali casi. Sempre nella prospettiva del principio di proporzionalità di cui si è detto non sembrerebbe inopportuna una riflessione da parte del legislatore delegato sulla stessa conformazione del meccanismo di remunerazione dell’agente della riscossione. Tenuto conto della sostanziale anelasticità dei costi delle attività remunerate dall’aggio rispetto all’ammontare del credito posto in riscossione 75, non sembra azzardato ipotizzare che l’aggio dovrebbe essere suddiviso in tante componenti quante sono le attività da esso remunerate, che a ciascuna di tali componenti dovrebbe corrispondere una somma fissa 76, determinata in base al costo 72 Si veda, in proposito, l’art. 29, comma 1, lett. f), D.L. n. 78/2010. Tesi sostenuta da RENDA, Il costo della riscossione: l’aggio come fattore di incremento delle somme iscritte a ruolo, in Corr. trib., 2011, p. 2721 ss. che, facendo leva sulla cennata riforma dei cc.dd. “accertamenti esecutivi” e sull’eliminazione del ruolo e della cartella di pagamento, giunge a sostenere l’opportunità di «un’abrogazione della disposizione che prevede l’applicazione dell’aggio di riscossione anche nei casi di notifica dell’atto di accertamento che assuma funzione esecutiva». Tale tesi echeggia anche in alcuni passaggi delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale di CTP Roma e CTP Latina menzionate nella precedente nota n. 58. Si tratta di posizione non condivisibile, atteso che la riforma dei cc.dd. “accertamenti esecutivi” ha fatto venire meno l’obbligo di notificazione della cartella di pagamento, ma ha lasciato ferma, ad esempio, l’esperibilità da parte dell’agente della riscossione delle misure cautelari. Atteso che, come illustrato nel testo, l’aggio di riscossione è volto a remunerare anche i costi sostenuti per lo svolgimento di tali attività, l’indiscriminata eliminazione della spettanza dell’aggio di riscossione in tali casi non appare soluzione coerente. 74 Avendo la riforma di cui all’art. 29, D.L. n. 78/2010 eliminato, come detto, la sola notificazione della cartella di pagamento e non anche le ulteriori attività da compiersi da parte dell’agente di riscossione. 75 Come plasticamente evidenzia LUPI, La remunerazione del servizio di riscossione dei tributi tra aggio e fiscalità generale, in Dialoghi trib., 2012, p. 567 «un ruolo da 1.000 Euro non richiede più lavoro di un ruolo da un milione di Euro». 76 A tale soluzione potrebbe obiettarsi che essa avrebbe effetti sostanzialmente regressivi, posto che l’incidenza dell’aggio sarebbe tanto maggiore quanto più basso è l’ammontare del credito posto in riscossione e che, in presenza di crediti di ammontare esiguo, le somme dovute a titolo di aggio potrebbero in ipotesi superare quelle dovute a titolo di imposte ed 73 696 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 medio dell’attività, da addebitarsi a ciascun contribuente sulla base dell’attività effettivamente svolta dall’agente della riscossione nel caso di specie 77, che una qualche forma di proporzionalità della remunerazione rispetto all’ammontare del credito posto in riscossione potrebbe permanere nei soli ambiti delle attività di riscossione coattiva 78 e dell’esperimento delle misure cautelari 79-80 e che i costi fissi dovuti all’esistenza ed al mantenimento in vita interessi. Va rilevato, tuttavia, che le attività da remunerarsi ad importo fisso sono quelle di tipo meramente esecutivo – formazione e invio della cartella di pagamento ovvero della comunicazione di affidamento dell’avviso di accertamento all’agente della riscossione, formazione e invio delle comunicazioni prodromiche all’esperimento delle misure cautelari, formazione e invio dell’avviso di mora – per le quali sembra legittimo ipotizzare un costo piuttosto contenuto. Non può trascurarsi, infatti, che le attività che richiedono un impiego di personale in numero maggiore e di più elevata qualificazione – si tenga conto che in base al bilancio del gruppo Equitalia per l’anno 2012 il costo del personale, pari a circa 520 milioni di euro, incide per quasi il 50% sul totale dei costi dell’agente della riscossione – sono quelle afferenti l’esperimento delle misure cautelari e la fase di riscossione coattiva; attività che, come diremo subito, dovrebbero essere remunerate tenendo fermo il legame proporzionale tra ammontare della remunerazione e ammontare del credito posto in riscossione. 77 Ciò che, peraltro, avrebbe anche il pregio di evitare la discussa ripartizione dell’onere dell’aggio in capo al contribuente e all’ente creditore in funzione del momento in cui avviene l’adempimento; ripartizione che, anche se astrattamente condivisibile, appare tutt’altro che coordinata all’interno del complesso sistema della riscossione delle entrate erariali. Per alcune notazioni critiche sulla ripartizione dell’aggio tra contribuente ed ente creditore nel caso di dilazione di pagamento si veda GUIDARA, Accertamento esecutivo: cosa cambia per gli «aggi esattoriali»?, in Dialoghi trib., 2011, pp. 654-656. 78 Il mantenimento in questa fase di un legame tra somme poste in riscossione e ammontare del rimborso a favore dell’agente della riscossione trova giustificazione, a nostro avviso, nelle maggiori difficoltà di tipo sia giuridico-teorico sia pratico che l’agente della riscossione deve fronteggiare nello svolgimento delle procedure esecutive relative a crediti di ammontare più elevato. Come accennato nella precedente nota n. 66, la correlazione tra credito posto in riscossione e ammontare rimborsato a titolo di spese per le procedure esecutive è già presente nell’impianto del D.M. 21 novembre 2000 relativo al rimborso all’agente della riscossione delle spese relative alle procedure esecutive. Probabilmente, in un’ottica di miglioramento del sistema e di sua maggiore rispondenza al principio di proporzionalità, potrebbe essere opportuna una graduazione più articolata della percentuale di incremento degli importi da rimborsare rispetto a quella attualmente vigente. 79 A questo riguardo, l’inclusione delle spese relative alle procedure di iscrizione e cancellazione del fermo amministrativo e dell’ipoteca tra quelle di cui al D.M. 21 novembre 2000 per le quali, dunque, si prevede un incremento percentuale al crescere dell’ammontare del credito posto in riscossione lascia intendere che un tale legame possa effettivamente ravvisarsi anche per l’esperimento delle misure cautelari. Previa verifica dell’effettività di tale legame, esso potrebbe essere esteso anche alle misure – di rilievo peraltro residuale – diverse dal fermo amministrativo e dall’ipoteca. 80 Sotto altro profilo, vale rilevare che, a nostro avviso, l’ammontare del credito posto Alessio Persiani 697 di un soggetto incaricato della riscossione debbano porsi a carico della fiscalità generale 81. Se invece il legislatore intendesse mantenere l’attuale – e, a nostro avviso, opinabile – meccanismo di commisurazione dell’aggio in proporzione all’ammontare del credito posto in riscossione 82, dovrebbe quantomeno preoccuparsi di assicurare l’effettivo collegamento dell’aggio ai costi sostenuti dall’agente della riscossione 83 e di fissare un limite massimo e in termini in riscossione e al quale dovrebbe parametrarsi il rimborso dei costi per l’esperimento delle misure cautelari e delle procedure esecutive dovrebbe includere, oltre a quanto dovuto a titolo di imposte, sanzioni ed interessi legali, anche le somme dovute a titolo di interessi di mora. Se è vero, infatti, che le azioni cautelari ed esecutive poste in essere dall’agente della riscossione hanno riguardo all’intero ammontare spettante all’ente creditore, ivi compresi gli interessi di mora, non si vede perché la parametrazione del rimborso spettante all’agente della riscossione dovrebbe lasciar fuori tale componente del credito dell’ente. Pertanto, se i rilievi critici mossi al riguardo dalle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale della CTP Roma e della CTP Latina possono comprendersi – almeno nella logica in cui si muovono le ordinanze stesse di assenza di qualsivoglia attività da parte dell’agente della riscossione in relazione a tali somme – con riferimento all’aggio di riscossione, non ci sembra che tali rilievi possano incidere sul calcolo delle somme poste in riscossione ai fini del computo del rimborso delle spese sostenute dall’agente stesso per l’esperimento delle misure cautelari e delle procedure esecutive. 81 Su questa stessa linea di pensiero si vedano anche INGRAO, La remunerazione del servizio di riscossione dei tributi tra aggio e fiscalità generale, in Dialoghi trib., 2012, p. 566 – il quale correttamente evidenzia come «la riscossione dei tributi […] seppur svolta in concreto soltanto nei confronti dei contribuenti morosi, sia una funzione di interesse generale, in quanto l’organizzazione di un efficiente servizio di riscossione coattiva dei tributi determina un incremento delle somme versate spontaneamente in autoliquidazione dai contribuenti» – e LUPI, op. cit., p. 567. In base ai dati di bilancio del gruppo Equitalia per l’anno 2012, le sole spese generali e di funzionamento e relative ai sistemi informatici incidono per circa il 15% del totale dei costi di produzione e sono state pari, in termini assoluti, a circa 144 milioni di euro. 82 In senso contrario alla determinazione dell’aggio in misura percentuale del credito posto in riscossione si vedano anche INGRAO, Accertamento esecutivo: cosa cambia per gli «aggi esattoriali»?, in Dialoghi trib., 2011, pp. 652-653 e LUPI, op. cit. 83 Non potendo ritenersi soddisfacente, almeno al momento, la situazione risultante dalla versione dell’art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 112/1999 novellata dall’art. 10, comma 13 quater, D.L. n. 201/2011. È ben vero, infatti, che tale ultima disposizione ha eliminato il riferimento all’aggio di riscossione, sostituendolo con il «rimborso dei costi fissi risultanti dal bilancio certificato» dell’agente di riscossione, «da determinare annualmente, in misura percentuale delle somme iscritte a ruolo riscosse e dei relativi interessi di mora». Tuttavia, tale previsione, da attuarsi mediante apposito decreto ministeriale, è rimasta al momento “lettera morta” e appare difficile possa portare all’auspicata rideterminazione della remunerazione spettante all’agente della riscossione. Emblematiche, al riguardo, sono le considerazioni espresse dal sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze Alberto Giorgetti nella risposta all’interrogazione parlamentare del 13 novembre 2013, n. 5-01434 pre- 698 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 assoluti dell’ammontare dovuto dal contribuente a titolo di aggio, onde evitare che il meccanismo proporzionale puro oggi vigente possa condurre ad ipotesi estreme del tipo di quelle censurate dalla Corte di Strasburgo 84. Come accennato, il sistema di remunerazione dell’agente della riscossione è stato sottoposto a revisione da parte dell’art. 9, D.Lgs. n. 159/2015. Fermo restando che non è possibile in questa sede analizzare funditus le modifiche apportate 85, può osservarsi che il legislatore sembra aver voluto seguire un percorso affatto diverso da quelli sopra tratteggiati: nel contesto di un sistema rimasto inalterato nella sua impostazione di fondo – ed al di fuori, dunque, delle auspicabili modifiche alla conformazione del meccanismo di remunerazione di cui si è detto – sono state bensì apportate modifiche di rilievo alla previgente disciplina, ma senza stabilire alcuna soglia massima e di carattere assoluto dell’ammontare della remunerazione. Con la conseguenza che la disciplina riformata sembra comunque suscettibile di prestare il fianco a censure attinenti alla sua conformità al principio di proporzionalità 86 sentata dall’On.le Filippo Busin. Il sottosegretario ha infatti evidenziato che «considerando che il costo della struttura risultante dal bilancio certificato costituisce elemento fondamentale per la determinazione della remunerazione degli agenti della riscossione, e benché Equitalia abbia posto in essere tutte le azioni possibili al fine di contenerlo, non si può prescindere dalla necessità di assicurare in maniera adeguata il presidio della funzione di deterrenza. Pertanto, il Dipartimento delle Finanze sottolinea che dai dati pervenuti e dagli incontri intercorsi con i rappresentanti delle altre amministrazioni cointeressate è apparso difficilmente ipotizzabile uno schema di decreto che porti ad una riduzione dell’attuale remunerazione degli agenti della riscossione. Una ulteriore riduzione della remunerazione, in sostanza, non consentirebbe la copertura dei costi a scapito del funzionamento dell’attività». Pur trattandosi di considerazioni astrattamente condivisibili, ci sembra che esse costituiscano un’ulteriore spinta per il legislatore delegato alla ridefinizione del meccanismo di ripartizione tra i contribuenti del rimborso dei costi spettante all’agente della riscossione. In termini più chiari, anche ad ammettersi che non sia effettivamente possibile procedere ad una diminuzione dei costi del sistema, appare quantomeno doveroso – nell’ottica del più volte enunciato principio di proporzionalità – procedere ad una ridefinizione del meccanismo di riparto dei costi stessi tra i contribuenti. 84 Limite massimo che non solo non risulta fissato dall’art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 112/1999, ma la cui fissazione neppure risulta rimessa al decreto ministeriale cui la norma opera rinvio. Con la conseguenza che tale decreto, anche qualora venisse adottato, non potrebbe fissare alcun limite massimo dell’aggio addebitabile ai contribuenti. 85 Tenuto conto, come detto, che il testo del D.Lgs. n. 159/2015 è stato approvato in via definitiva solo al momento della correzione delle bozze di stampa del presente contributo. 86 Fermo restando, comunque, che tale profilo di criticità potrebbe assumere rilievo solo in casi in cui l’ammontare particolarmente elevato delle somme poste in riscossione porti ad un ammontare dell’aggio – calcolato in misura proporzionale alle prime – talmente Alessio Persiani 699 e di collegamento ai costi di riscossione sostenuti dall’agente nei singoli casi 87. 4. Conclusioni Alla luce di quanto sin qui esposto appare dunque chiaro che residuano tuttora aree della disciplina della riscossione dei tributi erariali meritevoli di un intervento nel senso di un più equilibrato contemperamento degli interessi del Fisco e della salvaguardia dei diritti dei contribuenti. È questo il caso, in particolare, delle previsioni in tema di aggio di riscossione in cui il vigente sistema di calcolo della remunerazione dell’agente in misura proporzionale all’ammontare del credito da riscuotere solleva non poche perplessità sia per il suo tendenziale sganciamento dai costi sostenuti dall’agente stesso per la riscossione di ciascun credito 88 sia – tenuto conto delle attività da remunerare e dell’attuale entità dell’aggio – per la problematica interrelazione elevato da risultare evidentemente sproporzionato ed eccessivo rispetto ai costi che si possano ritenere ragionevolmente sostenuti dall’agente di riscossione per l’esercizio delle sue attività e dei poteri ad esso riconosciuti. 87 A questo riguardo, merita comunque apprezzamento la previsione di cui al novellato art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 112/1999 diretta ad ancorare, in modo più saldo rispetto al passato, la remunerazione dell’agente della riscossione rispetto ai costi da questi globalmente sostenuti per lo svolgimento delle attività di riscossione; costi peraltro da determinare in via preventiva ciascun anno entro il 31 gennaio e da rendere noti alla generalità dei contribuenti mediante pubblicazione sul sito internet dello stesso agente della riscossione. Sotto altro profilo, non può non rilevarsi come il legislatore abbia ora previsto una diminuzione della remunerazione spettante all’agente della riscossione (passata dall’8% al 6% delle somme iscritte a ruolo) pur in un contesto in cui si era evidenziata l’impossibilità di procedere ad una tale diminuzione in virtù della sostanziale incomprimibilità dei costi sostenuti dall’agente della riscossione (si veda la precedente nota n. 83 e, in particolare, le precisazioni del sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze Alberto Giorgetti). 88 Come detto, il D.Lgs. n. 159/2015 non supera del tutto tale profilo di criticità: a fronte, infatti, di un più saldo ancoraggio della remunerazione di Equitalia S.p.A. ai costi da questa globalmente sostenuti per lo svolgimento delle attività di riscossione, va rilevata la carenza di un nesso specifico e per singolo caso tra l’onere posto a carico del contribuente, le attività svolte ed i costi effettivamente sostenuti, nonché l’assenza di un limite di carattere assoluto dell’ammontare della remunerazione che sia in grado di evitare gli effetti perversi (ed incoerenti con il principio di proporzionalità) di un calcolo su base meramente percentuale di tale remunerazione rispetto all’ammontare delle somme poste in riscossione. 700 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 con la diversa ma connessa disciplina di rimborso delle spese sostenute dall’agente di riscossione 89. Considerati altresì i dubbi di costituzionalità avanzati in relazione al menzionato sistema 90, sarebbe opportuno che il legislatore cogliesse l’occasione per un complessivo ripensamento del sistema di remunerazione che da un lato valorizzi il carattere di interesse generale sotteso alla funzione di riscossione 91 e, dall’altro lato, ancori saldamente tale remunerazione alle attività effettivamente svolte e ai costi sostenuti dall’agente della riscossione per l’esazione del credito. Sotto altro profilo, va rilevato che le numerose modifiche apportate alla riscossione negli ultimi anni hanno profondamente inciso sul complessivo equilibrio tra le esigenze erariali ed i diritti dei contribuenti, muovendosi verso una realizzazione del principio di proporzionalità più attenta rispetto al passato. Tuttavia, e tenuto conto che proprio all’attuazione di tale principio fanno riferimento le previsioni della legge delega in tema di riscossione tributaria erariale, appare opportuno che in alcuni e specifici casi il legislatore rifletta nuovamente sugli interventi adottati, prendendo atto di come talvolta – è il caso dei limiti al provvedimento di fermo amministrativo per i soggetti esercenti impresa e della sottrazione all’espropriazione della casa di abitazione – il sacrificio imposto agli interessi della parte creditrice appaia poco coerente con l’impostazione sottesa ad istituti connessi della stessa riscossione tributaria ovvero con le indicazioni desumibili da altri rami del nostro ordinamento e in altri casi – il riferimento è all’individuazione del paniere dei beni essenziali non espropriabili – la modifica appaia, oltre che mal collocata nella sistematica della disciplina della riscossione, a tal punto mal calibrata nei suoi contenuti da rendere oscura la stessa la voluntas legis 92. 89 A tale riguardo, occorrerà verificare le linee guida ed i contenuti del D.M. di attualizzazione delle somme spettanti all’agente della riscossione a titolo di rimborso delle spese per l’attivazione delle procedure esecutive e cautelari. 90 Dubbi da ritenersi tuttora non sciolti, tenuto conto che la Corte costituzionale, lungi dall’aver risolto le questioni ad essa sottoposte vagliando nel merito le ragioni della supposta illegittimità costituzionale della disciplina, ha ritenuto l’inammissibilità delle questioni stesse per assenza dei requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza. 91 Come accennato, occorre constatare che l’intervento di cui all’art. 9, D.Lgs. n. 159/2015 non sembra essere andato in questa direzione. 92 Anche qui occorre rilevare che la riforma recata dal D.Lgs. n. 159/2015 non ha colto l’occasione per superare i citati profili di criticità del sistema. Fabio Russo LA DIFFERENTE “ABILITÀ FISCALE” NELL’IMPOSTA DI SUCCESSIONE E DONAZIONE THE DIFFERENT “TAX ABILITY” IN THE INHERITANCE AND GIFT TAX Abstract Tutti sono tenuti al pagamento delle imposte secondo la propria capacità contributiva. La disabilità non è una condizione soggettiva che comporta l’applicazione di un regime impositivo diverso, ma contemplata in singole disposizioni in ottica di chiaro favor per l’altro più debole. L’esperienza solidaristica, d’altronde, si nutre ed alimenta con il concorso alle spese pubbliche ed in questo senso il tributo si colora di una luce buona che lo riscatta dalla stessa idea d’imposizione. Nel novero delle imposte indirette spicca l’esenzione per i trasferimenti a titolo gratuito, per atto inter vivos che mortis causa, a favore dei diversamente abili, come riconosciuti dalla L. n. 104/1992, fino alla concorrenza di € 1.500.000,00. Varcata la franchigia la tassazione seguirà le regole ordinarie. Al contempo, il lascito delle quote e delle aziende, secondo i dettami normativi, può comportare, se il beneficiario gradisce, esenzione totale dal pagamento dell’imposta. Certamente è apprezzabile l’intento del legislatore che con tale elevata franchigia dà una risposta all’angoscioso tema del “dopo di noi” che i danti causa si pongono; al contempo non dispiace che sia premiata la continuità nella conduzione dell’azienda di famiglia. Le norme agevolative rispondono a spartiti diversi e lette insieme un po’ stonano. D’altronde, in qualche esperienza germogliata in altri Paesi UE, è nato il seme della delimitazione della norma di favore ai soli beneficiari di PMI che rappresentano, tra l’altro, il fulcro della economia nostrana. Il mantenimento della totale esenzione per il lascito di quota o azienda pone l’interrogativo del se sia ragionevole prevedere la sola franchigia per l’avente causa disabile che non sia destinatario di patrimonio aziendale o se sia più giusto prevedere la totale esenzione. Parole chiave: capacità contributiva, agevolazioni fiscali, imposte indirette, atti gratuiti, esenzioni 702 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Everyone shall pay taxes according to its ability to pay. Disability is not a subjective condition that involves the application of a different tax regime, but it is provided in specific rules with the clear aim to favour the weaker ones. The experience of solidarity, on the other hand, is empowered with the distribution of public expenses among citizens and, in this sense, the tax may be looked under a different light that goes beyond the idea of taxation itself. Among indirect taxes we find the exemption for liberalities (both inter vivos and mortis causa) in favour of disabled persons – as recognised by Law No. 104/1992 – up to € 1.500.000,00. Beyond such threshold, the taxation will follow ordinary rules. At the same time, the transfer of participations and business activities, according to the specific rules, may imply, if the beneficiary opts out, the full exemption from the payment of the tax. It is certainly appreciated the intent of the lawmaker, which – though such high threshold gives an answer to the “after us” issue that predecessors arise; at the same time, it is very important to protect the continuity of the family business management. Rules of favour are based on different need and they are not coherent if looked all together. Moreover, in some experiences developed in other EU Countries, such favourable rule has been limited only to beneficiaries of small and medium enterprises, which represent the majority in our domestic economy. Maintaining the total exemption to the legacy of a share or a business activity raises the issue of whether it is reasonable to provide only the threshold to the disabled heir who is not the recipient of the company assets or whether it is more correct to predict the total exemption. Keywords: ability to pay, tax breaks, indirect taxes, liberalities, exemptions SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La solidarietà come tutela dei soggetti deboli. – 3. La nozione di diversamente abile. – 4. La ratio delle norme agevolative per i diversamente abili: “la diversa capacità contributiva”. – 5. L’imposta di successione e donazione e le esenzioni. – 6. Conclusioni. 1. Premessa Il presente contributo è incentrato sul tema della disabilità, per come contemplata nell’imposta di successione e donazione, lì dove il legislatore fiscale, nel reintrodurre alcuni anni addietro il tributo, ha previsto una franchigia, di per se, elevata che, salvo casi limite, finisce per neutralizzare gli effetti dell’imposta con riguardo all’avente causa, per atto inter vivos o mortis causa, diversamente abile. L’approdo, di per se significativo ed indice di giusta sensibilità, va tuttavia visto nel complesso delle disposizioni sull’imposta di suc- Fabio Russo 703 cessione e donazione, ampliata ai trasferimenti gratuiti e sui vincoli di destinazione, di tal guisa non potendo giungere a considerazioni complessivamente positive sull’impianto di diritto attuale. Il tema, assai particolare, muove da principi di ampio respiro costituzionale come la solidarietà ed i diritti sociali, risalta la leva fiscale come strumento idoneo al loro finanziamento ma non trascura di contemplarla anche in chiave redistributiva, secondo una lettura attenta del capoverso dell’art. 3 della Carta costituzionale e, passando per le agevolazioni fiscali nell’ordinamento tributario previste a favore dei diversamente abili, atterra sull’imposta di successione e donazione per evidenziare una anomalia che scontenta nel momento in cui, per finalità chiare ed espresse, si finisce per trattare in modo differente i diversamente abili a seconda che siano destinatari, o meno, di lasciti aventi ad oggetto aziende. In questo senso le norme in commento 1, in combinato disposto, appaiono come un boomerang che parte dall’art. 3 Cost. ma che, lanciato sul terreno del favor espresso a favore del diversamente abile, ritorna pericolosamente indietro. 2. La solidarietà come tutela dei soggetti deboli I casi di “debolezza” presenti nella realtà fenomenica abbracciano un campo assai ampio 2. Diventa, quindi, compito della Repubblica, in ossequio ai principi supremi ed ispiratori della Carta costituzionale, rimuovere le situazioni di difficoltà e gli ostacoli che inibiscono, o quantomeno mettono a re1 Art. 3 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 che prevede i casi di trasferimenti non soggetti ad imposta ed art. 2, comma 49 bis, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (conv., con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2006, n. 286), introdotto dall’art. 1, comma 77, della L. n. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007), che prevede una franchigia in favore dei soggetti portatori di handicap, riconosciuti gravi ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, pari ad 1,5 milioni di euro. 2 Lo svantaggio spazia dalle lavoratrici donne e soprattutto madri, alla tutela del minore, del malato, del diversamente abile, fino ad arrivare allo straniero ed al soggetto privato della libertà personale e può comprendere, anche contemporaneamente, quasi tutte queste condizioni. Con riguardo alle lavoratrici donne basta, da ultimo, rimandare alle agevolazioni contributive per la loro nuova assunzione di cui all’art. 4, commi da 8 ad 11, della L. 28 giugno 2012, n. 92. La legislazione in materia è copiosa e si rifà al forte sentire che dagli anni ’70 ha rivendicato la parità tra uomo e donna in ogni contesto e quindi anche lavorativo. Si veda all’uopo PERSANO, Parità di trattamento tra donne e uomini e rilevanza del genere a titolo di fattore di rischio nei servizi assicurativi. Nota a Corte di Giustizia UE, 01 Marzo 2011, n. 36, grande sezione, in Resp. civ. e prev., fasc. 6, 2011, p. 1269. 704 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 pentaglio, lo sviluppo della persona umana. L’esigenza solidaristica si traduce, solo in primo momento, in un intervento volto a rimuovere queste criticità per poi, in una dimensione più mediata e matura, tradursi in una presa di coscienza del soggetto “altro” più debole 3. I portatori di handicap sono i tipici soggetti deboli e come tali destinatari di politiche volte a favorire il loro ingresso nel contesto sociale e lavorativo 4. Una siffatta politica deve essere condotta da tutte le articolazioni della Repubblica ed, ovviamente, della società civile. La legge quadro n. 104/1992 5 risponde ad una esigenza particolarmente avvertita e diretta ad assicurare la 3 Anche nel campo fiscale deve esserci un impegno forte e atto a consentire lo sviluppo più pieno e profondo dell’esperienza solidaristica. «La legge tributaria non è mai pura e semplice forma della forza e la norma non si presenta solo come coattività, possibilità di impiegare la coazione, è anche efficienza, ovverosia capacità di regolamentare la condotta dei contribuenti e dell’amministrazione in coerenza con certi fini. Il sistema e suoi principi possono allora soddisfare la diffusa aspettativa che nutrono i contribuenti verso un diritto tributario giusto. I contribuenti infatti giudicano soggettivamente “giuste” le norme formali efficienti, che garantiscono una applicazione delle imposte conforme ai determinati fini specificamente indicati dai principi legislativamente posti. La giustizia tributaria qui è data dall’efficienza delle norme che si misura rispetto a certi valori presenti nel diritto tributario. Ma la volontà legislativa deve fare i conti anche con le concezioni del “giusto” vigenti nella società e quindi con valori, quali quelli della libertà, pace, solidarietà, proprietà, ecc., che appartengono al contesto culturale. Perciò l’esigenza di giustizia tributaria va soddisfatta pure nel diverso senso che le norme tributarie devono essere idonee strumentalmente, o funzionali, a rendere possibile l’applicazione dei tributi in modo coerente rispetto alla condizione materiale di giustizia che consiste nel rendere “a ciascuno individuo il suo”». Testualmente INGROSSO, Il ruolo del giurista nella elaborazione di una legge generale sull’attuazione dei tributi e la riserva di amministrazione, in Riv. dir. trib., fasc. 11, 2012, p. 1013. 4 Basti pensare alle norme introdotte dai commi 118 ss. dell’articolo unico della legge di stabilità 2015 (n. 190/2014), rivolte ai datori di lavoro che assumono, nel periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015, nuovi dipendenti con contratto a tempo indeterminato, i quali beneficiano di agevolazioni fiscali e contributive compatibili con quelle destinate all’assunzione dei lavoratori disabili di cui all’art. 13 della L. n. 68/1999 (Circolare INPS 29 gennaio 2015, n. 17). 5 Rubricata “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, è stata oggetto di interventi del giudice delle leggi, spesso investiti dei riparti di funzioni tra Stato e Regioni, contenenti interessanti spunti di riflessione. Evidenzia una coerenza non sempre cristallina nel riparto di competenze Stato-Regione BOSCATI, La politica del Governo Renzi per il settore pubblico tra conservazione e innovazione: il cielo illuminato diverrà luce perpetua?, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, II, fasc. 2, 2014, p. 233. In merito cfr. TROJSI, Le fonti del diritto del lavoro tra Stato e Regione, Torino, 2013, p. 124 ss.; SALOMONE, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale. Esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, Padova, 2005, p. 151 ss. Fabio Russo 705 tutela del portatore di handicap 6 in un quadro globale ed organico 7. L’esigenza di fondo della legge quadro sulla disabilità è quella di perseguire un evidente interesse nazionale che è consiste nel garantire in tutto il Paese un livello uniforme di realizzazione d’interessi di diritti costituzionali fondamentali dei soggetti portatori di handicap con il concorrente apporto dello Stato, delle Regioni e degli enti locali. In quest’ottica è centrale la dimensione del tributo che, nella visione classica dello stato di diritto, finanziava le spese pubbliche dirette alla prestazione di “servizi” (difesa, polizia, giustizia) strettamente inerenti alla tutela dei diritti “liberali” (proprietà e iniziativa economica). Il prelievo sugli “averi” era diretto a consentire e salvaguardare, quindi, il godimento e l’accrescimento degli “averi” medesimi 8. All’interno di un ordinamento che riconosce i diritti sociali 9, invece, il tributo assume una funzione redistributiva volta a finanziarie soprattutto le spese per prestazioni sociali 10. L’adempimento di questi inderogabili doveri determina un effetto ne6 Corte cost., sent. 29 ottobre 1992, n. 406. In dottrina si veda BRUZZI, La discriminazione fondata sulla disabilità: il principio di dignità come lente trifocale (nota a Trib. Catanzaro, sez. I, 15 gennaio 2013), in Resp. civ. e prev., fasc. 3, 2013, p. 931. 7 Per sua stessa struttura, quindi, la legge incide su settori diversi, spaziando dalla ricerca scientifica, agli interventi sanitari ed assistenziali, alla formazione professionale, all’ambiente di lavoro ed alla introduzione al lavoro, alla integrazione scolastica, alla eliminazione delle barriere architettoniche. 8 Emblematica è l’affermazione, fatta proprio nel contesto della trattazione della disciplina dei tributi, secondo cui «The acquisition of valuable and extensiveproperty, therefore, necessarilyrequires the establishment of civil government». Il corsivo è di Adam Smith, An enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, pubblicata il 9 marzo 1976. Lo stesso autore ha ispirato successivi economisti che ne hanno ripreso i principi classici, attribuendo valenza anche morale ai fenomeni economici della concorrenza, del mercato, del profitto e il principio marginalista del confronto tra utilità e sacrificio posto alla base dello scambio, così da farne i fondamenti della propria concezione della scienza delle finanze. Ne apprezza le ricadute sulle riflessioni einaudiane RANCAN, Luigi Einaudi e la scuola italiana di scienza delle finanze, in Riv. dir. fin., fasc. 4, 2012, p. 486. 9 In continua evoluzione tanto da coniare il concetto di “nuovo diritto sociale” che appare certamente suggestivo, evocando immediatamente quella caratteristica tipica dei diritti costituzionali di essere al centro di un processo storico evolutivo, senza soluzione di continuità, che porta ad un costante aggiornamento e ad una perdurante ridefinizione del loro catalogo e del contenuto di ciascuno di essi. La natura mutevole della materia, infatti, fa sì che la incorporazione dei diritti non possa mai dirsi giunta ad un punto fermo, assistendosi, piuttosto, all’emersione costante di istanze nuove e diverse che richiedono un aggiornamento in progress del catalogo costituzionale. In questo senso, ex plurimis, si veda D’ALOIA, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, in ID. (a cura di), Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano, 2003, p. XX. 10 In sostanza, grazie alla valorizzazione, da parte della Corte costituzionale, del para- 706 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 cessariamente redistributivo essendo comune e universalmente accettata l’idea che il dovere contributivo s’iscrive, proprio per questo motivo, fra i doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. 11. Inteso in questo senso il tributo perde, sulla scorta di una lettura attenta del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. 12, quel carattere di odiosità che ineluttabilmente si trascina 13 in quanto il sistema tributario si ispira o si fonda su principi o valori digma della dignità umana e del pieno sviluppo della persona, si assiste ad una rilettura dell’art. 38 Cost. in grado di trarne profili sconosciuti ad una interpretazione letterale, valorizzando una tutela della persona che va ben oltre le sue primarie esigenze materiali di sussistenza per conseguire il risultato di una piena integrazione sociale, assicurando la «libertà nonostante la disabilità». Così BELLI, Introduzione, in ID. (a cura di), Libertà inviolabili e persone con disabilità, Milano, 2000, p. 7. Sul tema si vedano le riflessioni di COLAPIETRO, Diritti dei disabili e Costituzione, Napoli, 2011, p. 40 ss., che evidenzia la necessità, per evitare l’emarginazione dei disabili, di dare una compiuta attuazione all’art. 3, comma 2, Cost., fornendo non solo prestazioni assistenziali e sanitarie ma anche realizzandone l’inserimento nel contesto sociale. 11 FRANSONI, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economica e principio di capacità contributiva (anche alla luce del vincolo del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib., fasc. 11, 2013, p. 1049. 12 La norma, sancendo che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», si pone come perno centrale di tutto l’ordinamento tributario. In questo senso ARTUSO, La deducibilità dei costi neri tra disciplina specifica e profili sistematici: brevi spunti di riflessione, in Riv. dir. trib., fasc. 10, 2013, p. 981. La norma è al centro di perdurante contrasto in ordine all’interpretazione della sua portata che dipende da diverse “visioni” del fenomeno tributario, da sempre contrapposte nella nostra cultura giuridica. Secondo una prima prospettiva, assume rilievo determinante il collegamento fra prelievo fiscale e potere pubblico allorché riemerge, in sostanza, l’originaria definizione del tributo come manifestazione della sovranità. In altra prospettiva, il “riparto” dei “carichi pubblici”, prima ancora ed a prescindere dall’esercizio di pubblici poteri, è assunto come momento necessario di qualsiasi forma di convivenza organizzata. Il “valore” cui deve ispirarsi la disciplina del “concorso” alle pubbliche spese è, innanzi tutto, l’equità distributiva: la “capacità contributiva” è dunque criterio di riparto e parametro “in ragione” del quale il concorso deve attuarsi. Così espressamente FEDELE, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella costituzione italiana e sui limiti costituzionali all’imposizione, in Riv. dir. trib., fasc. 11, 2013, p. 1035. Ne esalta ancora la valenza di norma adeguatrice di sistema, per scongiurare il concorso alle pubbliche spese dei beneficiari di una attribuzione patrimoniale poi restituita al disponente, con evidente venir meno dell’incremento patrimoniale che giustifica il prelievo, FEDELE, Profilo fiscale del patto di famiglia, in Riv. dir. trib., fasc. 5, 2014, p. 526. 13 Mirabile affermazione di MARONGIU, Le tasse dei “mandarini”, in Riv. dir. fin., fasc. 4, 2012, p. 505. Suggestiva è la ricerca condotta da AMATUCCI, Le fondamenta del principio di capacità contributiva nel pensiero di San Tommaso D’Aquino, in Dir. prat. trib., n. 3, 2013, pp. 1-477, allorché evidenzia che l’aquinate ha identificato l’obiettivo finale di ogni comunità nella “vita buona”. L’aquinate, chiaramente influenzato da Aristotele quanto al concet- Fabio Russo 707 ordinatori contenenti in sé un “minimo di etica” ed improntato all’idea che il tributo disciplinato dal legislatore non sia solo una imposizione, ma, quanto al suo contenuto, anche una cosa buona, corretta, giusta 14 e tollerabile anche quando, di converso, colpisce un soggetto diversamente abile beneficiario del servizio sociale, purché non sia ostativa al suo accesso ai diritti fondamentali 15. 3. La nozione di diversamente abile Le previsioni costituzionali cui è ancorata la disabilità, precisamente l’art. 3 e l’art. 38 17, permeano la legislazione in suddetta materia nella quale il soggetto bisognoso di aiuto viene diversamente e disorganicamente definito invalido, handicappato, non autosufficiente, disabile. Dietro questa terminologia e questo linguaggio, assai poco coerenti nel tempo e nei contesti, c’è 16 to di bene comune ed alla teoria della giustizia, è riuscito a sottrarre il tributo all’immagine di strumento di “rapina”, attuata dal potere attraverso la coazione, per assurgere a fenomeno sociale e mezzo necessario di tutela del bene comune allo scopo di realizzare la giustizia. 14 BORIA, Il sistema tributario, Milano, 2008, p. 23 ss.; INGROSSO, Il ruolo del giurista, cit., p. 1013 ss. 15 Sulla necessità che l’imposizione fiscale receda di fronte alla priorità che va assicurata al godimento dei diritti finalizzati alla soddisfazione di un bisogno essenziale, si veda da ultimo RAUTI, La “giustizia sociale” presa sul serio. Prime riflessioni, in Forum Quaderni cost., 2011, p. 8. Dalla giurisprudenza costituzionale si trae l’ulteriore riflessione con riferimento al riconoscimento di un diritto fondamentale all’abitazione, ritenuto impregiudicato da una imposizione fiscale sugli immobili adibiti a tale uso, che non sia tale da impedire, di fatto, l’accesso alla casa e, quindi, il godimento del relativo diritto (sent. 2 aprile 1999, n. 119). 16 Norma che va letta insieme all’art. 2 Cost. (COLAPIETRO, op. cit.) sul solco della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (ONU, 1948), ove è sancito che tutti cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza alcuna distinzione, per cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli limitativi della libertà e dell’uguaglianza tanto da impedire il pieno sviluppo della persona. Lo stesso articolo vieta la distinzione condotta in base a condizioni personali e sociali. Da quest’ultimo capoverso si ricava il riferimento alla disabilità comunque intesa, anche se la storia ci ricorda che durante la discussione dell’assemblea costituente tra le condizioni personali e sociali veniva considerata solo la situazione dei ciechi. 17 A cui si ispira la più parte della normativa nazionale in materia e che introduce un concetto di assistenza quasi compensativo a favore di chi è inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ed, in quanto tale, avente diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Sul ruolo dell’art. 38 Cost., nell’ambito dei principi costituzionali sull’assistenza sociale, si veda CACCIAVILLANI, Assistenza pubblica e concorso privato, nota a: T.A.R. Venezia, 3 febbraio 2012, n. 132, sez. III, in Giust. civ., fasc. 11-12, 2013, p. 2624. 708 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 sempre un beneficio, una provvidenza, un’agevolazione anche fiscale ad ampio spettro 18. Rispondere alla domanda su cosa sia la disabilità è di importanza fondamentale perché, dal modo in cui la si intende, dipendono i tipi di intervento che si realizzano per la promozione e la protezione dei diritti delle persone che ne sono portatrici. In altre parole, l’attenzione alle parole è fondamentale perché in esse è contenuto il modello operativo a cui si fa riferimento. Nel mondo della disabilità questo assume una importanza particolare perché utilizzare termini impropri e fare confusioni linguistiche può essere un modo per aumentare la disabilità, anziché ridurla 19. La definizione di disabilità cambia a seconda del contesto culturale e sociale di riferimento 20. «Social construction is […] heavily involved in the construction of the category of – disabled. What constitutes an impairment or disability is socially constructed: disability has been understood and defined differently at different times and places» 21. Il primo passo da fare è quindi cercare una definizione di disabilità che si rifaccia ad un linguaggio standard e unificato, che serva da modello di riferimento per la descrizione delle disabilità dell’uomo 22. Oggigiorno il framework di riferimento concettuale nel campo della disabilità è l’International Classification of Functioning, Disability and Health 23. L’ICF, smarcan18 L’agevolazione fiscale per il disabile può muoversi su più ambiti d’intervento come il sanitario e lo scolastico. Sul tema si veda MISCALI, Contributo allo studio dei profili costituzionali del principio di sussidiarietà fiscale, in Riv. dir. trib., fasc. 10, 2011, p. 949; FANTOZZIPAPARELLA, Brevi note sull’applicazione del regime fiscale delle Onlus alle scuole parificate di cui alla legge n. 62 del 2000, in Riv. dir. trib., fasc. 5, 2001, p. 551. 19 CANEVARO, Le parole che fanno la differenza, 2000, p. 1. Online alla pagina web http:// download.italika.it/ntd/ICF_Classificazione.pdf (20 marzo 2010). 20 Cfr. WORLD BANK, Social Analysis and Disability: A guidance note, 2007. Online alla pagina web http://siteresources.worldbank.org/DISABILITY/Resources/280658-1172606907476/ SAnalysis Dis.pdf (20 marzo 2010). 21 MAKKONEN, Multiple, Compound and Intersectional Discrimination: Bringing the Experiences of the Most Marginalized to the Fore, Institute For Human Rights, ÅboAkademi University, 2002, p. 3. Online alla pagina web http://web.abo.fi/instut/imr/norfa/timo.pdf (22 luglio 2010). 22 ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ, ICIDH-2 Classificazione Internazionale del Funzionamento e delle Disabilità. Bozza Beta-2. Versione Integrale, Trento, 2000, p. 9. 23 In sigla ICF, online al sito web http://www.who.int/classifications/icf/en/ (20 marzo 2010). WORLD HEALTH ORGANIZATION, Resolution WHA 54.21, International Classification on Functioning Disability and Health, 22 May 2001. Online alla pagina web http://www. who.int/classifications/icf/wha-en.pdf (28 marzo 2010). Ufficialmente approvato da 191 Stati membri dell’OMS, durante la cinquantaquattresima sessione dell’Assemblea Mondiale della Sanità (WHA) il 22 maggio 2001, con la Risoluzione WHA 54.217. Fabio Russo 709 dosi da esperienze pregresse, esprime il nuovo approccio dell’OMS alla disabilità. Nel 1980, infatti, l’OMS aveva pubblicato un primo documento sulla classificazione delle disabilità, dal titolo International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), nel quale veniva operata la distinzione fra menomazione e disabilità ed handicap, nel senso che la prima ha carattere permanente, la seconda dipende dall’attività che l’individuo si trova a compiere e la terza indica lo svantaggio che l’individuo sopporta rispetto ai soggetti cosiddetti normodotati 24. Da questa distinzione deriva che una unica menomazione può dar luogo a differenti disabilità e può implicare più di un handicap. L’ICF ha sostituito l’ICIDH ed ha cambiato la prospettiva nella definizione concettuale di disabilità, mettendone in evidenza lo stretto legame con il concetto di salute. Un’altra novità significativa è che non viene più utilizzato il termine handicap e si estende il significato del termine disabilità a indicare sia la restrizione di attività che la limitazione di partecipazione. Con l’ICF, pertanto, si assiste ad un vero e proprio rovesciamento dei termini dal negativo al positivo: non si parla più di impedimenti, disabilità, handicap, ma di funzioni, strutture e attività. In quest’ottica, la disabilità non appare più come mera conseguenza delle condizioni fisiche dell’individuo, ma scaturisce dalla relazione fra l’individuo e le condizioni del mondo esterno 25. Altra grande innovazione nella prospettiva introdotta dall’ICF è che questo documento non riguarda specificamente le persone con disabilità, ma ha uso e valore universale, in quanto si basa sull’idea che ogni essere umano, in qualche momento della sua vita, può trovarsi a vivere una condizione di salute che, in un ambiente negativo, diventa una disabilità 26. È questo l’assioma base dell’approc24 La menomazione, definita come qualsiasi perdita o anormalità a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche, rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico e in linea di principio riflette i disturbi a livello d’organo. La disabilità, intesa come qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a una menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano, rappresenta l’oggettivazione della menomazione e come tale riflette disturbi a livello della persona. L’handicap, inteso come la condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita, o impedisce, la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, al sesso e ai fattori socioculturali. ISTAT, Disabilità in cifre. Il concetto di disabilità. Online al sito web http://www. handicapincifre.it/documenti/concettodisabilit%C3%A0.asp#par4 (28 marzo 2010)). 25 CANEVARO, op. cit., p. 1. 26 «There is a widely held misunderstanding that ICF is only about people with disabilities; in fact, it is about all people. [...] In other words, ICF has universal application». WORLD 710 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 cio bio-psico-sociale 27 alla disabilità, un modello basato sull’interazione fra funzioni corporee, strutture corporee, attività e partecipazione, e fattori ambientali. Questo approccio rappresenta quindi un fondamentale cambiamento di prospettiva nella definizione e nella percezione della disabilità, dovuto al fatto che il focus trasla dalle cause della disabilità all’impatto sulle attività dell’individuo. In quest’ottica, di conseguenza, la disabilità si configura come l’interazione fra una società non inclusiva e un individuo, fra le sue condizioni di salute e i fattori ambientali 28. 4. La ratio delle norme agevolative per i diversamente abili: “la diversa capacità contributiva” Una rilettura dell’art. 2 della nostra Carta repubblicana, condotta con lente interpretativa focalizzata su di una visione integrata dei principi del personalismo e della solidarietà, impone che i principi di libertà individuale possono essere agevolmente affiancati da profili di doverosità, in grado, a loro volta, di estendere la stessa definizione di dignità umana oltre quella che ciascuno di noi dà della propria, rendendo il soggetto partecipe della vita collettiva 29. Gli aspetti relazionali, nei termini ora descritti, sembrano, addirittura, penetrare pure all’interno delle scelte della pubblica amministrazione non direttamente rivolte al soddisfacimento dei diritti sociali, bensì alla generica fornitura di beni e servizi. Si pensi alle previsioni del codice dei contratti pubblici sulle clausole sociali, ma, più in particolare, agli appalti riservati a favore dei c.d. laboratori protetti, di cui all’art. 52 di detto codice, ed al favor per tal via HEALTH ORGANIZATION, ICF – International Classification of Functioning Disability and Health – Short Version, Ginevra, 2001, p. 8. 27 Nonostante vengano elaborati continuamente nuovi modelli della disabilità, oggigiorno il paradigma predominante è il modello biopsicosociale basato sul rispetto dei diritti umani, cui si ispira la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore nel maggio 2008. 28 MENICHINI, The UN Convention on the Rights of People with Disabilities and the ICF: which New Opportunities for the Inclusion of People with Disabilities. The Italian Experience, Atti del “Global Partnership for Disability and Development Forum”, Torino 14-17 ottobre 2009. 29 Per tale ordine di considerazioni, cfr. RUGGERI, Dignità versus vita, in associazionedeicostituzionalisti.it. Del resto, sulla dignità come valore “supercostituzionale”, già RUGGERISPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, p. 343 ss., nonché SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. dir. cost., 1996, p. 55 ss. Fabio Russo 711 accordato ai rapporti di prossimità con i soggetti disabili in essi coinvolti 30. Nell’accezione qui accolta il principio di sussidiarietà consente di rendere viepiù visibile e plausibile la particolare e complessa caratura assiologica della solidarietà, non solo come valore oggettivo ma anche quale fatto di sentimento soggettivo 31. Al fine di meglio definire i rapporti tra solidarietà e sussidiarietà, può dirsi, come già correttamente sostenuto, che il principio di sussidiarietà orizzontale – ora che lo stesso risulta esplicitamente richiamato dal comma 4 dell’art. 118 novellato della nostra Carta fondamentale – funge (deve fungere) da fattore di razionalizzazione della solidarietà 32. Quest’ultima sarebbe di per sé portata, dalla radice emozionale da cui si diparte, a non riconoscersi limite alcuno, mentre la sussidiarietà riconduce (deve ricondurre) entro ragionevoli confini giuridici le attività di assistenza, precisando dapprima in che forma ed entro quale misura esse possano intervenire nel contesto del sistema delle autonomie, poi fin dove ed in quale guisa possa spingersi la cooperazione dei privati nello svolgimento delle attività di interesse generale ed, infine, quali invece siano gli ambiti in cui i pubblici poteri debbono farsi direttamente carico dei bisogni dei cittadini. 30 Su tali aspetti, cfr. CERBO, La scelta del contraente negli appalti pubblici fra concorrenza e tutela della “dignità umana”, in Foro amm.-Tar, 2010, p. 1874 ss.; BOIFAVA, Articolo 52, in AA.VV., Le nuove leggi amministrative. Codice dei contratti pubblici, Milano, 2007, p. 507; AGOSTINI, Cooperative sociali e appalti riservati, in Dir. prat. soc., 2010, p. 18 ss.; LOTTINI, Gli appalti riservati, in GAROFOLI-SANDULLI (a cura di), Il nuovo diritto degli appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria n. 62/2005, Milano, p. 129 ss.; BALESTRERI, Gli “appalti riservati” tra principio di economicità ed esigenze sociali, in Urb. app., 2009, p. 789 ss. 31 Cfr. MARRONE, Solidarietà e autonomie territoriali nello stato regionale, in PIZZINI-SACCHETTO (a cura di), Il dovere di solidarietà, Milano, 2005, pp. 27-35. Più in generale GALEOTTI, Il valore della solidarietà, in Dir. e soc., 1996, p. 4 ss. 32 In questi termini D’ALESSANDRO, Sussidiarietà, solidarietà e azione amministrativa, Milano, 2004, p. 110 ss. È significativo come questo intreccio fra solidarietà e sussidiarietà sia ora considerato virtuoso anche in seno alla dottrina sociale della Chiesa che rappresenta una delle fonti ispiratrici per lo sviluppo di questi principi. Si veda, da ultimo, l’Enciclica dell’ex Pontefice Benedetto XVI, Caritas in veritate, Città del Vaticano, in specie nn. 34-42, ma anche l’Enciclica Quadragesimo anno di Pio IX, richiamata da Giovanni XXIII, sia nella Mater et magistra, con specifico riguardo ai rapporti economici, sia nella Pacem in terris, in relazione ai rapporti internazionali, ed ancora ripresa da Giovanni Paolo II nella Familiarisconsortio, quanto alla intersezione famiglia-società-Stato. Per un’assimilazione della fisionomia e del senso del principio di sussidiarietà alla “parabola del figliol prodigo” (rectius “parabola del Padre misericordioso”), cfr. D’ANDREA, Il principio di sussidiarietà tra radice personalistica e funzione conformativa del sistema normativo, in Iustitia, 2011, p. 249 ss. 712 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 «In sintesi, il principio di sussidiarietà può svolgere una funzione guida nel dettare i criteri per definire il rapporto più congruo ed equilibrato fra libertà, autonomia e bisogno secondo standards che orientino e rendano giuridicamente misurabile il processo di integrazione pubblico/privato nella lotta alle esclusioni» 33. Ognuno ed ogni istituzione deve sentirsi partecipe, stretta in un comune sentire, della tematica del sostegno dell’altro senza però dimenticare mai che tutti, ma proprio tutti, sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art. 53 Cost.) 34. La disabilità, fiscalmente parlando, non comporta un regime tributario specifico, ma regimi agevolativi, di volta in volta, dettati ad hoc. Del resto il tributo non è un concetto giuridico-soggettivo né ha una soggettiva giustificazione, ma è la misura della capacità economica individuale suscettibile di distrazione in parte all’interesse generale e di fluire, in varie forme, al sistema di economia pubblica 35. Gli oneri e le spese essenziali, necessitate dalle varie forme e ragioni di disabilità, sono, al più, agevolati o riconosciuti in ragione di una diminuzione poco significativa della capacità tributaria, nonostante i limiti, sempre più marcati, dei servizi pubblici dedicati all’assistenza e alla cura delle persone – in primis della loro salute –, molto spesso impongano l’oneroso ricorso ai servizi di mercato 36. 33 Ancora D’ALESSANDRO, op. cit., p. 110 ss. Per una ampia trattazione sulle correlazioni tra dimensione emotiva e diritti sociali si veda BERLINGÒ, La rilevanza dei fatti di sentimento nel diritto amministrativo: i fattori relazionali nella tutela dei diritti sociali, in Dir. amm., fasc. 1-2, 2012, p. 143. 34 Per la vasta bibliografia rimando a GAFFURI, Ancora dell’attitudine alla contribuzione, in Rass. trib., n. 5, 2013, p. 975; GALLO, L’evoluzione del sistema tributario e principio di capacità contributiva, in Rass. trib., n. 3, 2013, p. 499; F. VASAPOLLI-A. VASAPOLLI, L’imponibile rappresenta veramente la capacità contributiva?, in Bilancio e reddito d’impresa, n. 9, 2011, p. 7; FORTE, Causa del potere finanziario e capacità contributiva, in Corr. trib., n. 24, 2007, p. 1939; LUPI, Capacità economica, capacità contributiva e minimo vitale, in Dialoghi trib., n. 2, 2009, p. 121; MARELLO, Commento all’art. 53 della Costituzione, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di Bartole-Bin, Padova, 2008, p. 530 ss. 35 SCALINCI, Il tributo senza soggetto. Ordinamento e fattispecie, Padova, 2011, p. 441, secondo cui il tributo è il vettore giuridico autoritativo mediante il quale risorse economiche sono attinte dalle loro antecedenti ed eterogenee allocazioni giuridiche di economia privata per essere impiegate in funzione di interessi pubblici o generali. 36 Ancora SCALINCI, Il dovere fiscale non ha età: la compliance dell’anziano, i suoi limiti naturali e la ricerca di un contemperamento ragionevole degli interessi in gioco, in Giur. merito, fasc. 12, 2011, p. 3067. Fabio Russo 713 Vivace e sentito è il dibattito sul tema, oggetto anche di richieste d’intervento del giudice delle leggi 37, in quanto i diversamente abili, sono “tutti” ex art. 53 Cost., ma sono anche gli altri diversamente uguali dell’art. 3 Cost., come tali destinatari di legislazione fiscale di favore. Diverse ed eterogenee, ma tutte rivolte alle stesso fine, sono quindi le norme di favore scritte nel tempo per i disabili, sia nella legislazione nazionale che in quella internazionale. Sul fronte delle imposte nazionali, ad esempio, si annovera la detrazione dall’IRPEF 38 delle spese sostenute per gli addetti all’assistenza personale nei casi di “non autosufficienza” del disabile nel compimento degli atti della vita quotidiana. Sul fronte delle imposte regionali il legislatore dell’IRAP ha coniato una fattispecie neutralizzante i costi per soggetti assunti con contratti di formazione lavoro, apprendistato e disabili e per il personale addetto alla Ricerca e Sviluppo 39. Analogamente, ai fini delle imposte locali, può essere esclusa dall’applicazione dell’imposta, non soltanto l’abitazione c.d. principale in senso stret37 Basterebbe, per tutte, pensare alla sentenza della Corte cost. n. 167/1991, inerente le censure mosse e concernenti la limitazione del beneficio fiscale per l’acquisto di autoveicoli ai soli acquirenti di autoveicoli “adattati negli organi di guida”. In questo modo il legislatore finiva per trascurare tutti quei veicoli diversamente adattati al trasporto dei disabili che, magari perché molto gravi, non avevano potuto conseguire la patente di guida, ma che avevano comunque esigenze di trasporto a mezzo di veicoli altrimenti adattati. La questione, sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., sì è risolta in una pronuncia di inammissibilità per come formulata. Il giudice delle leggi, ciò nonostante, ha rivolto alle legislatore la più viva raccomandazione affinché sopperisca alle inadeguatezze poste a carico della disciplina adottata nello specifico settore. 38 Scritta nell’art. 15, comma 1, lett. i-septies), del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), stabilita nella misura del 19%, va calcolata su un ammontare di spesa non superiore a 2.100 euro e spetta solo quando il reddito complessivo del contribuente non sia superiore a 40.000 euro. La detrazione spetta anche per le spese sostenute per il familiare non autosufficiente (compreso tra quelli per i quali si possono fruire di detrazioni d’imposta), anche quando egli non è fiscalmente a carico, ma se la badante non ha un diploma di “specializzazione professionale sanitaria o parasanitaria” gli esborsi sopportati non sono detraibili dalla dichiarazione dei redditi. In questo senso Cass., sez. trib., sent. n. 18584/2004, con nota di BUSCEMA, Le spese di assistenza sono deducibili solo per le badanti specializzate, in Dir. e giust., fasc. 36, 2004, p. 28. 39 BRAIOTTA-PISANI-PISANO, Evasione fiscale e distribuzione primaria del reddito, in Riv. dir. fin. sc. fin., fasc. 2, 2013, p. 139. Per la sterilizzazione dei costi del disabile dalla base imponibile IRAP (e per la complessiva tematica delle agevolazioni fiscali) si consenta il rinvio a F. RUSSO, Le agevolazioni fiscali alle imprese, Milano, 2010, p. 433. 714 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 to, ma, anche «l’unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisiscono la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata» 40. Occorre dirigerci oltre le Alpi, attraversando La Manica, per imbatterci nella interessante, ma poco lusinghiera, anzi opposta al favor sopra evidenziato, esperienza della bedroomtax 41. In specie, si è prevista l’introduzione di una “tassa” sulle stanze da letto in più rispetto a quelle considerate necessarie: più esattamente, se il soggetto beneficiario, rientrante tra le categorie dei non abbienti, è in età lavorativa ed occupa una o due stanze in più dell’immobile assegnato, viene a perdere parte dei sussidi per la casa assegnata dai comuni o da altri enti pubblici. Sono previste varie fattispecie di esenzione da questi tagli, che sono nell’ordine del 14% per una stanza in più e del 25% per due o più di due e che, nelle stime del Governo, dovrebbero portare ad una decurtazione dei contributi, per una popolazione di circa 660.000 assegnatari, di circa 14 sterline a testa a settimana. Tuttavia, nelle fattispecie di esenzione non era previsto il caso di disabili maggiori d’età, bisognosi di spazi più ampi rispetto a quelli previsti per legge, tanto che la battaglia si è trasferita nelle aule di Giustizia in senso favorevole ai ricorrenti 42. 40 Nella novella IMU l’art. 1, comma 707, della L. n. 147/2013, in modifica dell’art. 13 del D.L. n. 201/2011, come conv. con modifiche dalla L. n. 214/2011, ha concesso tale facoltà ai comuni. Per la nozione di “unità immobiliare” ai fini della detrazione in esame, cfr., ex plurimis Cass., sez. V-trib., sent. 29 ottobre 2008, n. 25902; 9 dicembre 2009, n. 25729; 12 febbraio, 2010, n. 3393. 41 Tale gabella del Regno Unito, nota anche come under occupancycharge o removal of the spare room subsidy, rientra tra le misure di riforma del welfare e dei servizi sociali introdotte nell’aprile 2013 dal Governo britannico (Welfare ReformAct, 2012), con le quali si è cercato di apportare dei mutamenti e dei tagli al deficitario sistema di Housing Benefit Entitlement, ricalcolando tra l’altro le agevolazioni fiscali e le esenzioni per le imposte locali. 42 Un Tribunale di prima istanza di Glasgow (First-Tier Tribunal Glasgow, Social Security, 9 settembre 2013) ha riconosciuto l’incompatibilità della restrizione del 14% dei benefici con l’art. 14 della CEDU, nei riguardi di una donna affetta da grave infermità (sclerosi multipla ad uno stadio avanzato) e non autosufficiente, che occupava con il marito un appartamento affittato da una Housing Association. Il giudice ha riconosciuto l’impossibilità per i due coniugi – che in base alle nuove regole avrebbero dovuto occupare un appartamento con una sola camera da letto – di condividere la medesima stanza da letto, giudicando che la fattispecie rientri a pieno titolo in quelle tutelate dalla norma convenzionale, ove si richiama il “diverso status” della persona, che deve comprendere nella sua accezione anche la disabilità. Si veda FREGNI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e tassazione, in Riv. dir. fin. sc. fin., fasc. 2, 2014, p. 210. Fabio Russo 715 5. L’imposta di successione e donazione e le esenzioni L’art. 2, comma 47, della L. 24 novembre 2006, n. 286 ha “resuscitato” l’imposta di successione e l’imposta di donazione 43, ampliandone il cappello applicativo in estensione ai trasferimenti a titolo gratuito e dalla costituzione dei vincoli di destinazione 44, nel solco del previgente testo 45 e fatte per lo più salve le nuove aliquote e soprattutto franchigie, con decorrenza sfalsata a seconda del fatto evento e, precisamente, per le successioni apertesi dal 3 ottobre 2006 e per gli atti posti in essere dal 29 novembre 2006. Le nuove regole fissano delle specifiche franchigie – sempre correlate al grado di parentela – al di sotto delle quali, le imposte non sono dovute 46. La reintrodu43 Già soppressa dall’art. 13, comma 1, della L. 18 ottobre 2001, n. 383. Riporta le principali novità CHESSA, Il nuovo regime fiscale delle successioni e donazioni dopo la Finanziaria 2007, in Immobili e proprietà, n. 5, 2007; BUSANI, Ritorna in vigore l’imposta sulle successioni e donazioni, in Corr. trib., n. 2, 2007, p. 91. Per la trattazione del regime ex ante si veda FEDELE, Riforma dell’imposta di successioni e donazioni come esito dell’evoluzione storica del tributo, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, Milano, 2001; MASTROIACOVO, Considerazioni relative all’entrata in vigore della riforma delle successioni e donazioni, in Riv. dir. trib., fasc. 5, 2001, p. 597 e quanto al complesso tema delle liberalità indirette STEVANATO, Le liberalità tra vivi nella riforma del tributo successorio, in Riv. dir. trib., fasc. 3, 2001, p. 339. Per la trattazione completa del novello istituto si veda FEDELE, Il regime fiscale delle donazioni e liberalità, in Trattato breve delle e successioni e donazioni, diretto da Rescigno, coordinato da Leva, Padova, 2010; SCODELLARI, La successione ereditaria e la donazione nel diritto civile e tributario, Torino, 2010. Per la manualistica si veda FALSITTA, Corso istituzionale di diritto tributario3, Padova, 2009; LA ROSA, Principi di diritti tributario3, Torino, 2009; P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Milano, 2009. 44 Si veda, in particolare, GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, trust e patti di famiglia, Padova, 2008; ID., Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. trib., 2007, p. 441. 45 Approvato con D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346. Per una ampia trattazione si veda ALTANA-SILVESTRI, L’imposta sulle successioni e donazioni nel Testo Unico, Milano, 1993; BEGHIN, I contributi e liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997; BORIA, op. cit.; FALSITTADOLFIN, L’imposta sulle successioni e donazioni, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale7, Padova, 2010. Per una dissertazione ancora anteriore si veda ALTANA, Imposta sulle successioni e donazioni, Milano-Roma, 1974. 46 Se eredi o beneficiari sono il coniuge ed i parenti in linea retta, l’imposta è pari al 4%, da corrispondersi oltre la franchigia, fissata in un milione di euro per ogni erede/beneficiario. Nella presente fattispecie, sono considerati parenti in linea retta anche i genitori e i figli naturali, i rispettivi ascendenti e discendenti in linea retta, gli adottanti e gli adottati, gli affilianti e gli affiliati. La parentela naturale, se il figlio non è stato legittimato o riconosciuto o non è riconoscibile, deve risultare da sentenza civile o penale, anche indirettamente, ovvero da dichiarazione scritta del genitore. Se, invece, eredi o beneficiari sono i fratelli o le sorelle, l’aliquota corrisponde al 6%, con una franchigia pari a centomila euro per ogni ere- 716 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 zione del tributo ha fomentato notevoli discussioni tra fautori e detrattori 47. L’intervento introduce due nuove esperienze, ovvero la tassazione degli atti de/beneficiario. Medesima aliquota del 6% se eredi o beneficiari sono i parenti entro il quarto grado, gli affini in linea retta e gli affini in linea collaterale entro il terzo grado; in questo caso, però, il legislatore non ha posto nessuna franchigia. Infine, se eredi o beneficiari sono soggetti diversi da quelli indicati in precedenza, l’aliquota di imposta è pari all’8%. 47 Tra i primi si veda OSCULATI, L’Uguaglianza tributaria in Franco Gallo. Un commento, in Riv. dir. fin. sc. fin., fasc. 4, 2013, p. 354, per cui una tassazione speciale sulle pensioni d’oro è, non tanto alla lontana, assimilabile all’imposta di successione. In risposta ad essa il de cuius non ha scelta e anche gli eredi non possono reagire. Posto che le pensioni retributive (elevate e non) sopravvivranno per anni, ma non per sempre, e considerato che non sarebbe sbagliato reintrodurre un’imposta di successione significativa, si potrebbe approfondire l’ipotesi di ammettere una tassazione speciale sulle pensioni d’oro, introdotta da subito, come un anticipo da scontare in sede di imposta di successione. «Il concetto di capacità contributiva risulta da tutto il diritto finanziario, ossia dalla stessa imposta di RM (artt. 1, 3, 8, 25, 30, 32), e dall’insieme di tutte le leggi tributarie, comprese quelle sulle successioni e donazioni. Esso porta a commisurare l’imposta a quell’incremento di ricchezza spendibile dal contribuente per usi pubblici e per consumi privati senza deterioramento della sua situazione patrimoniale, poiché è nell’interesse pubblico che siano rispettati i patrimoni particolari». GRIZIOTTI, L’autonomia del diritto finanziario nella determinazione della capacità contributiva e del reddito imponibile. La intassabilità in r.m. delle plusvalenze monetarie nominali, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1938, II, p. 107 ss. Il teorema che non v’è imposta senza la presenza di un indice di capacità contributiva, che tale indice consiste nel reddito come entrata netta (e non già come prodotto da una fonte) e che tale indice si palesa direttamente anche nelle imposte sugli arricchimenti al titolo gratuito (successioni e donazioni), è reiterato ed illustrato in ulteriori note e scritti griziottiani riportati in autorevole commento di FALSITTA, Il principio della capacità contributiva dal suo svolgimento storico fino alla Assemblea Costituente, in Riv. dir. trib., fasc. 9, 2013, p. 761. Tra i secondi (detrattori) si veda OHLSSON, The Legacy of the SwedishGift and InheritanceTax, 1884-2004 – quello che ci ha lasciato l’imposta di successione svedese – pubblicato dall’Uppsala Center for Fiscal Studies, WorkingPaper, n. 13, 2009, per il quale, in aggiunta, il gettito è sempre stato piuttosto modesto. Contro ogni effetto anticipatorio del tributo è INGROSSO, Relazione introduttiva al Convegno di apertura del corso di specializzazione “La formazione e l’aggiornamento del Difensore Tributario”, Caserta, 9 marzo 2015, per cui la logica emergenziale, nella quale è oramai complessivamente attanagliato il Paese, fa si che lo straordinario abbia preso il posto dell’ordinario, di qui la previsione di imposte anticipatorie della capacità contributiva, contrarie alla Carta costituzionale ed allo Statuto del contribuente, tanto che il Fisco, in definitiva, ha così rotto gli argini della ragionevolezza. Evidenzia profili di evidente criticità già all’indomani della novella, ma anche vigente l’abrogazione nel 2001, MARONGIU, Ancora dubbi di incostituzionalità sulla “c.d. tassa sul morto”, in Dir. prat. trib., n. 1, 2007, pt. 2, p. 39 ss.; ID., Abolizioni della “tassa sul morto” (e della imposta sulle successioni): profili di illegittimità costituzionale in ordine alle successioni apertesi in precedenza, in Rass. trib., n. 4, 2002, p. 1159 ss.; ID., L’obbligato decesso sulla “tassa sul morto”, in Dir. prat. trib., n. 4, 2002, p. 562 ss.; ID., Le novità delle legge di riforma dell’imposta di successioni, in AA.VV., L’imposta sulle successioni, cit., p. 93 ss. Fabio Russo 717 a titolo gratuito 48 e, dopo qualche ammiccamento con l’imposta di registro, la tassazione dei vincoli di destinazione 49. La portata della legge trascende in tutta l’evidenza che non si tratta della vecchia imposta aggiornata e corretta, ma di un nuovo tributo che affanna l’interprete nel tentativo di collegare sistematicamente il nuovo con il vecchio in un tutto armonico 50. L’imposta di successione 51, secondo calcoli della Banca d’Italia 52, produce un gettito inferiore alle potenzialità. Negli ultimi anni, in particolare nel 2012, il valore della ricchezza delle famiglie italiane, considerando l’insieme delle componenti secondo il valore effettivo di mercato, si aggira tra gli 8.000 ed i 9.000 miliardi di euro. Se si considera che la ricchezza ruota ad ogni ge48 Posto che le donazioni, già in passato assurte a presupposto, fondano sull’animus donandi che non è invece presente nei meri atti di trasferimento a titolo gratuito che, addirittura, pur in assenza di prezzo o corrispettivo, possono assumere una valenza larvatamente sinallagmatica e addirittura una funzione di garanzia impropria (c.d. negozio fiduciario, si veda Circolare A.E. 27 marzo 2008, n. 28). 49 Nella prima stesura del D.L. n. 262/2006, da tassare a registro, nella versione convertita in L. n. 286/2011 passati sotto l’egida del novello tributo. In particolare i Trust sono stati (e sono a tutt’oggi) al centro di forti polemiche e dibattitti per cui rimanda a CANNIZZARO-TASSANI, La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, in Studi e materiali, 2011; CANIZZARO, I trust nel sistema fiscale italiano, Ospedaletto (PI), 2012; BELLUZZO-VIAL, Trust discrezionali: imposizione in misura fissa per i beneficiari non individuati, in Il Fisco, n. 47, 2007, pp. 1-6797; DEL FEDERICO, Soggettività passiva del trust ai fini Ires, in Il Fisco, n. 44, 2007, pp. 1-6242; GAFFURI, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle Entrate sulla tassazione indiretta dei trust, in Trusts, n. 2, 2008, p. 121; GUFFANTI, I trust e le imposte indirette alla luce delle indicazioni dell’Agenzia delle Entrate, in Corr. trib., n. 47, 2007, p. 3835; IANNIELLO, Passaggi familiari dell’azienda “leggeri” anche per il coniuge del defunto, in Corr. trib., n. 8, 2008, p. 604; VICARI, Imposta sulle donazioni e trust esteri: muchado for nothing!, in Trusts, n. 4, 2007; BUSANI, Imposta di donazione su vincoli di destinazione e trust, in Corr. trib., n. 5, 2007, p. 359. Il pingpong tra TUS (D.Lgs. n. 346/1990) e TUR (D.P.R. n. 131/1986) ha afflitto diverse fattispecie di confine, una per tutte in BURELLI, La rinuncia (a diritti reali) tra imposta sulle donazioni e imposta di registro, in Riv. dir. trib., n. 3, 2008, I, p. 279. 50 Tanto che autorevole dottrina parla di «novella istituzione, secondo le disposizioni di cui ai commi da 47 a 53 dell’art. 2, D.L. 3.10.2006, n. 262 ... omissis». Così FEDELE, Il presupposto del tributo, in FEDELE-MARICONDA-MASTROIACOVO (a cura di), Codice delle leggi tributarie. I codici notarili commentati, Torino, 2014, p. 601. 51 Sostenuta fortemente dal pensiero comunista non solo come strumento di equità, ma anche come strumento di concorrenza, in quanto potrebbe permettere a tutti di competere sulla base di “condizioni iniziali” maggiormente livellate. Buona parte del piano formulato nel Manifesto del partito comunista di origine marxista è stato attuato dalle democrazie occidentali tramite pesanti imposte di successione. Così MAIOCCHI, Popper, Grandangolo, vol. 24, ed. spec. Corriere della Sera. 52 Cfr. da ultimo BANCA D’ITALIA, Dati anno 2013. 718 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 nerazione e, supponendo realisticamente in circa 30 anni il periodo medio di rigiro, ogni anno dovrebbero entrare nella base imponibile, se la valutazione della base imponibile fosse rispondente ai valori veri, circa 270-300 miliardi di euro. Ebbene, il gettito dell’imposta negli anni 2012-2013 si è posizionato attorno a 600 milioni di euro, corrispondenti, rispetto alla base potenziale, allo 0,20-0,25%. La responsabilità dipende in buona parte dalle esenzioni (fino a un milione di euro tra i parenti di primo grado), ma non dall’aliquota (dal 4% all’8%) 53, posto che sottraggono all’imposizione situazioni e soggetti che inevitabilmente ricadrebbero nell’ambito della previsione della norma impositiva 54. Proprio una lettura d’insieme delle esenzioni 55, seppur introdotte in diversi momenti temporali, dà il senso, se non proprio del tradimento dell’idea di fondo, quantomeno, di una sintesi non troppo ben riuscita. L’art. 1, comma 78, della L. n. 296/2006 56, esenta dall’imposta in commento i trasferimenti 57 di aziende familiari (individuali o collettive), a favore dei discendenti 58, ad oggetto aziende o rami di esse, quote sociali e azio53 VITALETTI, Fisco e costituzione, in Riv. dir. fin. sc. fin., fasc. 2, 2014, p. 166. In questo senso l’esenzione è una species del più ampio genus delle agevolazioni fiscali, così AMATUCCI, Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 2013, p. 99. 55 L’art. 3 del TUS, già prima delle ultime modifiche, è stato al centro delle riflessioni della dottrina già con BARASSI, L’imposizione degli enti non commerciali, Milano, 1996; BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (dir. trib.), in Enc. dir., Agg. V, 2002; FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1993. 56 La c.d. finanziaria 2007 ha modificato l’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990 (TUS) inserendo il comma 4 ter. Sul tema in generale si veda BASILAVECCHIA, Le implicazioni fiscali delle attribuzioni ai familiari. Le implicazioni del Patto di famiglia, aspetti sistematici, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, p. 194 ss.; MASTROIACOVO, Non è soggetto ad imposizione il passaggio generazionale dell’azienda, in Corr. trib., 2008, p. 326 ss. 57 Eredità o legato, senz’altro, posto che la disciplina dettata dall’art. 1, comma 78, L. n. 296/2006, infatti, va ad integrare la disciplina dettata dall’art. 3 del TUS ma, considerata la sua chiara finalità di favorire, attraverso la leva fiscale, il passaggio generazionale nelle aziende di famiglia, il comma 4 ter si estende anche alla donazione d’azienda (Risoluzione 18 novembre 2008, n. 446; Risoluzione 23 novembre 2007, n. 342) ed al Trust d’azienda o di quote, a patto che siano soddisfatte le condizioni prescritte dal suddetto articolato (Circolare 6 agosto 2007, n. 48; Risoluzione 23 aprile 2009, n. 110). 58 Al riguardo, non manca, attenzionando l’uso delle “virgole” nella disposizione in commento, la tentazione di limitare il trasferimento “ai discendenti” beneficiari dei soli “patti di famiglia”, per cui l’agevolazione in questione riguarderebbe, quale logico corollario, ogni beneficiario, proprio a prescindere dal vincolo di discendenza. Tale estensione, però, non convince, apparendo contraria all’orientamento del legislatore di favorire i discendenti in linea retta e penalizzare chi parente non lo è. Si veda, all’uopo, la nuova disciplina in tema 54 Fabio Russo 719 ni 59 ed a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento o, in caso di trasferimento di quote sociali e azioni di società per azioni, detengano il controllo per il medesimo periodo 60. Contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione, o in atto negoziale, i discendenti, per avvalersi della esenzione dall’imposta di successione, debbono espressamente invocare il beneficio 61. La previsione di favore, come anticipato, si inserisce nell’art. 3 del TUS, al comma 4 ter, rubricato “Trasferimenti non soggetti all’imposta”, dedicato, tuttavia, alle esenzioni soggettive. Più precisamente al comma 1 sono disciplinate le esenzioni soggettive tucur, al comma 2 quelle soggettive condizionate 62, mentre i successivi commi, come la numerazione subito palesa, fattispecie ulteriori di successiva introduzione. di franchigia o le varie ipotesi di riduzione per trasferimenti di attività economiche previste dall’art. 25, D.Lgs. n. 346/1990; inoltre, l’aver limitato l’agevolazione ai soli patti di famiglia posti a favore di discendenti, sarebbe un non senso dato che, per definizione, i patti di famiglia possono essere stipulati solo a favore dei discendenti. La previsione, in ogni caso, ha un preciso antecedente storico nella riformulazione legislativa dell’art. 15 dell’imposta di successione operata dall’art. 69, comma 1, della L. 21 novembre 2000, n. 369, norma che ha superato la determinazione della base imponibile delle aziende cadute in successione in base ai valori correnti dei beni che la compongono (avviamento incluso). Si veda MASTROIACOVO, L’imposizione indiretta del passaggio generazionale dell’azienda tra regimi agevolati e criticità di sistema, in Rass. trib., 2012, p. 616. 59 In caso di quote sociali e azioni di società per azioni, di società in accomandita per azioni, di società a responsabilità limitata, di società cooperative, di società di mutua assicurazione residenti nel territorio dello Stato, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato (Risoluzione 26 luglio 2010, n. 75) il controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), c.c., ossia se la partecipazione trasferita attribuisce, o consente di acquisire, la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria. Per quanto riguarda le quote delle altre società (s.n.c., s.a.s.) non è richiesto che il beneficiario assuma il controllo societario. Si veda MIGNARRI, Circolare 3/E del 22 gennaio 2008: trattamento delle attività finanziarie nell’imposta di successioni e donazioni, in Il Fisco, 2008, p. 7. 60 L’idea della continuazione familiare nella gestione dell’impresa sembra essere proprio alla base di tale agevolazione. Il mancato rispetto della condizione di cui sopra comporta la decadenza dal beneficio e connessi gravami, con il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata. 61 Si veda ROSSI RAGAZZI, Cessione e trasferimento gratuito dell’azienda, in Il Fisco, 2012, p. 24; BANA-CERRATO, Risoluzione n. 75/E del 26 luglio 2010 – Trasferimenti di partecipazioni ed esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni, in Il Fisco, 2010, p. 32. 62 Così DE MARINIS, Le esenzioni soggettive dall’imposta di successione e donazione, in FEDELE-MARICONDA-MASTROIACOVO (a cura di), op. cit., p. 623. 720 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Questa agevolazione, incentrata più sulla tipologia di lascito, ovvero aziende e loro rami o quote e azioni, nonché, indirettamente, sulla tipologia di dante causa, imprenditore o azionista, ma volta a favorire il discendente, sembra discostarsi da quelle dei commi precedenti che guardano a determinati soggetti a prescindere dall’oggetto del trasferimento e che sono incentrate su un profilo puramente soggettivo, al più condizionato dalla finalità del beneficiario. Ebbene desta perplessità il pensare che, all’interno di una categoria che già di per se racchiude un’aria soggettiva di svantaggio, quale quella dei diversamente abili, si operi, volendo o dolendo, una distinzione a seconda dell’oggetto del lascito, esentato in diritto se concerne aziende, esentato di fatto, in ragione dell’elevatissima e quasi insuperabile franchigia 63, ma tassato in diritto oltre soglia se concerne altre tipologie di beni e diritti. Eppure, in entrambi i casi, l’avente causa è “ugualmente disabile” e non sembra, a risultato raggiunto, che i legislatore abbia raggiunto un amalgama così perfetto. Tale esenzione, prevista per tutti i destinatari di patrimoni aziendali di famiglia, non appare sposarsi bene con quella puramente soggettiva che prevede una franchigia elevata a favore di tutti i diversamente abili con tassazione sul residuo. 6. Conclusioni La ragionevolezza, la gradualità e la proporzionalità delle conseguenze o dei rimedi sono, in fondo, i canoni che dovrebbero ispirare, in genere, l’ideazione, la scrittura e poi l’applicazione delle norme tributarie, specie quando siano in gioco le sorti di persone che non sono proprio in grado di far fronte al ruolo giuridico loro imposto (e, spesso, ipocritamente presupposto) per tutta la vita o solo per una fase di essa. La finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, è, del resto, ormai, codificata tra i principi generali del nostro ordinamento giuridico; e questo evento normativo, il sostanziale riconoscimento dell’esistenza e della rilevanza di una condizione 63 Ad onore del vero la legislazione fiscale quanto ai diversamente abili mostra una certa sensibilità ed una evoluzione significativa rispetto alle prime concezioni del diversamente abile inteso solo come inabile a produrre reddito. In tal senso militavano diverse leggi (per tutte n. 118/1971, n. 382/1970, n. 381/1970, n. 482/1968, n. 18/1980). Fabio Russo 721 o di una capacità mediana rispetto agli estremi segnati dalle legali capacità o incapacità che hanno fondato per decenni il sistema del diritto comune e la sua presupposizione nelle norme che regolano l’applicazione dei tributi, non può rimanere senza conseguenze fiscali. Le incapacità naturali in senso esteso, anche quando siano solo transitorie o in forma attenuata, devono, ormai, costituire motivo di applicazione ponderata e singolare delle discipline normative che pure le ignorino, se non altro nei limiti consentiti dall’esegesi e da una prospettiva ricostruttiva sistematica orientata a coniugare, laddove ve ne sia spazio, opposte esigenze, in nome dell’equità e dei valori di buona amministrazione e di giustizia che devono informare ogni applicazione normativa di diritto pubblico cui, ovviamente, il diritto tributario non fa eccezione 64. Ecco perché è auspicabile una rimeditazione se non di tutto il sistema tributario, certamente in seno all’imposta analizzata, che tenga conto delle lamentate storture di sistema e si interroghi, quantomeno, sul se e come porvi rimedio. Volendo guardare un po’ più lontano ed al di fuori dei nostri stretti confini è immediato verificare che l’esigenza qui sottolineata non è peregrina. Con una recente sentenza il Tribunale costituzionale tedesco ha dichiarato la incostituzionalità dei parr. 13a, 13b e 19, comma 1, della legge in materia di imposta di successione e donazione per violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della legge fondamentale tedesca) 65. Nel merito, le disposizioni in esame sono state considerate incostituzionali per il fatto di prevedere una generalizzata e non proporzionata esclusione dal prelievo in relazione ai patrimoni aziendali e alle partecipazioni societarie, mentre il Parlamento avrebbe dovuto e dovrà re64 Anzi la leva fiscale non assolve solo ad una funzione distributiva, in cui il soggetto passivo d’imposta è scelto in relazione a fatti e atti che non dimostrano necessariamente una forza economica a contenuto patrimoniale e in cui il raggiungimento dell’obiettivo della “giusta imposta” è affidato, conseguentemente, al solo rispetto del principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost. e presupposto dall’art. 53, comma 1 (GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, p. 82. Ma si veda anche dello stesso autore L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012). Il concetto cardine è “uguaglianza” e ne discende un principio operativo e moderno in cui l’uguaglianza discende da un concetto di giustizia, orizzontale e verticale, che prevede uguali conseguenze per uguali condizioni e conseguenze adeguatamente diverse per condizioni diverse. Non v’è dubbio, al riguardo, che il disabile sia in condizione diversa e meritevole di attenzione. 65 Bundesverfassungsgericht, sent. 17 dicembre 2014, reperibile su http://www.bundes verfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/DE/2014/12/ls20141217_1bvl002112.html, riportata da DÉ CAPITANI DI VIMERCATE, Sulla (il)legittimità costituzionale delle disposizioni agevolative in materia di trasferimenti di aziende e partecipazioni sociali a titolo gratuito e per successione, in Dir. e prat. trib. int., n. 4, 2014. 722 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 stringerne il campo di applicazione, limitandola alle imprese di piccole e medie dimensioni e ai casi in cui l’esenzione scongiuri la perdita di posti di lavoro. Il Tribunale costituzionale precisa che una disposizione agevolativa deve considerarsi incostituzionale quando risulti applicabile a casi che non si intendevano favorire e che non rispettino il principio di uguaglianza. Pur potendo il legislatore perseguire, attraverso disposizioni tributarie, anche finalità extrafiscali, la previsione di agevolazioni e discriminazioni deve comunque rispettare il criterio di ragionevolezza, che rappresenta in questi casi il parametro per il giudizio del Tribunale costituzionale 66. Questo contributo non milita nel senso della critica agli intenti del legislatore esentativi del passaggio generazionale, ma va invece inteso nel senso che non è condivisa, in tale contesto ed assetto, la previsione di una franchigia a favore del diversamente abile non beneficiario di aziende o quote. Il capoverso dell’art. 3 della Carta costituzionale non pare consentire una discriminazione tra il soggetto disabile tucur e quello destinatario di un lascito avente ad oggetto una complessa attività d’impresa. Anzi, molto più probabilmente, il secondo ha meno bisogno di protezione del primo. Se la franchigia applicabile a favore dei diversamente abili, a sola considerata, per quanto qui consta è immune da censure 67, non altrettanto più dirsi considerando tutte le disposizioni dell’imposta di successione e donazioni che meritano una lettura d’insieme più ampia e lucidamente ispirata alla protezione del soggetto debole nell’ottica della ragionevolezza, della giustizia ed uguaglianza. 66 In relazione alla disposizione italiana di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990, si vedano gli spunti critici di Eyraud, Reforming Capital Taxation in Italy (reperibile su www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1406.pdf), che contesta, tra gli altri profili della nostra imposta di donazione e successione, anche l’esenzione sui trasferimenti d’azienda e di partecipazioni. 67 Nel senso che fornisce una risposta equa e giusta alle esigenze dei danti causa, per lo più genitori, che già angosciati dal futuro del discendente disabile all’indomani della loro dipartita, non meritano di subire una tassazione su beni ed importi trasmessi a titolo gratuito ed avvertiti, spesso, come necessari ed indefettibilmente legati alle stesse esigenze di sostentamento vita natural durante del soggetto svantaggiato. Anche sotto questo profilo va ricordato che qualora il genitore di un diversamente abile dovesse destinare il proprio patrimonio (non azienda o quote) ad una associazione dedicata alla cura dei disabili orfani o rimasti soli, sotto forma di Onlus (solo per esempio Associazione Nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale – ANFFAS Onlus), perché assicuri e si prenda cura del futuro del proprio caro, tale lascito cadrebbe certamente in esenzione ex art. 1, comma 3, del D.Lgs. n. 346/1990, mentre se destinato direttamente a favore dello stesso disabile sarebbe tassato sopra franchigia. Alessia Vignoli L’ATTIVITÀ COMMERCIALE DELLA PARTECIPATA NELL’INTERPRETAZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ THE COMMERCIAL ACTIVITY OF THE SUBSIDIARY IN THE INTERPRETATION OF THE ITALIAN SUPREME COURT Abstract Ai fini dell’applicabilità del regime della participation exemption il requisito dell’attività commerciale della società partecipata deve essere considerato in maniera sostanziale, attribuendo rilievo alle caratteristiche della società partecipata e non limitandosi a meri dati formali (come ad esempio l’oggetto sociale desumibile dalla certificazione della Camera di Commercio). Parole chiave: participation exemption, attività commerciale, presupposti, limiti. For the purposes of the applicability of the participation exemption discipline, the requirement of the business activity of the subsidiary shall be considered substantially, giving relief to the characteristics of the controlled company and not limited to mere formal data (such as the corporate purpose as implied from the certification issued by the Chamber of Commerce). Keywords: participation exemption, commercial activity, requirements, limits. SOMMARIO: 1. Il regime della partecipation exemption e la sua ratio. – 2. I presupposti per benificiare del regime pex: considerazioni generali. – 3. Il requisito della commercialità della società partecipata. Il riferimento all’esercizio di «impresa commerciale di cui all’art. 55 del TUIR». – 4. La presunzione assoluta di non commercialità per le società immobiliari. – 5. La necessità di un approccio sostanzialistico per verificare la commercialità o meno dell’attività svolta dalla partecipata. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità. 724 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 1. Il regime della partecipation exemption e la sua ratio Il sistema della partecipation exemption, come è noto, è stato introdotto con la legge delega 7 aprile 2003, n. 80 ed con il successivo D.Lgs. n. 344/2003 1 che hanno radicalmente modificato il sistema di imposizione degli utili societari e delle plusvalenze da partecipazioni con la volontà di omogenizzare il sistema fiscale italiano a quello degli altri paesi europei 2. Il principio che ha ispirato la riforma è stato sostanzialmente lo spostamento 3 del baricentro impositivo dal socio alla società 4, tassando tendenzialmente l’utile al momento della produzione, senza conguagli successivi. Ciò comporta l’irrilevanza fiscale del passaggio del reddito ai soci, salvo il conguaglio in capo alle persone fisiche destinatarie finali, e della vendita della relativa partecipazione 5. In altre parole, l’esenzione – e la conseguente irrilevanza delle minusvalenze – prevista sui plusvalori derivanti dalla cessione (o valutazione) di azioni o quote societarie risponde alla duplice esigenza di evitare la doppia im1 Con il quale, come noto, sono state apportate profonde modifiche nel TUIR. Per un’approfondita ricostruzione sul tema si veda VIOTTO, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, Torino, 2013, p. 3 ove ampia bibliografia. Sulle ragioni sottostanti a tale scelta si vedano: CERIANI-GIANNINI, La tassazione delle società nel contesto comunitario, in RUSSO (a cura di), La riforma dell’imposta sulle società, Torino, 2005, p. 13 ss.; BIASCO, Una valutazione d’insieme della tassazione d’impresa e finanziaria previste dalla delega fiscale, in Il Fisco, 2002, pp. 1890-1891 e GIANNINI, L’evoluzione dei sistemi di imposizione societaria nei paesi dell’Unione Europea e le prospettive di coordinamento comunitario, in Dir. prat. trib., 2004, I, p. 58 ss. 3 Che ha sostituito il precedente criterio del credito d’imposta su cui ESCALAR, Il nuovo regime di tassazione degli utili da partecipazione e dei proventi equiparati nel decreto legislativo di “riforma dell’imposizione sul reddito delle società”, in Rass. trib., 2003, p. 1966 ss. 4 Il passaggio dalla situazione “soggettiva” del socio a quella “oggettiva” dell’impresa era stato già anticipato da TREMONTI in Tassazione delle attività finanziarie e libera circolazione dei capitali, in MURARO-SARTOR, La tassazione delle attività finanziarie, Milano, 1995, p. 175 ss. 5 In tal senso anche l’Assonime nella Circolare 21 aprile 2006, n. 13, ove, ricordando il contenuto della stessa relazione ministeriale al D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, si afferma che «le partecipazioni costituiscono beni di secondo grado rappresentativi delle consistenze patrimoniali e delle prospettive di reddito della società partecipata e, dunque, le plusvalenze relative al loro realizzo sono di regola espressive o di utili conseguiti dalla società partecipata (e, quindi, già sottoposti ad imposizione presso di essa) oppure di utili futuri dei quali il mercato già tiene conto; in quest’ottica, dunque, si era ritenuto opportuno e coerente, anche sotto il profilo sistematico, completare il sistema di “detassazione” dei dividendi, prevedendo un omologo regime di esonero anche per le plusvalenze». 2 Alessia Vignoli 725 posizione sugli utili, già realizzati dalla partecipata e tassati in capo ad essa e contestualmente alla necessità di prevenire la duplicazione del prelievo sugli utili che la società partecipata realizzerà ed assoggetterà ad imposizione in futuro. Questa precisazione assume una valenza fondamentale nell’escludere che l’esenzione sulle plusvalenze possa avere finalità agevolativa 6 e dunque rappresentare una fiscalità di vantaggio, per la cui invocazione il contribuente debba dimostrare la sussistenza dei presupposti sostanziali; si tratta solo di uno strumento di coordinamento dell’imposizione personale dei soci con quella della società partecipata 7. Si tratta insomma di un meccanismo a portata generale che però subisce delle eccezioni come nel caso delle società immobiliari che, come vedremo in seguito, sono espressamente escluse dal c.d. regime pex in quanto per presunzione legislativa si considera che non svolgano attività commerciale, ma si limitino alla semplice detenzione di beni. 2. I presupposti per beneficiare del regime pex: considerazioni generali Andiamo ora ad esaminare i requisiti che l’art. 87 del TUIR richiede affinché i componenti reddituali derivanti dal realizzo di partecipazioni societarie entrano nel regime di participation exemption (in sintesi l’esenzione al 6 Sul carattere sistematico della norma si veda FANTOZZI (Il regime della trasparenza per le società di capitali, in PAPARELLA (a cura di), La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete, Milano, 2006) il quale a p. 19 considera “irrazionale ed asistematico, se non incostituzionale” tassare i redditi in capo alla società e i dividendi in capo ai soci, e giunge alla conclusione secondo cui «la participation exemption non costituisce una deroga alla logica di sistema, manifestazione di un favor legislativo per l’utilizzo delle forme societarie, ma al contrario una coerente attuazione di tale logica». Escludono il carattere agevolativo anche FREGNI, I dividendi, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), diretto da Tesauro, Bologna, 2007, pp. 138-139; FRANSONI, La categoria dei redditi d’impresa, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2009, p. 215. In senso contrario si veda FEDELE, I rapporti tra società e soci, in PAPARARELLA (a cura di), op. cit., p. 48 ss., a “ragioni promozionali” fa riferimento anche BASILAVECCHIA, Tassazione delle società: lavori in corso o progettazione da rivedere?, in Dialoghi trib., 2008, p. 17 ss. 7 La relazione finale della Commissione Biasco parla apertamente di trasformazione del regime dell’esenzione “in un regime agevolativo” con perdita delle sue connotazioni sistematiche a causa della riduzione progressiva della quota di esenzione e dell’allungamento dei requisiti temporali. Tale carattere asistematico è stato criticato anche da FANTOZZI, Note sull’Ires, Audizione presso la Commissione Biasco del 5 ottobre 2006. Si veda anche sempre dello stesso Autore, Il regime della trasparenza per le società di capitali, in PAPARELLA (a cura di), op. cit., p. 18 ss. 726 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 95% per le plusvalenze e l’indeducibilità integrale delle minusvalenze) 8. Tale regime riguarda le azioni o quote di società ed enti indicati nell’art. 5, escluse le società semplici, e nell’art. 73 del TUIR 9. Innanzitutto tale esenzione opera al verificarsi di quattro requisiti che attengono sia alla società partecipante che alla società partecipata. I primi due in linea con quanto richiesto dall’art. 4, comma 1, lett. c), n. 1 della legge delega, sono il periodo di ininterrotto possesso, protratto dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello della cessione (c.d. holding period) 10 e la classificazione della partecipazione tra le immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso 11. La ratio di tali presup8 Sulle interconnessioni sistematiche dell’esenzione con le disposizioni che regolano le minusvalenze si veda VIOTTO, op. cit., pp. 195-204. 9 L’esenzione si estende alle cessioni di azioni proprie, sia obbligatorie che volontarie, a condizione che siano iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie. L’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 36/E/2014) ha al riguardo sostenuto che, laddove le azioni proprie siano iscritte nel circolante, il provento realizzato costituirebbe un ricavo (e non invece una plusvalenza) soggetto alle regole dell’art. 85, e dunque fuori dalla portata dell’art. 87. In realtà, la cessione di azioni (proprie o non proprie) classificate nel circolante genera ricavi imponibili solo laddove non si tratti di partecipazioni dotate dei requisiti dell’art. 87; in quest’ultimo caso l’art. 85 viene invece disapplicato e le regole impositive sono solo quelle della pex. Secondo Assonime, Circolare n. 38/2005, l’interpretazione delle Entrate si baserebbe sul dato letterale dell’art. 82 del TUIR il quale, nel richiamare le cessioni di azioni proprie (cui si rende applicabile l’art. 86, comma 4, anche in assenza dei possesso triennale ivi richiesto), usa il termine “plusvalenze”. Per uno studio approfondito su tale regime si rinvia a VIOTTO, op. cit. 10 In presenza di partecipazioni acquisite in momenti diversi, alcune entro e altre fuori dal periodo minimo, dovrà applicarsi, un criterio LIFO (“ultimo entrato, primo uscito”), considerandosi vendute per prime quelle acquistate per ultime. Con riguardo ai criteri per individuare le azioni cedute, una rilevante precisazione è stata fornita dal D.Lgs. n. 247/2005, che ha introdotto nell’art. 87 il comma 1 bis in base al quale le cessioni di partecipazioni iscritte nel circolante e nelle immobilizzazioni finanziarie vanno considerate distintamente per ciascuna categoria. Tale disposizione è stata criticata da Viotto (op. cit., p. 264) il quale l’ha interpretata nel senso di ritenere che nei casi in cui le stesse partecipazioni siano state classificate nel primo bilancio, in parte tra le immobilizzazioni finanziarie ed in parte come attivo circolante, sicché solo alcune di esse possono beneficiare dell’esenzione, il contribuente può scegliere se attingere dall’una o dall’altra categoria e una volta effettuata la scelta dovrà procedere al calcolo della plusvalenza valorizzando i titoli della categoria che ha formato oggetto di cessione. Favorevole a tale conclusione anche GARBARINO, Le plusvalenze esenti, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), cit., pp. 211-212. 11 Il secondo requisito richiede che la partecipazione sia stata classificata nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso. L’approvazione di tale bilancio deve avvenire entro il termine per l’invio del Modello UNICO nel quale figura la detassazione della plusvalenza (cfr. in tal senso la Circolare n. Alessia Vignoli 727 posti sembra 12 essere quella di evitare che il regime di esenzione possa trovare applicazione per gli investimenti di natura speculativa e di circoscrivere pertanto l’esenzione agli investimenti caratterizzati, sin dall’origine, da una certa forma di stabilità che tuttavia – in accordo con quanto sostenuto da altri autori 13 – mi pare essere cosa ben diversa dalla prospettiva di redditività dell’investimento stesso. Gli altri due attengono, rispettivamente alla residenza fiscale della partecipata – che deve essere ubicata in un paese non avente fiscalità privilegiata 14 – e all’esercizio da parte della partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’art. 55 del TUIR 15. I requisiti appena citati, sempre ai sensi dell’art. 87, comma 2, del TUIR devono sussistere non solo al momento del realizzo della plusvalenza, ma ininterrottamente «... almeno dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso». 36/2004). La prima iscrizione in bilancio è tale da qualificare, sine die, la partecipazione ai fini dell’esenzione. Se dunque la partecipazione è stata originariamente iscritta nel circolante, la condizione non è mai verificata e ciò ancorché la partecipazione stessa risulti, successivamente ed eventualmente per lungo tempo, collocata nelle immobilizzazioni. Mantiene d’altro canto la condizione di partecipazione esente quella originariamente iscritta nelle immobilizzazioni (primo bilancio) e poi riclassificata (bilanci successivi) al circolante. 12 La stabilità dell’investimento azionario è stata evidenziata da più parti in dottrina. Senza pretesa di asaustività si vedano: DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2004, 246; STEVANATO, Participation exemption, (dis)informazione mediatica e “etica fiscale” di facciata, in Dialoghi trib., 2006, p. 817; FICARI, La cessione delle partecipazioni e l’imposizione delle plusvalenze, in Boll. trib., 2005, p. 1767 ss.; FERRANTI, Il periodo minimo di possesso delle partecipazioni nella pex, in Corr. trib., 2005, p. 3063 e ZIZZO, Reddito delle persone giuridiche (imposta sul), in Dig. disc. priv., sez. comm., 1996, XII, p. 404. 13 INGRAO, Il doppio regime di circolazione delle partecipazioni ai fini pex; regola ed eccezioni, in Dialoghi trib., 2012, p. 161 ss., evidenzia che la durata del possesso non avrebbe nulla a che vedere con gli arricchimenti e gli impoverimenti. 14 Salva la possibilità di dimostrare, attraverso l’interpello, che con le partecipazioni non sia stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare redditi in paesi a fiscalità privilegiata. 15 VIOTTO (op. cit., p. 29) evidenzia e commenta la divergenza testuale tra il decreto delegato e la legge delega fornendo ampie indicazioni bibliografiche alle quali si rinvia. 728 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 3. Il requisito della commercialità della società partecipata. Il riferimento all’esercizio di «impresa commerciale di cui all’art. 55 del TUIR» La disciplina della pex, nonostante siano trascorsi diversi anni dalla sua entrata in vigore, presenta ancora diversi aspetti problematici, soprattutto con riferimento all’ultimo dei requisiti sopra richiamati, ossia come debba essere correttamente intesa l’espressione esercizio di un’impresa commerciale secondo la definizione dell’art. 55 del TUIR da parte della partecipata requisito su cui soffermeremo la nostra attenzione nel presente contributo. Si tratta di un requisito che sembrerebbe rispondere ad una duplice funzione: infatti, da un lato, sotto il profilo strutturale, mira ad evitare che si verifichino sfasamenti tra plusvalenze e dividendi di modo che l’esenzione possa abbracciare tutti (e solo) i casi in cui le plusvalenze riflettano utili delle società partecipate già prodotti e tassati o che si prevede ragionevolmente che si produrranno e saranno tassati; dall’altro lato, con finalità dissuasiva tende ad ostacolare la circolazione, senza tassazione, dei beni di primo grado (quelli della partecipata) attraverso la cessione dei beni di secondo grado (le partecipazioni), operazione che si caratterizza in termini elusivi in presenza di situazioni di abuso della forma societaria, laddove la società, lungi dal rappresentare lo strumento per l’esercizio in comune di un’attività imprenditoriale, costituisce un mero contenitore attraverso il quale detenere beni che non si ritiene opportuno o utile vengano posseduti direttamente dai soci 16. Per vagliare la sostenibilità di questa duplice funzione è necessario analizzare la lett. d) del citato art. 87 che si discosta da quello della legge delega, laddove il criterio direttivo dell’art. 4, comma 1, lett. c), punto 2), era stato formulato in termini di «esercizio ... di un’effettiva attività commerciale». Il riferimento all’esercizio di un’attività commerciale effettiva operata dalla legge delega in rapporto a società che sono commerciali per definizione 17, che producono sempre reddito d’impresa, fa pensare che il legislatore abbia inteso richiedere qualcosa di più specifico e di più ristretto rispetto al novero delle attività che una società può esercitare (e che producono tutte reddito d’impresa), un quid pluris che attiene alle caratteristiche dell’attività esercitata, le quali debbono essere tali da connotare quell’attività, per l’appunto, come “commerciale”. 16 Così VIOTTO, op. cit., p. 323 ss. Sia nella delega sia nell’art. 87, il requisito è riferito alle “società”, evidentemente intendendo, come anticipato nel paragrafo precedente, le società del comma 1 dell’art. 87, vale a dire le società di cui agli artt. 5, diverse dalle società semplici, e 73 del TUIR. 17 Alessia Vignoli 729 Il che vale certamente per le attività del comma 1 dell’art. 55, il quale individua l’esercizio dell’impresa commerciale attraverso l’espresso riferimento alle attività indicate nell’art. 2195 c.c., svolte per professione abituale, ancorché non esclusiva (ed anche in difetto del requisito dell’organizzazione in forma d’impresa), nonché alle attività agricole di cui alle lett. b) e c), comma 2, dell’art. 32, eccedenti i limiti ivi stabiliti. Potrebbe, invece, sorgere il dubbio per le attività elencate nel comma 2 dell’art. 55, e precisamente per le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c., ancorché organizzate in forma d’impresa, per le attività agricole non eccedenti i limiti dell’art. 32 del TUIR e per lo sfruttamento di miniere, cave e torbiere, ecc., in considerazione del fatto che tali attività non sono espressamente qualificate come “commerciali” dal codice civile 18. Si potrebbe, cioè, ipotizzare un parallelismo tra il requisito della commercialità richiesto dalla legge delega e la nozione di commercialità valida nell’ambito del diritto civile – in cui, peraltro, l’art, 2195 c.c. stabilisce che le disposizioni della legge che fanno riferimento alle “attività e alle imprese commerciali” si applicano alle attività indicate proprio nell’art. 2195 ed alle imprese che le esercitano – e, per questa via, tentare di escludere dal novero delle attività rilevanti ai fini dell’art. 87 quelle elencate nel comma 2 dell’art. 55, le quali non rientrano nel novero dell’art. 2195 c.c. Senonché, tale ipotesi ricostruttiva deve essere valutata in chiave sistematica tenendo conto della ratio che abbiamo – in linea con la maggioranza degli autori – ritenuto essere non agevolativa dell’esenzione, della funzione che quel requisito riveste nel contesto normativo, oltre che delle differenti funzioni attribuite alle nozioni di impresa commerciale nell’ambito del diritto civile e del diritto tributario. Si tratta di elementi che, già ad una prima analisi, depongono a favore della possibilità di estendere il richiamo all’art. 55 operato ai fini dell’esenzione, anche alle attività di cui al comma 2 dello stesso articolo, le quali, pur non essendo di per sé commerciali, vengono a queste assimilate dal legislatore in ragione delle caratteristiche del loro esercizio. D’altro canto la discriminazione che altrimenti si verrebbe a creare tra plusvalenze (e lo stesso, va da sé, dicasi con riguardo alla deducibilità delle 18 La differenza tra la nozione di impresa ai fini del diritto civile e del diritto tributario rappresenta un punto fermo per la dottrina. Su tale argomento, anche per il reperimento di indicazioni bibliografiche, si veda: FICARI, Art. 55 (Commento), in AA.VV., Commentario breve alle disposizioni in materia di imposte sul reddito. Breviaria Juris, a cura di Fantozzi-Fedele, Padova, 2010, p. 293. 730 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 minusvalenze) scaturenti da cessioni di partecipazioni in società che esercitano le attività del comma 1 da un lato, e di partecipazioni in società che esercitano le attività del comma 2 dall’altro, sarebbe del tutto ingiustificata rispetto agli obiettivi sistematici sottesi al regime di esenzione ed alla funzione riconosciuta al requisito della lett. d). Il comma 3 dell’art. 55 sembrerebbe far conciliare il criterio direttivo della delega e la formula adottata dal decreto delegato, consentendo di giungere alla conclusione che il riferimento all’«impresa commerciale secondo la definizione di cui all’art. 55» contenuto nell’art. 87, comma 1, lett. d), abbraccia tutte le attività indicate in detto art. 55 sia nel 1 che nel comma 2 con le caratterizzazioni loro impresse dal medesimo art. 55 vale a dire in particolare, con i requisiti della professionalità e dell’abitualità, per quelle del comma 1 e con quello dell’organizzazione in forma d’impresa, per le prestazioni di servizi di cui alla lett. a) del comma 2. Dalla lettura sistematica degli artt. 55 e 87 del TUIR emerge dunque il seguente quadro ricostruttivo: l’art. 87, lett. d), richiama l’esercizio di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’art. 55 senza fare alcuna altra specificazione; questo, a sua volta dopo aver premesso che sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali, al comma 1 fornisce una prima definizione delle fattispecie in cui si verifica l’esercizio di un’impresa commerciale (l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva delle attività di cui all’art. 2195 c.c. e delle attività agricole eccedentarie) mentre al comma 2 individua ulteriori attività idonee a produrre redditi d’impresa (attività di prestazione di servizi organizzate in forma d’impresa, attività di “sfruttamento”, ecc.), alle quali il comma 3 estende l’applicazione delle disposizioni tributarie che fanno riferimento alle attività commerciali. È, quindi, ragionevole sostenere che la formula adottata dal legislatore delegato per dare attuazione al criterio direttivo dell’“esercizio di un’effettiva attività commerciale” comprenda tutte le attività che, in base all’art. 55 sarebbero idonee a produrre reddito d’impresa, se esercitate da una persona fisica. In altri termini il richiamo all’“impresa commerciale”, operato nell’ambito dell’art. 87 deve intendersi riferito alle attività commerciali indicate dai primi due commi dell’art. 55 e dunque ad un novero di attività, più ampio rispetto a quello delle imprese considerate commerciali ai fini privatistici, nel quale rientrano le attività di produzione e di scambio di beni e di servizi, esercitate per professione abituale, e quelle dirette alla prestazione di servizi, esercitate tramite un’organizzazione in forma d’impresa, oltre alle: attività agricole e a quelle di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, ecc. Alessia Vignoli 731 Si conferma così che il requisito della lett. d) ha un ambito di applicazione alquanto esteso, che si caratterizza, da un lato, per la tipologia delle attività esercitate e dall’altro lato, per la modalità di svolgimento di tali attività, la quale si ritiene non possa prescindere dall’esistenza di una struttura organizzativa essendo questa considerata come connaturale al profilo della commercialità anche se, per le attività elencate nell’art, 2195 c.c. il legislatore tributario non richiede che essa si esteriorizzi come un’organizzazione “in forma d’impresa”. Nell’area delimitata dalla lett. d) possono dunque essere fatte rientrare tutte le attività che si connotano per la combinazione di fattori produttivi in funzione della produzione o dello scambio di beni ovvero della produzione o della prestazione di servizi, anche a prescindere dalla circostanza che tali attività siano interessate dalla presenza di periodi di sospensione i quali, se rientranti nella fisiologica modalità di svolgimento non sono incompatibili con i requisiti della professione abituale e dell’organizzazione. Allo stesso modo possono annoverarsi tra le attività di cui alla lett. d) anche quelle consistenti in un unico affare, laddove questa si articoli in una serie di operazioni tra loro coordinate in più fasi realizzative ed anche le attività preparatorie, dirette a costituire la struttura aziendale necessaria all’esercizio dell’impresa. Restano espressamente escluse, in base a quanto diremo nel paragrafo successivo, le attività di mero godimento vale a dire quelle attività che si sostanziano nella detenzione di beni che vengono concessi in uso a terzi, le quali, da un lato, potrebbero non rientrare nel novero delle attività menzionate dall’art. 55 non avendo le caratteristiche per essere considerate neppure alla stregua delle prestazioni di servizi e dall’altro lato, non sono esercitate per mezzo di una struttura organizzativa che contempli l’impiego ed il coordinamento di fattori produttivi. In questi casi è evidente che il legislatore, in linea con altri provvedimenti normativi 19, ha considerato il mancato esercizio di un’impresa commerciale, nel senso sopra indicato, come indice di strumentalizzazione della forma societaria, finalizzato allo sfruttamento del regime di esenzione. In tale contesto l’ordinamento considera del tutto comprensibile (e giustificabile) un’eventuale duplicazione d’imposta nel caso in cui sia trasferita la disponibilità dei beni societari attraverso il passaggio della proprietà delle partecipazioni ciò nella misura in cui la plusvalenza imponibile rifletta utili eventualmente 19 Mi riferisco a tutta la legislazione sulle c.d. società di comodo e quelle non operative. 732 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 già prodotti e tassati – o che si prevede verranno prodotti e tassati – in capo alla partecipata. 4. La presunzione assoluta di non commercialità per le società immobiliari Come anticipato, nella lett. d) del citato art. 87 del TUIR è stato espressamente escluso che l’attività commerciale possa sussistere «relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa, dagli impianti e dai fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa». Si è venuto così a creare un «doppio regime di circolazione delle partecipazioni» animato nel caso delle società immobiliari (società di comodo o c.d. senza impresa) 20, le uniche per le quali il legislatore ha adottato una esplicita presunzione di non commercialità, dall’esigenza di evitare la realizzazione di plusvalenze esenti su titoli in luogo di plusvalenze imponibili su beni. In sostanza con la menzionata presunzione si è voluto evitare che attraverso la circolazione delle partecipazioni potessero essere immediatamente realizzati, in esenzione, redditi (ad esempio le plusvalenze sugli immobili) destinati, presumibilmente, a trovare realizzazione solo molto lentamente, in quanto il mancato inserimento in una ordinaria attività d’impresa non ne consente l’imposizione periodica. In effetti, con specifico riguardo alle società immobiliari, quella parte della ricchezza della società che direttamente incide nella sua valutazione di mercato e quindi nel prezzo delle sue relative partecipazioni si concentra non tanto nei ricavi dell’attività corrente (ad esempio, i canoni di locazione), tassati nel momento in cui si generano, quanto nei plusvalori “latenti” del compendio immobiliare, destinati a trovare realizzazione – ed effettiva tassazione – 20 Nelle quali si assiste ad una distorsione rispetto alla causa del contratto societario il cui fine tradizionalmente rivolto alla produzione di utili viene indirizzato alla detenzione di beni. Sul tema, anche se a proposito della specifica disciplina fiscale sulle società “non operative” si vedano: SCHIAVOLIN, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in TOSI (a cura di), Le società di comodo, Padova, 2008; BATISTONI FERRARA, L’imposizione sulle società di comodo: riflessioni agre, in Rass. trib., 1994, FICARI, Società di comodo, locazione d’impresa e impresa commerciale ai fini IVA, in Corr. trib., 2008, p. 799 e VIGNOLI, Le società di godimento tra assegnazione agevolata e trasformazione in società semplice, in Rass. trib., 1998, p. 750 ss. Alessia Vignoli 733 solo in sede di liquidazione della società o della loro cessione. La presunzione assoluta di non commercialità si pone, dunque, come clausola di salvaguardia, disposizione antielusiva ed eccezione al sistema di esenzione delle plusvalenze. A tale proposito nella Risoluzione 15 dicembre 2004, n. 152/E si precisa come la presunzione di non commercialità mira a «impedire che la cessione della partecipazione nella società immobiliare si ponga su un piano di teorica equivalenza rispetto alla cessione degli immobili e che, quindi, tramite la cessione della partecipazione si trasferiscano in esenzione i beni di primo grado che il titolo rappresenta. In altri termini, l’esenzione della plusvalenza realizzata a seguito della cessione della partecipazione detenuta in una società immobiliare, pur sussistendo gli altri requisiti di cui all’art. 87 del TUIR, è consentita solo qualora sia ceduta un’effettiva attività d’impresa che abbia per oggetto la costruzione o la vendita degli immobili e non già la mera utilizzazione passiva degli stessi». 5. La necessità di un approccio sostanzialistico per verificare la commercialità o meno dell’attività svolta dalla partecipata. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità Il quadro che emerge dai paragrafi precedenti, finalizzati a ricostruire i tratti essenziali del contesto normativo di riferimento, è abbastanza nitido nel delineare quando un’attività può essere considerata commerciale e nel richiedere un approccio sostanzialistico alla questione, soprattutto nella parte in cui si considerano commerciali anche le attività previste nel comma 2 dell’art. 55 del TUIR, laddove è necessario andare a verificare in concreto se vi sia o meno l’organizzazione in forma d’impresa. La necessità di esaminare le caratteristiche concrete dell’attività svolta dalla partecipata è confermato anche dalla giurisprudenza che si è occupata del tema; particolarmente significativa mi pare essere la sent. 14 ottobre 2014, n. 41686 della III sezione penale della Corte di Cassazione 21 in cui, sebbene nell’ambito dell’accertamento dei presupposti per la dichiarazione c.d. infedele di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 22, la Suprema Corte ha analizzato 21 FONTANA, Dichiarazione infedele e regime della “participation exemption”, in Corr. trib., n. 1, 2015, p. 67. 22 Tale disposizione stabilisce che, fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta di cui agli 734 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 il concetto di attività commerciale della società partecipata quale presupposto per l’applicabilità della pex giungendo alla conclusione che il requisito della commercialità deve essere considerato in maniera sostanziale, attribuendo rilievo alle caratteristiche della società partecipata e non limitandosi ad un esame formale dell’oggetto sociale. Nel caso di specie si contestava al contribuente (legale rappresentante di una società) di aver indicato elementi attivi in misura inferiore al dovuto, facendo rientrare nella previsione dell’art. 87 del TUIR (regime delle c.d. plusvalenze esenti o partecipation exemption) le cessioni di quote di partecipazione di una società che non svolgeva alcuna attività commerciale. La Corte d’Appello, la cui sentenza era oggetto di censura, aveva motivato la condanna richiamando la certificazione della Camera di Commercio da cui risultava che la predetta società partecipata era inattiva e quindi a norma dell’art. 87 del TUIR le plusvalenze generate dalla sua cessione avrebbero dovuto concorrere a formare l’imponibile della società partecipante e autrice della dichiarazione. In tale contesto mi pare assolutamente condivisibile la sentenza della Suprema Corte nella parte in cui cassa, rinviando la causa al giudice di merito 23, la decisione d’appello per aver apoditticamente fondato la condanna del legale rappresentante esclusivamente sulla certificazione camerale (di cui pare non fosse neanche precisata la data) da cui risultava che la partecipata fosse inattiva. Dal testo della sentenza della Suprema Corte di Cassazione si evince, infatti che la Corte d’Appello non avrebbe dovuto limitarsi a considerare la gestione di un fallimento (attraverso un’altra società controllata) non idonea a configurare lo svolgimento in modo stabile e professionale di attività commerciale, ma avrebbe dovuto affrontare il problema da un punto di vista sostanziale, andando ad accertare se vi fosse una struttura operativa idonea, anche potenzialmente alla produzione e/o commercializzazione di beni o di servizi, come peraltro chiarito dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare ministeriale n. 7/E/2013. artt. 2 e 3, è punito (con la reclusione da uno a tre anni) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi. La condotta quindi consiste nella dichiarazione non veritiera (id est: infedele) ed è penalmente rilevante quando vi sia il congiunto superamento delle soglie di punibilità previste nelle lettere a) e b) della medesima disposizione. 23 Cui spetterà esaminare in concreto le caratteristiche dell’attività svolta dalla società. Alessia Vignoli 735 Infatti, proprio in questa Circolare la stessa Agenzia ha fornito delle importanti precisazioni sul requisito della commercialità; sulla questione che ci interessa direttamente 24 ha confermato la necessità di un esame sostanziale dell’attività svolta dal momento che si è in presenza di «un’impresa commerciale» solo se la società è dotata di una struttura operativa idonea alla produzione e/o alla commercializzazione di beni o servizi potenzialmente produttivi di ricavi e dispone della capacità, anche solo potenziale, di soddisfare la domanda del mercato nei tempi tecnici ragionevolmente previsti in relazione allo specifico settore economico di appartenenza». 24 Vi sono state anche altre precisazioni: sul periodo di start up, l’Agenzia ha precisato che ancorché detto periodo non è idoneo autonomamente a configurare l’esercizio di un’attività commerciale, è suscettibile di assumere tale connotazione se viene seguito dallo svolgimento dell’attività d’impresa. L’avente causa del trasferimento della partecipazione può computare a suo favore il detto periodo maturato in capo al dante causa. Non rileva l’eventuale produzione dei ricavi a distanza di anni dalla costituzione della società. Sull’attività di gestione prevalentemente “attiva” esercitata dalla società immobiliare che si considera commerciale se i ricavi derivanti da servizi complementari e funzionali alla utilizzazione unitaria del complesso immobiliare con finalità diverse dal mero godimento dello stesso risultano di importo superiore a quelli relativi ai canoni di locazione (in caso diverso l’onere della prova è a carico del contribuente) ed infine che la disciplina delle società di comodo è concorrente e non alternativa o prevalente rispetto a quella della pex. 736 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Björn Westberg 1 DIGITAL PRESENCE – DOES IT EXIST? 2 ESISTE LA PRESENZA DIGITALE? Abstract A causa della progressiva digitalizzazione di tutti i settori dell’economia, nel BEPS sono state evidenziate le problematiche fiscali di maggiore rilevanza relative all’attività delle società digitali: si configura una presenza digitale massiccia nell’economia di ogni singolo paese in assenza di assoggettamento a tassazione; l’attività di queste imprese genera valore legato alla creazione di dati rilevanti ai fini della localizzazione dei consumatori, reperiti tramite la fornitura di beni e servizi digitali; la conseguente necessità di assicurare un’efficacie riscossione delle imposte dovute. Inoltre, sono stati realizzati, da parte degli ordinamenti nazionali, diversi tentativi di introdurre delle speciali forme di tassazione sui valori della digital economy. Alla luce di tali esperienze, il Gruppo Europeo degli esperti della digital economy ha ipotizzato che non dovrebbe essere configurato un sistema di tassazione speciale per le imprese digitali. Tale conclusione incontestabile, e tuttavia emergono delle questioni critiche con riferimento alle politiche di lungo termine. I radicali cambiamenti proposti al sistema di tassazione delle società, ipotizzando una tassazione sui flussi finanziari o sui profitti, modificherebbe profondamente il sistema, attuale, collocando la base imponibile nei paesi di destinazione, invece che negli Stati fonte, e la soluzione non appare neutrale. Appare più proficuo il tentativo di applicare rigidamente i rimedi elaborati per contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile, includendo in una soluzione impositiva sia il fenomeno del consumo che quello della produzione del reddito. 1 È stato componente del gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea sulla Tassazione della digital economy. 2 Contributo non sottoposto a referaggio. Il presente contributo è già stato pubblicato in: AA.VV., La digital economy nel sistema tributario italiano ed europeo, a cura di Del Federico-Ricci, Padova, 2015, pp. 13-28. 738 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 Parole chiave: presenza digitale, nesso digitale, erosione della base imponibile, tassazione sul consumo, tassazione sul reddito Since the whole economy is becoming digital, BEPS action Plan underlined the most important issues relevant to digital companies action: significant digital presence in the economy of another country without being liable to taxation; value created from the generation of marketable location-relevant data through the use of digital products and services; the need to ensure an effective tax collection. Then, there have been many and different national attempts to introduce special taxation on the Digital Economy. In the light of the experiences, the European Group of Experts has taken that there should not be a special tax regime for digital companies. While the conclusions are uncontested, the critical moment of the Report in respect of Corporate Income Taxation is related to the long term policy options. The proposed radical changes to the corporation tax system, thinking to a corporate tax on cash flows instead or on profit determined on an accrual basis would fundamentally change the current tax system and allocate the tax base to destination countries instead of source countries, but the solution could be not neutral. It would be better to concentrate the efforts on strict applications of remedies against base eroding transactions and include both income and consumption taxation in the new digital income tax solution. Keywords: digital presence, digital nexus, base erosion, income taxation, consumption taxation SOMMARIO: 1. Background and Purpose of this Article. – 2. BEPS. – 3. The Digital Economy. – 3.1. BEPS issues. – 3.2. Characteristics of the Digital Economy. – 4. National attempts to introduce special taxation on the Digital Economy. – 4.1. France and Italy. – 4.2. United Kingdom. – 5. Corporation Tax Policy Options. – 5.1. Conclusions by the EU Expert Group. – 5.2. Time for a digital nexus? – 5.2.1. Background. – 5.2.2. Activities that are considered preparatory or auxiliary and hence benefit from the exceptions to the definition of PE. – 5.2.3. Artificial decisionmaking. – 5.2.4. Significant digital presence. – 5.2.4.1. OECD Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy. – 5.2.4.2. Blueprints for a New PE Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy. – 5.3. The attribution of value created from the generation of data. – 5.4. Time for Withholding taxes? – 6. Conclusions. Björn Westberg 739 1. Background and Purpose of this Article Does the present international business taxation reflect a fair sharing of the profits or will it contribute to erosion of the tax bases? For me as a member of the EU High Level Expert Group on Taxation of the Digital Economy 3 this was a core issue. The task of the Expert Group has been «to identify improvements in the current way of taxing the digital economy in the EU, weighing up both the benefits and risks of various approaches. Its focus will be on identifying the key problems with taxing the digital economy from an EU perspective, and presenting a range of possible solutions. The Commission will then develop any necessary EU initiatives to improve the tax framework for the digital sector in Europe, which has the potential to contribute significantly to growth and innovation in the EU». The task relates to taxes of all kinds, although taxes related to business activities in a broad meaning as Corporate income taxes as well as Consumption taxes are most important. This article concentrates on Characteristics of the Digital Economy and Conclusions in respect of Corporate Income Taxes. General matters related to the G20 and OECD project named BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) are only briefly referred, if being of direct importance for the Digital Economy. 2. BEPS The BEPS Action Plan underlines that «[f]undamental changes are needed to effectively prevent double non-taxation, as well as cases of no or low taxation associated with practices that artificially segregate taxable income from the activities that generate it» 4. The problems are primarily related to 3 See the EUROPEAN COMMISSION MEMO/13/1042, Taxing the Digital Economy: The Commission has appointed the members of the expert group, Brussels, 25 November 2013. The group was chaired by Vítor Gaspar, former finance minister of Portugal. Bjorn Westberg was one of the six experts from across Europe. See also the Report “Commission Expert Group on Taxation of the Digital Economy”, 28 May 2014, in http://ec.europa.eu/taxation_ customs/resources/documents/taxation/gen_info/good_governance_matters/digital/ report_digital_economy.pdf (accessed 30.3.2015). Any reference in this article to the “Report” refers to this document. 4 OECD, Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, in http://dx.doi.org/10.1787/ 9789264202719-en, 2013, p. 13. 740 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 such «practices that artificially segregate taxable income from the activities that generate it» and not related to any segregation of business profits caused by the business or technological development as such. It is not a mere chance that Action Plan 1 of the 15 Actions within the BEPS project is devoted to the Digital Economy. It states that «BEPS is a concern in the context of the digital economy» 5. 3. The Digital Economy 3.1. BEPS issues The BEPS Action Plan 1 addresses a number of tax challenges of the digital economy 6. My concentration lies on three issues. The first one relates to the statement that there should exist an «ability of a company to have a significant digital presence in the economy of another country without being liable to taxation due to the lack of nexus under current international rules». The second field for my analysis is that there might exist a specific problem related to «the attribution of value created from the generation of marketable location-relevant data through the use of digital products and services». The reason for my selection is that these two matters have caused national initiatives as well as tax studies and articles in journals. The third one is the problem to ensure an effective tax collection. 3.2. Characteristics of the Digital Economy The whole economy is becoming digital. The effects of new General Purpose Technologies (GPT) in the fields of information and communication have «implications beyond the Information and Communication Technology (ICT) sector, impacting all sectors of the economy and society: retail, transport, financial services, manufacturing, education, healthcare, media etc.» 7. There is no special division of the economy that may be named digital. The Economy is Digital. Every sector within European business is or will be digital, at least to a certain extent. Digitalisation relates to manufacturing industries as well as to IT and other service activities. The ongoing develop5 OECD, Action Plan, cit., p. 14. OECD, Action Plan, cit., pp. 14-15. 7 See the Report, p. 11. 6 Björn Westberg 741 ment underlines the impossibility to establish a firm borderline between the digital world and other fields. It is possible to characterize the Digital Economy through a set of key features like mobility, network effects and use of data, but not to define what constitutes the digital economy. It includes ecommerce suppliers and developers of apps to mobiles or other devices as well as suppliers of goods, like cars, trucks and refrigerators, with embedded software. OECD underlines that it is «difficult, if not impossible, to ring-fence the digital economy from the rest of the economy for tax purposes» 8. The conclusion by the EU Report is simply that there should be No special taxation of the Digital Economy and No special fiscal provisions for digital businesses. There should be no form of ring-fencing around the Digital Economy. This is valid for Corporate Income taxation as well as Consumption taxation. The Report underlines in its Executive summary that «there should not be a special tax regime for digital companies. Rather the general rules should be applied or adapted so that “digital” companies are treated in the same way as others» 9. 4. National attempts to introduce special taxation on the Digital Economy 4.1. France and Italy In spite of the impossibility to define a Digital sector with a sharp borderline to other business activities France and Italy have proposed and to a certain degree legislated but later on withdrawn their attempts to introduce laws on general or specific digital taxation. In spite of its underlining that «the digital economy is everywhere» a French Ministerial Report 10 proposed that France should «create a tax on the use of data obtained through regular and systematic monitoring of users’ activity in the country. Collecting data obtained through regular and systematic monitoring of users is the only taxa8 See OECD, Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, OECD/G20, Base Erosion and Profit Shifting Project, in http://dx.doi.org/10.1787/9789264218789-en, 2014, p. 157. 9 See the Report, p. 5; see also p. 47. 10 See Task Force on Taxation of the Digital Economy, Ministère de L’economie et des Finances and Ministère du Redressement Productif, France, January 2013. In spite of the fact that it is a public report it is often quoted as Pierre Collin & Nicolas Colin, the names of the rapporteurs. 742 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 ble event that ensures the neutrality of the tax with regard to business models, technologies and business location strategies» 11. In my view it is a very remarkable statement. Such a tax is in my opinion not neutral in respect of the country and context where the service is offered. Besides, it does not consider the fast technological development of hardware and software. The Italian attempts to tax advertising services and sponsored links within the frames of the VAT system have failed 12-13. In principle I have the same main objections on the Italian law as on the French one. 4.2. United Kingdom The United Kingdom introduced as from 1 April 2015 a Diverted Profits Tax at a rate of 25 % «to target multinationals that avoid paying tax on profits from UK activity by shifting them to countries where they’ll go untaxed» 14. The Financial Secretary to the Treasury David Gauke added that «[m]ultinational digital businesses should pay the tax that is due, just like everybody else». The tax will not be applicable to SMEs. The vocabulary of the Diverted Profits Tax Law is rather specific. Under the heading Avoidance of a UK taxable presence it states that a person «is carrying on activity in the United Kingdom in connection with supplies of goods or services made by the foreign company to customers in the United Kingdom». It is also remarkable that the United Kingdom acts parallel to the BEPS project together with the tax authorities in five other countries under the name E6. The purpose is «to share information about how digital multinationals might be shifting their profits to tax havens» 15. Like other attempts to tax the digital economy it has been called “Google tax” 16. 11 See the French Report mentioned supra p. 4. See e.g. QUARATINO, New Provisions Regarding the Taxation of the Digital Economy, in 54 Eur. Taxn., n. 5, 2014, Journals IBFD, pp. 211-217; see also TRENTA, The Italian Google Tax. National taxation and the European e-Economy, in Riv. trim. dir. trib., issue 4, 2014. 13 The Italian provisions have been partially repealed by the Law No. 68 of 2 May 2014 (the Official Gazette No. 102 of 5 May 2014). 14 See the document Diverted profits tax, part of Finance Bill, 2015, HM Treasury and HM Revenue & Customs, 10 December 2014; see also Diverted Profits Tax. Interim Draft Guidance, updated 30 March 2015; press release Government ramps up efforts to tackle digital multinational tax risks, in HM Revenue & Customs and David Gauke, 25 March 2015. 15 See the press release Government ramps up efforts to tackle digital multinational tax risks, in HM Revenue & Customs and David Gauke, 25 March 2015. 16 See e.g. UK joins international crackdown on digital tax avoiders, in Financial Times, 25 12 Björn Westberg 743 Compared with the French and Italian legislative attempts, the UK complex Diverted Profits Tax is at the same time wider and more limited. It targets businesses of all kinds, but only multinational ones. The Government representatives have argued that the tax should affect digital businesses, but the tax is according to the wording directed towards companies avoiding a UK presence. 5. Corporation Tax Policy Options 5.1. Conclusions by the EU Expert Group In the Expert Group we have taken «the view that there should not be a special tax regime for digital companies. Rather the general rules should be applied or adapted so that “digital” companies are treated in the same way as others. These general rules must impose taxation based on real economic activities ...» 17. In my view the critical moment of the Report in respect of Corporate Income Taxation is related to the Long term policy options. The text refers to «more radical changes to the corporation tax system [which] have been proposed in academic literature. Some of these focus on a “destination based” corporation tax. This would be similar to a VAT in that its key feature would be that exports would be zero-rated and imports would be taxed. It would differ from a VAT in that wage costs would continue to be deductible, and the tax would continue to be levied on an accounting basis, rather than using the invoice-credit method. It has been claimed that a version of such a destination-based corporation tax based on cash flow (with immediate expensing of capital expenditure but no relief for interest payments, and therefore even more similar to VAT) would be neutral with respect to corporate location, investment, financing and transfer pricing decisions, thus addressing some fundamental concerns of international tax competition between countries» 18. The report adds that «[t]hese conclusions are not uncontested» and says in a footnote that «[c]areful consideration of international redistribution of tax revenues would be necessary. Moreover, possible empirically March 2015; US multinationals fight UK chancellor George Osborne’s Google tax, in Financial Times, 9 February 2015. 17 See the Report, p. 41. 18 See the Report, p. 50. 744 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 significant effects on resource allocation, including trade and cross-border investment would have to be considered». A corporate tax on cash flows instead of on profit determined on an accrual basis would fundamentally change the current tax system and allocate the tax base to destination countries instead of source countries. This would require a thorough analysis of the economic effects and specific design in order to find a common alignment for such a new definition and allocation of the tax base and tax revenue among countries. I have underlined that the entire revenue from VAT already accrues to the place of consumption. To add corporate income tax, wholly or partly, to those markets would raise major concerns, since it would entail a substantial redistribution of revenue between Member States and a risk for a radical restructuring of cross-border business investments. Despite ongoing research on how such a tax would be implemented, much more information would have to be gathered before a policy line could be agreed. As said in the Report the long term conclusions are not uncontested. In my view the statement that such a destination based corporate income tax «would be neutral with respect to corporate location, investment, financing and transfer pricing decisions» is simply not true. It is misleading. Only if we for a second forget about the EU, business realities, present localization of investments etc., there would be no distortions. However, the conclusions are true only under very specific conditions presented in certain academic models. It has been argued that a cash flow tax on a destination basis «would not create distortions to any margins of business decisions, namely choice between discrete options, choice of scale of investment, choice of form of income, and choice of source of finance» 19. I have no objection, as long as the conclusions are not wider than so. A destination based Corporate Income Tax has been explored in detail in another presentation 20. The argument is «that the destination based tax does not create distortions to any margins of decision (at least in the model), but falls on residents of the destination country» 21. With those restrictions to the said model I have no objection. 19 See DEVEREUX-DE LA FERIA, Designing and implementing a Destination Based Corporate Tax, April 2014, p. 8. 20 See AUERBACH-DEVEREUX, Consumption and Cash-flow Taxes in an International Setting, National Bureau of Economic Research Cambridge, MA, USA, October 2013. 21 See DEVEREUX, Issues in the Design of Taxes on Corporate Profit, Oxford University Centre for Business Taxation, WP 12/15, April 2012. Björn Westberg 745 However, for public decision-making it is necessary to precisely define the concepts – all the concepts and their consequences! When the Report states that destination based corporate income tax «would be neutral with respect to corporate location, investment, financing and transfer pricing decisions», it leaves the firm ground. If the present source based tax will be destination based, the state revenue will also be transferred from one country to another one. For the enterprise it may mean a necessity to change its localization of its future investments from one country to another in order to qualify for a full deduction of wages and other business costs. In my view the arguments for a destination based corporate income tax depart from the task of the Expert Group, as it does not mean any solution of the problems articulated by the G20-countries and the OECD named BEPS (Base Erosion and Profit Shifting). «[W]hat creates tax policy concerns is that, due to gaps in the interaction of different tax systems, and in some cases because of the application of bilateral tax treaties, income from crossborder activities may go untaxed anywhere, or be only unduly lowly taxed» 22. Instead the Expert Group proposal in this respect would only lead to a giant shift of revenue between states with loyal and well operating fiscal systems. Losers would be small countries and countries with a strong export business, independently if it relates to traditional export of goods from e.g. manufacturing industry or the export of services in the form of apps or e-commerce of other kinds. Minor markets with a strong export sector would be loosers. Winners would be big markets and states with a small export business. Such a destination based corporate income tax should not only hurt state revenue for a great number of countries but also the future for the enterprises concerned, as it should lead to a preference for future investments in countries with big markets in respect of the goods or services supplied by the enterprises. To argue that such a destination based corporate income tax «would be neutral with respect to corporate location, investment, financing and transfer pricing decisions» is misleading. In my view also the future corporate income tax should be based on the sites and places where the Head Quarter and the permanent establishments are located, where the real business activities are carried out, where research is done and the place(s) to which the risks may be allocated. Some minimum form of physical presence and permanence must be required in any source country aspiring to fiscal benefits. 22 See OECD, Action Plan, cit., p. 10. 746 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 5.2. Time for a digital nexus? 5.2.1. Background The digital development enables marketing and a number of service facilities to be carried out at a distance from the market. The definition of the traditional PE concept as well as the allocation and attribution of profits have been questioned. 5.2.2. Activities that are considered preparatory or auxiliary and hence benefit from the exceptions to the definition of PE It has been argued that preparatory or auxiliary activities benefiting from the exceptions to the treaty definition of PE may be increasingly significant components of businesses in the digital economy 23. «The envisaged amendments to the current PE definition, however, would only affect certain e-commerce enterprises as part of the digital economy, but would not otherwise affect enterprises that do not sell any physical goods» 24. 5.2.3. Artificial decision-making OECD states that «certain functions, including decision-making capabilities, can now be carried out by increasingly sophisticated software programmes and algorithms. For example, contracts can in some cases be automatically accepted by software programmes, so that no intervention of local staff is necessary» 25. In my mind there is always a qualified decision-maker behind each decision. The management decisions and the qualified programmes are previously done at the Head office or somewhere else. Decisions are always an outflow of human beings. 5.2.4. Significant digital presence 5.2.4.1. OECD Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy 26 A significant digital presence would exist in connection with digital supplies, when one or more of the following conditions are met 27. Digital presence could be deemed to exist in a country when for example. 23 See OECD, Addressing the Tax Challenges, cit., p. 129. See HONGLER-PISTONE, Blueprints for a New PE Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy, in IBFD, White Paper, 20 January 2015, Executive Summary, para. 2. 25 See OECD, Addressing the Tax Challenges, cit., p. 127. 26 See OECD/G20, Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, OECD, 2014. 27 See OECD, Addressing the Tax Challenges, cit., pp. 145-146. 24 Björn Westberg 747 – A significant number of contracts for the provision of digital goods or services are remotely signed between the supplier and its customer resident in the country. – Digital goods or services of the enterprise are widely used or consumed in the country. – Substantial payments are made from customers in the country to the supplier in connection with contractual obligations arising from the provision of digital goods or services as part of the enterprise’s core business. These examples illustrate the arbitrary requisites needed, whenever the firm, since long accepted, definition of a PE has been abolished. The OECD discloses the challenges. It addresses supplies based on «increased reliance on data and users participation in the digital economy, particularly where users provide personal data that can then be used to attract revenue from other users through multi-sided business models» 28. It means that using data related to certain supplies would govern the corporate taxation related to other customers. Still more the OECD develops the criteria related to a significant presence test. One example is the very vague test on the relationships between the supplier and its customers extending over six months, combined with some form of physical presence in the country. My immediate reaction is to question-mark the wording related to the vague expression of a business relationship during not less than six months. The compliance burden for the tax officers and not least the taxable person would be big. Besides, there will be an enormous legal uncertainty for the latter. One example mentioned by OECD is the existence of website in the local language. My first remark is that a website may be stored at a server based in any country and does not represent a permanent place of business in any meaning. Secondly, distinctions based on the language used do not correspond to the requirement for neutrality. 5.2.4.2. Blueprints for a New PE Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy 29 The focus of the paper is «the development of a new potential PE nexus based on the digital economy» 30. Based on theoretical analysis the authors 28 Ibidem. See HONGLER-PISTONE, op. cit. 30 See HONGLER-PISTONE, op. cit., p. 13; see also the Executive Summary, para 3 and 4. 29 748 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 suggest the establishing of a new PE nexus based on digital presence. The new nexus should consist of the four elements digital services, user threshold, a certain time threshold and a de minimis revenue threshold. A core argument is the allocation of income to the digital nexus. Based on the existing OECD Transfer Pricing Guidelines the profit split method should be used combined with an upfront allocation of one third of the profit. It is not clear to which entity within a group the profits belong. It is an interesting, although not convincing, attempt to find a digital nexus. One basic mistake is to assume that digital transactions in general are abusive. The authors underline that «dealing with a new nexus based on digital presence, it is by far not only a question of countering BEPS, but also about a new allocation of taxing rights in general». The new PE nexus and its application might in itself lead to new options for erosion of the tax bases. One essential mistake behind the suggested digital nexus and the proposed thresholds is the assumption that it should be possible to make a distinction between digital and other supplies. The authors are ring-fencing the digital economy and at the same time building new fences within companies. One important business and technological development during the last years has been the software embedded in physical goods like cars, trucks and refrigerators. The authors «believe that a modern dimension of the sourcing theory could be invoked in order to justify the exercise of the taxing jurisdiction by the market country in respect of such business income» 31. This motivation is very vague. What is modern? Is it an expression of a general business and technological standpoint in 2015? Perhaps it is time to question the traditional border line between taxation of income and consumption. The theoretical connection between the two is clear. That the greater part of consumption takes place in the country of destination is obvious. Hence such taxation in that country better reflects the benefit theory then an arbitrary portion of the profits for non-resident suppliers. 5.3. The attribution of value created from the generation of data «The expanding role of data raises questions about whether current nexus rules continue to be appropriate or whether any profits attributable to 31 See HONGLER-PISTONE, op. cit., p. 13; see also pp. 18 and 19. Björn Westberg 749 the remote gathering of data by an enterprise should be taxable in the State from which the data is gathered ...» 32. The issues of how to attribute value created from the generation of data through digital products and services have been raised many times during the BEPS-project. The EU Report is clear. It states that «the Group believes that there is no convincing argument why the collection of data via electronic means in a country should in itself create a taxable presence in that country». The background for certain national attempts to tax such activities is that several enterprises «have been extremely successful in rapidly generating significant revenues from the collection, processing and marketing of free individual data». If such activities will be successful in a business perspective, they will result in taxable profits. If we are not respecting the basis of a market economy, the fiscal burden would be completely arbitrary and an obstacle to business development. 5.4. Time for Withholding taxes? The creation of a withholding tax on digital transactions has been an option discussed 33. In connection with cross-border taxation of the digital economy, it is basically meaningful only as a complement to some form of source taxation based on what has been called a significant digital presence. It has been argued that «simply attributing profits to a non-physical PE and the opposition of the OECD to formulary taxation ... may require a remedial tool, such as a withholding tax to adequately implement the nexus-based approach in the digital economy» 34. The authors of the paper mentioned supra propose a 10 % final withholding tax on all base-eroding payments to non-residents, with exemptions basically to payees registered to be taxed under a net taxation scheme. They want to apply a higher rate (15 %) for payments to accounts in or owned by lowor no-tax jurisdictions. My main objections are primarily that they are ringfencing the digital economy and secondly that they seem to consider all payments for supplies of digital services as base-eroding. They are prepared to make exemptions for «payments for inputs beyond the digital economy». They argue expressively that «the heart of the proposal made by [their] posi32 See OECD, Addressing the Tax Challenges, cit., p. 130. See OECD, Addressing the Tax Challenges, cit., p. 146. 34 See BAEZ-BRAUNER, Withholding Taxes in the Service of BEPS Action 1: Address the Tax Challenges of the Digital Economy, in IBFD, 2 February 2015, pp. 6 and 7. 33 750 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 tion paper [is] the imposition of a withholding tax on digital transactions». The wording might be confusing. If digital presence would be accepted as a source for taxation, it corresponds to what I supra has characterized as a destination based taxation. Such a gross income tax based on the turnover corresponds broadly to a destination based consumption tax. If the PE threshold is in line with the existing rules under the OECD Model Tax Convention, the need for an extraordinary measure like withholding would possibly be limited to certain royalty or other payments, which are considered as abusive. The intervention by intermediaries such as banks and other financial institutions has been considered as an alternative form for withholding taxation. Even if payments from individuals would be exempted, I consider withholding taxes as a serious step back in history. In a digital world the Ottawa Framework Conditions must apply. It means respect for principles of neutrality, efficiency, certainty, simplicity, effectiveness, fairness and flexibility 35. I do not only have the objections on withholding taxes presented supra. Besides, such a tax as presented by the referred proposal is not a corporate tax based on profits, it is a destination based tax on the turnover in each country concerned. The authors argue that a final 10 % withholding tax is a relatively low rate 36. Compared with the profits for a certain supplier of digital services such a tax might be enormous. It might be a hinder for entrance to a market, too. Even the authors admit that start-ups, companies in transition, loss-making and low-margin companies may view a “significant burden”. For these companies the tax would mean a pure cost (and a cash strap) that further encumbers them and makes it difficult for them to succeed. 6. Conclusions The business and technological digital development is broad and fast. This underlines a need for OECD and EU initiatives related to a number of obstacles outlined in this paper. There is an obvious risk for erosion of the 35 See OECD, Electronic Commerce Taxation Framework Conditions – Report by the Committee on Fiscal Affairs, 1998; see also OECD, Taxation and Electronic Commerce. Implementing the Ottawa Taxation Framework Conditions, 2001, p. 230; WESTBERG, Cross-Border Taxation of E-commerce, in IBFD, Amsterdam, 2002, p. 41. 36 See BAEZ-BRAUNER, op. cit., pp. 21 and 22. Björn Westberg 751 mutually accepted principles of international taxation 37. The OECD in its report “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy” as well as the EU High Level Expert Group on Taxation of the Digital Economy in its report “Commission Expert Group on Taxation of the Digital Economy”, both from 2014, have underlined that there should be no form of ring-fencing around the digital economy. Nevertheless, draft reports from OECD as well as other authors argue for different form of income taxation based on separation of digital activities from physical. I have two main remarks on the future development of international taxation. The first one is to return to the basic intentions with the BEPS project. The efforts should concentrate on strict applications of remedies against base eroding transactions within the digital as well as the physical world. My second remark is that solutions must include both income and consumption taxation. Then the final marketplace will get its portion of the cake without arbitrary changes of accepted norms for international taxation. 37 See e.g. WESTBERG, op. cit., pp. 113-115. 752 DOTTRINA RTDT - n. 3/2015 GIURISPRUDENZA SOMMARIO: Corte EDU, sez. IV, causa Rinas c. Finlandia, 27 gennaio 2015, n. 17039/13, con nota di M. Bolognese, Il divieto del cumulo di sanzioni nell’ordinamento internazionale (ne bis in idem): una evitabile prova di forza tra gli artt. 117 e 11 Cost. al vaglio della Consulta (The prohibition against double jeopardy in the international legal order (ne bis in idem): the effects of Arts. 117 and 11 of the Constitution according to the Italian Constitutional Court) Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 – Pres. Cappabianca, Rel. Greco, con nota di M. Pellecchia, La presunzione di residenza fiscale in Italia può essere invocata anche a favore del contribuente (The presumption of tax residence in Italy may be invoked also by the taxpayer) Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 – Pres. Squassoni, Rel. Aceto, con nota di G.G. Scanu, Reati tributari, sequestro preventivo e attualità delle esigenze cautelari (Tax crimes, preventive seizure and actuality of the precautionary needs) 754 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 2/2012 Corte EDU, sez. IV, causa Rinas c. Finlandia, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 Il principio del ne bis in idem implica non solo il diritto di non essere puniti due volte, per uno stesso fatto, con una sanzione penale e con altra formalmente amministrativa ma di indole uguale alla prima. La garanzia si estende anche al diritto di non essere perseguiti o giudicati due volte, sempre per lo stesso fatto, con un processo penale e con un giudizio civile: il procedimento che per primo viene definito in modo incontrovertibile determina la caducazione dell'altro. Omissis 55. (...) la presente causa ha come oggetto due procedimenti paralleli e distinti, il primo riguardante l’applicazione di una soprattassa di imposta risalente al 2006. La ricorrente ha impugnato la decisione. Il procedimento è divenuto definitivo il 13 settembre 2012, quando la Corte Suprema amministrativa le ha negato il permesso di fare appello. Il secondo processo riguarda il reato di frode fiscale aggravata, avviato il 15 aprile 2005 e conclusosi il 31 maggio 2012, con sentenza definitiva della Corte Suprema. I due procedimenti erano contemporaneamente pendenti fino al 31 maggio 2012, quando il secondo è diventato definitivo. 56. La Corte rileva che, quando il procedimento per frode fiscale si è concluso il 31 maggio 2012, il ricorso del ricorrente contro la decisione sull’applicazione della soprattassa era ancora pendente davanti alla Corte amministrativa Suprema. Poiché tale ultimo procedimento non è stato sospeso dopo che quello penale è divenuto definitivo, ma è proseguito fino alla decisione finale del 13 settembre 2012, il ricorrente è stato condannato due volte per lo stesso fatto riguardante gli anni di imposta 2002-2004, all’interno di due procedimenti divenuti definitivi rispettivamente il 31 maggio 2012 e il 13 settembre 2012. 57. (...), la Corte dichiara che vi è stata una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione in quanto la ricorrente è stato condannata due volte per lo stesso fatto in due separati di procedimenti. (...). 39. La Corte rileva anzitutto che è evidente che il procedimento penale per frode fiscale aggravata era di natura penale. 40. (...) La nozione di “procedura penale” nel testo dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere interpretata alla luce dei principi generali relativi rispettivamente alle parole “accusa penale” e “pena” di cui agli articoli 6 e 7 della Convenzione. 41. I precedenti della Corte stabiliscono tre criteri, comunemente note come “criteri Engel” ..., per determinare se vi fosse o meno “accusa penale”. Il primo criterio è la qualificazione giuridica del reato ai sensi del diritto nazionale, il secondo è la natura stessa del reato e il terzo è il grado di gravità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere. 44. (...) la Corte ha fornito ... un’interpretazione armonizzata della nozione di 756 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 “stesso reato” ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7. ... la Corte in tal modo è giunta a ritenere che un approccio che enfatizzasse la qualificazione giuridica dei due reati era troppo restrittivo per i diritti della persona ... Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 doveva essere interpretato come divieto di prosecuzione o di inizio di una seconda azione in quanto scaturita da fatti identici o fatti che erano sostanzialmente gli stessi. Era, quindi, importante concentrarsi su quei fatti costituiti da una serie di circostanze di fatto concrete le quali si riferiscono allo stesso imputato e che sono inscindibilmente collegate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza doveva essere dimostrata al fine di pervenire ad una condanna o di avviare un procedimento penale. 45. Nella presente vicenda, la Corte rileva che nei confronti del ricorrente il procedimento per la soprattassa e quello per frode fiscale sono scaturiti dagli stessi fatti (...). 47. La Corte ricorda che l’obiettivo dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 è il divieto di ripetizione di procedimenti penali che si sono conclusi con una decisione “definitiva” ... una decisione è tale se, secondo la tradizionale espressione, ha acquisito l’autorità di cosa giudicata. Ciò si verifica quando diviene irrevocabile, vale a dire quando non sono disponibili ulteriori rimedi ordinari o quando le parti hanno li hanno esauriti o non li hanno proposti entro i termini previsti. 50. La Corte ribadisce che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 vieta la ripetizione di processi penali che si sono conclusi con una decisione “definitiva”. L’articolo 4 del Protocollo n. 7 sancisce non solo il diritto di non essere puniti due volte, ma si estende anche al diritto di non essere perseguito o condannato per due volte. Altrimenti, non sarebbe stato necessario aggiungere la parola “punito” per la parola “perseguito” in quanto sarebbe mera duplicazione. L’articolo 4 del Protocollo n. 7 si applica anche quando l’individuo è stato solamente perseguito nell’ambito di un procedimento che non ha portato ad una condanna. La Corte ricorda che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 contiene tre garanzie distinte e stabilisce che nessuno può (i) rischiare di essere perseguito; (ii) perseguito o (iii) condannato per lo stesso reato (...). 51. La Corte rileva che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 proibisce chiaramente procedimenti consecutivi se il primo procedimento è già divenuto definitivo nel momento in cui è iniziato il secondo procedimento (...). 52. Per quanto riguarda i procedimenti paralleli, l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non vieta diversi tipi di procedimenti concorrenti. In tale evenienza non si può dire che il richiedente sia processato più volte “per un reato per il quale è già stato assolto o condannato”. In presenza di due processi paralleli, nessuna contraddizione sorge con la Convenzione se il secondo procedimento è interrotto dopo che il primo procedimento è stato definito ... Tuttavia, se non si verifica tale interruzione, la Corte reputa esistente la violazione. 53. Comunque, la Corte nei propri precedenti ha stabilito che sebbene sanzioni diverse (pene detentive sospese e il ritiro della patente di guida), relative alla stessa materia (guida in stato di ebbrezza), siano imposte da autorità diverse in procedimenti Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 757 diversi, tra quest’ultimi esiste un nesso sufficientemente stretto, nei fatti e nel tempo. In questi casi la Corte ha ritenuto che i ricorrenti non sono stati processati o condannati per un reato per il quale erano già stati condannati definitivamente in violazione dell’articolo 4, § 1 del Protocollo n. 7 della Convenzione e che quindi non vi è alcuna ripetizione del procedimento. Il divieto del cumulo di sanzioni nell’ordinamento internazionale (ne bis in idem): una evitabile prova di forza tra gli artt. 117 e 11 Cost. al vaglio della Consulta The prohibition against double jeopardy in the international legal order (ne bis in idem): the effects of Arts. 117 and 11 of the Constitution according to the Italian Constitutional Court Abstract L’applicazione congiunta di sanzioni penali e amministrative in relazione ad un medesimo fatto, alla luce di una recente decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non può verosimilmente più avere luogo. Il divieto del doppio procedimento è, dunque, destinato a fare ingresso nel nostro ordinamento, attraverso gli artt. 11 ovvero 117 Cost. La Corte costituzionale sarà probabilmente chiamata in tempi brevi a valutare l’incidenza della decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Rinas c. Finlandia sul piano dei complessi rapporti tra processo penale e procedimento tributario. Infatti, atteso che il principio del ne bis in idem viene sancito sia dalla Convenzione Europea (Protocollo n. 7, art. 4) sia dall’art. 50 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, si pone la necessità di stabilire quale sia la fonte internazionale che costituirà il parametro di legittimità. Parole chiave: sanzioni, cumulo, UE, CEDU, tributi In the light of a recent ECHR’s judgement, the joint application of criminal and administrative penalties for the same offense cannot be admitted anymore. Thus, the prohibition of dual proceedings is going to be inserted in the Italian legal system through, alternatively, Arts. 11 or 117 of the Constitution. Likely the Constitutional Court will 758 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 be soon entrusted to assess the impact of the ECHR’s decision in the case Rinas v. Finland on the complex relationships between criminal and tax proceedings. In fact, since the ne bis in idem rule is recognized both by the European Convention (Art. 4 of the Protocol no. 7) and by the European Union law (Art. 50 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union), it has become necessary to identify which is the international source that will represent the parameter of legitimacy. Keywords: penalties, doubling, EU, ECHR, taxes SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il ne bis in idem nell’interpretazione delle Corti europee. – 3. Le questioni di legittimità costituzionale per violazione del diritto del ne bis in idem garantito dalla CEDU. – 4. La manifesta infondatezza della remissione alla Consulta per effetto del diritto dell’Unione Europea. – 5. Alcune ipotesi di conformità del sistema processuale interno al diritto dell’Unione Europea in caso di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale. 1. Premessa Il divieto di cumulare due sanzioni – una penale, l’altra amministrativa 1 – irrogate a conclusione di due diversi giudizi, con conseguente duplicazione del procedimento sanzionatorio, sta destando interesse nella letteratura specialistica. La Corte EDU, nella decisione del 27 gennaio 2015 nel caso Rinas 2, ha accertato l’illecita sovrapposizione di misure penali con altre che, sebbene qualificate dal legislatore come amministrative, sono state ritenute dalla stessa Corte di indole penale. La sentenza può produrre conseguenze molto rilevanti anche nel nostro ordinamento 3. Sul piano interno, infatti, la tematica è ancora in via di evoluzione, come dimostrano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalle sezioni tributaria 4 e penale 5 1 GOSIS, Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, p. 337 ss. 2 Sent. Corte EDU, 27 febbraio 2015, n. 17039/13, Rinas c. Finlandia, in http://www.echr.coe.int. 3 FLICK-NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, in Riv. soc., 2014, p. 953. Per la presenza di una pluralità di fattispecie di disapplicazione delle sanzioni amministrative tributarie, diverse per sede normativa di provenienza, per disposto letterale e, infine, per condizioni di esistenza V. FICARI, La disapplicazione delle sanzioni nei procedimenti tributari, in Rass. trib., 2002, p. 473 ss. 4 Cass., sez. trib., ord. 21 gennaio 2015, n. 950. 5 Cass. pen., sez. V, ord. 15 gennaio 2015, n. 333, in www.penalecontemporaneo.it. Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 759 della Corte di Cassazione, di poco antecedenti alla decisione della Corte europea. Tali rinvii erano originati dalle statuizioni della sentenza della Corte EDU nella vicenda Grande Stevens 6, in cui la legislazione italiana di attuazione delle norme “comunitarie” sul market abuse 7, risultava incompatibile con la CEDU, proprio a causa della previsione di un cumulo di sanzioni a fronte di fatti di identica natura 8. A ben vedere le vertenze giudiziarie interne nascondono, a monte, il problema del difficile coordinamento tra le norme della CEDU e quelle della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nel caso in cui entrambe le fonti tutelino gli stessi principi. Infatti la Corte di Giustizia ha stabilito che se anche l’art. 52, par. 3, della Carta impone di dare ai diritti in essa contemplati, corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, lo stesso significato e la stessa portata di quelli loro conferiti dalla suddetta Convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione non vi avrà aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico comunitario 9. Discende da questa situazione che il diritto dell’Unione non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale Convenzione ed una norma di diritto nazionale 10. Inoltre la considerazione dei diritti fondamentali previsti dalla CEDU come principi generali del diritto dell’Unione Europea non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando il diritto nazionale in contrasto con essa 11. La Corte di Giustizia sottolineando, altresì, la necessità di una equivalenza tra gli standard di tutela offerti dalla Carta di Nizza e la CEDU, nega agli Stati membri 6 Sent. Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, http://www.echr.coe.int. GAJA, Le conseguenze di una riserva inammissibile la sentenza nel caso “Grande Stevens c. Italia”, in Riv. dir. int., 2014, pp. 832-834. 7 D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della L. 6 febbraio 1996, n. 52, in G.U. del 26 marzo 1998, n. 71, S.O. e successive modificazioni. D’ora in vanti indicato come TUF nel testo. 8 Per l’incidenza della CEDU nell’ordinamento tributario v. DEL FEDERICO, I principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in materia tributaria, in Riv. dir. fin., 2010, p. 111; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano 2010. 9 È opportuno ricordare che tale adesione sembra ancora lungi da realizzarsi. V. Parere 18 dicembre 2014, n. 2/13 della Corte di Giustizia, in www.curia.europa.eu. 10 Sent. 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, non ancora pubblicata in Racc., punto 44. Per un commento v. BROKELIND, Highlights & Insights, in European Taxation, n. 4, 2013, pp. 13-17; SZWARC, Application of the Charter of Fundamental Rights in the Context of Sanctions Imposed by Member States for Infringements of EU Law: Comment on Fransson Case, in European Public Law, 2014, p. 229 ss. 11 Sent. 24 aprile 2012, causa C-571/10, Servet Kamberaj c IPES e altri, in Racc., ECLI:EU:C 2012, punto 36, p. 233. CARBONE, I diritti della Persona tra CEDU, diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali, in Dir. Un. Eur., 2013, p. 1. 760 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 la possibilità di invocare quelli più elevati consentiti dalla Convenzione 12. Invero la Corte di Giustizia, da un lato, interpretando l’art. 53 della Carta stabilisce che «l’applicazione di standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione». Dall’altro, osservando l’art. 53 della CEDU, ne evidenzia «la facoltà per le Parti contraenti di prevedere standard di tutela dei diritti fondamentali più elevati di quelli garantiti da detta convenzione». Secondo la Corte occorre quindi coordinare i due articoli «affinché la facoltà concessa dall’art. 53 della CEDU agli Stati membri resti limitata, per quanto riguarda i diritti riconosciuti dalla Carta corrispondenti a diritti garantiti dalla citata convenzione, a quanto è necessario per evitare di compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta medesima, nonché il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione» 13. Il quadro giuridico internazionale offre, dunque, lo spunto per ripercorre la giurisprudenza europea in merito al concetto del ne bis in idem e per valutare le sue ripercussioni sul piano domestico. 2. Il ne bis in idem nell’interpretazione delle Corti europee Il divieto del ne bis in idem, cioè la garanzia in forza della quale un soggetto non può essere punito due volte per lo stesso reato né essere sottoposto ad un nuovo processo penale quando sia stato in precedenza definitivamente assolto o condannato, trova la propria fonte nell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU 14. Detta disposizione è stata poi ripresa dall’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Il raffronto tra le disposizioni dell’Unione e quelle della CEDU costituisce un’operazione ermeneutica fondamentale 15, stante l’equiparazione della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ai Trattati 16 disposta dal Trattato di Lisbona. 12 ROSSI, Il Parere 2/13 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro fra Corti?, 22 dicembre 2014; VEZZANI, “Gl’è tutto sbagliato, gl’è tutto da rifare!”: la Corte di giustizia frena l’adesione dell’UE alla CEDU, 23 dicembre 2014, entrambi in http://www.sidi-isil.org/sidiblog/; The EU’s Accession to the ECHR – a “NO” from the ECJ, in Common Market Law Review, 2015, p. 1 ss. 13 Parere 18 dicembre 2014, n. 2/13 della Corte di Giustizia, cit., punti 185-189. 14 Per un commento all’art. 4 del Protocollo n. 7 v. ALLEGREZZA, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, a cura di Bartole-De Sena-Zagrebelski, Padova, 2012, p. 897 ss. 15 Prima del Trattato di Lisbona v. sent. 13 giugno 2006, causa C-336/2005, Ameur Echouikh contro Secrétaire d’Étataux Anciens Combattants, in Racc., 2006, punto 65, pp. I-05223; sent. 15 ottobre 2002, cause riunite C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, C-250/99 P e C-252/99 P e C-254/99 P, Limburgse Vinyl Maatschappij NV (LVM) e a. c. Commissione delle Comunità europee, in Racc., 2002, punti 165 a 171, pp. I-08375. 16 Per l’analisi della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sia consentito un rinvio, senza pretesa di esaustività, a VILLANI, Diritti fondamentali tra Carta di Nizza, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e progetto di costituzione europea, in Dir. Un. Eur., 2004, p. 73 ss.; DANIELE, La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione europea dopo Lisbona: un quadro d’insieme, in Dir. Un. Eur., Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 761 Al riguardo è infatti opportuno precisare che la Corte di Giustizia 17 ha statuito che laddove la Carta dei Diritti Fondamentali «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata di tali diritti sono uguali a quelli loro conferiti da detta Convenzione. Secondo la spiegazione di tale disposizione, il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo della CEDU, ma anche, in particolare, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». Le spiegazioni della Carta 18, le quali devono essere tenute in debito conto dai giudici dell’Unione e degli Stati membri 19, precisano, inoltre, che la disposizione convenzionale e quella dell’Unione sul ne bis in idem hanno identico contenuto. Risulta allora imprescindibile, per l’esatta comprensione del predetto principio nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione Europea, l’analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. In linea con tale orientamento, del resto, è anche la dichiarazione congiunta del 2011 del Presidente della Corte di Giustizia e di quello della Corte europea, secondo cui è importante garantire che vi sia la massima coerenza tra i due strumenti normativi 20. La predetta esigenza di raggiungere una visone pressoché armonica tra le due Corti viene palesata dalla Corte di Giustizia nel caso Fransson 21. Il Tribunale remittente chiedeva ai giudici del Lussemburgo se il giudizio penale dovesse essere considerato inammissibile qualora all’imputato fosse stata già inflitta una sanzione amministrativa, nell’ambito di un precedente procedimento amministrativo basato sugli stessi costitutivi (nella specie: false dichiarazioni fiscali). Ragionando altrimenti, 2009, p. 645; ROSAS-KAILA, L’application de la Charte des droits fondamentaux de l’Union europèennne par la Cour de justice: un premier bilan, in Dir. Un. Eur., 2011, p. 1 ss.; TIZZANO, Les Cours europèennes et l’adhèsion de l’Union à la CEDH, in Dir. Un. Eur., 2011, p. 29 ss.; STROZZI, Il sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali dopo Lisbona: attualità e prospettive, in Dir. Un. Eur., 2011, p. 837 ss.; CANNIZZARO, Diritti “diretti” e diritti “indiretti”: i diritti fondamentali tra Unione, CEDU e Costituzione Italiana, in Dir. Un. Eur., 2012, p. 24 ss. 17 Sent. 4 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, Mc. B c. L. E., in Racc., 2010, pp. I-08965; sent. 22 dicembre 2010, causa C-279/09, DEB Deutsche Energiehandels – und BeratungsgesellschaftmbH contro Bundesrepublik Deutschland, in Racc., 2010, pp. I-13849. Per un commento v. OLIVER, Case C-279/09, DEB v. Germany, Judgment of the Court of Justice (Second Chamber) of 22 December 2010, in Common Market Law Review, n. 6, 2011, 48, pp. 2023-2040. 18 Spiegazione relative alla Carta dei Diritti Fondamentali, in GUUE del 14 dicembre 2007, C-303/30. 19 Sent. 27 maggio 2014, causa C-129/14 PPU, Oberlandesgericht Nürnberg-Germania, ECLI:EU:C, 2014, punto 54, p. 586. 20 Joint Communication from President Costa and Skouris, 24 January 2011 in www.curia.europa.eu. 21 Sent. 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, cit. La vicenda giudiziaria penale riguardava un cittadino svedese accusato di frode fiscale per avere fornito dolosamente informazioni inesatte nelle dichiarazioni fiscali concernenti anche l’IVA. Reato aggravato per la consistenza degli importi evasi. Nelle more ed in pendenza del giudizio penale, l’amministrazione finanziaria infliggeva all’imputato, a causa delle stessa comunicazione di dati inesatti, una sanzione amministrativa che passava in giudicato per non essere stata impugnata nei termini. 762 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 secondo il giudice a quo, si sarebbe violato il divieto del ne bis in idem. La Corte risolve la questione interpretativa affermando che la suddetta garanzia non vieta che ad uno stesso comportamento illecito possa essere applicata una duplice sanzione: amministrativa-tributaria, divenuta definitiva a seguito di accertamento giudiziale, unitamente ad una successiva sanzione penale. A condizione, tuttavia, che la prima non abbia natura penale. Per stabilire quest’ultimo requisito i giudici del Lussemburgo mutuano 22 i tre criteri elaborati nel caso Engel 23 dalla Corte EDU. Essi, parimenti, si uniformano alla nozione di “stesso reato” elaborata definitivamente nella sentenza Zolotukhin 24; come pure al divieto di un doppio procedimento sancito dai colleghi di Strasburgo, richiamando il passaggio in giudicato della sanzione amministrativa. La Corte EDU, dal canto suo, ha reiterato i propri orientamenti, come sopra recepiti dalla Corte di Giustizia, in una stringente sequenza cronologica: i casi Grande Stevens 25, Nykänen 26, Lucky Dev 27 ed infine Rinas 28. In quest’ultima vicenda, in particolare, la Corte doveva valutare la violazione del ne bis in idem causata dalla 22 Il ricorso, da parte dei giudici del Lussemburgo, agli orientamenti della Corte EDU necessari per individuare la stessa natura della sanzione, lo stesso fatto storico ed il divieto di un doppio processo, non è diretto perché la Corte di Giustizia richiama solo un proprio precedente (sent. 5 giugno 2012, causa C-489/10, Łukasz Marcin Bonda, ECLI:EU:C, 2012, p. 319) ove viene menzionata la giurisprudenza dei giudici di Strasburgo. 23 Sent. Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, in http://www.echr.coe.int. 24 Sent. Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin v. Russia, in http://www.echr.coe.int., punto 58. Quest’ultima pronuncia ha il pregio di precisare, in modo definitivo, il significato del termine “stesso reato”, individuandolo nella condotta concretamente posta in essere a prescindere dalla sua qualificazione giuridica. La Corte ha poi reputato la violazione del principio del ne bis in idem, in riferimento ad un medesimo comportamento (offese minacce e resistenza ad un pubblico ufficiale e successiva tentativo di fuga dell’offensore) oggetto di due diversi processi conclusisi a distanza di un anno di tempo l’uno dall’altro. 25 Sent. Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, cit. 26 Sent. Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, in http://www.echr.coe.int. Il sig. Nykänen, era accusato di avere percepito dividendi senza poi dichiararli, per una somma di poco superiore a 30.000 euro. Per tale condotta, in sede civile, veniva sanzionato nel 2009, in via definitiva, con il pagamento di una sanzione amministrativa (sovrattassa) di 1.700 euro; nel processo penale, iniziato nel 2008 e definito nel 2010, veniva condannato a dieci mesi di reclusione, oltre al pagamento di una multa. Per la Corte la sovrattassa, ancorché qualificata come amministrativa dal diritto nazionale, costituiva una sanzione di natura penale. Inoltre i giudici appuravano una duplicazioni di processi, ove addirittura il procedimento penale non veniva nemmeno interrotto. 27 Sent. Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, in http://www.echr.coe.int. La ricorrente aveva omesso d’indicare i propri redditi d’impresa e l’IVA nella relativa dichiarazione. Per tale medesimo fatto erano stati, quindi, instaurati due diversi procedimenti. Il giudizio tributario, iniziato nel giugno 2004, si concluse nell’ottobre 2009 con l’imposizione di sovrattasse sul reddito e sull’IVA. Il procedimento penale, avviato il 5 agosto 2005, divenne definitivo l’8 gennaio 2009 a seguito di sentenza di assoluzione. La Corte, dopo aver ravvisato il cumulo di identiche sanzioni, ha censurato la duplicazione di procedimenti, poiché quello tributario non era stato concluso (e le soprattasse non sono state annullate) dopo la definizione del processo penale con sentenza passato in giudicato; anzi era continuato per i per successivi nove mesi e mezzo, cioè fino al 20 ottobre 2009. 28 Sent. Corte EDU, 27 febbraio 2015, Rinas, cit. Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 763 sussistenza di due procedimenti paralleli e distinti, aventi ad oggetto la percezione di dividendi, provenienti da società estera, non dichiarati dal contribuente. Il processo tributario, riguardante l’applicazione di una soprattassa di imposta, era iniziato nel 2006 e si era concluso il 13 settembre 2012, quando la Corte Suprema amministrativa negava al ricorrente la proposizione dell’appello. L’altro giudizio, volto ad accertare il reato di frode fiscale aggravata, era stato avviato nel 2005 e si era concluso il 31 maggio 2012 con l’emissione della sentenza da parte del giudice penale di ultima istanza. La Corte EDU rilevava la violazione del principio suddetto atteso, da un lato, l’applicazione di due sanzioni identiche ad uno stesso comportamento materiale e, dall’altro, la pendenza contemporanea di due procedimenti, senza che quello amministrativo fosse stato sospeso. Da questa giurisprudenza uniforme delle Corti (o comunque dall’adeguamento della Corte di Lussemburgo ai precedenti giurisprudenziali della Corte EDU) si può ricavare che il principio del ne bis in idem ha un contenuto identico nell’ambito dei due Trattati internazionali. La garanzia, infatti, è costituita da due elementi: uno di carattere sostanziale l’altro di carattere processuale. Per quanto concerne l’aspetto sostanziale si richiede che uno stesso fatto non possa essere punito contemporaneamente con una sanzione penale e con altra solo in apparenza amministrativa. Occorre cioè stabilire se i due processi, incardinati nei confronti della stessa persona, hanno carattere penale 29. Ciò si determina individuando la natura penale della sanzione amministrativa sulla base dei c.d. Engel criteria 30. Il primo di questi consiste nella qualificazione giuridica dell’illecito come reato secondo il diritto nazionale. Tuttavia la caratterizzazione attribuita sulla base del diritto interno non è risolutiva poiché essa ha solo valore formale e relativo. Sovviene, allora, in aiuto, il secondo criterio costituito dalla “natura” stessa del reato, da individuarsi nel fine punitivo e di deterrenza della sanzione che ad esso consegue. Il terzo è il grado di severità della pena in cui la persona rischia, in astratto, di incorrere: esso viene determinato con riferimento al massimo della sanzione edittale previsto per legge. Stabilito il carattere penale della sanzione amministrativa si deve, poi, verificare se entrambe le sanzioni puniscano lo stesso fatto materiale; occorre riscontrare cioè l’omogeneità dei comportamenti concretamente realizzati e non l’identità delle condotte descritte nelle norme incriminatrici designate dal legislatore. 29 La Corte EDU, nei precedenti richiamati nella motivazione, ha sempre sottolineato che la nozione di “procedura penale” nel testo dell’art. 4 deve essere interpretata alla luce dei principi generali relativi rispettivamente alle corrispondenti parole “accusa penale” e “pena” indicate negli artt. 6 e 7 della Convenzione. 30 Sent. Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel and Others v. the Netherlands, cit. Si precisa che il secondo e terzo criterio sono alternativi e non necessariamente cumulativi. Questo, tuttavia, non esclude un approccio cumulativo in cui l’analisi separata di ciascun criterio non permette di raggiungere una chiara conclusione circa l’esistenza di un illecito penale. 764 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Esaurita l’analisi sostanziale occorre verificare l’aspetto processuale. Innanzitutto è necessario constatare l’avvenuta duplicazione dei procedimenti. La norma in esame preclude, invero, l’instaurazione di procedimenti successivi, qualora, al momento d’inizio del secondo, il primo si sia già concluso con sentenza passata in giudicato. Non sono, invece, vietati procedimenti paralleli ed autonomi. In una situazione del genere la persona non può dirsi perseguita per un fatto per il quale è stata già assolta o condannata: a patto, tuttavia, che alla definitiva conclusione di un processo faccia seguito il venir meno dell’altro. Pertanto, se a terminare per primo è il processo amministrativo, deve cessare immediatamente la pendenza del secondo di carattere propriamente penale (casi Grande Stevens, Nykänen). Analogamente la litispendenza verrà meno quando ad essere definito per primo è il processo penale (casi Lucky Dev, Rinas). Tuttavia la valenza di detta priorità temporale, accordata indifferentemente all’uno o all’altro dei processi contemporaneamente pendenti, desta una qualche perplessità. Incomprensibile, infatti, l’interruzione del processo penale che generalmente è volto alla tutela di beni giuridici che rivestono una importanza maggiore all’interno della scala di valori per la collettività. 3. Le questioni di legittimità costituzionale per violazione del diritto del ne bis in idem garantito dalla CEDU Come si è riferito all’inizio del lavoro la Corte di Cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale. Per una sua comprensione, occorre brevemente ricordare la posizione occupata dalle disposizioni della CEDU, come interpretate dai giudici di Strasburgo, all’interno delle fonti dell’ordinamento italiano. Le norme pattizie sono subordinate alla Costituzione, ma sovraordinate alla legge. Quali norme interposte, pertanto, integrano i precetti della Carta costituzionale a condizione che non la violino: la Consulta vigila su tale conformità. La predetta integrazione trasforma la CEDU e la giurisprudenza della Corte EDU, in criteri di legittimità della legge. Ne segue che qualora il giudice rinvenga un contrasto tra le disposizioni interne e la Convenzione (rispettosa della Costituzione) e non riesca ad eliminare l’antinomia, tramite una interpretazione conforme delle norme nazionali a quelle pattizie 31, deve sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli obblighi internazionali (che, in questo caso, sono costituiti, per l’appunto dalla CEDU) 32. 31 VILLANI, La funzione giudiziaria dell’ordinamento internazionale e la sua incidenza sul diritto sostanziale, in La comunità internazionale, 2014, p. 7 ss. 32 Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in Giur. it., n. 3, 2008, p. 565 con nota di CONFORTI; Corte Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 765 Come anticipato, i dubbi di legittimità costituzionale della Cassazione sono originati dal caso Grande Stevens. In quest’ultima vicenda i giudici di Strasburgo hanno stabilito che il reato di abuso di manipolazione del mercato (art. 185 TUF 33) aveva contenuto per la maggior parte analogo all’illecito amministrativo dell’art. 187 ter TUF (manipolazione del mercato). L’identità si rifletteva anche sul piano procedurale poiché il processo penale e quello amministrativo (ed il relativo giudizio di opposizione alla sanzione a suo tempo irrogata) viaggiavano su binari paralleli, sebbene entrambi i processi fossero accomunati dallo stesso fatto concreto. La Corte europea riteneva, quindi, che l’applicazione della sanzione, scaturita dal giudizio civile conclusosi con sentenza definitiva, impediva che i soggetti già sanzionati fossero nuovamente perseguiti penalmente per i medesimi comportamenti. Il problema del doppio binario sanzionatorio viene ora sottoposto all’attenzione della Consulta dalla sezioni della Corte di Cassazione. Il giudice tributario di ultima istanza era chiamato a pronunciarsi sulla sanzione amministrativa per illecita manipolazione del mercato (art. 187 ter TUF) confermata dal giudice di secondo grado. Infatti, per la stessa condotta materiale, qualificabile anche come reato di manipolazione del mercato (art. 185 TUF), i protagonisti del processo civile avevano riportato una precedente sentenza penale di condanna passata in giudicato. Sulla base del caso Grande Stevens, la Cassazione, da un lato, rileva il divieto del cumulo delle due sanzioni penali. Dall’altro lato, lamenta la sola violazione costituzionale dell’art. 649 c.p.p., poiché la norma di rito limita il divieto di sottoporre ad nuovo procedimento penale un soggetto il quale sia stato condannato o prosciolto in precedenza solo in base a sentenza penale, ma non anche nel caso in cui la parte sia risultata vittoriosa in un giudizio tributario. Attesa, così, l’impossibilità della Cassazione di interrompere immediatamente il processo e, dunque, di attribuire effetto alla disposizione della CEDU, propone l’unica via percorribile: solleva questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Analoga impossibilità di interruzione del processo viene riscontrata dalla sezione penale. La Cassazione rilevava che il ricorrente, per il medesimo fatto storico, costituente reato di abuso di informazioni privilegiate (art. 184 TUF), era stato già sanzionato per illecito amministrativo di cui all’art. 187 bis del TUF, mediante sentenza della Corte d’Appello passata in giudicato. Al fine di eliminare la violazione della CEDU pone due questioni di legittimità. Il giudice di ultima istanza prospetta una sentenza manipolativa con cui sostituire la clausola che prevede il cumulo sanzionatorio con quella che attribuirebbe carattere sussidiario alla fattispecie amministrativa. La Corte Suprema eccepisce, così, illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede «salve le sanzioni penali quando il fatto costituicost., 24 ottobre 2007, n. 349 in Corr. giur., n. 2, 2008, p. 193 con nota di LUCIANI-CONTI; Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113, in Giur. it., n. 5, 2012, p. 1022 con nota di GUARNIERI. 33 Vedi nota 7. 766 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 sce reato, è punito con sanzione amministrativa» anziché «salvo che il fatto costituisca reato». Qualora la tesi fosse accolta, il rapporto tra le due sanzioni sarebbe ricondotto all’alveo del criterio di specialità di cui all’art. 9 della L. n. 689/1981: in presenza della identica condotta sarà applicata la sola sanzione penale ed esclusa quella amministrativa. In seconda istanza la Corte solleva la violazione dell’art. 649 c.p.p. per le stesse ragioni esposte dai colleghi della sezione civile. 4. La manifesta infondatezza della remissione alla Consulta per effetto del diritto dell’Unione Europea La questione di legittimità non sembrerebbe l’unica via astrattamente percorribile. Tale scelta appare, anzi, non del tutto corretta. La soluzione è forse già esistente ed è rintracciabile nella supremazia del diritto dell’UE, il cui rispetto è affidato anche al giudice non costituzionale. Si è visto, infatti, che entrambi i sistemi (Unione Europea e CEDU) garantiscono l’osservanza e la difesa dell’identico diritto del ne bis in idem. Dunque la problematica consiste nel rintracciare un possibile criterio per determinare in quali circostanze opera il diritto dell’UE, con i suoi “collaudati” meccanismi di disapplicazione della disposizione interna configgente con la norma “comunitaria”. A tal fine è utile richiamare la Spiegazione dell’art. 51, par. 1 della Carta, ove si evince che la Carta si applica agli Stati membri quando essi attuano o danno esecuzione al diritto dell’Unione 34. In effetti, entrambe le sezioni della Cassazione devono risolvere delle questioni intimamente connesse e disciplinate dal diritto “comunitario”. Le disposizioni censurate del TUF, imponendo un cumulo di sanzioni, non avrebbero correttamente trasposto l’allora esistente Direttiva 2003/6/CE, che si ispirava, seppur non expressis verbis, al principio del divieto del ne bis in idem. Il diritto secondario imponeva agli Stati l’adozione di sanzioni amministrative e concedeva loro la facoltà di predisporre anche sanzioni penali 35. Il nuovo contesto giuridico europeo, nel quale la Corte di Cassazione ha sollevato i dubbi di costituzionalità, rafforza ancora di più il divieto del cumulo sanzionatorio 36. Dal 2 luglio 2014 34 TIZZANO, L’application de la Chatre de droits fundamentaux dans le États membres à la lumière de son article 51, paragraphe 1, in Dir. Un. Eur., 2014, p. 429; MORI, La “qualità” della legge e la clausola generale di limitazione dell’art. 52 par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Dir. Un. Eur., 2014, p. 243. 35 Così l’interpretazione dell’art. 14 della Direttiva fornita dalla Corte EDU nel caso Grande Stevens dove al par. 229 richiama, condividendole, le statuizione della Corte di Giustizia nelle vicende Spector e Fransson. 36 D’ALESSANDRO, Tutela dei mercati finanziari e rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. pen. proc., 2014, p. 614. Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 767 sono, infatti, in vigore la Direttiva 2014/57/UE 37 concernente le sanzioni penali sugli abusi di mercato ed il Reg. n. 596/2014 38 relativo agli abusi di mercato. Le norme di diritto derivato sopravvenute invertono la precedente politica “repressiva”: diventano infatti obbligatorie le sanzioni penali e facoltative quelle amministrative 39, con espresso divieto per gli Stati di violare il principio del ne bis in idem 40. L’applicazione del diritto dell’Unione, con la conseguente caducazione dei dubbi di legittimità costituzionale, emergerebbe, poi, argomentando a contrario dagli assunti della stessa Corte costituzionale, quando nella sent. n. 80/2011 41, chiamata ad esprimersi sulla illegittimità di disposizioni interne per violazione degli obblighi internazionali derivati dalla CEDU, ha ritenuto di non poter applicare le disposizioni della Carta di Nizza poiché la fattispecie sottoposta al suo esame (applicazione di misure personali e patrimoniali ante o praeter delictum) non rientrava nelle materie di competenza dell’Unione. Dalle considerazioni che precedono si può ragionevolmente dubitare della fondatezza della questione di legittimità. Infatti il rinvio alla Corte costituzionale verte su una materia che rientra nella competenza dell’Unione. Pertanto attesa la non conformità della legge italiana alle disposizioni “comunitarie” non si profila la violazione degli “obblighi internazionali”, costituiti dalla CEDU e richiamati, a livello costituzionale, dall’art. 117 Cost. La valenza del diritto dell’Unione Europea impone, invece, che il conflitto tra il ne bis in idem e le norme nazionali (implicanti il cumulo sanzionatorio ed il doppio giudizio ad esse connesso) vada risolto sulla base del rapporto tra l’ordinamento giuridico comunitario e quello interno come disciplinato dall’art. 11 Cost. Quindi, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale 42, le disposizioni dell’Unione riceveranno diretta applicazione in considerazione della loro provenienza da un ordinamento distinto ed autonomo da quello nazionale, seppure con il medesimo coordinato, del quale non entrano a far parte. Ne segue che in caso si contrasto la legge italiana rimane semplicemente inapplicabile, non operando il meccanismo di rinvio della questione di legittimità costituzionale 43. 37 GUUE del 12 giugno 2014, L 173/179. GUUE del 12 giugno 2014, L 173/1. 39 Cfr. considerando 22, 72 e art. 30 della Direttiva 2014/57/UE. 40 Cfr. considerando 23 della Direttiva 2014/57/UE. 41 Corte cost., 11 marzo 2011, n. 80 in www.cortecostituzionale.it. 42 Corte cost., 8 giugno 1984, Granital; 11 luglio 1989, n. 389, Provincia autonoma di Bolzano; 18 aprile 1991, n. 168, Industria Dolciaria Giampaoli, in www.cortecostituzionale.it. 43 Per le circoscritte ipotesi in cui l’art. 11 Cost., in presenza di contrasto delle disposizioni nazionali con il diritto dell’Unione, viene assunto quale parametro indiretto di legittimità costituzionale v. ADAM-TIZZANO, Lineamenti di diritto dell’Unione europea3, Torino, 2014, p. 216 ss. 38 768 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 5. Alcune ipotesi di conformità del sistema processuale interno al diritto dell’Unione Europea in caso di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale Una volta appurato che le disposizioni della Carta, di contenuto analogo alla CEDU, sono obbligatorie per gli Stati quando danno attuazione o esecuzione al diritto europeo 44, è lecito domandarsi come opera concretamente il vincolo desumibile dal diritto dell’Unione Europea. In altre parole occorre stabilire se l’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali sia direttamente applicabile o meno, sul piano dell’ordinamento interno. Solo se si ammette la giustiziabilità della norma, cioè la possibilità di essere invocata “tale e quale” dal singolo nell’ambito di un giudizio nazionale, le disposizioni domestiche con essa contrastanti potrebbero essere disapplicate. A tale quesito può probabilmente darsi risposta positiva. La Corte di Giustizia ammette, in via generale, la diretta applicabilità degli articoli della Carta, almeno laddove essi abbiano un contenuto chiaro, preciso e incondizionato 45. La Grande sezione 46 interpellata in un caso in cui veniva invocato l’art. 27 della Carta – che garantisce ai lavoratori il diritto all’informazione e alla consultazione all’interno dell’impresa «nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali» – ha affermato che tale disposizione, in considerazione della sua formulazione, per produrre pienamente i suoi effetti, deve essere «precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale». Per i giudici di Lussemburgo, poi, la non diretta applicabilità dell’art. 27 emerge ancor più con evidenza se il suo tenore si paragona con quello dell’art. 21 della Carta, il cui contenuto «sancendo il principio di non discriminazione in base all’età, è di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale». Tuttavia la tutela accordata dall’art. 50 della Carta non imporrebbe, previa disapplicazione, la creazione immediata da parte del giudice di una nuova norma processuale contraria all’art. 649 c.p.p., che come detto non consente di caducare il processo penale in essere, sulla base di una precedente sentenza civile passata in giudicato. Il giudice è chiamato a ricercare una disposizione processuale che sostituisca quella eventualmente contrastante, all’interno del diritto domestico 47. L’assunto 44 Corte Giust., sent. 8 maggio 2014, C-483/12, Pelckmans Turnhout c. NV Walter Van Gastel Balen NV e altri, non ancora pubblicata in Racc., punto 17; STROZZI, La tutela sbilanciata dei diritti fondamentali dell’uomo, in Dir. Un. Eur., 2014, p. 189. 45 CONTALDI, Effetto diretto e primato del diritto comunitario, in CASSESE, Dizionario di diritto pubblico, III, Milano, 2006, pp. 2124-2135. 46 Sent. 15 gennaio 2014, causa C-176/12, Association de médiation sociale c. Union locale des syndicats CGT, non ancora pubblicata in Racc., punti 47-49. In dottrina v. DI PASCALE, I diritti sociali nella giurisprudenza dell’Unione europea: diritti Fondamentali?, in Riv. dir. int., 2014, p. 1148 ss. 47 Sent. 11 settembre 2003, causa C-13/01, Safalero Srl v. Prefetto di Genova, in Racc., 2003, pun- Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 769 è sintetizzato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia 48 ove si evince che il diritto dell’Unione non ha inteso creare mezzi d’impugnazione, quindi processuali, diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale, esperibili dinanzi ai giudici nazionali, onde salvaguardare il diritto “comunitario”. Ciò è in linea anche con le concrete implicazioni derivanti dall’obbligo del giudice nazionale di interpretare il suo diritto conformemente alla norma dell’Unione 49: nel caso Pfeiffer 50 si è precisato che l’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto interno «(...) esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato». Di risulta, è nella ricerca spasmodica di una norma processuale, all’interno dell’intero sistema nazionale, che l’eventuale contrasto si deve risolvere. Questo sembrerebbe il punto d’equilibrio, oltre il quale prevale il diritto dell’Unione. Corollario ne è che qualora il sistema processuale domestico non sia in grado di garantire il rispetto del ne bis in idem, il giudice dovrà “creare” lo strumento giuridico processuale più appropriato, per dare applicazione alla norma europea. Tale conseguenza è confermata dal passo motivazionale della Corte, la quale – dopo aver ribadito la non intenzione del diritto dell’Unione di creare mezzi di tutela del diritto “comunitario” diversi da quelli già esistenti all’interno degli Stati – ha precisato che: «La situazione sarebbe diversa solo se risultasse dall’economia dell’ordinamento giuridico nazionale in questione che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario» 51. Corollario ne è che il giudice dovrà ti da 51 a 56, pp. I-08679; sent. 13 marzo 2007, causa C-432/05, Unibet Ltd, in Racc., 2007, punti 27, 40, 41 e 64, pp. I-2271; sent. 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones SL contro Cristina Rodríguez Nogueira, in Racc., 2009, punto 55, pp. I-9579; sent. 27 giugno 2000, cause riunite da C-2 0 a 244/98, Oceano Grupo Editorial e Salvat Ediotore, in Racc., 2000, punti 18 e 32, pp. I4941; sent. 27 febbraio 2003, causa C-327/00, Santex Spa, in Racc., 2003, punti 25 e 65, pp. I-1877. In dottrina sull’obbligo del giudice nazionale di interpretare le norme procedurali nazionali finalizzate a sanzionare l’osservanza del diritto dell’Unione in maniera tale da perseguire lo scopo a cui mira la norma comunitaria di diritto sostanziale v. URANIA GALETTA, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Torino, 2009, passim. L’assunto secondo cui nella maggior parte dei casi non vi sanno ricadute pratiche in termini di disapplicazione è espresso anche da BIAVATI, Diritto comunitario e diritto processuale italiano fra attrazione, autonomia e resistenze, in Dir. Un. Eur., n. 4, 2000, p. 717 ss. 48 Sent. 13 marzo 2007, causa C-432/05, Unibet Ltd, cit., punto 40. 49 Sent. 13 novembre 1990, causa C-106/09, Marleasing, in Racc., 1990, punto 9, pp. I-4136; sent. 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, in Racc., 2005, punti 9 e 43, pp. I-5285, su cui MARCHEGIANI, L’obbligo di interpretazione conforme alle decisioni quadro: considerazioni in margine alla sentenza Pupino, in Dir. Un. Eur., n. 3, 2006, pp. 563-583. 50 Sent. 5 ottobre 2004, in cause riunite da C-397 a C-403/01, Pfeiffer, in Racc., 2004, punti 114 e 155, p. 8835; sent. 4 luglio 2006, in causa C-212/04, Konstantinos Adeneler e altri, in Racc., 2006, punti 108-112, pp. I-6057. 51 Sentenza Unibet, cit., punto 41 e giurisprudenza ivi citata. 770 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 disapplicare la norma processuale e crearne una di contenuto opposto a quella conflittuale 52, quale ultimo atto dovuto. Applicando tali insegnamenti e focalizzando l’attenzione sul carattere procedurale del ne bis in idem, ossia sul diritto di non essere perseguito o processato due volte, se ne deduce che tale aspetto della garanzia è equiparabile ad una condizione di mancanza di procedibilità della (seconda) azione giudiziaria ancora in essere. Utile, allora, risolvere il contrasto, in caso di pendenza del processo penale, con l’art. 424 c.p.p. o con l’art. 529 c.p.p. i quali prevedono che il giudice, nell’udienza preliminare o nel dibattimento, se l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita, emette sentenza di non doversi/luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo (costituita dalla precedente sentenza tributaria passata in giudicato). Parimenti se ad essere concluso per primo è il processo penale, assurgendo la sentenza che lo definisce come fatto oggettivo e sopravvenuto nella concomitante procedura amministrativa, il giudice tributario 53 potrebbe dichiarare cessata la materia del contendere 54. 52 Sotto la luce dell’extrema ratio del sistema andrebbero lette, quindi, le istanze della dottrina volte alla creazione di una nuova regola processuale in mancanza di strumenti interni, v. TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli stati membri dell’Unione europea, in Foro it., 1995, IV, p. 13; KAKOURIS, Do the Member States Possess Judicial Procedural “Autonomy”, in Common Market Law Review, n. 37, 1997, p. 1396; SCHEPISI, Sull’applicabilità d’ufficio delle norme comunitarie da parte dei giudici nazionali, in Dir. Un. Eur., 1997, p. 812 ss.; LENAERTS, The Rule of Law and the Coherence of the Judicial System of the European Union, in Common Market Law Review, n. 44, 2007, p. 1647; MASTROIANNI, Rinvio pregiudiziale e sospensione del processo civile: la cassazione è «realista del re»?, in Dir. Un. Eur., 2000, p. 101; ADINOLFI, La tutela giurisdizionale nazionale delle situazioni soggettive individuali conferite dal diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 2001, p. 55; DANIELE, Forme e conseguenze dell’impatto del diritto comunitario sul diritto processuale interno, in Dir. Un. Eur., 2001, p. 75; AMADEO, L’effettività del diritto comunitario sostanziale nel processo interno: verso un approccio di sistema?, in SPITALERI (a cura di), L’incidenza del diritto comunitario e della CEDU sugli atti nazionali definitivi, Milano, 2009, p. 155, il quale afferma che non viene imposto allo Stato membro una modifica normativa processuale “di privilegio” in favore del titolare di diritti comunitari. 53 Il riferimento è anche al giudice tributario poiché il medesimo deve attenersi al processo civile sulla base dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992. Sul processo in generale v. DELLA VALLEFICARI-MARINI, Il processo tributario, Padova, 2008. Per l’incidenza della CEDU sul processo tributario v. BILANCIA-CALIFANO-DEL FEDERICO-PUOTI (a cura di), Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e giustizia tributaria italiana, Torino, 2014, passim; DELLA VALLE, Il giusto processo tributario. La giurisprudenza della Cedu, in Rass. trib., 2013, p. 435 ss.; PERRONE, Art. 6 della Cedu, diritti fondamentali e processo tributario: una riflessione teorica, in Riv. dir. trib., 2013, p. 919 ss.; DEL FEDERICO, I principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, in AA.VV., Studi in onore di Enrico De Mita, Napoli, 2012, I, p. 253 ss.; GREGGI, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della CEDU (il caso Jussila), in Rass. trib., 2007, p. 216 ss.; LA SCALA, I principi del «giusto processo» tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., 2007, p. 35 ss.; TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, p. 11 ss.; GALLO, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. trib., 2003, p. 11 ss.; DORIGO, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’Uomo, in Rass. trib., 2003, p. 42 ss. 54 Per il carattere processuale della cessazione della materia del contendere v. Cass., sez. III, 6 maggio 2010, n. 10960 (rv. 612643), in CED Cassazione, 2010. Corte EDU, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 17039/13 771 In ogni caso, a prescindere dagli esiti della sentenza della Corte costituzionale, non c’è dubbio che l’interpretazione giurisprudenziale della CEDU e del diritto dell’Unione, è destinata ad incidere sull’ordinamento interno. Da un lato si impone una rivisitazione del rapporto tra sanzione amministrativa e penale, sicuramente non in termini di specialità, quanto di esclusività. La sanzione penale, atteso il suo carattere tradizionalmente più incisivo, dovrebbe essere relegata alla tutela di interessi di particolare rilevanza per la collettività. La sanzione amministrativa, per contro, dovrebbe avere un carattere residuale per le violazioni più attenuate. Per altro verso, l’interferenza del sistema internazionale comincia a dissolvere, o quanto meno ad intaccare, alcuni principi cardine del diritto penale tra cui quello di legalità dei delitti. Non è più sufficiente cioè riferirsi al nomen juris della sanzione per distinguere l’illecito amministrativo dal reato. Se quest’ultimo, tradizionalmente, viene individuato sulla base della pena costituita dalla reclusione e/o dalla multa oppure dall’arresto e/o dall’ammenda 55, alla luce della prassi europea tale definizione legislativa appare incompleta. L’erosione di una legalità puramente formale non dovrebbe, però, sorprendere più di tanto. Essa è la naturale conseguenza di una di quelle caratteristiche tipiche del diritto internazionale che è il principio di effettività, in base al quale solo le pretese e le situazioni effettive, ossia concrete e solidamente costituite nella realtà, acquistano rilevanza giuridica Marco Bolognese 55 Art. 17 c.p. 772 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 – Pres. Cappabianca, Rel. Greco Imposta reddito persone fisiche e giuridiche – Imposta reddito persone fisiche, in genere – Imposte e tasse in genere – Rimborso dell’imposta – Soggetti d’imposta, in genere SVOLGIMENTO DEL PROCESSO B.R. impugnò il silenzio rifiuto opposto dall’amministrazione all’istanza di rimborso della ritenuta applicata dalla spa FINSTAR a titolo d’imposta, con l’aliquota del 27%, sui dividendi da partecipazione da lei percepiti nell’esercizio 2001 nella qualità di socio, dividendi successivamente inseriti nella dichiarazione dei redditi e sui quali era stata corrisposta la relativa imposta, venendosi a realizzare una doppia imposizione. Assumeva di essere stata erroneamente considerata dall’ufficio residente all’estero, laddove, come persona fisica residente in Italia, i detti dividendi avrebbero dovuto esserle corrisposti dividendi senza l’applicazione della ritenuta prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27, comma 3. La contribuente, cittadina italiana, pur avendo trasferito la residenza anagrafica in Svizzera, sosteneva doversi tuttavia considerarsi “fiscalmente residente” in Italia alla luce di quanto previsto dall’art. 2, comma 2 bis, del tuir, disposizione aggiunta dalla L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 10, comma 1, a tenore della quale “si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”. Il giudice d’appello rilevato essere incontestato che la contribuente aveva avuto “la residenza fiscale in Svizzera e che sulla base di tale presupposto la società della quale era socia aveva operato la ritenuta alla fonte sui dividendi pari al 27% ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 3”, e che ella aveva “pagato due volte l’imposta sui dividendi, avendola inserita nella sua dichiarazione dei redditi al lordo”, riteneva che l’Agenzia delle entrate dovesse restituire delle somme alla contribuente, e che la somma da restituire fosse non la ritenuta alla fonte pari ad euro 74.459, ma l’imposta corrisposta con la dichiarazione, pari ad euro 36.318, secondo i calcoli della stessa amministrazione finanziaria. Ciò in quanto “determinante al fine del decidere era verificare se la residenza fiscale della contribuente fosse ancora all’estero nell’anno fiscale di riferimento”, residenza in ordine alla quale “la stessa contribuente ammetteva non essere stato ancora formalizzato il trasferimento a Roma”, invocando in proposito la presunzione di residenza in Italia, per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in stati aventi regime fiscale privilegiato, di cui al D.P.R. 774 RTDT - n. 3/2015 GIURISPRUDENZA n. 917 del 1986, art. 2, comma 2 (bis), presunzione in relazione alla quale era mancata la “prova contraria”. La Commissione regionale al riguardo osservava come la disposizione avesse lo scopo di evitare che potessero avere effetto fiscale trasferimenti fittizi in paesi a regimi fiscali più favorevoli, e tendesse quindi ad evitare anche evasioni fiscali: “nel caso in esame non è richiesta una prova certa della residenza all’estero, in quanto l’Agenzia non la contesta, ed anzi la invoca per non restituire le somme della ritenuta alla fonte. Ciò che manca nella fattispecie è invece una prova certa del fatto che, nonostante la permanenza formale della residenza all’estero, la contribuente avesse trasferito il centro dei suoi interessi a Roma; tale prova non risulta fornita ed anzi è in certo senso smentita anche dal fatto che nella dichiarazione dei redditi è stato compilato il quadro dei residenti all’estero”. Riteneva perciò che la contribuente non avesse diritto alle somme corrisposte con ritenuta alla fonte, ma avesse diritto alla restituzione di quanto corrisposto con la dichiarazione dei redditi. Nei confronti della sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione con due motivi, illustrato con successiva memoria. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo, denunciando error in procedendo, sostiene che la sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che manchi nella specie la prova del trasferimento in Italia del centro degli affari ed interessi, sarebbe stata pronunciata in violazione del principio di non contestazione, posto che gli elementi di fatto dedotti sul punto dalla ricorrente non sarebbero mai stati contestati dall’amministrazione finanziaria e, pertanto, sarebbero da considerare pacificamente acquisiti e non necessiterebbero di essere ulteriormente provati. Con il secondo motivo, denunciando violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2 bis, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 3, la ricorrente assume di essere stata, nell’anno d’imposta 2001, fiscalmente residente in Italia alla luce di quanto stabilito dalla prima disposizione in rubrica, in quanto cittadina italiana cancellata dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrata in un paese (Svizzera) a fiscalità privilegiata, per cui sarebbe illegittima la tassazione sui dividendi da partecipazioni qualificate mediante ritenuta alla fonte a titolo d’imposta D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27, comma 3. Il secondo motivo del ricorso è fondato. Soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sono, a norma del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, comma 1, tanto i residenti che i non residenti in Italia. Per i primi, concorrono alla determinazione del reddito complessivo sia i redditi prodotti in Italia, che quelli prodotti all’estero (worldwide income taxation, “tassa- Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 775 zione del reddito mondiale”); per i secondi, sono tassati solo i redditi prodotti in Italia, con la frequente previsione, fra l’altro, di ritenute a titolo di imposta, che escludono cioè quei redditi dal concorso al reddito complessivo. Così è, ad esempio, per la previsione, al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27, comma 3, della ritenuta operata a titolo d’imposta e con l’aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti dalle società a soggetti persone fisiche (ma non solo) non residenti nel territorio dello Stato. Il successivo comma 2 dell’art. 2 stabilisce una presunzione – relativa – di residenza per “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Questa Corte ha in proposito chiarito che “qualora un soggetto, iscritto nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), intenda essere assoggettato, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, alla tassazione in Italia, sul presupposto di avere ivi il domicilio, deve, per superare la presunzione di conformità del dato anagrafico a quello reale, dimostrare in modo rigoroso che si trovi in Italia il centro dei suoi interessi, ossia il luogo con il quale ha il più stretto collegamento sotto il profilo degli interessi personali e patrimoniali” (Cass. n. 6934 del 2011). Il comma 2 bis – nel testo, applicabile ratione tenporis, introdotto con la L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 10, comma 1, – fissa una ulteriore presunzione relativa, stabilendo che “si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”. È indubitabile, come è stato osservato, che la cittadinanza italiana in tale ipotesi rileva non solo e non tanto come criterio di collegamento ai fini della tassazione, quanto piuttosto per prevenire il ricorso abusivo ai c.d. paradisi fiscali, cui il legislatore, come traspare dal tenore della norma, non guarda con favore. Le incertezze applicative della norma introdotta con il comma aggiunto nel 1998 all’art. 2 del tuir sembrano risiedere nella circostanza che alla residenza in Italia non necessariamente consegue, per talune specie di reddito, un trattamento fiscale più rigoroso, ma talvolta, come sembrerebbe ricorrere nella fattispecie, un regime impositivo più favorevole al contribuente. Ciò posto, e richiamata la ispirazione antielusiva in senso ampio, nei termini cui prima si è fatto cenno, della norma, il Collegio ritiene che il sistema sommariamente delineato non possa derogare ai principi sulla prova dettati dal codice civile. La prova costituisce infatti, in base all’art. 2697 c.c., un onere per il soggetto interessato a far valere gli effetti del fatto da provare, e quindi ad affermarlo, di guisa che alla parte interessata all’esistenza del rapporto spetta la prova del fatto costitutivo, e alla parte interessata al modo o all’inesistenza del rapporto spetta la prova del fatto impeditivo o modificativo o estintivo. Ora, mentre la presunzione di residenza in Italia, stabilita (art. 2727 c.c.) dal citato art. 2, comma 2 bis, del tuir ai fini delle imposte sui redditi per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un 776 RTDT - n. 3/2015 GIURISPRUDENZA regime fiscale privilegiato, affranca dall’onere della prova chi sia interessato a far valere tale fatto – nel caso in esame la contribuente –, la possibilità, espressamente offerta dalla norma (art. 2728 c.c.) alla parte interessata all’inesistenza del fatto – che nel caso in esame è l’ufficio finanziario –, di provare tale inesistenza, vale a dire di dare la “prova contraria”, comporta che il relativo onere gravi appunto sul fisco. A tale principio – dalla cui applicazione nella controversia discende l’individuazione del regime di tassazione dei dividendi percepiti e la decisione, nel concorso dei requisiti prescritti, in ordine alla domanda di rimborso – il giudice di merito non si è attenuto. Il secondo motivo del ricorso deve essere pertanto accolto, assorbito l’esame del primo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio, la quale procederà ad un nuovo esame della controversia attenendosi ai principi sopra enunciati. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, assorbito il primo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio. Così deciso in Roma, il 28 novembre 2013. Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2014 La presunzione di residenza fiscale in Italia può essere invocata anche a favore del contribuente The presumption of tax residence in Italy may be invoked also by the taxpayer Abstract Secondo la Corte di Cassazione, il contribuente può invocare la presunzione relativa di residenza in Italia ex art. 2, comma 2 bis, D.P.R. 22 dicembre 1986 (di seguito, TUIR), al fine di poter essere considerato residente fiscalmente in Italia. Ciò è consentito poiché i Supremi giudici ritengono applicabili alle presunzioni Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 777 tributarie le regole che governano le presunzioni civilistiche. In particolare, poiché le disposizioni del codice civile stabiliscono che le presunzioni legali esentano dal fornire ogni prova coloro in favore dei quali sono poste, i giudici di Cassazione ritengono che in relazione alla presunzione relativa di residenza fiscale in Italia delle persone fisiche può essere invocata tanto dall’Amministrazione finanziaria quanto dal contribuente, in quanto la presunzione non indica il soggetto che può invocarla. L’occasione offerta dalla sentenza in commento consente di affrontare, in primo luogo, il tema delle regole che presiedono alle presunzioni legali in campo tributario, nonché gli effetti che la sentenza produce su quelle che si definiscono presunzioni sostanziali (contrapposte a quelle procedurali) e la possibile applicazione dei principi enucleati nella sentenza anche ad altre presunzioni legali previste in campo tributario, con particolare riferimento alla presunzione di residenza fiscale dei soggetti IRES ex art. 73, comma 5 bis ss., TUIR. Inoltre, nel presente contributo saranno vagliati gli effetti della sentenza anche in relazione alla corretta individuazione della residenza del contribuente ai fini delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Parole chiave: residenza, presunzione, procedimentale, sostanziale, convenzione According to the Italian Supreme Court, it is possible for the taxpayer to invoke the rebuttable presumption of tax residence in Italy, pursuant to Art. 2, para. 2-bis, Presidential Decree No. 917 of 22 December 1986, in order to be considered resident in Italy for income tax purposes. The outcome of the judgment is based on the fact that the Italian Supreme Court (ISC) admits that provisions governing civil law presumptions shall apply also in the field of tax law. Since such rules provide that legal presumptions exempt the subject in favour of which they are provided from giving any evidence, the ISC considers that the aforementioned presumption may be invoke from each of the party involved in the lawsuit since the provision literally does not identify the subject in favour of which the presumption is provided. Such a decision may spread its effects also in the field of other tax presumptions provided in the tax system, and also the effects that the decision produces on “substantive” presumptions (opposite from “procedural” presumptions) and the possible application of principles laid down in the decision also to other tax presumptions, and, in particular, to the presumption of tax residence of corporate entities according to Art. 73, para. 5-bis et seq., Presidential Decree No. 917 of 22 December 1986. Furthermore, in this paper the author analyses the effects of the decision also in relation to the correct identification of the taxpayer’s residence according to the double tax treaties. Keywords: residence, presumption, procedural nature, substantive nature, tax treaty 778 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La sentenza. – 3. La residenza fiscale delle persone fisiche. – 4. La presunzione di residenza fiscale delle persone fisiche. – 5. Le presunzioni nell’ambito del diritto tributario. – 6. Le presunzioni di residenza tra natura sostanziale e natura procedimentale. – 7. Effetti sul piano convenzionale. – 8. Estensione degli effetti della pronuncia alle altre presunzioni relative: il caso della presunzione di residenza dei soggetti IRES. 1. Premessa La decisione dei giudici di Cassazione apre nuovi scenari in relazione all’applicazione della presunzione relativa di residenza fiscale in Italia di cittadini italiani ex art. 2, comma 2 bis, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito, TUIR o Testo Unico). In particolare, come si avrà modo di vedere nel proseguo del presente contributo, essa, oltre a confermare la tesi dominante in dottrina per cui alle presunzioni fiscali si applicano le regole del codice civile e, segnatamente, gli artt. 2727 e ss., comporta una valutazione degli effetti essenzialmente sotto due profili: gli effetti che una tale decisione pone in relazione alle convenzioni internazionali stipulate dall’Italia; e l’estensione delle regole civilistiche con riferimento alle altre presunzioni previste nell’ordinamento tributario ed, in particolare, quelle che qualificano la residenza fiscale dei soggetti IRES. 2. La sentenza La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha accolto il ricorso della contribuente riconoscendo che la presunzione prevista dall’art. 2, comma 2 bis, del TUIR può essere invocata dal contribuente piuttosto che dall’amministrazione finanziaria, posto che la predetta norma – non esplicitando il soggetto che può invocare la presunzione – esplica i propri effetti in funzione del soggetto che ne invoca l’applicazione. La vicenda riguarda, in particolare, una contribuente che, in relazione al periodo d’imposta 2001, aveva, da un lato, subito una ritenuta a titolo d’imposta del 27 per cento sui redditi (rectius, dividendi) percepiti in relazione al rapporto partecipativo in essere con una società italiana (la predetta ritenuta era, dunque, stata applicata sull’assunto che la contribuente risiedesse ai fini fiscali all’estero); dall’altro, la contribuente, ritenendo di essere per converso residente in Italia in relazione al predetto periodo d’imposta, aveva presentato autonoma dichiarazione dei redditi nella quale erano confluiti i summenzionati dividendi. In definitiva, il medesimo reddito veniva assoggettato a imposizione due volte: Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 779 una prima volta ad opera della società che aveva proceduto alla distribuzione dei dividendi, mediante applicazione di ritenuta a titolo d’imposta, e, una seconda volta, mediante autoliquidazione dell’imposta da parte della contribuente. Per tale ragione, la contribuente aveva presentato istanza di rimborso con la quale si chiedeva all’amministrazione finanziaria la restituzione delle somme versate a seguito di ritenuta a titolo d’imposta, in quanto non dovute. L’amministrazione finanziaria non diede seguito alla richiesta, cosicché la contribuente procedette a impugnare il silenzio-rifiuto dinnanzi al giudice di prime cure. In quella sede, la contribuente sostenne di doversi considerare residente fiscalmente in Italia ai sensi dell’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, nonostante avesse trasferito la propria residenza anagrafica in Svizzera. Il ricorso alla predetta presunzione, in particolare, si era reso necessario poiché la contribuente non era stata in grado di provare la propria residenza in Italia secondo i tradizionali criteri di collegamento (ella, in particolare, non aveva osservato le procedure previste al fine di acquisire formalmente la residenza in Italia). Il giudice a quo rilevava la spettanza del rimborso alla contribuente. Tuttavia, in luogo della restituzione delle somme prelevate a titolo di ritenuta, disponeva il rimborso delle imposte liquidate in sede di dichiarazione. La summenzionata decisione si fondava sul fatto che la contribuente, in relazione ai fatti del processo, pur essendosi trasferita in Italia, non aveva ancora formalizzato il trasferimento mediante apposita cancellazione dall’AIRE ed iscrizione della stessa nelle anagrafi della popolazione residente in Italia. Niente, per converso, veniva detto circa la possibilità per la contribuente di invocare la presunzione di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR. Nel ricorso avverso la sentenza di primo grado, il giudice di seconde cure, rilevato che la finalità della norma invocata dalla contribuente era quella di contrastare fenomeni di trasferimento fittizio di residenza in Paesi a fiscalità privilegiata da parte di cittadini italiani, osservava che: – l’amministrazione finanziaria non doveva fornire alcuna prova certa circa la residenza all’estero della contribuente posto che essa non contestava alla contribuente la residenza all’estero, bensì la residenza in Italia; – la contribuente non aveva fornito prova certa del fatto che, pur avendo mantenuto formalmente la propria residenza all’estero, avesse trasferimento il centro dei propri interessi in Italia, ma, per converso, in sede di dichiarazione dei redditi aveva compilato i quadri relativi ai soggetti residenti all’estero, talché era la stessa contribuente a ritenere che, per il predetto periodo d’imposta, non era residente in Italia. Da tali osservazioni scaturiva, secondo i fatti rappresentati nella sentenza della Corte di Cassazione, la conferma della sentenza di primo grado. La controversia giungeva in Cassazione. In tale sede, la contribuente contestava il fatto che gli elementi di fatto (non esplicitati nel testo della sentenza) portati a 780 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 sostegno dell’effettiva residenza in Italia – prescindendo dalla mancata osservanza delle procedure ordinariamente previste per acquisire la residenza in Italia – non erano stati contestati dall’amministrazione finanziaria e, dunque, secondo la ricorrente vi era stato un errore nel processo di secondo grado tale da comportare una violazione del principio di non contestazione. Più in particolare, non essendo stati posti in discussione da parte dell’amministrazione finanziaria i fatti rappresentati dalla contribuente, essi dovevano ritenersi acquisiti e non necessitavano di ulteriore prova. Inoltre, con il secondo motivo del ricorso veniva ribadito da parte della contribuente il fatto di essere fiscalmente residente in Italia nel periodo d’imposta oggetto di contestazione, ai sensi della già ricordata presunzione di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR. I giudici di Cassazione accolgono tale ultimo motivo di ricorso. In primo luogo, i giudici di legittimità rilevano che sono soggetti passivi tanto i residenti quanto i non residenti. La qualificazione dei soggetti passivi in residenti e non residenti, tuttavia, comporta un diverso sistema di tassazione: i primi (i.e., i residenti) sono assoggettati a imposizione per i redditi ovunque prodotti; mentre, i secondi (i.e., i non residenti) solo per i redditi di fonte italiana. In relazione ai soggetti passivi persone fisiche, i giudici rilevano che – oltre ai tradizionali criteri di collegamento, fissati dall’art. 2, comma 2, del TUIR – bisogna prendere in considerazione anche la presunzione relativa fissata dall’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, per stabilire la residenza ai fini fiscali in Italia. Più in particolare, i giudici, pur sottolineando la ratio della disposizione, prendono atto che il sistema delle imposte dirette non necessariamente prevede un trattamento meno favorevole per il contribuente residente rispetto a quello non residente e, dunque, la residenza all’estero non necessariamente deve rappresentare un’ipotesi di “elusione“, bensì si potrebbero avere delle situazioni di segno opposto. In relazione alla presunzione di cui al citato art. 2, comma 2 bis, del TUIR, inoltre, secondo i giudici di Cassazione non è ammissibile una deroga ai principi sulla prova dettati dal codice civile. In tal senso, la Suprema Corte, richiamando l’art. 2697 c.c., rileva che «la prova costituisce (...) un onere per il soggetto interessato a far valere gli effetti del fatto da provare, e quindi ad affermarlo, di guisa che alla parte interessata all’esistenza del rapporto spetta la prova del fatto costitutivo, e alla parte interessata al modo o all’inesistenza del rapporto spetta la prova del fatto impeditivo o modificativo o estintivo». È, sulla scorta di tali osservazioni, dunque, che i giudici affermano che, nel caso in cui trovi applicazione la norma de qua, la parte interessata a far valere la norma (chiunque essa sia) è affrancata dall’onere di provare il fatto di essere residente in Italia; mentre, la parte che intende provare l’inesistenza del fatto dedotto nella presunzione è invitata a fornire le prove di fatti o atti che possano far venire meno il collegamento tra fatto noto e fatto ignoto individuato dal legislatore secondo l’adagio latino id quod plurenque accidit. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 781 3. La residenza fiscale delle persone fisiche L’art. 2, comma 2, del TUIR, stabilisce che «le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile» sono fiscalmente residenti in Italia e, dunque, i redditi ovunque prodotti sono assoggettati a imposizione in Italia salvo, per quelli prodotti all’estero, l’eventuale riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero in relazione ai medesimi redditi 1. La funzione svolta dalla menzionata disposizione è quella di individuare tra i soggetti passivi del tributo quelli che, considerati residenti, saranno assoggettati a imposizione in relazione ai redditi ovunque prodotti; mentre, nel caso i soggetti passivi si qualifichino come soggetti non residenti, essi saranno assoggettati a imposi1 La definizione di residenza fiscale delle persone fisiche è stato ampiamente trattato nella manualistica di settore nonché in una vasta produzione dottrinaria. A mero titolo indicativo si rammentano i contributi di BAGGIO, Il principio di territorialità e i limiti della potestà tributaria, Milano, 2009, p. 269 ss.; BORIA, Il sistema tributario italiano, Torino, 2008, p. 196 ss.; D’AMATI, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1992, p. 7 ss.; DELLA VALLE, Come gli interessi familiari incidono sulla residenza fiscale, in Corr. trib., 2001, p. 302 ss.; FICARI-PAPARELLA, L’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), in FANTOZZI (a cura di), Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 793; PANSIERI, Il presupposto di fatto dell’Irpef e i soggetti passivi, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte Speciale, Padova, 2005, p. 53 ss.; FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004; ID., Il sistema dell’imposta sul reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2009, p. 79 ss.; GAFFURI, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, p. 127 ss.; GARBARINO, “Economic allegiance” e dimora nel territorio dello Stato per più di sei mesi nell’anno, in Dir. prat. trib., 1991, II, p. 537; GUSMEROLI, Italian Domicile and Centre of Vital Interests: An Emigrant’s Nightmare, an Immingrant’s Dream, in European Taxation, 2009, p. 50 ss.; MAGNANI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle persone fisiche, in Il Fisco, 2003, p. 4677 ss.; MARINO, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999; ID., La residenza, in UCKMAR (coordinato da), Diritto internazionale tributario, Padova, 2005, p. 345 ss.; ID., La residenza delle persone fisiche nel diritto tributario italiano e convenzionale, in Dir. prat. trib., 1994, I, p. 1364; MARINI, Art. 2 (soggetti passivi), in Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, a cura di Tinelli, Torino, 2009, p. 31 ss.; ID., Residenza fiscale, in Enc. giur. Treccani, 2009; MARONGIU, voce Domicilio, residenza e dimora nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1990, V, p. 143; LUPI, Territorialità del tributo, in Enc. Giur. Treccani, 1994, p. 4 ss.; MARONGIU, Domicilio, residenza, dimora nel diritto tributario, in Dig. IV disc. priv., sez. comm., 1990, V, p. 142; MELIS, La nozione di residenza fiscale nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. trib., 1995, p. 1034 ss.; PIANTAVIGNA, La funzione della nozione di “residenza fiscale” nell’Irpef, in Riv. dir. fin., 2013, p. 275 ss.; POZZO, Il principio della residenza ai fini dell’Irpef, in Dir. prat. trib., 1998, II, p. 1128; ID., L’attribuzione della residenza fiscale in Italia a cittadini italiani iscritti in anagrafi di Stati esteri, in Riv. giur. trib., 2000, p. 895 ss.; PUOTI, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Trattato di diritto tributario, a cura di AMATUCCI, Padova, 2001, p. 6; CARPENTIERI-STEVANATO-LUPI, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, p. 135 ss.; SACCHETTO, voce Territorialità (dir. trib.), in Enc. dir., 1992, XLIV, p. 313 ss.; SCHIAVOLIN, I soggetti passivi, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul reddito delle persone fisiche – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1994, p. 65; TARIGO, Il concorso dei fatti imponibili nei trattati contro le doppie imposizioni, Torino, 2008, p. 113 ss. 782 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 zione soltanto in relazione ai redditi prodotti in Italia, ossia in relazione a quei redditi che, ai sensi dell’art. 23 del TUIR, sono considerati di fonte italiana 2. Ai fini della determinazione della residenza in Italia del contribuente, sono previsti tre distinti criteri: – il primo, di natura formale, prevede che il soggetto passivo sia considerato residente in Italia quando iscritto nelle anagrafi della popolazione residente 3; – il secondo e il terzo, di natura sostanziale, stabiliscono che il soggetto passivo sia considerato residente in Italia ove abbia, rispettivamente, il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato in base al codice civile. La dottrina, in diversi contributi, ha ampiamente analizzato la scelta operata dal legislatore di individuare tramite i tre criteri di collegamento anzidetti la residenza ai fini delle imposte dirette del contribuente 4. Con il trascorrere del tempo, tuttavia, tali criteri hanno mostrato dei limiti nella misura in cui, attraverso pratiche consolidate di trasferimento fittizio della residenza in uno Stato con una pressione fiscale lieve o nulla rispetto a quella italiana, il contribuente riusciva a sottrarsi alla tassazione complessiva dei propri redditi in Italia giacché considerato non residente ai fini delle imposte dirette 5. Il compito dell’amministrazione finanziaria – teso a dimostrare la residenza fiscale del contribuente in Italia in base ai criteri ordinari – risultava particolarmente complesso. In tale contesto, infatti, la controversia tra amministrazione finanziaria e contribuente si riassumeva nella valutazione degli elementi probatori volti a dimostrare la residenza fiscale in Italia del contribuente 6. Si è, pertanto, assistito all’intervento del legislatore, il quale ha inteso contrastare tali fenomeni mediante una disposizione che – come si avrà modo di vedere nel paragrafo successivo – introduceva nel Testo Unico una presunzione legale relati2 Sulla crisi del principio di residenza come criterio di collegamento si rammenta l’autorevole contributo di SACCHETTO, L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione del reddito mondiale nel paese di residenza, in Riv. dir. trib. int., 2001, p. 35 ss. 3 Sulle problematiche di costituzionalità del predetto criterio si rinvia a MELIS, La nozione di residenza fiscale, cit., p. 1034 ss. 4 Si veda, in generale, LEO, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2014, p. 55; MARINO, op. cit.; MARINI, Art. 2, cit., p. 35 ss.; ID., Residenza fiscale, cit., passim.; MELIS, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2008, p. 136. 5 Su tali problematiche e sulle soluzioni adottate a livello di prassi e giurisprudenza prima dell’introduzione della presunzione in commento, si vedano ROTONDARO, The Pavarotti case: Decisions of the Tax Court of First Istance of Modena of 9 February 1999 and the Tax Court of Secondo Instance of Bologna of 27 March 2000, in European Taxation, 2000, p. 385 ss.; CERRATO, La residenza fiscale delle persone fisiche e gli indici rivelatori del centro principale egli affari ed interessi, in Riv. dir. trib., 2000, p. 19 ss. 6 Per un elenco degli elementi probatori di cui si avvale l’amministrazione finanziaria per dimostrare la residenza del contribuente in Italia si veda la Circolare 2 dicembre 1997, n. 304/E. V., sul punto, FREGNI, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. it., 2009, p. 2564 ss. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 783 va, la quale, spostando l’onere della prova in capo al contribuente, almeno nelle intenzioni, avrebbe consentito un più agile accertamento della residenza fiscale in Italia del contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria, in quanto il compito di quest’ultima si riduceva alla dimostrazione della sussistenza delle condizioni richieste dalla presunzione al fine di considerare il contribuente fiscalmente residente in Italia. 4. La presunzione di residenza fiscale delle persone fisiche Come accennato in precedenza, al fine di contrastare tali fenomeni, il legislatore fiscale è intervenuto in materia con l’art. 10, comma 1, L. 23 dicembre 1998, n. 448 7, il quale ha previsto l’inserimento del comma 2 bis nell’art. 2 del TUIR. Il nuovo comma recita: «si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministero delle Finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale» 8. Nelle intenzioni del legislatore fiscale, la finalità della predetta disposizione era quella di contrastare le summenzionate pratiche elusive 9. La disposizione, infatti, introduceva una presunzione relativa di residenza ai fini delle imposte sui redditi per i cittadini italiani che avessero trasferito la propria residenza o il proprio domi7 Successivamente modificato dall’art. 1, comma 83, lett. a), L. 24 dicembre 2007, n. 244. L’introduzione di una presunzione di residenza è comune ad altri ordinamenti. Norme simili a quella italiana, infatti, sono presenti in Canada, Germania e Spagna. In tal senso, si rinvia ai contributi rispettivamente di BROOKS, Chapter 13: Canada, in MAISTO (ed.), Residence of Individuals under Tax Treaty and EC Law, Amsterdam, 2010, p. 311; RUST, Chapter 15: Germany, in MAISTO (ed.), Residence of Individuals, cit., p. 369; NUNEZ GRANON, Chapter 19: Spain, in MAISTO (ed.), Residence of Individuals, cit., p. 513. Anticipando per un attimo il tema del rapporto tra presunzione relativa e le convenzioni internazionali, si rileva che tutti gli autori citati concordano nel fatto che a livello convenzionale tale presunzione non trovi applicazione. Tuttavia, Nunez Granon sottolinea come a livello convenzionale, la Spagna abbia stipulato accordi che, all’art. 4, prevedessero una ipotesi che – nei fatti – replicava la presunzione adottata a livello domestico. A tal proposito, si segnala PISTONE, Aspetti tributari del trasferimento di residenza all’estero delle persone fisiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2000, p. 264 ss., il quale, in relazione alle presunzioni di residenza adottate nell’ambito dell’ordinamento fiscale tedesco e spagnolo, conduce un’indagine comparata con la presunzione adottata in Italia. 9 Sulla natura antielusiva della norma v. PEZZUTO-SCREPANTI, Il nuovo regime della residenza fiscale delle persone fisiche, in Rass. trib., 1999, p. 424 ss.; MAISTO, La residenza fiscale delle persone fisiche emigrate in Stati o territori aventi regime tributario privilegiato, in Riv. dir. trib., 2009, IV, p. 52; MELIS, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, in Rass. trib., p. 1077 ss.; PISTONE, op. cit., p. 240 ss. Si vedano anche i contributi di TAZZIOLI, Determinazione della residenza ai fini IRPEF tra normativa interna e convenzioni internazionali, in Riv. giur. trib., 1999, p. 792 ss.; CHINETTI, Residenza fiscale all’estero: problematiche operative e posizione del contribuente, in Corr. trib., 1999, p. 3602 ss. 8 784 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 cilio in Paesi c.d. a fiscalità privilegiata, ossia in quei Paesi che generalmente hanno un sistema di imposizione nullo o lieve rispetto a quello italiano, individuati con apposito decreto del Ministero delle Finanze (D.M. 4 maggio 1999). La presunzione, dunque, si applica allorquando il soggetto passivo: (i) sia un cittadino italiano 10; (ii) si sia cancellato dall’anagrafe della popolazione residente; (iii) si sia trasferito in un Paese tra quelli individuati dal D.M. 4 maggio 1999 11. A fronte dell’automatismo della presunzione, viene offerta al contribuente la possibilità di fornire la prova contraria, ossia di dimostrare che la residenza fiscale effettiva del contribuente si trovi in uno Stato diverso dall’Italia 12. Sulla base della ricostruzione appena effettuata, dunque, si nota come il legislatore abbia omesso di indicare il soggetto che può avvalersi della predetta presunzione. Ciò nonostante, la dottrina ha ritenuto che essa fosse posta a favore dell’amministrazione finanziaria, in quanto – come si è avuto modo di osservare nel paragrafo precedente – con la predetta norma si intendeva sollevare l’amministrazione finanziaria dal dovere fornire la prova della residenza in Italia del contribuente 13. Nei primi commenti alla novità legislativa, la dottrina ha sottolineato come la presunzione introdotta dalla disposizione in commento, avesse la finalità evidentemente di tutelare gli interessi del Fisco, privilegiando «una “verità” (...), ammettendo tuttavia la possibilità che gli interessati dimostrino la mancata coincidenza tra la “verità” favorita dalla legge e quella reale». È stato, inoltre, sottolineato come la presunzione si basi sulla «preponderanza di possibilità, che spinge a considerare esistente ciò che è usuale (...) e a fare carico a chi nega di provare il non usuale» 14. Sempre nell’ottica che la presunzione fosse posta a beneficio dell’amministrazione finanziaria, è stato ulteriormente sottolineato che nulla sostanzialmente cam10 PISTONE, op. cit., p. 267, osserva che la decisione da parte del legislatore di assumere quale condizione rilevante ai fini dell’operare della presunzione la cittadinanza italiana del contribuente, anche laddove fosse giustificabile quale ulteriore elemento di scrematura tra i potenziali soggetti interessati dalla disposizione, in considerazione del fatto che la cittadinanza italiana evoca un indice di fittizietà non altrimenti riscontrabile nel trasferimento di un cittadino straniero (v., MAISTO, La residenza fiscale, cit., p. 54), risulta comunque irragionevole poiché crea una differenza di trattamento tra contribuenti. 11 Peraltro, nella predetta sequenza, la mancata iscrizione all’AIRE non rappresenta un impedimento affinché la presunzione esplichi i suoi effetti. Sulla rilevanza o meno dell’iscrizione nelle anagrafi degli italiani residenti all’estero si vedano le interessanti osservazioni di PISTONE, op. cit., p. 283. 12 V., sul tema, CTR Bologna, sent. 16 giugno 2011, n. 95/15/11. 13 V. FREGNI, op. cit., p. 2571. SACCARDO, Brevi note in tema di doppia residenza convenzionale e accertamento sintetico, in Riv. dir. trib., 2001, IV, p. 32; ID., Considerazioni in materia di perdita e acquista della residenza in corso d’anno, in Riv. dir. trib., 2000, IV, p. 63. 14 MELIS, op. ult. cit., p. 1084. PISTONE, op. cit., p. 264, afferma che «L’introduzione dell’art. 2, c. 2 bis nel TUIR 917/86 si inquadra nel programma governativo di rafforzamento degli strumenti per la lotta all’elusione ed all’evasione fiscale, che ha portato all’introduzione di vari provvedimenti normativi in materia di accertamento. Nonostante questa sua funzione, vi è che tale norma si sostanzia pur sempre nello spostamento dell’onere della prova dall’amministrazione finanziaria al contribuente che ha trasferito la propria residenza in un regime fiscale privilegiato». Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 785 bia nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, nella misura in cui, pur consentendo all’amministrazione finanziaria di limitarsi alla raccolta delle informazioni necessarie al fine di provare il “fatto noto” della presunzione, la stessa prosegue nella raccolta di ulteriori informazioni volte, in ogni caso, a provare la residenza fiscale del contribuente in Italia, in base al criterio di collegamento della residenza o del domicilio, così come indicato all’art. 2, comma 2, del TUIR 15; per il contribuente resta la possibilità di provare, come già avveniva in passato, la residenza all’estero mediante l’esibizione di prove a sostegno di tale assunto 16. A differenza del passato, tuttavia, il contribuente, da un lato, viene privato della possibilità di attuare una strategia tesa soltanto a confutare gli elementi di prova esibiti dall’amministrazione finanziaria; mentre, dall’altro, viene richiesto di provare di non essere né residente né domiciliato in Italia 17. Infine, la dottrina ha posto in evidenza la singolare scelta del legislatore in relazione alla determinazione della residenza fiscale del contribuente in Italia; e, invero, la norma de qua introduce una presunzione relativa riguardante i cittadini italiani iscritti all’AIRE, così che viene concessa la possibilità al medesimo di provare l’effettiva residenza in altro Stato; mentre, ai medesimi fini, uno dei criteri individuati dal legislatore per la definizione della residenza fiscale in Italia si fonda su una presunzione assoluta ovverosia l’iscrizione del contribuente nelle anagrafi della popolazione residente 18. Nonostante la disamina dei profili critici affrontati dalla dottrina – come detto – nessuno degli autori citati ha affrontato il tema della invocabilità della predetta presunzione da parte del contribuente. 5. Le presunzioni nell’ambito del diritto tributario Il tema delle presunzioni in ambito tributario è un tema che ha impegnato la dottrina sotto diversi fronti 19. Tuttavia, pare comune agli studiosi individuare nelle 15 V., in giurisprudenza, Cass., sent. 21 gennaio 2015, n. 961, con nota di ANTONINI-SETTI, in Corr. trib., 2015, p. 690 ss. 16 V., in giurisprudenza, Cass., sent. 31 marzo 2015, n. 6501 con nota di ANTONINI-PIANTAVIGNA, in Corr. trib., 2015, p. 1491 ss. 17 Secondo la dottrina, l’inversione dell’onere della prova limita le strategie processuali del contribuente. Tuttavia, la formulazione della presunzione fa comunque ritenere che essa sia sostanzialmente inefficace sul piano processuale, posto che il giudice, in base alle prove fornite dalle parti, continuerà a formare il proprio giudizio esattamente come avveniva in passato. V. MELIS, op. ult. cit., p. 1086 ss. 18 MELIS, op. ult. cit., p. 1083. Una breve ricognizione degli ulteriori aspetti critici della disposizione in commento è effettuata da FRANSONI, 2 Soggetti passivi, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di Fantozzi, Padova, 2010, p. 25 ss. 19 Il tema è stato oggetto di diversi interventi in dottrina. Fra i tanti, si rinvia ai contributi di FRANSONI, Sulle presunzioni legali nel diritto tributario, in Rass. trib., 2010, p. 603 ss.; MARCHESELLI, Le 786 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 norme civilistiche le caratteristiche nonché gli elementi essenziali delle presunzioni anche in seno al diritto tributario. Come è noto, ai sensi dell’art. 2727 c.c., le presunzioni si definiscono come la conseguenza che la legge o il giudice trae da un “fatto noto” per risalire a un “fatto ignoto”. In altri termini, la struttura della presunzione postula un ragionamento che, partendo da un “fatto noto”, giunge alla determinazione del “fatto ignoto” 20. Elementi essenziali, dunque, delle presunzioni sono: (i) il “fatto noto”; e (ii) il “nesso di causalità” che permette di risalire dal “fatto noto” al “fatto ignoto”. Mentre il primo dei due elementi si deve caratterizzare per essere certo e oggettivamente determinabile; il secondo elemento non implica un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale; tuttavia, il fatto da provare deve essere desumibile dal fatto noto come «conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità» (per sintetizzare tale concetto si suole citare il brocardo latino id quod pluremque accidit) 21. Le presunzioni, a loro volta, si distinguono in semplici e legali. Si definiscono presunzioni semplici le presunzioni operate dal giudice; mentre si definiscono presunzioni legali le presunzioni introdotte dalla legge. Gli artt. 2728 e 2729 c.c. disciplinano le due categorie di presunzioni. In particolare, l’art. 2728 c.c. regola le ipotesi di presunzioni legali prevedendo che «Le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. Contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiari nulli certi atti o non ammetta l’azione in giudizio non può essere data prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge stessa». Pertanto, secondo la suddetta disposizione le presunzioni legali possono, a loro volta, distinguersi in assolute (praesumptio iuris et de iure) o relative (praesumptio iuris tantum): per le prime non è ammessa prova contraria; mentre, per le seconde, la prova contraria è ammessa. Per quanto attiene alle presunzioni semplici, esse sono regolate dall’art. 2729 c.c., presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2009; CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005; AA.VV., Le presunzioni in materia tributaria, a cura di Granelli, Rimini, 1987; GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1983; TINELLI, voce Presunzioni (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, 2009; VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007. In merito al tema sotto il profilo civilistico si rinvia ai contributi di CORDOPATRI, voce Presunzioni (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 1986; ANDRIOLI, voce Presunzioni (dir. civ. e dir. proc. civ.), in Noviss. Dig. it., 1966, XIII, p. 766 ss. Per quanto concerne i profili di costituzionalità delle presunzioni, si rinvia a DE MITA, Sulla costituzionalità delle presunzioni fiscali, in ID., Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006, p. 339 ss. 20 MARCHESELLI, op. cit., p. 19 ss. 21 MARCHESELLI, op. cit., p. 19 ss. Secondo FRANSONI, op. loc. ult. cit., p. 605 ss., osserva che «accanto alle presunzioni legali relative – in cui l’effetto della norma “presuntiva” è un “fatto”, ossia ciò assume il ruolo di fattispecie rispetto ad altra norma – vi sono altre presunzioni che ricollegano al fatto noto un effetto (sia pure nel senso ampio prima indicato, ossia ciò che, rispetto ad altra norma, assume ruolo di conseguenza del verificarsi della fattispecie ivi disciplinata)». In tale ambito, ricadrebbero le presunzioni relative di residenza fiscale dei soggetti IRES di cui all’art. 73 del TUIR. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 787 il quale prevede che «Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti». Ciò detto, occorre rilevare il fatto che tra gli elementi essenziali della presunzione alcun rilievo assume il soggetto attivo ossia il soggetto che può avvalersi della presunzione. Si tratti, infatti, di presunzioni semplici o legali, nulla sul piano civilistico si prevede in relazione al soggetto che se ne può avvalere, lasciando casomai al legislatore l’onere di determinare in seno alla disposizione che introduce una presunzione l’individuazione del soggetto a favore del quale la presunzione è prevista 22. In tal senso, soffermandosi al mero dato letterale, dovrebbe dedursi che la presunzione legale, ove non indichi il soggetto che se ne può avvalere, può essere invocata da entrambe le parti a proprio favore, venendo in tal senso dispensati dal fornire ulteriori prove circa un determinato atto o fatto. Occorre rilevare che nella dottrina tributaristica l’attenzione rispetto al tema delle presunzioni si è sovente soffermata sulla struttura della presunzione senza dare particolare rilievo al soggetto che se ne poteva avvalere. Nelle indagini operate dalla dottrina, invero, il dato ricorrente riguarda il fatto che, in generale, le presunzioni – seppur prive dell’indicazione circa il soggetto che se ne possa avvalere – vengono introdotte nell’ordinamento al fine di sottrarre l’amministrazione finanziaria, alla quale è demandato l’onere della prova della pretesa tributaria, dal dovere fornire prova circa i rilievi che vengono mossi nei confronti del contribuente. Talché se ne è dedotto che tali presunzioni sono essenzialmente pro fisco 23. Dunque, sotto questo profilo la sentenza in commento introduce una novità di particolare rilievo, in quanto consente – in ambito tributario – a ciascuna parte del processo di potere invocare l’applicazione di una presunzione in assenza di una precisa identificazione del soggetto a favore del quale essa è posta. Va, inoltre, dato atto ai giudici di avere fatto chiarezza nell’applicabilità della disciplina civilistica delle presunzioni anche in relazione a quelle che trovano applicazione in campo tributario 24. 22 ANDRIOLI, op. cit., p. 766; TARUFFO, Presunzioni, I, Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 2010, p. 3. 23 Secondo ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, p. 389, l’introduzione di presunzioni relative con conseguente inversione dell’onere della prova si spiega con la naturale e “ordinaria” incombenza dell’onere della prova in capo all’Amministrazione finanziaria. L’autore, infatti, spiega che essa può essere l’unica finalità che sorregge tale intervento normativo. Non avrebbe, infatti, senso prevedere, a favore dell’amministrazione finanziaria, una simile semplificazione e inversione degli oneri probatori se non nell’ottica di sollevare la stessa dal dovere provare in via ordinaria fatti e circostanze rilevanti fiscalmente. Condivide sostanzialmente il punto di vista dell’Autore GENTILLI, op. cit., p. 10 ss. 24 Sul punto si veda anche ANTONINI-SETTI, La presunzione di residenza tra regola di riparto dell’onere probatorio e opponibilità all’Amministrazione finanziaria, in Riv. giur. trib., 2015, p. 129 ss. 788 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 6. Le presunzioni di residenza tra natura sostanziale e natura procedimentale Le presunzioni, siano esse relative o assolute, possono inserirsi a livelli diversi nella fattispecie tributaria. Infatti, uno dei problemi più rilevanti della tecnica normativa consiste nella modalità di rappresentazione giuridica del fatto fiscalmente rilevante e la predisposizione di strumenti che consentano l’accertamento del fatto. Da tali premesse sorge in dottrina il problema di individuare la natura delle presunzioni. In tal senso, si suole distinguere le presunzioni a seconda che le stesse intervengano nella costruzione della fattispecie tributaria ovvero che si risolvano nella previsione di una particolare disciplina probatoria, che agevoli l’accertamento del fatto ignorato valorizzando ulteriori fatti in una qualche connessione con il fatto da accertare. Le presunzioni del primo tipo ineriscono alla fattispecie tributaria e, dunque, assumono rilevanza ai fini applicativi, quelle del secondo tipo attengono alla formazione di un convincimento in sede amministrativa o giudiziale riguardo l’esistenza o al modo di essere di un elemento del presupposto dalla fattispecie. Essa, dunque, sposta la questione dal diritto, rilevante invece nella presunzione del primo tipo, ad un accertamento di mero fatto 25. 25 Secondo TINELLI, voce Presunzioni, cit., nel primo caso la presunzione sarebbe diretta alla «costruzione di una fattispecie tributaria che, pur contemplando un fatto come presupposto d’imposizione, in concreto ne svaluti la rilevanza, presumendone la ricorrenza in presenza di elementi della fattispecie di più facile accertamento in fatto»; mentre, nel secondo caso, essa si risolverebbe nella «previsione di una particolare disciplina probatoria che agevoli l’accertamento del fatto ignorato valorizzando ulteriori fatti in una qualche connessione con il fatto da accertare». Secondo TRIMELONI, Le presunzioni tributarie, in Trattato di diritto tributario – Annuario, a cura di Amatucci, Padova, 2001, p. 699 ss., oltre alle summenzionate ipotesi, può verificarsi il caso di presunzioni con effetti di ordine sostanziale e procedimentale. L’Autore muove dall’idea che ogni modulo di presunzione tributaria risulta correlato ad un interesse sostanziale in esso tutelato, poiché la disciplina tributaria rappresenta un polo essenziale nel processo di attuazione dei principi costituzionali che reggono la normazione tributaria. In questa prospettiva, l’Autore osserva che: «quando il modulo della presunzione legale (assoluta o relativa) risulta inserito entro una previsione normativa in cui sono delimitati i presupposti di formazione dell’obbligazione tributaria, esso consente di designare i soggetti e gli elementi costitutivi (o strutturali) della ipotesi tributaria e della correlata fattispecie impositiva; in sintesi, con il modulo presuntivo si definiscono elementi di struttura della figura tributaria. Questa normativa tutela direttamente l’interesse fiscale, in ordine all’attuazione del principio costituzionale del dovere generale di contribuzione in ragione della capacità contributiva e del principio di uguaglianza; quando il modulo della presunzione legale (relativa) o semplice è assunto, invece, nella disciplina normativa concernente rapporti o situazioni che involgono l’accertamento oppure la realizzazione (anche coattiva) della figura tributaria (riscossione, ecc.), la normativa che lo prevede, pur riflettendo l’attuazione dell’interesse fiscale – sotto il profilo della puntuale e sollecita acquisizione all’ente impositore del provento della prestazione tributaria – attua principalmente il precetto costituzionale di tutela dei diritti e degli interessi, che risulta condensato nell’art. 24 Cost.». Contra, TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, p. 131. Secondo tale Autore le presunzioni hanno sempre natura processuale e il parametro della loro costituzionalità dovrebbe ravvisarsi nell’art. 24 Cost. piuttosto che nell’art. 53 Cost. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 789 Alla luce delle suddette premesse teoriche, si deve rilevare come, nel caso delle presunzioni relative alla residenza fiscale ai fini delle imposte dirette, ad avviso di chi scrive, si verte in un caso di presunzione del primo tipo, posto che essa riguarda un elemento della fattispecie e, più precisamente, quello della residenza del soggetto passivo. Essa, infatti, operando a livello di qualificazione del soggetto passivo ne determina il trattamento fiscale applicabile (tassazione su base mondiale o territoriale), cosicché – sebbene non si possano ignorare gli ulteriori effetti sul piano procedimentale che la norma produce – è ragionevole affermare che essa abbia natura sostanziale 26. Tale natura deve, peraltro, ascriversi anche alla presunzione ex art. 73, comma 5 bis, del TUIR che, alla stregua di quanto detto a proposito dell’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, produce i suoi effetti sul piano della definizione della fattispecie tributaria con precipuo riferimento al soggetto passivo, nella misura in cui essa concorre a definire uno degli elementi costitutivi della fattispecie ossia la sede dell’amministrazione del soggetto passivo 27. 7. Effetti sul piano convenzionale Alla luce di quanto precede, risulta utile affrontare il tema degli effetti di tale decisione in rapporto alla determinazione della residenza fiscale del contribuente ai fini convenzionali. In altri termini, la questione, già in passato affrontata da parte della dottrina, deve essere affrontata non con riferimento alla possibilità delle autorità fiscale italiana di considerare il contribuente residente in Italia ai fini convenzionali facendo leva sulla presunzione relativa di cui al citato art. 2, comma 2 bis, del TUIR 28, tema già affrontato in dottrina. In tal sede, si intende valutare piutto26 V., a tal proposito, le osservazioni di PISTONE, op. cit., pp. 264-265. MELIS, La residenza fiscale dei soggetti Ires e l’inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 73, commi 5-bis e 5-ter t.u.i.r., in Dir. prat. trib., 2007 p. 828, osserva come una differenza tra le due norme consista nel fatto che la presunzione di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR interviene sull’aspetto dinamico (nel senso che considera residente il soggetto trasferitosi all’estero), mentre l’art. 73, commi 5 bis e 5 ter, del TUIR intervengono sotto il profilo statico ossia nel rapporto esistente tra il soggetto residente e quello estero. Lo stesso Autore rileva come la presunzione abbia valenza sostanziale (v. p. 860). CIPOLLA, op. cit., p. 628, ha chiaramente rilevato che, diversamente dalle presunzioni semplici, dove la questione verte sugli strumenti di conoscenza dei fatti di causa e, dunque, del mezzo di prova in senso stretto, nel caso delle presunzioni legali, ove il legislatore riconnette determinate conseguenze in via normativa al fatto indiziante, le quali troveranno automatica applicazione da parte del giudice nel caso in cui la parte onerata della prova non assolva il proprio onere dimostrativo, la norma dovrà ritenersi in primis operante sul piano sostanziale della fattispecie, sia pure con rilevanti effetti sul piano processuale. 28 Per quanto concerne il tema dei rapporti tra norma interna e norma convenzionale si vedano i contributi di MARINO, op. cit., p. 203; MAISTO, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Riv. dir. trib., 1998, IV, p. 217 ss.; SACCARDO, op. loc. cit., p. 33; PISTONE, op. cit., p. 240. 27 790 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 sto se, alla stregua della normativa italiana, il contribuente che si trovi all’estero possa pacificamente fare leva sulla disposizione di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, per essere considerato ai fini convenzionali residente in Italia nei rapporti con un altro Stato 29. In particolare, l’art. 4(1) del modello OCSE (la cui formulazione viene utilizzata dall’Italia sovente nella conclusione dei propri trattati) stabilisce che «the term “resident of a Contracting State” means any person who, under the laws of that State, is liable to tax therein by reason of his domicile, residence, place of management or any other criterion of a similar nature» (sottolineato aggiunto) 30. In tal senso, si è posto in dottrina la questione concernente la possibilità di annoverare tra i criteri di collegamento di natura simile a quelli dalla residenza e del domicilio per le persone fisiche anche la presunzione di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR. Come anticipato, la dottrina ritiene in generale che detta presunzione non assuma rilevanza ai fini della determinazione della residenza convenzionale del contribuente 31. La giurisprudenza, per converso, ammette, in via generale, la qualificazione del soggetto 29 Tale problematica assume rilevanza laddove si muova dall’idea che la presunzione in commento abbia natura sostanziale. Nella dottrina commerciale, in merito a tale tesi si veda da ultimo FABBRINI TOMBARI, Note in tema di presunzioni legali, in Riv. dir. proc. civ., 1991, p. 919 ss. In ambito fiscale si vedano le osservazioni a tal riguardo di MARCHESELLI, op. cit., p. 110 ss. 30 Secondo il commentario OCSE, l’espressione “altri criteri” dell’art. 4(1) del modello di Convenzione OCSE si riferisce ai soli criteri che mostrano una chiara connessione tra la persona e l’ordinamento di riferimento. Lo stesso Commentario, peraltro, aggiunge che tale espressione ricomprende casi ove una persona risulti, sulla base di una presunzione, essere un residente di uno Stato e, dunque, assoggettato ad imposizione piena. Il Commentario, secondo parte della dottrina (v. DORIGO, Chapter 16 – Italy, in MAISTO (ed.), Residence of Individuals Under Tax Treaties and EC Law, Amsterdam, 2009, p. 421), si riferirebbe invero alle ipotesi di tassazione dei diplomatici e degli altri soggetti a servizio del Governo dello Stato. È interessante rilevare come MARELLO, La residenza nelle convenzioni internazionali, in Giur. it., 2009, p. 2586 ss., circa la possibilità che la presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia del contribuente persona fisica sulla base della mera iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente possa essere invocata ai fini convenzionali, afferma che «In definitiva, a chi scrive la lettura preferibile sembra quella che ritiene plenipotente il rimando alla normativa nazionale e che vede nella elencazione di criteri [convenzionali, ndr] una mera esemplificazione che non chiude il sistema, il quale resta aperto ad ogni criterio che – alla luce delle legislazioni nazionali – conduce alla full tax liability». Contra, SACCARDO, op. ult. cit., p. 33; MAISTO, op. ult. cit., p. 225; MARINO, op. cit., p. 203. 31 La principale critica mossa all’ipotesi di considerare la presunzione alla stregua di un criterio similare a quello del domicilio o della residenza verte sul fatto che l’art. 4(1) del modello OCSE ammette la possibilità del ricorso ad altri criteri che condividano con il criterio del domicilio e della residenza la stessa natura di criterio sostanziale ossia di un criterio che sia in grado di far emergere un sostanziale collegamento del contribuente con il territorio dello Stato (v. sul punto MELIS, op. loc. ult. cit., p. 1090). Di avviso contrario PISTONE, op. cit., pp. 261-262, laddove l’autore nella ricostruzione di una ipotesi di imposizione del reddito da parte di entrambi gli Stati convenzionati per effetto della doppia residenza fiscale del contribuente in entrambi gli Stati, rileva che sul versante italiano il riconoscimento della residenza fiscale emergerebbe per effetto dell’applicazione dell’art. 2, comma 2 bis, del TUIR e che, dunque, esso assumerebbe rilevanza nella determinazione della residenza del contribuente ai fini convenzionali. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 791 quale residente in base a presunzione, prefigurando il sorgere di un problema di doppia residenza ai fini convenzionali 32. Laddove trovasse conferma l’orientamento giurisprudenziale anche nel caso della presunzione relativa di cui all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, tenuto conto della pronuncia in commento, sarebbe possibile per il contribuente – in linea di principio – invocare l’applicazione della disciplina de qua per far valere in sede di applicazione del Trattato la propria residenza in Italia nei confronti dello Stato della fonte. Ciò evidentemente non comporta automaticamente la residenza convenzionale in Italia in quanto l’altro Stato potrebbe, in base alla legislazione interna, ritenere, a sua volta, il contribuente residente in detto Stato. L’eventuale conflitto qualificatorio che ne scaturirebbe sarebbe, tuttavia, risolto dalle c.d. tie-break rules, attraverso le quali, accogliendo la qualificazione interna dei singoli Stati convenzionati, il conflitto che si viene a creare viene risolto sostanzialmente sulla base degli ulteriori criteri di collegamento definiti in sede convenzionale 33. 32 V. CTR Genova, sent. 19 maggio 2008, n. 38/12/2008. In relazione al caso di accertamento della residenza in base alla presunzione assoluta dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente v. Cass., sent. 16 gennaio 2015, n. 677 con commento di ROCCATAGLIATA, Norme interne e norme internazionali in tema di “residenza fiscale”: una convivenza dagli aspetti solo apparentemente conflittuali, in Giur. trib., 2015, p. 290 ss. V. anche Cass., sent. 20 aprile 2006, n. 9319, e sent. 3 marzo 1999, n. 1783. V. anche CTP Roma, sent. 6 dicembre 2011, n. 493; CTR Genova, sent. 13 luglio 2012, n. 87. Tali ultime sentenze, trattano del caso di residenza accertata in base all’art. 2, comma 2 bis, del TUIR. La problematica convenzionale viene, tuttavia, solo adombrata. La CTR Roma, sent. 15 dicembre 2014, n. 7564, afferma la necessità di procedere ad applicare i criteri fissati dall’art. 4 del modello OCSE per dirimere le controversie sorte per effetto del riconoscimento del soggetto passivo quale residente in Italia. In dottrina, DORIGO, op. ult. cit., p. 421. Tale ultimo autore cita a sostegno Cass., sent. 4 aprile 2000, n. 4112, riguardante il caso di un cittadino italiano trasferitosi in Svizzera che, a seguito di accertamento, viene considerato residente in Italia. Rispetto alla sentenza segnalata, tuttavia, non si rinvengono indicazioni utili per concludere nel senso voluto dall’autore, ossia della rilevanza della presunzione relativa ai fini della determinazione convenzionale della residenza del soggetto passivo. Si veda anche CTR Genova, sent. 10 febbraio 2015, b. 204. A tal proposito, si rileva che l’Agenzia delle Entrate, nella Circolare 24 giugno 1999, n. 140/E (par. 4), ha affermato che «In tale contesto di collegamento personale, è appena il caso di segnalare che, qualora il Paese fiscalmente privilegiato sia anche legato al nostro da convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi, ai fini della conferma o meno della residenza fiscale nazionale occorre ovviamente considerare, oltre ai presupposti interni, anche quelli di cui alla apposita clausola convenzionale (“residente di uno Stato contraente”) allo scopo di evitare la possibile insorgenza di una doppia residenza fiscale». Talché, sembrerebbe che l’amministrazione finanziaria consideri la predetta presunzione quale criterio di collegamento interno rilevante anche ai fini convenzionali, salvo poi precisare che, ai fini convenzionali, sarà necessario stabilire la residenza del contribuente tenendo conto degli ulteriori criteri indicati nella medesima Convenzione. Inoltre, nella Circolare 4 agosto 2006, n. 28/E (par. 8.4), in tema di presunzione di residenza dei soggetti IRES, afferma che le convenzioni «non interferiscono con i differenti criteri di collegamento soggettivi che ciascuno Stato seleziona per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio, limitandosi ad indicare quali elementi e circostante devono essere, prioritariamente, valutati in ipotesi di doppia residenza». 33 V. PISTONE, op. cit., p. 264 ss. 792 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Nel caso all’esame dei giudici della Suprema Corte, al fine di determinare il trattamento convenzionale dei redditi della contribuente occorre fare ricorso all’art. 4, par. 1, prima parte, della Convenzione tra Italia e Svizzera. Secondo tale articolo «Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “residente di uno Stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga». Dunque, anche in questo caso ci si trova dinnanzi ad una disposizione che accoglie oltre alla residenza e al domicilio anche l’ipotesi di criteri di natura analoga ai primi due. Seguendo la tesi giurisprudenziale menzionata in precedenza, si dovrebbe ritenere la contribuente residente in Italia per effetto di disposizione interna 34. Se la contribuente, a sua volta, fosse ritenuta fiscalmente residente in Svizzera in base alle norme interne svizzere, ci si troverebbe dinnanzi ad un caso di doppia residenza che andrebbe risolto sulla base dei criteri fissati nei successivi paragrafi dell’art. 4 della Convenzione Italia-Svizzera. In tal senso, la contribuente sarà considerata residente ai fini convenzionali nello Stato: – in cui possieda un’abitazione permanente ovvero, quando possiede un’abitazione permanente in entrambi gli Stati convenzionati, ove siano presenti relazioni personali ed economiche più strette (centro degli interessi vitali); – in cui soggiorni abitualmente, nel caso in cui non sia possibile determinare lo Stato in cui il contribuente ha il proprio centro di interessi vitali ovvero egli non abbia una abitazione permanente in alcuno degli Stati contraenti; – di cui abbia la nazionalità, nel caso in cui egli soggiorni abitualmente in entrambi gli Stati ovvero non soggiorni abitualmente in alcuno di essi; – in cui la residenza venga fissata in base ad accordo tra gli Stati convenzionati, ove possieda la nazionalità di entrambi gli Stati o di nessuno di essi. In tale contesto, perciò, l’intervento della presunzione relativa prevista dall’art. 2, comma 2 bis, del TUIR, permetterebbe alla contribuente di poter accertare la propria residenza sulla base di criteri di natura sostanziale di cui non si sarebbe potuta avvalere ove alla contribuente non fosse stato consentito invocare a suo vantaggio la predetta presunzione. Inoltre, non è trascurabile il vantaggio che un contribuente possa trarre dal fare leva sulla predetta norma italiana per invocare i trattati stipulati dall’Italia al fine di 34 Sulle possibili problematiche concernenti le violazioni del Trattato e di treaty override e, dunque, sulla possibilità che la disposizione interna non possa trovare applicazione sul piano convenzionale, in relazione ai trattati stipulati prima dell’introduzione nell’ordinamento interno di tale presunzione, pena la violazione dell’accordo convenzionale v. PISTONE, op. cit., p. 286. La funzione antielusiva assunta più di recente dalle convenzioni internazionali, così come rilevato dall’Autore, potrebbe, tuttavia, aprire scenari diversi in merito alla possibilità che tale presunzione possa trovare ingresso sul piano convenzionale. Cass., sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21438 793 ottenere un trattamento migliore sotto il profilo convenzionale rispetto a quello che potrebbe trarre dalle eventuali convenzioni stipulate dal Paese ove abbia trasferito la propria residenza ovvero in assenza di esse. Si pensi, invero, al caso di un cittadino italiano che sia emigrato in un Paese a fiscalità privilegiata privo di una Convenzione internazionale con il Paese della fonte (diverso dall’Italia) dei redditi del contribuente. In tal caso, avendo acquistato la residenza nel predetto Paese a fiscalità privilegiata, il contribuente non potrebbe beneficiare di alcuna riduzione del carico fiscale nello Stato della fonte del reddito come sovente avviene in presenza di una convezione contro le doppie imposizioni. Tuttavia, il contribuente potrebbe, sulla scorta di quanto detto in precedenza, invocare l’applicazione del Trattato stipulato dallo Stato della fonte con l’Italia considerandosi residente in Italia ex art. 2, comma 2 bis, del TUIR. Il profilo convenzionale, dunque, si arricchisce di una nuova prospettiva poco esplorata. Infatti, se il tema in passato si poneva in relazione all’ipotesi in cui il contribuente poteva dirsi residente in Italia solo a seguito della definizione dell’accertamento mediante il ricorso agli strumenti deflattivi del contenzioso ovvero per effetto di sentenza passata in giudicato, con l’effetto che solo dopo il riconoscimento (in via amministrativa o giudiziale) della residenza in Italia, era consentito al contribuente eccepirla in sede di applicazione della Convenzione internazionale; ora si pone il quesito se il contribuente possa eccepire la propria residenza in Italia ai fini convenzionali senza che sia avvenuto alcun accertamento di tale requisito da parte delle autorità preposte. In altri termini, il fatto stesso di essere nelle condizioni previste dalla norma sembrerebbe consentire al contribuente di richiedere la protezione prevista dal Trattato nei confronti dello Stato della fonte per il fatto di essere a tutti gli effetti della norma interna considerato residente in Italia. Ciò sarebbe possibile, infatti, laddove – come detto – si ritenesse che la norma de qua sia norma avente natura sostanziale, ossia concorra alla definizione del presupposto del tributo e segnatamente alla qualificazione del soggetto passivo quale residente o non residente. Dunque, accedendo a tale tesi, non vi sarebbe necessità di un accertamento da parte del giudice tributario della qualità di residente del contribuente, alla luce di quanto precede, ove sussistano i presupposti richiesti dall’art. 2, comma 2 bis, del TUIR per considerarlo residente. 8. Estensione degli effetti della pronuncia alle altre presunzioni relative: il caso della presunzione di residenza dei soggetti IRES La predetta sentenza apre, dunque, la strada alla possibilità non solo da parte dell’amministrazione finanziaria, bensì anche da parte del contribuente di invocare a proprio favore la presunzioni che sovente il legislatore introduce in materia di imposte dirette. Ciò rappresenterebbe un vantaggio soprattutto ove, mediante ri- 794 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 corso alle stesse, il contribuente possa ottenere benefici che lo stesso non potrebbe ottenere in virtù di una diversa qualificazione della sua situazione fiscale da parte dell’amministrazione finanziaria. Le conclusioni della sentenza annotata potrebbero, ad avviso di chi scrive, trovare applicazione, oltreché all’ipotesi di residenza della persona fisica, anche ai fini della determinazione della residenza dei soggetti IRES. Si pensi al caso della presunzione di cui all’art. 73, commi 5 bis ss., del TUIR, la quale prevede che laddove un soggetto fiscalmente residente in Italia eserciti un controllo ex art. 2359 c.c. su un soggetto estero il quale, alternativamente: – controlli, a sua volta, un soggetto italiano; o – abbia un organo di gestione composto per la maggior parte da membri residenti in Italia; – considera il soggetto estero, ai fini delle imposte dirette, fiscalmente residente in Italia e, dunque, assoggetto a imposizione, secondo le regole ordinarie, in relazione i redditi da esso ovunque prodotti 35. La suddetta presunzione, stando a quanto affermato dai giudici di Cassazione, dovrebbe condurre all’ipotesi in cui il soggetto estero, invocando a suo favore la presunzione di cui all’art. 73 del TUIR, possa beneficiare di un regime, quello domestico, che potrebbe essere – in linea di principio – più favorevole rispetto a quello applicabile ai soggetti non residenti. Massimo Pellecchia 35 Sulla presunzione in commento sono molteplici i contributi offerti dalla dottrina, valga qui segnalare quelli di MELIS, La disciplina fiscale dei soggetti Ires e l’inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 73, commi 5-bis e 5-ter, in Dir. prat. trib. int., 2007, p. 828 ss.; FRANSONI, Le modifiche alla disciplina dei fondi immobiliari, in Corr. trib., 2008, p. 2423 ss.; STEVANATO, La presunzione di residenza delle società esterovestite: prime riflessioni critiche, in Corr. trib., 2006, p. 2952 ss.; CAPOLUPO, La presunzione di residenza in Italia, in Il Fisco, 2006, p. 5069 ss.; ANTONINI, Note critiche sulla presunzione in tema di residenza fiscale di società ed enti introdotta dal d.l. 4 luglio 2006, in Riv. dir. trib., 2006, III, p. 179 ss.; BAGGIO, op. cit., p. 329; VIOTTO, Considerazioni di ordine sistematico sulla presunzione di residenza in Italia delle società holding estere, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 269 ss. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 – Pres. Squassoni, Rel. Aceto Reati tributari – Art. 11, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – Sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente – Rinuncia all’azione coattiva da parte della A.F. – Permanenza delle esigenze cautelari ex art. 321 c.p.p. – Insussistenza Poiché il profitto è pari all’imposta da pagare, è evidente che la riduzione di quest’ultima comporta la correlata diminuzione del profitto. Poiché il sequestro è stato adottato sulla ritenuta sussistenza del concreto pericolo che sui beni potessero essere compiuti ulteriori atti fraudolenti volti a frustrare l’efficacia della procedura di riscossione, anche la rinuncia, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, a ogni azione coattiva, nei confronti del contribuente, è circostanza che non può non essere valutata ai fini cautelari. (Omissis) CONSIDERATO IN DIRITTO 6. Quanto al merito della questione, osserva il Collegio che: 6.1. Secondo l’indirizzo consolidato di questa Corte, il reato di cui all’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è reato di pericolo e non di danno e non presuppone come necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione coattiva, essendo, invece, sufficiente l’idoneità, con giudizio ex ante, a rendere in tutto, o in parte inefficace l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria (così, da ultimo, Sez. 3 n. 39097 del 09/04/2013, Barel, Rv. 256376; Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251076). 6.2. Ciò perché il riferimento a tale procedura appartiene al momento intenzionale e non alla struttura del fatto e non vi è alcun riferimento alle condizioni previste precedentemente dall’art. 97, comma sesto, del d.p.r. n. 602 del 1973, come modificato dall’art. 15, comma quarto, della legge n. 413 del 1991 (ovvero alla avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o alla preventiva notificazione, all’autore della condotta fraudolenta, di inviti, richieste o di atti di accertamento) (Sez. 5, n. 7916 del 10/01/2007, Cutillo, Rv. 236053). 6.3. Il reato, dunque, sussiste a prescindere dalla fondatezza della pretesa erariale e dagli esiti, eventualmente favorevoli al contribuente, del contenzioso avente ad oggetto la pretesa erariale stessa. 6.4. L’interesse, oggetto di tutela diretta da parte della fattispecie incriminatrice in questione, infatti, non è il diritto di credito del fisco, ma la garanzia generica data dal patrimonio del contribuente al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto 796 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 o relativi interessi e/o sanzioni amministrative (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290/2011, Cualbu, cit.). 6.5. Il pagamento del debito, infatti, non opera come causa estintiva del reato (art. 13, comma 1, d.lgs., cit.), né la fattispecie è strutturata negli stessi termini in cui lo è quella di cui all’omologo reato di cui all’art. 388, comma 1, cod. pen., che individua nel mancato pagamento del debito il momento consumativo del reato (e, dunque, dell’offesa). 6.6. L’elemento soggettivo, pertanto, non è escluso dalla consapevolezza della bontà delle proprie ragioni, né dal fatto che tale convincimento possa trovare conferme nel successivo accertamento dell’infondatezza della pretesa erariale. 6.7. Il fine che tipizza l’offesa, infatti, è il mancato «pagamento», l’inadempimento, cioè, dell’obbligazione che ne è causa, a prescindere dalla fondatezza di quest’ultima. 6.8. Altri sono gli strumenti leciti messi a disposizione dall’ordinamento per contrastare, in modo legittimo, la pretesa erariale e sospenderne, eventualmente, l’immediata efficacia esecutiva. 6.9. Gli elementi valorizzati dal GIP di Catania per ritenere la sussistenza indiziaria del reato per il quale si procede sono più che sufficienti per condividere il giudizio di astratta sussumibilità del fatto nel reato ipotizzato, sotto ogni profilo, non essendo ictu oculi evidente l’insussistenza della volontà di sottrarsi al pagamento delle imposte (Corte Cost. 4 maggio 2007, n. 153; Sez. 1, n. 21736 dell’11/05/2007, Citarella, Rv. 236474; Sez. 6 n. 1653 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337). 7. È invece fondato il motivo legato alla sussistenza del periculum in mora. 7.1. Il decreto di sequestro è stato adottato, come visto, in funzione della confisca facoltatività di cui all’art. 240, comma 1, cod. pen. 7.2. La confisca facoltativa di cui all’art. 240, comma 1, cod. pen. è «misura di sicurezza patrimoniale fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità delle cose che servirono o furono destituite a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il profitto o il prodotto; talché l’istituto, che consiste nell’espropriazione di quelle cose a favore dello Stato, tende a prevenire la commissione di nuovi reati e, come tale, ha carattere cautelare e non punitivo, anche se, al pari della pena, i suoi effetti ablativi si risolvono in una sanzione pecuniaria» (Sez. U, n. 1 del 22/01/1993, Costa; Sez. 6, n. 24756 del 01/03/2007, Mauro Martinez). 7.3. Nel caso in esame, il pericolo è stato individuato nella possibilità che sugli immobili potessero essere compiuti ulteriori atti fraudolenti volti a frustrare l’efficacia della procedura di riscossione in atto. 7.4. Il Tribunale del riesame, investito della specifica questione, ha affermato che non si può procedere alla riduzione del valore dei beni sequestrati perché, non vertendosi in tema di sequestro per equivalente, oggetto del sequestro è il profitto e, dunque, i beni oggetto di trasferimento nella loro interezza. 7.5. Il ragionamento è errato sotto un duplice profilo. 7.6. Per un primo aspetto, il tribunale non considera che le vicende successive al trasferimento dei beni hanno inciso notevolmente sull’entità del profitto, riducendolo. 7.7. Poiché il profitto è pari all’imposta da pagare, è evidente che la riduzione di quest’ultima comporta la correlata diminuzione del profitto. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 797 7.8. Sotto altro profilo, non considera che le vicende che hanno condotto a una sostanziosa riduzione del debito, alla cancellazione dell’ipoteca apposta sugli immobili e alla concessione della rateizzazione del debito, devono essere esaminate al fine di valutare la persistente concretezza e attualità del periculum (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003, Innocenti, Rv. 223721). 7.9. Poiché il sequestro è stato adottato sulla ritenuta sussistenza del concreto pericolo che sui beni potessero essere compiuti ulteriori atti fraudolenti volti a frustrare l’efficacia della procedura di riscossione, anche la rinuncia, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, a ogni azione coattiva, nei confronti del contribuente, è circostanza che non può non essere valutata ai fini cautelari. 7.10. Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Catania che dovrà procedere a nuovo esame alla luce dei principi sopra espressi. (Omissis) Reati tributari, sequestro preventivo e attualità delle esigenze cautelari Tax crimes, preventive seizure and actuality of the precautionary needs Abstract La disciplina della confisca per equivalente seguente all’adozione del sequestro preventivo appariva da ripensare in considerazione del fatto che oggetto della confisca (il profitto) e dell’obbligazione tributaria (l’imposta evasa) coincidono, così da comportare, sul piano sanzionatorio, un meccanismo oltremodo afflittivo per il reo, in contrasto col principio di proporzionalità e ragionevolezza della sanzione indicato dalla legge delega. Apprezzabile si rivela la scelta del legislatore delegato di escludere l’applicazione della confisca a fronte dell’impegno da parte del contribuente a versare, in tutto o in parte, quanto dovuto soprattutto ove si valorizzasse la possibilità per la parte di ottenere il dissequestro dei propri beni al fine di soddisfare la pretesa erariale. Parole chiave: reati tributari, sequestro per equivalente, confisca, esigenze cautelari, duplicazione sanzionatoria 798 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 The discipline of the seizure by equivalent is likely to be reconsidered in the light of the fact that the object of confiscation (the profit) and of the tax liability (the unpaid tax) coincide, therefore realizing, in terms of penalties, an excessive punitive result for the taxpayer, in violation of the principle of proportionality and reasonableness of the penalty specified by the enabling act. Appreciable is the choice of the legislator to exclude the application of seizure if the taxpayer undertakes to pay, in whole or in part, the amount due especially if it would valorise the possibility to obtain the revocation of the seizure of its assets in order to satisfy the tax claim. Keywords: tax crimes, seizure by equivalent, confiscation, precautionary needs, duplication of penalties SOMMARIO: 1. La fattispecie decisa dalla Suprema Corte. – 2. I presupposti per l’applicazione (e il mantenimento) del sequestro preventivo nei reati tributari e, in particolare, nel caso di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. – 3. La differente incidenza degli eventi successivi all’adozione del sequestro. La dilazione e il pagamento del debito. – 3.1. Segue: la rideterminazione concordataria della pretesa. – 3.2. Segue: le pronunce interlocutorie delle Corti di merito. – 3.3. Segue: sequestro preventivo, accordi di ristrutturazione e procedure concorsuali. – 4. Considerazioni conclusive. 1. La fattispecie decisa dalla Suprema Corte Le vicende che riguardano l’applicazione del sequestro preventivo, che – ormai di regola, per il combinato disposto di cui agli artt. 321 c.p.p., 322 ter c.p. e 1, comma 143 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 – si accompagna quale misura cautelare reale accessoria in presenza del fumus di un illecito tributario, rappresentano un particolare angolo visuale dal quale apprezzare la tenuta, o più sovente, la cedevolezza del c.d. “doppio binario” penal-tributario. La sentenza in esame costituisce l’occasione per riflettere sulle possibili interazioni che gli accadimenti che in vario modo incidono sul rapporto tributario riverberano ai fini dell’apprezzabilità dei presupposti richiesti per la concessione (e il mantenimento) del vincolo cautelare, anche alla luce delle novità apportate alla disciplina della confisca obbligatoria nel caso di reati tributari dalla recente riforma fiscale 1. 1 Da un lato, l’art. 14 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, dettato in attuazione dell’art. 8 della legge di delega fiscale n. 23/2014, ha abrogato l’art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244 e dall’altro, l’art. 10, comma 1 dello stesso decreto ha inserito, nel D.Lgs. n. 74/2000, l’art. 12 bis (Confi- Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 799 In particolare, la Cassazione perviene all’annullamento con rinvio del gravame valorizzando il fatto che, da un lato, il debito fosse stato assai ridimensionato nel contraddittorio con l’Ufficio e, dall’altro, che in pendenza della rateizzazione della residua pretesa, l’Amministrazione finanziaria avesse rinunciato alla garanzia ipotecaria iscritta sugli immobili di proprietà dell’indagato; circostanze queste invece non tenute in debito conto dal GIP e tanto meno dal Tribunale del riesame sul presupposto che la fattispecie di cui all’art. 11, D.Lgs. n. 74/2000, reato di pericolo e non di danno 2, non richiede la pendenza di una procedura di riscossione dovendosi, invece, valutare con giudizio ex ante il paventato pericolo del compimento di atti fraudolenti (ulteriori oltre a quelli già intercorsi tra l’indagato e la moglie) volti a frustrare l’efficacia della procedura di riscossione. 2. I presupposti per l’applicazione (e il mantenimento) del sequestro preventivo nei reati tributari e, in particolare, nel caso di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte Come noto, già prima della novella, l’art. 1, comma 143 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 ha esteso a decorrere dal 1° gennaio 2008 3 anche ai reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del D.Lgs., 10 marzo 2000, n. 74 l’applicazione della confisca obbligatoria per equivalente ex art. 322-ter c.p., misura ablativa che segue al sequestro preventivo, anch’esso disposto per equivalente da parte del giudice per le indagini preliminari. La previgente disciplina della confisca è stata sostanzialmente recepita dal neo introdotto art. 12 bis 4 e trova ora una collocazione sistematica nell’ambito che le è sca) che così dispone: «1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. 2. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta». 2 Come, invece, la fattispecie fraudolenta nell’ambito della transazione fiscale, disciplinata dal comma 2, dell’art. 11, D.Lgs. n. 74/2000. 3 Stante la natura afflittiva e sanzionatoria della misura, la Corte costituzionale ne ha escluso l’applicazione retroattiva in ossequio all’art. 25, comma 2, Cost. con l’ordinanza resa il 2 aprile 2009, n. 97, in Corr. trib., 2009, p. 1780 con nota di CORSO, La confisca “per equivalente” non è retroattiva, ed ivi, p. 1775. 4 La disciplina è pressoché speculare a quella previgente, salvo la previsione del dissequestro finalizzato al pagamento del debito erariale di cui al comma 2 dell’art. 12 bis (v., infra, par. 3) e l’estensione generalizzata a tutte le fattispecie delittuose previste dal D.Lgs. n. 74/2000 e, dunque, anche al delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10, prima non contem- 800 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 proprio, quello del D.Lgs. n. 74/2000, anche nella forma della confisca “diretta” del prezzo o profitto del reato 5. Il sequestro preventivo è dunque una prassi ricorrente ogni qual volta, di norma all’esito del p.v.c. o di un avviso di accertamento trasmessi al P.M. ex art. 331 c.p.p. da parte della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate, sia contestata una fattispecie penalmente rilevante; esso s’innesta quale giudizio incidentale a cognizione sommaria volto ad assicurare, già durante le indagini preliminari e poi nel corso del giudizio, una garanzia patrimoniale sui beni dell’imputato corrispondente al risparmio d’imposta illecitamente conseguito 6. Sia il GIP, allorché valuti la richiesta del P.M. che il Tribunale in sede di riesame ex art. 324 c.p.p., son chiamati a un apprezzamento della verosimiglianza della sussistenza del reato (c.d. fumus commissi delicti) e del pregiudizio per l’interesse erariale al recupero del frutto dell’evasione, meritevole di tutela in pendenza del giudizio (c.d. periculum in mora). In ordine al fumus, la prevalente giurisprudenza s’è spesso limitata alla verifica dell’astratta configurabilità dell’ipotesi di reato contestato dall’inquirente 7; da questa linea interpretativa si discosta quell’orientamento che – soprattutto in sede di riesame, ove occorre tenere in debito conto delle contestazioni difensive 8 – riconosce che il vaglio sulla legittimità del sequestro vada esteso all’apprezzamento dei presupposti che consentono di disporre il provvedimento cautelare e, dunque, perplato fra le fattispecie richiamate dal comma 143, art. 1 della L. n. 244/2007 ai fini dell’operatività del vincolo. 5 Peraltro, nell’ambito dei reati tributari, laddove il profitto si configura come un vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita, pari alla disponibilità di un ammontare pari a quello dell’imposta evasa, la confisca non può che operare a valere su un compendio di beni di valore equivalente a tale valore, v. GIOVANNINI, Identità di oggetto dell’obbligazione d’imposta e della confisca nei reati di evasione, in Rass. trib., 2014, p. 1255. 6 V. EUSEPI, Reati tributari, sequestro preventivo e fondo patrimoniale, in Riv. dir. trib., 2014, p. 347 ed, ivi, p. 375 la quale pone in evidenza la funzione riparatoria e ripristinatoria dell’istituto, unitamente alla funzione di garanzia patrimoniale non dissimile da quella propria del sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p. 7 In tal senso, v. già Cass. pen., sez. un., 23 aprile 1993, n. 4, in Banca dati fisconline, secondo cui ciò che rileva è l’astratta possibilità di sussumere il fatto di reato contestato dalla pubblica accusa in una delle fattispecie delittuose e, più di recente, Cass. pen., sez. III, 8 febbraio 2013, n. 6309, la quale ha ritenuto sufficiente la mera corrispondenza tra il fatto per cui si procede e la fattispecie criminosa così come prospettata nella notizia di reato, senza che rilevino gli indizi di colpevolezza. Per la valorizzazione, invero criticabile, della portata indiziaria delle presunzioni legali ai fini dell’applicazione di una misura cautelare reale, v. Cass. pen., sez. III, 13 febbraio 2013, n. 7078, in Banca dati fisconline, secondo cui una volta «affermato il valore indiziario delle predette presunzioni ovvero dei dati di fatto che le sottendono, ben può essere fondata su di esse l’applicazione di una misura cautelare». 8 Si badi invece che il GIP decide in ordine alla richiesta di disporre il sequestro formulata dal P.M. allo stato degli atti di indagine fin a quel momento raccolti e senza che il corredo probatorio possa, in questo frangente, essere integrato dalla difesa. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 801 viene a una più approfondita valutazione del fumus commissi delicti che investe anche un plausibile giudizio prognostico circa la colpevolezza dell’imputato 9. Il periculum richiesto espressamente dall’art. 321, comma 1, c.p.p. ai fini dell’adozione della misura, attiene all’apprezzamento della possibilità che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze dell’illecito penale oppure agevolare la reiterazione della condotta delittuosa. Secondo l’angolo visuale dei reati tributari, la situazione di pericolo che la misura mira a scongiurare si declina, in primo luogo, in un’accezione di tutela preventiva dell’interesse erariale alla giusta imposizione col privare il reo della disponibilità di qualunque asset a sé riconducibile per un valore corrispondente all’indebito vantaggio patrimoniale conseguito; inoltre, risponde ad una funzione ripristinatoria (in chiave preparatoria) allorché, in caso di condanna, con la confisca si impone un sacrificio patrimoniale di ammontare pari all’imposta evasa. Il periculum deve manifestarsi in concreto e nell’attualità e deve valutarsi con riferimento alla situazione esistente al momento dell’adozione della misura 10. 9 Si veda Cass. pen., sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34505, in Banca dati fisconline, resa in relazione al sequestro preventivo ex art. 53 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove richiesto «un fumus delicti “allargato” che finisce per coincidere con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell’ente, al pari di quanto accade per l’emanazione delle misure cautelari interdittive» e, analogamente, Cass. pen., sez. III, 31 luglio 2013, n. 33187, in Banca dati fisconline, secondo cui «in una prospettiva di ragionevole probabilità di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica (...)» occorre che il Tribunale proceda «tenendo in debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando, sotto ogni aspetto, l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro»; v. anche Cass. pen., sez. III, 8 novembre 2013, n. 45199, in Banca dati fisconline, ove s’è disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza che dispose il sequestro per aver omesso il giudice del riesame di motivare l’irrilevanza, ai fini del mantenimento del vincolo, della sentenza assolutoria del giudice monocratico e delle pronunce della CTP favorevoli al contribuente in relazione ad annualità comprese tra quelle per cui è stato disposto il sequestro. Così anche l’ordinanza del 12 febbraio 2015 (inedita) resa dal Tribunale di Sassari, nell’ambito del procedimento di appello ex art. 322 bis c.p.p., con la quale il Collegio ha revocato il sequestro gravante sui beni di una società, nelle more dichiarata fallita, rilevata l’insussistenza del fumus del delitto ex art. 4, D.Lgs. n. 74/2000 sulla scorta della neutralità fiscale dell’operazione di conferimento d’azienda contestata (rilievo poi anche archiviato da parte dell’Agenzia delle Entrate), oltre che per l’omessa indicazione dell’imposta asseritamente evasa, elemento costitutivo della fattispecie di infedele dichiarazione, essendosi la Guardia di Finanza limitata a indicare l’ammontare della plusvalenza, in ogni caso solo latente e priva di ogni rilevanza fiscale prima della cessione della partecipazione. In tal senso, v. anche Trib. Tempio Pausania, 17 ottobre 2014 (anch’essa inedita), con la quale il giudice del riesame ha ritenuto applicabile, ai fini IVA, l’aliquota del 10% prevista dall’art. 127 undecies, Parte III, Tabella A, Allegato 1 del D.P.R. n. 600/1973, in luogo dell’aliquota 20% prospettata dall’Ufficio con riferimento alle imprese operanti nel settore dell’edilizia privata; di qui la rideterminazione dell’imposta dovuta al di sotto della soglia di punibilità e, dunque, l’assenza del fumus del reato ex art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 contestato. 10 Così Cass. pen., sez. I, 7 febbraio 2012, n. 4773, in Fisconline, secondo cui il periculum deve intendersi «non già come mera astratta eventualità, ma come concreta possibilità – desunta dalla natura del bene e da tutte le circostanze del fatto – che la libera disponibilità di una cosa pertinente al 802 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 In riferimento al sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, è pure ricorrente in giurisprudenza l’opinione che tende a far coincidere quest’ultimo requisito con la mera confiscabilità del beni 11; peraltro, un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata non può prescindere dalla necessaria distinzione tra cose intrinsecamente pericolose ed altre, invece, intrinsecamente lecite e non strutturalmente funzionali alla commissione del reato, in relazione alle quali residua in capo al giudice (come nel caso di confisca facoltativa) un margine di valutazione discrezionale 12. Ed invero, se calata nell’ambito dei reati tributari, il modello tradizionale di confisca ex art. 240 c.p. si mostra inadeguato poiché va a colpire proprio quei beni che costituiscono il profitto diretto del reato secondo un legame di pertinenzialità 13. Nel diverso contesto che ci occupa, il profitto si configura come un vantaggio patrimoniale, direttamente derivante dalla condotta illecita, pari all’ammontare dell’imposta evasa 14 e, dunque, la confisca non può che operare a valere su un compendio di beni di valore equivalente al risparmio economico conseguito illegittimamente 15-16. Non convince invece la qualificazione di confisca facoltativa ex art. reato assuma carattere, specificatamente e strutturalmente, strumentale rispetto al reato commesso ovvero a quelli di cui si paventa la realizzazione». In quest’ottica, idoneo valore indiziario è rintracciabile nella sproporzione del valore dei beni riconducibili al reo rispetto al suo reddito o alle attività economiche e la mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi. 11 Così Cass. pen., sez. III, 19 luglio 2011, n. 28724, Cass. pen., sez. III, 29 maggio 2012, n. 20676 e, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2014, n. 10825 consultabili in Banca dati fisconline, secondo cui la revoca del sequestro preventivo in relazione a fattispecie di reato per cui è prevista la confisca obbligatoria «è possibile soltanto nell’ipotesi nella quale vengano a mancare gli elementi costituenti il fumus commissi delicti e non per il venire meno delle esigenze cautelari, atteso che in tali ipotesi la pericolosità della res non è suscettibile di valutazioni discrezionali». 12 Detta distinzione si rinviene in Cass. pen., sez. un., 9 luglio 2004, n. 29951, in Banca dati fisconline, laddove si afferma la prevalenza del sequestro preventivo rispetto alla procedura fallimentare «soltanto nelle ipotesi in cui la misura cautelare colpisca l’utilizzazione di un bene intrinsecamente illecito (...) ma non anche nell’ipotesi in cui il sequestro persegua finalità essenzialmente anticipatorie rispetto ad un’azione esecutiva individuale». 13 Beni questi sì connotati di intrinseca pericolosità. 14 Si veda Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 6705, in Banca dati fisconline. 15 L’ambito del gravame può riguardare un ampio ventaglio di assets riconducibili al reo, tra cui immobili, mobili registrati, titoli, conti correnti bancari e postali, cassette di sicurezza, qualsiasi altro rapporto bancario, ecc. e può risultare pregiudizievole rispetto alle primarie esigenze personali e della famiglia, oltre che incidere sull’attività d’impresa, assai compressa (se non “congelata”) in costanza del vincolo. 16 Per una ricognizione sul tema si rinvia a MAURO, Spunti problematici sulla confisca per equivalente (o di valore) nei reati fiscali, in questa Rivista, n. 2, 2015, p. 395; SOLDI, Rassegna di giurisprudenza sul tema del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, con particolare riferimento al concetto di disponibilità dei beni da parte dell’autore del reato: il caso Unicredit e altri, in Riv. dir. trib., 2012, p. 787; SOANA, La confisca per equivalente nei reati tributari, in Boll. trib., 2014, p. 805 ss.; GIANGRANDE, La confisca per equivalente nei reati tributari: tra legalità ed effettività, in Dir. prat. trib., n. 1, Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 803 240, comma 1, c.p. offerta dalla sentenza in esame, vertendo il sequestro sugli immobili oggetto delle vendite (asseritamente) fraudolente contestate 17; invero, l’estensione della disciplina ex art. 322 ter, c.p., tra gli altri, anche all’art. 11 fa sì che, in caso di condanna, la confisca che segue al sequestro preventivo non potrà che essere obbligatoria 18. La frode nella riscossione è reato di pericolo (in concreto) a tutela anticipata 19, tanto da essere integrato da qualsiasi condotta che, con valutazione ex ante, possa risultare pregiudizievole per la riscossione e per l’interesse erariale all’incameramento dei tributi (e relative sanzioni e interessi) 20, bene giuridico sottostante la disciplina 21; di conseguenza, il sequestro può essere disposto seppur non sia stata attivata la procedura di riscossione e anche se nessuna evasione o sottrazione d’imposta sia stata ancora accertata dall’Ufficio 22-23. 2013, p. 173 ss.; GIOVANNINI, Identità di oggetto dell’obbligazione d’imposta e della confisca nei reati di evasione, cit., p. 1255; TRAVERSI, La difesa del contribuente nel processo penale tributario, Milano, 2014; AQUAROLI, Crisi della legalità penale e ragion fiscale. Il caso paradigmatico della confisca per equivalente, in BORSARI (a cura di), Profili critici del diritto penale tributario, Padova, 2013, p. 283 ss. 17 V. punto 7.1 e 7.2 della parte motiva. 18 Cos’anche Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2014, n. 8728, in Banca dati fisconline, invero, il neo introdotto art. 12 bis dispone che «è sempre ordinata la confisca dei beni (...)». 19 Così anche la Relazione governativa sottolinea, sul punto, che «la linea della tutela penale è stata opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione». 20 Per una ricognizione sul reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, v. MASTROGIACOMO, La frode nella riscossione: limiti e criticità, in Riv. dir. trib., 2011, p. 661 ss.; ZANNOTTI, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Rass. trib., 2001, p. 772 ss.; VAGNOLI, Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in Rass. trib., 2004, p. 1318; MUSCO-ARDITO, Diritto penale tributario, 2010, p. 288 ss.; LA GROTTA, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte nella dinamica del procedimento di imposizione, in Rass. trib., 2007, p. 608; LANZIALDROVANDI, Diritto penale tributario, Padova, 2014, p. 305 ss. 21 La condotta (necessariamente commissiva) ricomprende l’alienazione simulata, assoluta o relativa, e il compimento di altri atti fraudolenti; trattandosi di reato con plurifattispecie, il delitto può perfezionarsi sia col compimento di un unico atto che, di per sé integri il disvalore del fatto, che con una pluralità di atti offensivi nel loro complesso. In tal caso, il reato si perfeziona col primo di quello (o di quegli atti) che comportino il superamento della soglia di punibilità e si consuma col compimento dell’ultimo atto. Nonostante la norma si riferisca a “chiunque” ponga in essere la condotta sanzionata, si tratta di reato proprio poiché perpetrabile solo da colui che sia tenuto al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, restando così esclusi dall’ambito di applicazione della fattispecie altri tributi. 22 La previgente disciplina delineata dall’art. 97, comma 6 del D.P.R. n. 602/1973 invece richiedeva una condotta che rendesse, in tutto o in parte, inefficace la attività di riscossione e condizionava la rilevanza degli atti fraudolenti all’avvio della verifica o alla notifica di inviti e richieste ovvero alla notifica di atti di accertamento o iscrizioni a ruolo. La pena della reclusione fino a tre anni era applicabile solo se l’ammontare delle somme non corrisposte (imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie) risultasse superiore alla soglia di punibilità di dieci milioni di lire. 23 V. Cass. pen., sez. III, 27 settembre 2012, n. 37415, in Banca dati fisconline. Rileva SOANA, op. 804 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Peraltro, poiché ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico è richiesto il dolo specifico – consistente nella volontà di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, oltre interessi o sanzioni – il reato è configurabile se il soggetto agente si rappresenti l’esistenza del debito tributario 24 e abbia la consapevolezza di comprometterne la riscossione con la condotta fraudolenta perpetrata 25. Nel computo della soglia di punibilità, diversamente dalle altre ipotesi delittuose previste dal D.Lgs. n. 74/2000 26, occorre ricomprendere, oltre le imposte, anche le sanzioni e gli interessi e ciò in riferimento anche a periodi d’imposta diversi 27. Ciò si spiega con la scelta di politica fiscale del legislatore della riforma di avanzare la linea della tutela penale, al contempo aumentando la soglia di punibilità e il trattamento sanzionatorio. 3. La differente incidenza degli eventi successivi all’adozione del sequestro. La dilazione e il pagamento del debito Nel processo di formazione e di attuazione del tributo, la pretesa tributaria può essere interessata da accadimenti “esterni” al sequestro che possono variamente incidere sul permanere del vincolo a seconda che insistano sulla (ri)determinazione cit., p. 807 che l’assenza di un profitto derivante dalla condotta illecita esclude che possa applicarsi alcuna confisca per equivalente. 24 Evidentemente nessuna incertezza può sussistere nel caso in cui il soggetto abbia già ricevuto la notifica di un avviso di accertamento o di un p.v.c., mentre nel caso di condotta posta in essere prima di qualsiasi attività di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria o di verifica della Guardia di Finanza, si impone a carico dell’inquirente un più stringente onere probatorio sulla sussistenza del dolo (oltre che sul superamento delle soglie di punibilità). 25 Occorre, altresì, che il complesso degli atti fraudolenti comporti una deminutio patrimoniale tale da frustrare il buon esito della procedura di riscossione e, dunque, è necessario verificare se gli altri beni nella disponibilità del soggetto agente risultino capienti rispetto alla soddisfazione del debito tributario; v. Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2013, n. 33187, in Banca dati fisconline. 26 Se, ai sensi dell’art. 1, lett. f), D.Lgs. n. 74/2000, interessi e sanzioni (oltre che l’aggio) seguenti all’iscrizione a ruolo non rilevano ai fini del computo delle soglie di punibilità, si segnala un’opinione giurisprudenziale assai rigorosa secondo cui il profitto, inteso quale risparmio del contribuente, non può che essere calcolato con riferimento alla totalità del credito vantato dall’erario comprensivo degli interessi e delle sanzioni, essendo del tutto indifferente la natura delle voci che lo compongono né esclude il conseguimento di ulteriori vantaggi riflessi per il soggetto evasore; v. cfr., Cass., sez. V, 10 novembre 2011, n. 1843 e Cass., sez. III, 4 luglio 2012, n. 11836, in Banca dati fisconline. Inoltre, tutte le altre fattispecie delittuose fanno sempre riferimento al solo anno d’imposta nel quale si perfeziona la condotta sanzionata. La confisca è disposta in corrispondenza dell’intera imposta evasa e non solo per la parte differenziale rispetto alla soglia di punibilità, v. Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 6705, in Banca dati Cassazione.net. 27 Come rileva, MASTROGIACOMO, op. cit., p. 661, è così sufficiente ad integrare il reato un’imposta evasa pari a venticinquemila euro, soglia invero assai esigua. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 805 del quantum (e, dunque, sulle soglie di punibilità e sul fumus) o sull’attualità delle esigenze cautelari, specie nel caso di dilazione o di pagamento del debito tributario. Al fine di promuovere la tax compilance e di non duplicare le sanzioni 28, il legislatore delegato ha reso più appetibile, per il contribuente che si trovi anche indagato o imputato, l’estinzione del debito; se prima del decreto attuativo n. 158/2015 il pagamento del debito, comprensivo delle sanzioni amministrative e degli interessi, poteva apprezzarsi solo quale circostanza attenuante 29, oggi ai sensi del novellato art. 13, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000, detta circostanza costituisce causa di non punibilità in relazione alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 4, 5 10 bis, 10 ter e 10 quater 30 con conseguente inapplicabilità della misura ablativa. Ed invero, il comma 2 dell’art. 12 bis dispone che la confisca «non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro» 31. La formula adoperata non chiarisce in cosa consista “l’impegno” del contribuente; escluso che possa essere sufficiente un impegno assunto unilateralmente da parte 28 Quantomeno in relazione alle ipotesi delittuose ex artt. 4, 5 10 bis, 10 ter e 10 quater, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000, richiamate dall’art. 13 novellato. Al di fuori dei casi di non punibilità – da individuarsi, per esclusione, nelle ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2) o altri raggiri (art. 3) o, ancora, nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8) e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11) – il pagamento del debito comporta sempre l’applicazione della circostanza attenuante della diminuzione della pena fino alla metà, in misura più favorevole rispetto alla disciplina previgente; così l’art. 13 bis, comma 3, D.Lgs. n. 74/2000 appena introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. n. 158/2015. 29 Così il vecchio art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000, prevedeva la diminuzione della pena fino a un terzo e l’esclusione dell’applicazione delle pene accessorie. 30 Così il nuovo art. 13, D.Lgs. n. 74/2000, come sostituito dall’art. 12 del D.Lgs. n. 158/2015, dispone che «I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso. 2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. 3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell’applicabilità dell’articolo 13-bis, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione». 31 V. il comma 2 dell’art. 12 bis ove si precisa che «in caso mancato versamento la confisca è sempre disposta». 806 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 del contribuente, il riferimento non può che ricadere sulle speciali procedure conciliative e di adesione o di ravvedimento richiamate dagli artt. 13 e 13 bis in caso di estinzione del debito 32. Al riguardo, potrebbe valorizzarsi la possibilità di ottenere la restituzione dei beni offerta dall’art. 85 disp. att. c.p.p. 33 attraverso la richiesta di dissequestro degli assets al fine di soddisfare la pretesa erariale 34 e così poter fruire della causa di non punibilità – o, quanto meno, del riconoscimento dei benefici ex art. 13 bis – oltre che ottenere la cancellazione del vincolo reale. Venendo all’ipotesi di rateizzazione, questa non costituisce circostanza utile a impedire il sequestro 35, ma il decreto attuativo sulle sanzioni penali, consente ora che in pendenza di dilazione, la parte possa estinguere integralmente il debito residuo entro il termine di tre mesi, salva la facoltà di proroga da parte del giudice penale per ulteriori tre mesi, ferma la sospensione dei termini di prescrizione 36. La pronuncia in esame si segnala perché rappresenta un revirement (rimasto isolato) 37 rispetto al contrario orientamento dei medesimi giudici di legittimità formatosi nella vigenza della disciplina ante riforma 38, secondo il quale la rateizzazione 32 Si vedano le note di indirizzo della Procura di Trento dell’8 ottobre 2015 consultabili in www. penalecontemporaneo.it. 33 L’art. 85, comma 1, disp. att. c.p.p., rubricato “Restituzione con imposizione di prescrizioni” dispone che «1. Quando sono state sequestrate cose che possono essere restituite previa esecuzione di specifiche prescrizioni, l’autorità giudiziaria, se l’interessato consente, ne ordina la restituzione impartendo le prescrizioni del caso e imponendo una idonea cauzione a garanzia della esecuzione delle prescrizioni nel termine stabilito». 34 In tal caso il dissequestro sarebbe vincolato al pagamento del debito tributario, con la possibilità di prevedere un termine per l’adempimento e l’imposizione di una idonea cauzione o altra prescrizione, v. note di indirizzo della Procura di Trento, cit. 35 Sul punto la giurisprudenza della Cassazione può dirsi più che consolidata, v., ex multis, Cass. pen., sez. III, 6 novembre 2013, n. 2625 secondo cui ove si deduca «solo la presentazione di istanze di pagamento rateale, si introduce nel dibattito processuale un dato irrilevante, perché fondato su un elemento futuro e tutto da dimostrare (ossia il pagamento integrale del debito tributario)» e Cass. pen., sez. IV, 4 giugno 2013, n. 24185, in Corr. trib., 2013, p. 2800 e, da ultimo, Cass., 14 gennaio 2015, n. 1364, in Banca dati fisconline.. 36 Così il novellato art. 13, comma 3. 37 In senso conforme, nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Tempio Pausania, 17 ottobre 2014, cit. la quale ha pure ritenuto insussistente il periculum rilevando che il puntuale pagamento dei ratei dovuti dimostra la volontà di saldare il debito tributario ed esclude il pericolo di protrazione e aggravamento delle conseguenze del reato. 38 Sul punto, si vedano, ex multis, Cass. pen., sez. III, 6 novembre 2013, n. 2625 secondo cui ove si deduca «solo la presentazione di istanze di pagamento rateale, cioè si introduce nel dibattito processuale un dato irrilevante, perché fondato su un elemento futuro e tutto da dimostrare (ossia il pagamento integrale del debito tributario)» e Cass. pen., sez. IV, 4 giugno 2013, n. 24185, in Corr. trib., 2013, p. 2800; così anche Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561; Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2014, n. 8728, cit. la quale, proprio in riferimento alla medesima fattispecie ex art. 11, ha confermato il sequestro seppur il debito tributario, assai ridimensionato in esito ad un accertamento con adesione, fosse stato quasi integralmente estinto e, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 14 gennaio 2015, n. 1364, in Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 807 del debito incide solo sul quantum e, dunque, sulla riducibilità del compendio dei beni da vincolare per equivalente 39 ed è senz’altro apprezzabile poiché, altrimenti, il risultato sarebbe quello di frustrare l’aspettativa del contribuente (e, invero, anche dell’erario) al buon esito della dilazione atteso che la parte si vedrebbe privata della disponibilità delle risorse necessarie per far fronte alle rate in scadenza 40; così, di fatto, si rende difficilmente accessibile il “patteggiamento”, salvo l’esistenza di risorse ulteriori rispetto a quelle sottoposte a sequestro da destinare all’estinzione del debito 41. Si badi inoltre che il “congelamento” del patrimonio ostacola anche la possibilità di accesso al credito o alle garanzie bancarie per far fronte al soddisfacimento del debito residuo 42. Banca dati fisconline secondo cui «in caso di rateizzazione quale piano di rientro dal debito tributario, le ragioni del sequestro possono venir meno solo con il completamento rateale concordato»; quest’ultima pronuncia ha escluso che possa prospettarsi un’irragionevole disparità trattamento tra chi ha disponibilità per pagare in unica soluzione e chi no, avendo la parte omesso di fornire la prova della mancanza delle risorse sufficienti al pagamento integrale. 39 Per l’ammissibilità della revoca parziale del sequestro in misura corrispondente al pagamento delle rate, v. Cass. pen., sez. III, 31 agosto 2012, n. 33587 e Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2014, n. 6635, in Banca dati fisconline, non potendosi disporre la confisca per il valore pari all’ammontare restituito, pena, altrimenti, «una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa». Da questo orientamento si discosta Cass. pen., sez. II, 11 marzo 2014, n. 11777, in Banca dati Casssazione.net., la quale, in ipotesi di frode fiscale e di riciclaggio transnazionale dei proventi dell’evasione IVA, ha disposto la confisca dei beni anche in caso di restituzione del debito, «non potendosi lasciare a disposizione degli imputati quanto illecitamente ricavato dalla commissione del reato di riciclaggio». 40 Si segnala, nella giurisprudenza di merito, un orientamento contrario alla conversione del sequestro gravante sui conti correnti dell’indagato su beni immobili anche di valore superiore, ciò sul rilievo che la crisi del mercato immobiliare non garantisce la pronta solvibilità del credito, v. Trib. Tempio Pausania, 17 marzo 2014, inedita. 41 Così anche MAURO, op. cit., p. 395 e MARELLO, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2014, p. 269 ss.; PERRONE, Fatto fiscale e fatto penale: parallelismi e convergenze, Bari, 2012, p. 337 ss. Si veda Cass. pen., sez. III, 31 agosto 2012, n. 33587, cit. 42 La giurisprudenza ha ritenuto non rilevante l’attivazione di una garanzia fideiussoria poiché altrimenti si «lascerebbe il patrimonio dell’imputato invariato in quanto ad essere sottoposto a sequestro sostanzialmente finirebbe denaro del garante che, quindi, non è nella diretta disponibilità dell’imputato bensì del terzo», v. Cass. pen., sez. III, 31 agosto 2012, n. 33587, in Banca dati fisconline. Un più recente arresto ha, invece, riconosciuto che il pagamento dell’importo pari all’imposta evasa da parte del terzo accompagnata da dichiarazione liberatoria volta ad escludere ogni possibilità di rivalsa, è circostanza che impedisce il mantenimento della misura ablativa, v. Cass. pen., sez. III, 21 ottobre 2014, n. 43811, in Banca dati fisconline. 808 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 3.1. Segue: la rideterminazione concordataria della pretesa Nell’ambito dei modelli “partecipativi” di attuazione del tributo, l’apprezzamento da parte del giudice penale può essere variamente condizionato, ma non vincolato all’imposta così come rideterminata nel contraddittorio con l’Ufficio. Limitando in questa sede il focus all’accertamento con adesione – il default al quale si riportano le altre forme di “accordo” 43 – la rideterminazione della pretesa che pervenga a quantificare l’imposta evasa al di sotto di una delle soglie di punibilità, può incidere sulla configurabilità del reato e, quindi, sulla sussistenza del fumus richiesto per l’adozione della misura cautelare; in questa direzione s’è ormai attestata la giurisprudenza della Cassazione la quale, proprio chiamata a decidere, nel contesto che ci occupa, sulla legittimità del sequestro preventivo ex art. 325 c.p.p. – ha escluso la rilevanza penale della fattispecie in mancanza di nuovi elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta, revocando così la misura 44. La circostanza che la pretesa originariamente avanzata dalla parte pubblica venga successivamente ridimensionata è sintomatico dell’infondatezza dell’iniziale quantificazione prospettata al requirente; in sostanza, fatto salvo il giudizio di “continenza” tra elementi raccolti nell’istruttoria tributaria e in quella penale, il giudice di quest’ultima giurisdizione pare non possa che tener conto della (ri)definizione concordataria della pretesa o dell’annullamento d’ufficio 45. 3.2. Segue: le pronunce interlocutorie delle Corti di merito Se l’approdo cui s’è fatto sopra cenno ha il pregio di focalizzare una ragionevole 43 Per un approfondimento sul ventaglio delle diverse tipologie deflative, dalla mera acquiescenza (al p.v.c., agli inviti al contraddittorio e all’avviso di accertamento o di liquidazione) a fattispecie più propriamente “concordatarie” (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale e transazione fiscale), fino alle diverse ipotesi di interpello e all’riesame della legittimità della pretesa in autotutela, si rinvia, se si vuole, a FICARI-SCANU, Soglie di punibilità, “accordi” deflativi e transazione fiscale, in Riv. dir. trib., n. 9, 2014, p. 1 ss. 44 Così Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 2012, n. 5640, in Riv. dir. trib., 2012, II, p. 529 ss. con nota di SCANU, Accertamento con adesione e computo della soglia di punibilità e, in senso conforme; Cass. pen., sez. III, 31 ottobre 2013, n. 44283; Cass. pen., sez. III, 9 maggio 2014, n. 19138 e, da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 18 febbraio 2014, n. 7615, consultabili in Banca dati fisconline, si evidenzia come si tratti di «un’iniziale pretesa tributaria che viene poi ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto». 45 Del resto, non si vede come il giudice penale – in assenza di ulteriori elementi oltre a quelli già emersi nella istruttoria tributaria e confluiti nel fascicolo penale – possa diversamente motivare e valutare maggiormente attendibile l’originaria quantificazione una volta che la stessa sia stata smentita dalla parte pubblica in contraddittorio col contribuente o d’ufficio nell’esercizio del potere di autotutela. Cosa diversa, come osserva la giurisprudenza richiamata, è che l’imposta sia stata (ri)determinata dal giudice tributario in sentenza; diversamente l’effetto sarebbe quello di reintrodurre surretiziamente la pregiudiziale tributaria. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 809 chiave di volta per risolvere le “intersezioni” tra il giudizio penale e il processo (e il procedimento) tributario, nel rapporto tra il sequestro preventivo e l’annullamento della pretesa da parte delle Commissioni di merito, una recente sentenza della Cassazione pare, in qualche misura, rievocare la pregiudiziale tributaria 46. In tal caso, ad avviso della Corte, «l’intervenuto annullamento della cartella esattoriale comporta il venir meno della pretesa tributaria e, dunque, l’esistenza del profitto del reato (...), atteso l’intervenuto sgravio delle somme di cui agli avvisi di accertamento»; di qui l’annullamento del vincolo non essendo più configurabile quel risparmio economico oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente. Invero, la pronuncia di merito favorevole al contribuente non pare possa di per sé vincolare il giudice penale ma può certamente rappresentare un elemento probatorio indiziario sul quale poter motivare la decisione sul mantenimento del vincolo, vieppiù nel caso di comunanza delle risultanze istruttorie tra la fase incidentale cautelare e quella del giudizio tributario; e, il rinvio al Tribunale del riesame s’è fondato proprio sul rilievo dell’omessa motivazione relativamente ad una questione (l’annullamento della pretesa) che si risolve sull’incidenza del fumus e, dunque, conferma la necessità della verifica, svolta in concreto e seppur non a cognitio piena, dei presupposti richiesti ex art. 321 c.p.p. 47. Nessun riverbero sul versante della cautela penale può attribuirsi all’ordinanza di sospensione dell’esecutività dell’atto o della sentenza impugnata da parte della Commissione tributaria, ciò in ragione dell’attualità della debenza della pretesa 48, oltreché della natura tipicamente provvisoria del provvedimento e del diverso atteggiarsi del requisito del periculum di cui all’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 da misurarsi in relazione alle condizioni economiche e finanziarie del debitore. 46 Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37195, in Banca dati Cassazione.net la quale ha valorizzato l’annullamento della pretesa da parte della CTR (con nota adesiva di FLORA, Annullamento degli avvisi di accertamento e fumus delicti nel sequestro per equivalente nei reati tributari, in Rass. trib., 2014, p. 1403). 47 Diversamente, nel contenzioso tributario il coordinamento delle misure cautelari richieste dall’amministrazione finanziaria e assentite dalla CTP o attivate in via autoritaria, impone l’annullamento delle stesse nel caso di sentenza, anche non definitiva, di annullamento dell’atto impositivo; v. BASILAVECCHIA, Misure cautelari e riscossione, in Rass. trib., 2013, p. 479 il quale ben evidenzia che «la difficoltà di concepire misure cautelari rispetto al tributo sta nel fatto che le ragioni di danno che può vantare il contribuente per arrestare la riscossione rappresentano esattamente le ragioni per le quali l’amministrazione ha invece interesse a proseguirla». 48 Così Cass. pen., sez. III, 28 febbraio 2013, n. 9578, in Cassazione.net ove si afferma che nonostante la sospensione «rimane del tutto inalterata la doverosità del tributo» e, conformemente, Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37195, cit. Ancor più inconferente è il caso in cui la sospensione dell’atto impositivo sia stata condizionata dalla prestazione di una garanzia fideiussoria. 810 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 3.3. Segue: sequestro preventivo, accordi di ristrutturazione e procedure concorsuali Proseguendo col fil rouge che s’è scelto seguire, le riscontrate “interferenze” sul binario penal-tributario si riscontrano anche sul versante “concorsuale”. Il vincolo cautelare può incidere sulla tenuta degli accordi di ristrutturazione del debito fiscale previsti dalla legge fallimentare e sulle altre soluzioni concordatarie che si offrono all’imprenditore in stato di crisi 49 e, in un’ottica sistematica, occorre indagare la stessa compatibilità del sequestro nel caso di successivo fallimento della società o dell’imprenditore individuale i cui beni erano stati avvinti dalla misura. In ordine al primo profilo, la Cassazione s’è fin qui assestata nel riconoscere la prevalenza del sequestro preventivo 50, poiché le azioni che non è possibile proseguire sono solo quelle civili (cautelari o esecutive) 51 e tributarie 52, ma non anche quelle di natura penale 53. 49 Oltre che agli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis), il riferimento è anche alla transazione fiscale (art. 182 ter) e al concordato preventivo (artt. 160 ss.). 50 Cass. pen., sez. III, 12 gennaio 2014, n. 24875, in Banca dati DeJure a margine di un accordo di ristrutturazione del debito ex art. 182 bis nel quale erano stati inclusi anche i debiti di natura fiscale nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, tra i quali anche l’IVA e Cass. pen., sez. III, 31 ottobre 2013, n. 2013, in Banca dati fisconline anch’essa resa in tema di omesso versamento IVA ex art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000. 51 Così l’art. 182 bis, comma 3, L. fall. 52 In tal caso, l’art. 182 ter, comma 5, L. fall. prevede espressamente la cessazione della materia del contendere delle liti aventi ad oggetto i tributi contemplati nella proposta di transazione fiscale. 53 Occorre rilevare che la giurisprudenza richiamata s’è formata con riferimento al reato di omesso versamento dell’IVA ex art. 10 ter rispetto al quale pesa l’argomento della non falcidiabilità delle risorse proprie dell’Unione Europea. Sul punto, la Corte costituzionale, con la sent. 25 luglio 2014, n. 225, in Boll. trib., 2014, p. 1344 ss., con nota di LA ROCCA, Il concordato preventivo e la transazione fiscale: la Corte Costituzionale conferma l’inammissibilità della falcidia Iva) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità del disposto degli artt. 160 e 182 ter L. fall. in relazione agli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui, con riguardo all’IVA, si dispone che la proposta di concordato contenente una proposta di transazione fiscale possa prevedere esclusivamente la dilazione di pagamento, rendendosi così necessariamente inammissibile la proposta concordataria che non preveda il pagamento integrale dell’IVA. La questione è stata altresì rimessa alla Corte di Giustizia, ai sensi degli artt. 267 TFUE, da parte del Tribunale di Udine che, con ord. 30 ottobre 2014, consultabile in www. Unijuris.it/node/2447, ha sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se i principi e le norme contenuti nell’art. 4, par. 3, del TUE e nella Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, così come già interpretati nelle sentenze della Corte Giust., 17 agosto 2008, in causa C-132/06, 11 dicembre 2008 in causa C174/07 e 29 marzo 2012 in causa C-500/10, debbano essere altresì interpretati nel senso di rendere incompatibile una norma interna (e, quindi, per quanto riguarda il caso qui in decisione, un’interpretazione degli artt. 162 e 182 ter L. fall.) tale per cui sia ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare». Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 811 Il risultato è quello di introdurre una prelazione, per cosi dire, “sussidiata” in favore dell’erario non prevista dall’ordinamento e di pregiudicare le aspettative che gli altri creditori riponevano nel concordato fiscale, di fatto tamquam non esset 54. Così si contraddice lo spirito che muove gli accordi di ristrutturazione del debito fiscale, volti a evitare aggressioni al patrimonio del debitore e consentire la prosecuzione dell’attività imprenditoriale e, al contempo, salvaguardare sia il profilo occupazionale che quello produttivo, primari interessi entrambi costituzionalmente tutelati 55. Stabilire se la misura cautelare reale sia o meno recessiva in pendenza della procedura fallimentare nel frattempo intervenuta, è questione che impone al giudice un bilanciamento degli interessi connessi alla confisca con quelli propri della massa dei creditori, entrambi di rilievo pubblicistico 56. Invero, la realizzazione delle medesime esigenze cautelari proprie del sequestro 57 è assicurata anche in pendenza di una sopravvenuta procedura fallimentare, la quale ottiene il medesimo effetto di spossessamento dei beni in favore della curatela 58 e la soddisfazione dei creditori (e, tra questi, anche di quello erariale nel 54 Si tratterebbe, in sostanza, di un privilegio generale su tutti i beni del debitore (immobili, mobili registrati, c/c, titoli, ecc.) non regolamentato neppure nel rapporto con altri privilegi iscritti anteriormente e di grado poziore. Al riguardo, Cass. pen., sez. III, 10 febbraio 2015, n. 5918, in Banca dati Cassazione.net, ha affermato che l’impignorabilità della “prima casa”, sancito dall’art. 52, lett. g) del D.L. n. 69/2013 (conv. con L. n. 98/2013), non si estende al sequestro preventivo «che è misura a contenuto latu sensu sanzionatorio avente le caratteristiche della misura di sicurezza patrimoniale conseguente alla avvenuta condanna in sede penale». Anche la costituzione di un fondo patrimoniale ex art. 167 c.c. sarebbe recessivo rispetto all’applicazione del vincolo cautelare, v. Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2014, n. 129, in Riv. dir. trib., 2014, II, p. 1021, con nota di EUSEPI, op. cit., p. 347 ss. 55 Nella stessa direzione si è escluso che la perfezione della transazione a seguito della pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese impedisca l’adozione del sequestro preventivo, v. Cass. pen., sez. III, 12 giugno 2014, n. 24875, in Banca dati fisconline. 56 Così già le Sezioni Unite della Cassazione (v. sent. 9 luglio 2004, n. 29951, in Banca dati fisconline), avevano affermato che l’insensibilità della cautela reale alle vicende concorsuale è affatto scontata né automatica e che, invece, occorre che il giudice «nell’esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare» (...) e, a tal fine, «deve tenersi conto delle possibilità di ritorno del fallito nella disponibilità dei beni sequestrati, alla chiusura del fallimento e delle prospettive di un eventuale concordato ex artt. 124 e seguenti della legge fallimentare (che comporta il ritorno al fallito dei beni non vincolati al procedimento o non trasferiti all’eventuale assuntore, con il riacquistato pieno potere di disporne)». 57 Ed ovvero, quella di impedire l’aggravarsi delle conseguenze del reato o la commissione di ulteriori e, al contempo, di conseguire l’effetto di spossessamento del reo (ovvero il legale rappresentante della società quando ancora in bonis. 58 L’art. 42 della L. fall. dispone che «la sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento». 812 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 cui interesse è stato disposto il sequestro) non può che avvenire in moneta fallimentare nel rispetto della par condicio creditorum e secondo le cause di privilegio tassativamente previste dall’ordinamento. Inoltre, le somme ricavabili rimarrebbero nella disponibilità del solo curatore fallimentare (e non certo dell’imputato), pur sempre sotto il vaglio del giudice delegato 59. Né, è appena il caso di dirlo, può ipotizzarsi il protrarsi della condotta delittuosa da parte della curatela la quale, nell’esercizio delle sue funzioni, agisce nell’esclusivo interesse della massa dei creditori della società fallita nella veste di pubblico ufficiale e quale soggetto terzo in buona fede 60. Ecco allora che un corretto bilanciamento tra medesimi interessi pubblicistici tutelati dalla disciplina fallimentare e da quella penal-cautelare, fa sì che l’intervenuto fallimento possa costituire fatto sopravvenuto idoneo a far venir meno la necessità di mantenere il sequestro preventivo, sostituto (con pari garanzie per gli interessi in gioco) dalle guarentigie previste dalla legge fallimentare. Altrimenti, la conseguenza, paradossale, sarebbe quella di “espropriare” i creditori in buona fede e non il reo, ossia l’autore della condotta delittuosa posta a fondamento del sequestro 61; con ciò si determinerebbe un’inaccettabile divergenza 59 Spetta al G.D. la competenza di autorizzare qualsiasi movimentazione previa emissione del relativo mandato di pagamento da presentarsi in banca, una volta approvato il piano di riparto. 60 Costituisce ius receputum da parte della Cassazione la non sottoponibilità a sequestro dei beni riconducibili a soggetti diversi dal reo. Il curatore, infatti, non fa uso (nel senso vietato dalla norma) dei beni costituenti il profitto del reato e confluiti nell’attivo fallimentare ma, al contrario, è il soggetto incaricato della gestione delle attività ricavate nell’esclusivo interesse dei creditori ammessi alla procedura fallimentare. In conformità al pacifico orientamento della giurisprudenza civilistica che qualifica il curatore come terzo in quanto soggetto agente nell’interesse della massa, v. Cass. 5 dicembre 2014, n. 48804, in Banca dati fisconline e Cass. pen., sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24063, in Banca dati DeJure. Ad ogni buon conto, anche l’art. 19, comma 1 del D.Lgs. n. 231/2001 riconosce che «sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede», tra i quali non può non ricomprendersi il Curatore fallimentare. 61 Per l’insensibilità del sequestro all’intervenuto fallimento s’è invece espressa, da ultimo, Cass. pen., sez. II, 13 giugno 2014, n. 25201, in Banca dati fisconline, la quale ha statuito che «il curatore potrà far valere gli interessi della massa dei creditori all’interno del procedimento penale (...) e chiedere ed ottenere l’autorizzazione alla vendita ed alla conseguente distribuzione del ricavato ai crediti concorsuali, dandosi luogo anche in tal modo alla realizzazione della finalità perseguita dal legislatore, costituita dallo spossessamento del condannato». In questo solco, da ultimo, v. Cass. pen., sez. un., 17 marzo 2015, n. 11170, in Banca dati Cassazione.net la quale, nel decidere in ordine in ordine ad una richiesta di dissequestro disposto ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 231/2001 in relazione alle fattispecie di aggiotaggio (art. 2637 c.c.) e formazione fittizia del capitale (art. 2632 c.c.), da un lato, ha ribadito che «la verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale (nell’alveo dell’incidente di esecuzione ex artt. 665 e ss. c.p.p.) e non al giudice fallimentare» e, dall’altro, ha negato al curatore fallimentare la legittimazione a proporre impugnazione avverso il suddetto vincolo cautelare. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 813 tra soggetto autore della violazione e chi ne patisce le conseguenze patrimoniali 62. Solo un ultimo cenno per rilevare che il protrarsi del gravame può comportare pregiudizio grave ed irreparabile per i creditori della massa fallimentare (tra i quali anche l’Erario), atteso che la curatela non può disporre la vendita o, se del caso, richiedere l’esercizio provvisorio dell’attività in pendenza dell’azione penale e il compendio può deteriorarsi e deprezzarsi notevolmente così frustrandosi le aspettative di realizzo. 4. Considerazioni conclusive Le interazioni tra il binario penale e quello tributario, sempre più di sovente, possono determinare sovrapposizioni e, talvolta, indesiderati “corti circuiti” nel sistema sanzionatorio. Ne è un esempio la disciplina della confisca per equivalente seguente all’adozione del sequestro preventivo, la quale appariva da ripensare in considerazione del fatto che oggetto della confisca (il profitto) e dell’obbligazione tributaria (l’imposta evasa) coincidono 63, se, in pendenza del vincolo, il soggetto indagato o imputato si fosse trovato nell’impossibilità di far fronte al pagamento del debito, in caso di condanna il trattamento sanzionatorio avrebbe potuto rivelarsi ancor più permeante investendo l’ambito tributario, penale e confiscatorio, in evidente contrasto con i canoni di proporzionalità e ragionevolezza della sanzione cui è ispirata la legge di riforma del sistema sanzionatorio 64. 62 In parallelo, per l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative al fallimento, v. CTP Campobasso, 14 luglio 2008, n. 59, in Banca dati fisconline secondo cui le conseguenze connesse alle violazioni tributarie perpetrate dall’imprenditore, poi dichiarato fallito, non possono essere sopportate dalla massa dei creditori incolpevoli, ciò in ossequio al principio di personalità delle sanzioni tributarie non penali il quale osta alla trasmissione delle stesse dal contribuente alla massa dei creditori che concorrono sul patrimonio dell’intervenuto fallimento. 63 Si veda GIOVANNINI, op. cit., p. 1255 il quale osserva che «il vero punctum dolens della disciplina è la natura bicefala dell’imposta evasa». 64 L’art. 8 della L. 11 marzo 2014, n. 23 orientava il legislatore delegato verso «la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità», oltre alla correlazione del raddoppio dei termini «all’effettivo invio della denuncia, ai sensi dell’art. 331 del c.p.p., effettuato entro un termine correlato allo scadere del termine ordinario di decadenza (…)». Si vedano, sul punto, SALVINI, Prospettive di riforma del sistema sanzionatorio tributario, in Rass. trib., 2015, p. 545; CARINCI, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, in Rass. trib., 2015, p. 499 e BASILAVECCHIA, Soggetto passivo del tributo e soggetto attivo del reato, in Rass. trib., 2015, p. 313. 814 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Sul punto, certamente opportuna si rivela la scelta del legislatore delegato di escludere l’applicazione della confisca a fronte dell’impegno del contribuente a versare, in tutto o in parte, quanto dovuto soprattutto ove si valorizzasse la possibilità per la parte di ottenere il dissequestro, totale o parziale, dei propri beni al fine di soddisfare la pretesa erariale 65 così ovviando ad un sistema sanzionatorio altrimenti oltremodo afflittivo. D’altra parte, dagli sporadici interventi legislativi, più o meno recenti, è ricavabile un tendenziale delinearsi di una sorta di pregiudiziale penale 66, quando, semmai, dovrebbe essere quella tributaria la giurisdizione ratione materiae competente a determinare l’imposta evasa 67. La sentenza in esame è di questo segno, valorizzando, nel merito, la circostanza che il debito fosse stato assai ridimensionato nel contraddittorio con l’Ufficio 68 e, 65 Per l’applicabilità al caso di specie dell’art. 85, comma 1, disp. att. c.p.p., si veda l’indirizzo proposto dalla Procura di Trento, cit. 66 Il riferimento è alla recente disciplina di cui all’art. 14, comma 4 bis, della L. n. 537/1993, come riformulato dall’art. 8, comma 1, del D.L. n. 16/2012, che subordina l’indeducibilità dei costi da reato alla sentenza penale di condanna (v. CONTE, Processo penale e processo tributario, ovvero il caso delle parallele che si incontrano, in Riv. dir. trib., 2012, p. 1171) e, ancora, alla disciplina ex art. 4, comma 4, della L. n. 537/1993 che assoggetta a tassazione i proventi illeciti, anche derivanti da reato, purché non sottoposti a sequestro o confisca e, infine, al raddoppio dei termini di decadenza di cui agli artt. 43, D.P.R. n. 600/1973 e 57, D.P.R. n. 633/1972 quale “riflesso” scaturente dalla configurabilità di una delle fattispecie delittuose previste dal D.Lgs. n. 74/2000. Si badi che i commi 130 e 131 dell’art. 1 della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016) hanno esteso, rispettivamente, a cinque e sette anni, i termini per la notifica degli avvisi di accertamento e di rettifica previsti dagli artt. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e 57 del D.P.R. n. 633/1972, applicabili ai soli avvisi relativi al periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi. In forza del comma 132 dell’art. 1, il raddoppio dei termini è ora applicabile, in via residuale, ai soli avvisi relativi ai periodi d’imposta precedenti e a condizione che la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria sia stata trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini di decadenza allora vigenti. Su queste tematiche, v. TABET, Collegamento tra fattispecie tributaria e fattispecie penale: riflessi di diritto processuale, in Rass. trib., 2015, p. 303. 67 Non si intende certo qui rievocare la pregiudiziale tributaria, stante la diversità di regole che informano i due processi; in primis, in relazione alla formazione della prova e alla valutazione della stessa da parte del giudicante. Si veda, in argomento CARACCIOLI, Il ripristino delle pregiudiziali nella nuova disciplina dei costi da reato, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 576; TESAURO, Ammissibilità nel processo tributario delle prove acquisite in sede penale, in Rass. trib., 2015, p. 323. In senso contrario, v. Cass. pen., sez. II, 28 febbraio 2012, n. 7739, in Riv. dir. trib., 2012, III, p. 61 che, in tema di elusione, precisa che la determinazione della soglia di punibilità deve essere definita dal giudice penale, che può anche discostarsi dai rilievi effettuati dall’amministrazione finanziaria. 68 In esito all’accertamento con adesione, riconosciuta l’incidenza dei costi pari all’87,50%, ai fini IRPEF l’imposta dovuta è stata rideterminata ad importi appena superiori alla soglia di cinquantamila euro (in euro 54.148, di cui 20.468 per interessi e sanzioni) per il 2005 e euro 71.268, di cui 26.168 per interessi e sanzioni, per il 2006), mentre ai fini IVA l’imposta è stata ridimensionata ad euro 48.000 per il 2005 ed euro 49.000 per il 2006 e, quindi, al di sotto della soglia di punibilità. Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 815 quanto al periculum, che l’Erario, oltre ad aver concesso la dilazione del pagamento del debito, avesse rinunciato alla garanzia ipotecaria, così escludendo la possibilità di un intervento “supplente” da parte dell’inquirente che, altrimenti, avrebbe frustrato il buon esito della dilazione 69. Giuseppe G. Scanu 69 Nel corso delle indagini preliminari (prima della disclosure processuale seguente alla notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.) il reato tributario si presta ad essere “strumentalmente” contestato, proprio al fine di ottenere il vincolo cautelare reale sui beni del reo. 816 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Cass., sez. III pen., 16 settembre 2014, n. 37853 Finito di stampare nel mese di gennaio 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220 817 818 GIURISPRUDENZA RTDT - n. 3/2015 Cedola di sottoscrizione 2016 Abbonamento (4 fascicoli cartacei) € 95,00 AGRTDT16 Condizioni di pagamento Versamento su c.c.p. n. 18001107 (allegare copia del bollettino, indicando sulla stessa nome/ragione sociale, indirizzo e causale del versamento) Bonifico bancario - Intesa San Paolo S.p.a. ag. n. 13 - codice IBAN IT05 R030 6909 2081 0000 0012 548 (allegare copia del modulo disposizione bonifico, indicando sulla stessa nome/ragione sociale, indirizzo e causale del versamento) Oppure tramite sito internet www.giappichelli.it/rtdt.html (anche con carta di credito) vista direttamente tramite la Rete di vendita diretta o le Librerie. : è inoltre possibile acquistare la Ri- Cognome Nome / Ragione Sociale Indirizzo Cap N. Città Prov. Telefono Part. IVA E-mail Cod. Fisc. 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Inoltre, vengono prese in considerazione le più recenti problematiche che riguardano i complessi rapporti tra la legge nazionale e le decisioni della Corte di Giustizia Europea, tra istanze di tutela sovranazionali e diritti costituzionalmente garantiti (temi quali il ne bis in idem, la prescrizione, i rapporti tra norme penali interne e la protezione degli interessi finanziari della UE). Come per ogni profondo cambiamento di norme e istituti, si apre il tema della disciplina intertemporale, tra abrogatio criminis e successioni di leggi penali nel tempo, argomenti cui è stata prestata massima attenzione nel libro. Sono stati, altresì, oggetto di indagine e commento anche gli articoli non oggetto di modifica normativa, con particolare cura ai più recenti orientamenti giurisprudenziali e alle più recenti riflessioni della dottrina. 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Il trust in equity: storia della nascita e sviluppo dell’istituto in Inghilterra (G. Scognamiglio). – II. La Convenzione dell’Aja relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento. La sua ratifica ed integrale esecuzione nell’ordinamento giuridico italiano (G. D’Alfonso-Al. Mignozzi). – III. Il trust interno: processo di tipizzazione tra dispute dottrinali e prassi giurisprudenziale (M.A. Ciocia). – IV. Prassi applicativa dei trust interni (A. Tonelli). – V. Il trust autodichiarato e il trust Onlus. Trascrizione, art. 2645-ter c.c. e soggettività giuridica (A. Lepore). – VI. La libertà del debitore di disporre dei propri beni in trust (D. Di Sabato). – Parte Seconda: Aspetti fiscali del trust. – VII. La soggettività tributaria del trust nella disciplina delle imposte dirette (O. Nocerino). – VIII. La tassazione diretta dei trust in Italia (A. Parente). – IX. La tassazione indiretta del trust in Italia (C. Buccico). – X. Trust e passaggio generazionale d’impresa (A. Miele). – XI. Profili elusivi del trust (D. Casale). – Parte Terza: Il trust nel diritto straniero. – XII. Il trust nel modello internazionale: le leggi del modello internazionale, l’esperienza americana, il caso di Jersey (G. Scognamiglio). – XIII. L’applicazione delle convenzioni bilaterali al trust (F. Roccatagliata). – XIV. Trust management of property in Russia (E.P. Ermakova). – XV. Il trust nella legislazione fiscale inglese (S.TramontanoM. Valenzano. – XVI. Il trust nella legislazione fiscale svizzera (S. Ducceschi). > pp. XIV-466 - € 48,00 - ISBN 978-88-348-6292-6 > e-book € 33,99 - ISBN 978-88-9215822-1