Mitologia greca I miti sono racconti fantastici che narrano le origini, le vicende, la storia di un determinato popolo. Prima di essere scritti, miti e leggende sono stati raccontati e tramandati a voce. Il racconto mitologico tenta di dare una spiegazione dei fenomeni della natura, delle leggi della vita: la nascita, la crescita, la morte. La principale caratteristica del mito è costituita dalla presenza nel racconto delle figure divine, che hanno poteri soprannaturali e compiono azioni eccezionali. I miti quindi contengono elementi magici e religiosi ma che si riferiscono anche alla realtà poiché contengono significati profondi, legati ai sentimenti dell’uomo. Teogonia = L’origine del mondo secondo il mito greco “In principio era il Caos…” E’ il poeta Esiodo, vissuto tra l’VIII e il IX secolo a. C, a cantare per primo le origini dell’universo e degli dèi. In principio non esistevano le stelle. Non esisteva la terra. Non esisteva alcuna cosa del creato. C’era solo il Caos, UNA MASSA SENSA FORMA, una realtà indefinita e primordiale. Da Caos emergono la Notte, il Giorno e Gea (la terra), la grande madre. Poi tra gli altri si crea: Ponto (mare) con cui Gea genera mostri e figure semidivine da cui discenderà la stirpe degli umani. Appare poi Urano (cielo stellato), elemento maschile opposto a Gea. Dall’unione di Gea e Urano nascono le diverse forze attive dell’universo che rappresentano corpi celesti, aria, acqua, fuoco, e altri fenomeni naturali: cioè i Titani, i Centimani (mostri con 100 mani), i 3 Ciclopi, (mostri con un occhio solo in mezzo alla fronte che personificano forze come il lampo, il tuono e il fulmine). Via via che Gea gli partorisce figli, Urano li nasconde nella profondità della terra, dentro la madre stessa, finché Gea, sfinita, li spinge a ribellarsi. Tra questi Crono si impadronisce del potere e mutila il padre, evirandolo: dal sangue di Urano nascono i Giganti e le Erinni (furie, simbolo di vendetta), mentre dal suo seme, sparso in mare, si crea la spuma che genera Afrodite (Venere, dea della bellezza). Crono sposa sua sorella Rea e si comporta con maggiore crudeltà del padre: divora i suoi figli appena nati e, come Urano, viene sconfitto da uno di essi: suo figlio Zeus che, scampato alla sua ferocia, lo costringe a vomitare i fratelli che lo riconoscono capo supremo. Con loro fisserà la sua sede nell’Olimpo (monte della Grecia, dimora degli dei). SCHEMA RIASSUNTIVO CAOS = massa informe, realtà indefinita. da dal Caos nascono GIORNO NOTTE GEA PONTO (Madre – Terra) (Mare) URANO (cielo stellato) Gea e Urano generano Centimani Ciclopi Titani CRONO REA generano ERINNI GIGANTI POSEIDONE (dio del mare) AFRODITE ZEUS (padre di tutti gli dei dell’Olimpo) CAOS (massa informe) GIORNO NOTTE GEA (madre terra) URANO (cielo) PONTO (mare) AFRODITE (Venere) REA CRONO TITANI (primi dei) CICLOPI (1 occhio solo) CENTIMANI (con 100 mani) POSEIDONE (dio del mare) ZEUS (padre degli dei) ERINNI (furie, simboli di vendetta) GIGANTI (esseri enormi, giganteschi) Rappresentazione di Gea fra Aria ed Acqua, rilievo romano I sec. a.C. Tre diverse rappresentazioni di Crono Crono con la falce ha punito il padre Crono divora uno dei suoi figli Crono = simbolo del Tempo (clessidra) GIOVE Padre degli dei dell’Olimpo I suoi poteri erano superiori a quelli di tutti gli altri dei. Comandava su tutti. Come tutti gli dei interveniva a favore o sfavore degli uomini, premiandoli o punendoli per le loro azioni. Zeus (Giove per i Romani) viene rappresentato come un vecchio imponente, dalla corporatura possente, con lunghi capelli e barba bianchi. Spesso alla guida del suo carro e con in mano un fulmine con il quale egli colpiva coloro che dovevano essere puniti. Afrodite (Venere) Afrodite nella mitologia greca era la dea della bellezza e dell'amore, sia quello puro e ideale che quello terreno, sensuale. Il mito vuole che sia nata dalle spume del mare nei pressi dell'isola di Cipro (vedi mito "La nascita del mondo"). Fu sposa del bruttissimo Efesto per volere di Zeus ma ebbe tantissime avventure sia con altri dei (come Marte, Ares per i Greci, dio della guerra) che con mortali (come Adone). Tra i tanti figli il più noto è Eros (Cupido) Le sue piante sacre erano il mirto, la rosa, il melo, il papavero e tra gli animali la colomba, il passero, il cigno, la lepre, il capro, la tartaruga e il delfino. Venere e Adone, Canova, Villa La Grange, Ginevra. Nascita di Venere, Sandro Botticelli, 1480, Galleria degli Uffizi, Firenze L’opera non raffigura la nascita della dea ma il suo approdo sull'isola di Cipro. Venere nuda avanza leggera fluttuando su una conchiglia sulle onde del mare, in tutta la sua grazia e bellezza come una splendida statua antica. Viene sospinta e riscaldata dal soffio dei venti tra cui Zefiro, vento fecondatore. Sulla riva una fanciulla, un’ancella di Venere una delle Ore che segna il mutare del tempo e in particolare la stagione della Primavera, ha un vestito setoso riccamente decorato con fiori e ghirlande; essa porge alla dea un magnifico manto rosa ricamato dei fiori, simboli della dea, per proteggerla Eros (Amore, Cupido) Eros è nella mitologia greca il dio dell’amore, figlio di Afrodite, Eros era un dio che veniva rappresentato sempre giovane. Era egoista e crudele tanto che Zeus consigliò ad Afrodite di ucciderlo. Ma Afrodite non ebbe il coraggio di farlo e perciò lo nascose nel bosco dove venne allevato dagli animali selvatici rendendolo ancora più capriccioso e malvagio sia verso gli uomini che verso gli dei. Eros (Amore) e Psiche Nella mitologia latina Eros è identificato con Cupido e conserva gli stessi attributi. Il suo mito si lega a quello di Psiche, che significa “anima”, una giovane e bellissima fanciulla di cui si innamora perdutamente Cupido, il quale trasporta Psiche in uno splendido palazzo e la fa sua sposa, imponendole tuttavia di non cercare mai di conoscere la sua identità. Ma la felicità dei due giovani è minacciata sia dall’invidia delle due sorelle di Psiche, sia dalla decisa ostilità di Venere, che non vuole per suo figlio una sposa mortale e soprattutto una ragazza tanto bella da essere addirittura paragonata a lei. Seguendo i perfidi consigli della sorelle, Psiche disobbedisce ad Amore, che di conseguenza l’abbandona; disperata va alla ricerca dello sposo, ma finisce tra le mani di Venere che la costringe a sottoporsi a prove “impossibili”, dalle quali esce tuttavia vittoriosa. La storia è a lieto fine: Giove in persona celebrerà le nozze tra Amore e Psiche (vedi figura) e conferirà alla fanciulla l'immortalità ed il rango di dea. Antonio Canova, Amore e Psiche (1793), Museo del Louvre (Parigi). L'opera rappresenta il dio Amore mentre contempla con tenerezza il volto della fanciulla amata, ricambiato da Psiche. E’ un momento di grande tenerezza che l’artista ferma con grande grazia, delicatezza ed eleganza ma anche sensualità e proprio per la sua bellezza perfetta e l’armonia che la caratterizzano è molto simile alle sculture classiche del mondo greco e romano. Le figure sono rappresentate nell'atto che precede il bacio, si intersecano tra di loro formando una X morbida e sinuosa nello spazio. La scultura è realizzata in marmo bianco, levigato e finemente tornito, dando l’effetto realistico della carne, che Canova mirava a ottenere nelle proprie opere. Il pomo della Discordia Venere (Afrodite per i greci), la Dea della luce, della bellezza e dell'amore, nacque in un'alba di primavera nel mare argentato di Cipro. Giove mandò dal Cielo un carro tirato da bianche colombe e in quel cocchio Venere apparve agli Dei riuniti sull'Olimpo ad attenderla. Un saluto trionfale accolse la nuova Dea e tutti la elessero, unanimi, regina di bellezza. Ma le altre due Dee, Giunone e Minerva, che fino allora avevano tenuto lo scettro della bellezza sull'Olimpo, sentirono invidia a quelle ovazioni entusiaste. E ne approfittò la livida Discordia per eccitare gli animi e così gettò inosservata per terra un pomo di oro massiccio, dove era scritto "Alla più bella". Giunone subito lo raccolse, Minerva glielo strappò di mano, Venere reclamò per sé il pomo scintillante. Giove per mettere fine al litigio disse alle tre Dee: "Scendete tutte sul monte Ida e chiedete il giudizio di Paride che sta guardando pascere i suoi armenti sulla prateria. Egli deciderà quale di voi sia la più bella!". Le Dee obbedirono e, scese sulla montagna, dissero al bel principe pastore: "A chi di noi daresti tu il pomo destinato alla Dea più bella?". Paride rimase a lungo stupito davanti a quelle sfolgoranti bellezze e veramente non sapeva neppure lui quale scegliere. Ma infine, mentre le divinità attendevano intrepide il suo giudizio,si accostò a Venere e le diede il pomo,dicendo: "A te Venere, il pomo della bellezza". E così da allora la Dea nata dalla schiuma candida delle acque di Cipro restò incontrastata regina di bellezza, grazia e di amore nell'Olimpo. Sandro Botticelli Il giudizio di Paride Orfeo e Euridice Orfeo, cantore e musico tracio, sposò la ninfa Euridice, la quale nel giorno stesso delle nozze morì per il morso di un serpente. Orfeo disperato per la morte prematura della moglie, dopo averla pianta sulla terra, decise di scendere agl’Inferi per pregare i signori di quei luoghi di restituirgliela. La sua supplica a Plutone e Proserpina (sovrani degli Inferi) fu accompagnata dallo splendido suono della sua lira: invocando Amore, Orfeo chiese che la sua amata potesse ritornare con lui sulla terra, poiché il filo della sua vita era stato spezzato troppo presto. Se gli dei gli avessero negato questa possibilità sarebbe rimasto anche lui in quel luogo. La supplica di Orfeo commosse quanti in quel momento si trovavano in quel luogo, Il re e la regina degl’Inferi, anch’essi colpiti da tale preghiera richiamarono Euridice. Una però fu la condizione posta ad Orfeo per riavere la sua amata: non avrebbe dovuta guardarla fino a quando non fossero usciti dalla vallata dell’Averno, altrimenti la grazia sarebbe stata vana. Non lontani dall’uscita però, forse per paura di perderla, il musico contravvenne al patto e si girò a guardarla. Subito Euridice fu risucchiata indietro, inutilmente cercò di tendere le braccia per essere afferrata, e disse per l’ultima volta addio al suo amore. Orfeo cercò di raggiungere gl’Inferi una seconda volta ma fu scacciato . Per sette giorni il cantore rimase sulla riva del fiume infernale, senza mangiare, pieno di disperazione e dolore, per poi ritirarsi su un monte sconfitto e rassegnato. Titolo dell’opera: Orfeo conduce Euridice fuori dagl’Inferi Autore: Maestro della Città delle Dame Datazione: 1410-1415 Collocazione: Londra, British Library, da un manoscritto. Tecnica: miniatura Personaggi: Orfeo, Euridice, demoni Attributi: arpa (Orfeo) Contesto: scena all’aperto Annotazioni: la miniatura rappresenta Euridice alle porte dell’Inferno e Orfeo che vuole riaverla con una preghiera accompagnata dal suono della sua lira. I due coniugi sono raffigurati davanti all’ingresso dell’Inferno, realizzato come una cavità, a guardia della quale stanno due demoni e da cui fuoriescono delle lingue di fuoco. Euridice, raffigurata con un lungo abito blu, ha gli occhi rivolti verso il basso, una mano poggiata sul ventre e una sul seno. Di fronte a lei si trova Orfeo, anch’egli con lo sguardo basso mentre suona un’arpa, in abiti sicuramente medievali cortesi, molto simili a quelli di un menestrello. Prometeo Prometeo è un Titano scaltro e intelligente. Durante una contesa fra dèi e uomini, è chiamato a spartire un bue; prepara quindi, in una porzione, le ossa nascoste sotto uno strato di grasso e nell’altra, la parte commestibile dissimulata dalla pelle e dallo stomaco. Zeus finge di non accorgersi dell’inganno e sceglie per sé la porzione non commestibile. In seguito, furioso per il tranello subito, il re degli dèi si rifiuta di concedere agli uomini il fuoco di cui avevano goduto fino a quel momento. Prometeo quindi interviene rubandolo e per questo viene fatto incatenare sul monte Caucaso e tormentare da un’aquila in un eterno supplizio. Il rapace infatti ogni giorno si nutre del suo fegato che però di notte ricresce. Ad interrompere il crudele castigo interviene Eracle che, uccisa l’aquila con una freccia, libera Prometeo dopo trentamila anni. Titolo e data dell'opera: Il supplizio di Prometeo, 1612 Autore: Peter Paul Rubens Collocazione: Museo dell’arte di Philadelphia Tipologia: dipinto ad olio su tela Caratteristiche: nudità, vincoli, aquila, torcia accesa (Prometeo) Qui è raffigurato il momento del supplizio con estrema crudezza. Il dolore terribile subito da Prometeo si nota nell’espressione deformata del volto, nella contrazione del corpo e nel pugno chiuso. Ancorato dalle catene ad una roccia, Prometeo, è sdraiato al suolo, con la testa rivolta verso il basso, quasi sospeso nel vuoto. Una grande aquila dalle ali spiegate si poggia con gli artigli sul suo corpo, una zampa sul ventre ed una sul viso, mentre con il becco estrae da una ferita aperta le sue interiora sanguinanti. Eco e Narciso Molto tempo fa, vivevano le Ninfe, bellissime fanciulle, vestite di preziosi veli d'oro e d'argento. Amavano ballare e cantare e la loro voce era talmente melodica che incantava chiunque le sentisse. Oltre alle Ninfe, c'erano anche i Satiri, giovani fannulloni, sempre pronti a divertirsi ed uno di loro si chiamava Pan. Pan, era il dio dei pastori, il suo aspetto era orribile e deforme; al posto dei piedi aveva due zoccoli da caprone, il suo viso era rugoso e le sue orecchie erano appuntite. Inoltre sulla fronte, aveva due corna da capra che lo rendevano pauroso. Pan trascorreva intere giornate a suonare il suo flauto fatto di canne e spesso cantava. Un giorno, egli udì una bellissima voce provenire da un cespuglio; subito si mise a sbirciare e vide una bellissima Ninfa che raccoglieva fiori. Il suo nome era Eco, e Pan, fu talmente incantato dalla sua bellezza che le si avvicinò chiedendola in sposa. Eco rimase terrorizzata alla vista di quell’essere e subito corse via urlando e pregando Pan di lasciarla in pace. Ma Pan continuava a inseguirla. La Ninfa, sfinita, trovò una caverna ed entrò per rifugiarsi. Eco era innamorata di Narciso, un bellissimo giovane, che amava la caccia, e, ancora piena di spavento incominciò a chiamarlo sperando che accorresse in suo aiuto. La povera Ninfa trascorse così giorni e giorni nascosta nella buia caverna, chiamando continuamente il suo amato, ma inutilmente. Narciso, aveva un cuore arido ed era così pieno di superbia e fiero di sé che non aveva attenzioni per nessuno tranne di sé stesso. Un giorno, mentre cacciava, udì le invocazioni di Eco e, quando capì che si trattava di lei, decise ugualmente di continuare la caccia e proseguì. Gli dei, che dall'Olimpo avevano visto il comportamento di Narciso, decisero di punire il giovane per la sua crudeltà. Trascorsero giorni e intanto faceva molto caldo e, il giovane, stanco e assetato si mise in cerca di uno stagno per dissetarsi. Quando lo trovò si sporse per bere e vide la sua immagine riflessa nell'acqua e, sbalordito di tanta bellezza, s'innamorò all'istante di sé stesso e da quel momento rimase fermo immobile senza mai staccare il suo volto riflesso nello stagno, come in preda ad un incantesimo. Intanto il sole iniziava a calare e, Narciso cominciava a perdere le forze, non riusciva a muoversi e il suo viso piano piano impallidiva sempre più. Rimase così a lungo finché non morì. Questa fu la punizione degli dei. Titolo e data dell'opera: Narciso al fonte, 1600 ca. Autore: Michelangelo Merisi (detto Caravaggio) Datazione: Collocazione: Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica Tecnica: dipinto ad olio su tela Attributi: giovane di bell’aspetto, si specchia in una fonte (Narciso) Annotazioni: il pittore evidenzia la drammaticità dell’amore di Narciso per se stesso: la raffigurazione, invece di perdersi nel paesaggio e su particolari come la ninfa Eco o gli arnesi per la caccia, si concentra sul giovane. Questicontempla la propria immagine ed immerge la mano sinistra nell’acqua, quasi a voler afferrare l’oggetto del suo desiderio. Atena e Aracne La bella e coraggiosa Minerva (Atena per i greci) era la dea della guerra ma era donna e amava anche le tranquille gioie della pace. Le sue instancabili dita sapevano tessere meravigliosamente bene e sapevano creare ricami di mirabile fattura. Nessuna dea, nessuna Ninfa, nessun mortale potevano starle a paragone. Ma nella Lidia abitava una fanciulla orgogliosa, Aracne, la quale non voleva saperne di dovere la propria bravura agli insegnamenti di Minerva. Tesseva, cuciva, e ricamava così bene che, per ammirare le sue tele smaglianti, le Ninfe, stupite dalle sue opere le chiedevano se avesse una dote divina. E la fanciulla rispondeva di se, che nessuno le aveva insegnato nulla, dicendo di ricamare col proprio cuore e con l'abile pazienza delle sue dita. Minerva seppe dalle Ninfe pettegole la risposta orgogliosa della fanciulla e scese sulla terra sotto forma di una vecchia rugosa. Un giorno bussò alla sua porta e Aracne, che stava come al solito tessendo al telaio, la fece entrare. la vecchietta ammirò le sue tele sottolineando come solo la dea guerriera Minerva, fosse in grado di farne di così belli". Aracne le rsispose che avrebbe voluto misurarsi con lei, sostenendo perfino che avrebbe vinto sicuramente la gara. La vecchina le rispose di non essere così orgogliosa e di non sfidare gli dei, altrimenti se ne sarebbe pentita. Ma la fanciulla continuò dicendo che nessuna avrebbe mai potuto superare le sue grandi doti di tessitrice. A questo punto la dea, indispettita, decise di rivelarsi alla fanciulla e in un istante le sue rughe scomparvero, i capelli bianchi si accesero di bagliori dorati, la schiena curva si raddrizzò. Dinanzi agli occhi stupiti di Aracne, il corpo della dea apparve, splendido di bellezza, e un lampo di minaccia folgorò la tessitrice tremante. La dea le impose di iniziare la gara e così fu: ciascuna delle due si mise al lavoro dinanzi al proprio telaio. Per giorni e notti silenziose, instancabili, rimasero chine sui loro ricami. Aracne, istoriò gli episodi più belli della vita degli Dei e Minerva la magnificenza dell'Olimpo. Alla fine i due lavori avevano raggiunto entrambe una tale bellezza da sembrare viventi scene da sogno. Minerva, irritata, strappò in cento pezzi il lungo lavoro di Aracne, intimandole di meritare la porte per aver osato svidarla. Ma poi, impietosita dalle lacrime della fanciulla terrorizzata di morire decise di punirla diversamente facendola vivere ma perennemente appesa ad un filo. La toccò sulle spalle con la lancia dorata e la tessitrice si fece piccola piccola, il corpo si aggrinzì e divenne peloso e le gambe si trasformarono in tante zampette sottili. La fanciulla era diventata un grosso ragno nero! E da quel giorno, eternamente, tessé le sue tele sottili negli angoli tranquilli, tra i rami e i cespugli dei boschi. Atena e Aracne Titolo e data dell'opera: Aracne e Minerva 1540-1543 Autore: Herman Posthumus Collocazione:, residenza di Landshut, Sala di Aracne Tipologia: dipinto murario Soggetto principale: Minerva colpisce la tela di Aracne con una spola Attributi: elmo, scudo, corazza, asta (Minerva); telaio, spola (Aracne) Annotazioni: questa immagine rappresenta il momento in cui Minerva, adirata con Aracne, fa a pezzi la sua tela mentre questa è ancora seduta al telaio, come se ancora non avesse terminato il suo lavoro Apollo e Dafne Dopo aver ucciso il serpente Pitone, Apollo si sentì particolarmente fiero di sé, perciò si vantò della sua impresa con Cupido, dio dell’Amore, sorridendo del fatto che anche lui portasse arco e frecce, ed affermando che quelle non sembravano armi adatte a lui. Cupido indignato, decise allora di vendicarsi: colpì il dio con la freccia d’oro che faceva innamorare, e la ninfa, di cui sapeva che Apollo si sarebbe invaghito, con la freccia di piombo che faceva rifuggire l’amore, per dimostrare al dio di cosa fosse capace il suo arco. Apollo, non appena vide la ninfa chiamata Dafne, figlia del dio-fiume Peneo, se ne innamorò. Tuttavia, se già prima la fanciulla aveva rifiutato l’amore, dedicandosi piuttosto alla caccia come seguace di Diana, essendo stata colpita dalla freccia di piombo di Cupido, quando vide il dio, cominciò a fuggire. Apollo iniziò allora ad inseguirla, elencandole i suoi poteri per convincerla a fermarsi, ma la ninfa continuò a correre, finché, ormai quasi sfinita, non giunse presso il fiume Peneo, e chiese al padre di aiutarla facendo dissolvere la sua forma. Dafne si trasformò così in albero d’alloro prima che il dio riuscisse ad averla, egli, tuttavia, decise di rendere questa pianta sempreverde e di considerarla a lui sacra: con questa avrebbe ornato la sua chioma, la cetra e la faretra; ed inoltre, d’alloro sarebbero stati incoronati in seguito i vincitori e i condottieri. Titolo dell'opera: Apollo e Dafne Autore: Gian Lorenzo Bernini Datazione: 1622-1625 Collocazione: Roma, Galleria Borghese Committenza: cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V Tecnica: scultura in marmo (h. 2,43 m) Soggetto Dafne e Apollo Attributi: gambe in forma di tronco, piedi in radici, mani e capelli in forma di foglie d’alloro Annotazioni: L’artista ha qui tentato di rappresentare il momento della metamorfosi (trasformazione) di Dafne in pianta di alloro, rendendo il movimento in scultura, operazione difficile considerata la durezza del marmo. Tuttavia egli lo ha lavorato e lisciato a tal punto, da renderlo sottile come la pelle, mostrando anche quelle piccole pieghe che si formano durante certi gesti. E’ riuscito quasi a trasmettere la vita al marmo attraverso il movimento: Apollo è colto nel suo inseguimento mentre compie l’ultimo slancio verso l’amata ninfa: ha la gamba sinistra sollevata, il mantello gonfiato dal vento alle sue spalle ed i capelli mossi all’indietro: egli affonda una mano nella carne della fanciulla, toccandole un fianco, mentre il suo volto sembra piuttosto concentrato e pensieroso. Dafne è raffigurata invece nel momento in cui il suo corpo gira su stesso per sfuggire alla presa del dio e proseguire la sua fuga, come si vede nella parte superiore della figura, nel busto, e soprattutto nel modo in cui i capelli ruotano al vento. Intanto le sue gambe rimangono fisse nel terreno, il piede sinistro ha perso quasi del tutto l’aspetto umano, ed è divenuto radice come sta accadendo al destro, che la ninfa cerca ancora di sollevare, inoltre la corteggia sta già avvolgendola, fondendosi in parte con la sua carne. Nello stesso tempo le punte delle sue dita sono divenute foglie d’alloro, così come le estremità di quei capelli che ruotano nel vento. L’espressione del volto e la bocca semiaperta mettono in risalto la sensazione di terrore provata da Dafne mentre sta per essere raggiunta dal dio. Il labirinto di Minasse e il Minotauro. Mito di Teseo e Arianna. Il mito narra del Minotauro un mostro metà uomo e metà toro, vissuto nell’isola di Creta, nel mar Mediterraneo. Il mostro fu rinchiuso in un intricato labirinto, costruito da Dedalo su ordine del re di Creta, Minosse. Per nutrire il re, si faceva mandare ogni anno dagli abitanti della città di Atene, sette fanciulli e sette fanciulle. Fino a quando giunse a Creta Teseo, figlio del re di Atene, che si finse parte del gruppo dei fanciulli da sacrificare perché voleva porre fine a quelle morti. L'impresa era molto difficile non solo perché doveva uccidere il Minotauro, ma perché una volta entrato nel labirinto, era impossibile uscirne. Il giovane chiese allora aiuto ad Arianna figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, alla quale dichiarò il suo amore e questa a sua volta, innamoratasi perdutamente di Teseo, si consigliò con Dedalo che gli suggerì di legare all'ingresso del labirinto un filo che sarebbe stato dipanato mano mano che si procedeva. In questo modo sulla via del ritorno, riavvolgendolo, si sarebbe trovata l'uscita. Quando fu il turno di Teseo di essere sacrificato al Minotauro questi dipanò il filo lungo la strada e quando giunse al cospetto del mostro lo uccise e riavvolgendo il filo, riuscì a uscire dal labirinto. Finì così l'orrendo sacrificio che era stato imposto da Minosse agli ateniesi e contemporaneamente Teseo e Arianna fuggirono insieme da Creta. Teseo e il Minotauro (1826), Giardino delle Tuileries, Parigi