Saggio contenuto in M.G. Di Monte (a cura di), Immagine e scrittura, Roma, Meltemi, 2006, pp. 26-43. Grazia Basile (Università di Salerno) Parlare e scrivere: due modi diversi di significare 1. La produzione di parole e di immagini Ciascun essere umano, fin dai primi istanti della propria esistenza, sperimenta sensazioni di diverso tipo, in particolare si trova in contatto percettivo con realtà visive e realtà acustiche, così come con realtà tattili, olfattive, insomma con tutte le entità mediate dagli organi di senso. Quando poi il bambino, nel corso del suo sviluppo ontogenetico, comincia a dare una propria rappresentazione e configurazione del reale, utilizza delle forme che sono prevalentemente parole e immagini. Come sostiene Antonino Pagliaro (1898-1973), la libertà, che opera nella nostra coscienza, si manifesta essa pure in realtà conformi: la parola traduce in suoni i moti della coscienza, il movimento attua come immagine gli atteggiamenti molteplici della vita. […] Parole e immagini (nel senso ampio di configurazione del reale) sono tutta la storia degli uomini, cioè il modo in cui quella libertà si determina ed obiettiva. I momenti soggettivi di tale obiettivazione sono il discorso e il gesto, che danno forma e realtà al moto della coscienza (…). Forse il problema genetico e fenomenologico dell’arte ha qui il suo punto cruciale: l’arte nasce quando la voce e il gesto sono soltanto se stessi, una manifestazione di vita che trova in sé il suo fine e la sua gioiosa catarsi (Pagliaro, 1957, p. 97). Sia il momento del discorso che quello dell’immagine sono accomunati da Pagliaro in quanto entrambi - se considerati ciascuno autonomamente - acquistano l’aspetto di realtà autonome, di rappresentazioni della vita della coscienza che possono dare origine a una riflessione di tipo estetico (nel senso kantiano di produzione di giudizi di gusto) e, in questo senso, entrambi possono essere considerati come momenti costitutivi dell’arte. Sia le parole che le immagini danno forma sensibile a certe rappresentazioni, a certi stati della realtà percettiva come pure a certi stati della coscienza e quindi, in questo senso, hanno origine da un più generale processo di semiosi. 1 Non è un caso, a questo proposito, che in quasi tutte le civiltà gli inizi della scrittura presentino delle caratteristiche simili: i primi tentativi sono sempre stati disegni, pittogrammi o combinazioni di pittogrammi. Alcuni di questi ultimi, pur appartenendo a civiltà molto diverse tra loro, presentano rassomiglianze sorprendenti (Jean, 1986, pp. 46-47). Partiamo dunque da un punto di vista semiotico più generale, richiamandoci alla definizione di semiotica data da Umberto Eco nel Trattato di semiotica generale (1975), per cui la semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunta come segno, intendendo genericamente per segno ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro (cfr. Eco, 1975, p. 17)1. Il momento - per dir così - costitutivo e trascendentale di un segno è dato dalla nascita di una qualsivoglia rappresentazione, la quale prevede sia un’operazione di tipo intellettuale, sia lo stabilirsi di un principio di intesa con se stessi e con gli altri. Noi esseri umani partiamo da un primo livello di semiosi in cui fissiamo la nostra attenzione su qualcosa (per esempio su un animale, un oggetto, il volto di una persona ecc.), insomma individuiamo qualcosa che desta la nostra attenzione e con cui dobbiamo fare i conti2, e quindi ci poniamo in rapporto unicamente con la referenza. Tuttavia, nel momento in cui stabiliamo che quel qualcosa debba avere un nome, e dunque nel momento in cui ci poniamo all’interno di un codice di tipo linguistico che regola il processo di significazione, compiamo un salto teorico molto importante e la questione diventa più complessa. Siamo in presenza di un segno, di un’entità - per rifarci all’insegnamento del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1857-1913) - concepita come l’unione di un significante (inteso come classe astratta di fonie) e di un significato (inteso come classe astratta di significazioni), e, di conseguenza, di un codice come sistema di segni. L’esistenza di un codice è la condizione di possibilità 1 È interessante notare – soprattutto in relazione al rapporto tra immagine e scrittura - come la parola latina signum, da cui deriva la parola italiana segno era lo stendardo che ciascuna unità dell’esercito romano innalzava in modo che potesse essere identificato visivamente. Come documenta Ong (1982, p. 110), “etimologicamente, indicava l’ ‘oggetto che uno segue’, dalla radice proto-indoeuropea sekw- seguire. Sebbene i Romani conoscessero l’alfabeto, questo signum veniva inteso non come una parola scritta, ma come una specie di disegno o immagine pittorica, ad esempio un’aquila”. 2 Cfr. Eco (1997), il quale a questo proposito sostiene che questo qualcosa è la condizione di ogni semiosi e “precede persino quell’atto di attenzione (già semiosico, già effetto di pensiero) per cui decido che qualcosa è pertinente, curioso, intrigante, e deve essere spiegato attraverso un’ipotesi. Viene prima ancora della curiosità, prima ancora della percezione dell’oggetto in quanto oggetto” (Eco, 1997, p. 6). 2 perché ci sia significazione e perché ci sia comunicazione tra gli esseri umani. Come aveva ben sottolineato Ernst Cassirer (1874-1945) nel suo Saggio sull’uomo, il produrre/fruire di segni e significazioni appare connaturato alla condizione specie-specifica del soggetto umano, concepito quale animale simbolico-culturale. L’uomo condivide con le altre specie animali il sistema ricettivo e quello reattivo, ma tipico dell’animale umano è un terzo sistema che Cassirer chiama “sistema simbolico, l’apparizione del quale trasforma tutta la sua situazione esistenziale [corsivi nel testo]” (Cassirer, 1944, p. 79). L’uomo quindi non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza. (…) Invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum. In tal guisa si indicherà ciò che veramente lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà (Cassirer, 1944, pp. 80-81). In quest’ottica è di importanza cruciale il rapporto tra il linguaggio e tutto il mondo non linguistico della nostra esperienza. A questo proposito, parliamo di lessicalizzazione per riferirci a quel fondamentale processo per cui nel e attraverso il sistema linguistico diamo forma a configurazioni e agglomerati esperienziali con una forte rilevanza (vedi Violi, 1997, p. 5). In pratica ciò che viene lessicalizzato è tutto ciò che è avvertito come maggiormente rilevante o saliente a livello percettivo, esperienziale, culturale, simbolico ecc., e dunque tutto il rapporto tra la lingua e il mondo extralinguistico passa attraverso il filtro del nostro apparato fisico, percettivo e simbolico di esseri umani finiti e inseriti in un determinato ambiente naturale e culturale. Tuttavia i modi di dare forma a configurazioni e agglomerati esperienziali di rilievo non sono soltanto - come si sa - modi linguistici, nel senso che, a livello di costituzione del segno, la parte materiale di quest’ultimo può essere di tipo fonico-acustico, visivo, mimico-gestuale ecc., a seconda dei diversi tipi di codici di cui come esseri umani disponiamo. Come sottolinea Pagliaro, la difficoltà in cui si trovò il primo uomo che volle richiamare la visione di una lepre in fuga, è in sostanza dello stesso ordine di quella di un pittore che voglia visivamente rappresentare uno stato d’animo, legato con una sensazione acustica. Supponiamo che egli intenda obiettivare con i mezzi della sua arte il rumore del vento: non avrà altra possibilità se non di rifarsi a esperienze di ordine visivo, che nella sua e nell’altrui 3 coscienza sono in grado di evocare le sensazioni di vario ordine provocate da quel valore acustico. Potrà, ad esempio, rappresentare un gruppo di alberi che si piegano sotto la raffica, un cascinale con le imposte battute a mezz’aria, scompiglio di panni sull’aia e magari un cavallo che nitrisce gagliardamente alle aure (Pagliaro, 1957, pp. 77-78). Nelle parole di Pagliaro è espresso un aspetto semiotico di primaria importanza, ossia la possibilità di trasferire un contenuto di tipo mentale, percettivo ecc. in un codice di qualche tipo. Il materiale contenutistico a cui vogliamo dar forma (sia essa grafica, pittorica, mimica ecc.) è, in un certo senso, multimediale: è composto da percezioni, affetti, emozioni, ricordi ecc. e i vari tipi di codice nei quali può trovare espressione sono prodotti, in parte, dai vari organi percettivi: abbiamo così immagini, odori, sapori, sensazioni tattili, suoni. Tra i vari tipi di codice esiste una sorta di comunicazione intrinseca, nel senso che è possibile quella che Roman Jakobson (1896-1982) aveva chiamato la traduzione intersemiotica (vedi Jakobson, 1959, p. 57), che consente da una parte - come sostiene Jakobson - l’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici, e, dall’altra – potremmo dire - anche la traduzione, la comunicazione tra tipi di codici diversi. Nel caso particolare della produzione dei testi orali e/o scritti, è come se nella mente dell’autore che decide di produrre, di comunicare un determinato contenuto informativo cominciasse a prendere forma un cosiddetto testo mentale. Questo testo mentale non è – come potrebbe apparire a prima vista – interamente frutto della creatività individuale dell’autore. Ognuno di noi infatti è sottoposto a continue influenze che vengono dall’esterno, e ciò che pensiamo è frutto sì della nostra originale creatività e capacità di elaborazione, ma risente anche delle caratteristiche dell’ambiente culturale in cui ci troviamo. Una volta pensato, tale testo mentale può materializzarsi, trovare una forma percepibile dai nostri organi di senso in vari modi. In questa sede prenderemo in considerazione il modo in cui il piano dei nostri contenuti mentali, il piano del nostro immaginario trova forma espressiva nell’oralità e/o nella scrittura. 2. Sulle origini della scrittura Prendiamo ora in esame alcune teorie sull’origine della scrittura. Platone (427-347 a.C.) nel Fedro attribuisce al faraone egiziano Thamus un elogio dei discorsi parlati e una serie di argomentazioni volte a deprezzare l’invenzione della scrittura, opera del dio Theuth che avrebbe creato la scrittura e ne avrebbe poi fatto dono agli 4 uomini3. In sostanza, Thamus rimprovera a Theuth di avere inventato un’arte che offre soltanto finzioni artificiose e spurie dei discorsi veri, che sono i discorsi parlati. La prima obiezione che il Socrate di Platone muove alla scrittura è la seguente: E ora tu, padre di esse lettere, per amore hai affermato esse fare il contrario di quello che fanno. Conciossiaché elle cagionano smemoramento nelle anime di coloro che le hanno apprese, perocché più non curano della memoria, come quelli che, fidando della scrittura, per virtù di stranii segni di fuori si rammentano delle cose, non per virtù di dentro e da sé medesimi. Dunque trovato hai medicina, non per accrescere la memoria, sibbene per rievocare le cose alla memoria (Platone, Phaedrus, LIX; trad. it. 1970, pp. 561-562). La seconda obiezione è che la parola scritta è simile alla pittura, in quanto non sa rispondere e, se interrogata “maestosamente tace”, non entra nello scambio dialettico e continua a significare sempre la stessa cosa, senza possibilità di tornare su se stessa e offrire spiegazioni di altro tipo. Sostiene infatti il Socrate di Platone: Ché, o Fedro, la scrittura ha di grave questo; ed è proprio simile alla pittura. Imperocché i figliuoli di questa stanno lì come vivi; ma se alcuna cosa domandi, maestosamente tacciono: e così le orazioni scritte. Le quali tu crederesti che un poco abbiano a intendere quel che dicono; ma se le interroghi su alcuna delle cose che dicono, per desiderio di apprendere, significano sempre il medesimo [corsivi nostri] (Platone, Phaedrus, LIX; trad. it. 1970, p. 562). Il discorso scritto sarebbe un figlio bastardo di quello orale e nient’altro. Al contrario, la parola parlata, in quanto evento sonoro, sarebbe “agonistica ed enfatica, frutto di una situazione concreta, dell’interagire immediato tra esseri umani” (Ong, 1982, p. 7). Se passiamo brevemente in rassegna i vari sistemi di scrittura prodotti dall’uomo - dal sistema cuneiforme in Mesopotamia nel 3500 a.C. ai geroglifici egiziani nel 3000 a.C., dalla cosiddetta scrittura lineare B minoica o micenea nel 1200 a.C. alla scrittura della Valle dell’Indo dal 3000 al 2400 a.C., dalla scrittura cinese del 1500 a.C. a quella maya del 50 d.C. o a quella azteca del 1400 d.C. - possiamo osservare che la maggior parte di essi “risale direttamente o meno a qualche tipo di pittografia, o forse a volte a un livello ancora più elementare, all’uso di oggetti simbolici” (Ong, 1982, p. 127). La 3 La parola geroglifico, che viene usata per designare questo tipo di caratteri della scrittura egizia, letteralmente significa “scrittura degli dèi” (dal greco hieròs “sacro” e gluphèin “incidere”). Le prime attestazioni di iscrizioni geroglifiche risalgono al III millennio a.C., anche se sembra che tale tipo di scrittura fosse in uso già nei secoli precedenti (cfr. Jean, 1986, p. 27). 5 differenza fondamentale tra i pittogrammi e i sistemi di scrittura è che nei primi il disegno di un albero, ad esempio, significa effettivamente la parola albero, mentre i secondi sviluppano altri tipi di simbolizzazione. Questa presenza dell’attività di simbolizzazione dell’uomo è presente già negli ideogrammi, il cui significato è stabilito dal codice linguistico adottato da una determinata comunità linguistica e non è direttamente raffigurato dal disegno. Come documenta Ong, “nel sistema pittografico cinese un disegno stilizzato di due alberi non rappresenta le parole ‘due alberi’, ma la parola ‘bosco’; i disegni stilizzati di una donna e di un bambino affiancati rappresenta la parola “bene”, e così via” (Ong, 1982, p. 129). Nel caso dei geroglifici, insomma, ci sarebbe una certa somiglianza o congruenza tra notazioni e idee, mentre nel caso degli ideogrammi e poi delle parole il legame sarebbe arbitrario e basato su una convenzione. Gli alfabeti sarebbero dunque derivati da scritture simboliche, come quella geroglifica, e se ne sarebbero via via allontanati fino a perdere ogni somiglianza con le entità significate4. 3. A proposito di parlato e di scritto Tornando al dialogo platonico, i linguisti hanno spesso ripreso le affermazioni del faraone Thamus, evidenziando la secondarietà dello scritto rispetto al parlato (cfr. De Mauro, 1971). Prendiamo spunto da questo dialogo per evidenziare le differenze tra scritto e parlato che negli ultimi anni sono state al centro di numerosi dibattiti tra i linguisti. Parlato e scritto sono costitutivamente diversi nel senso che danno espressione per mezzo di una sostanza diversa (fonico-acustica o grafico-visiva) al continuum del dicibile e dell’esprimibile. In generale, lo scritto viene spesso definito come un prodotto piuttosto che come un processo, mentre il parlato rappresenterebbe in maniera più iconica il fluire degli eventi. La scrittura - in sostanza - pone il discorso davanti ai nostri occhi e, contestualmente, accresce le potenzialità della conoscenza cumulativa e dell’immagazzinamento di informazioni nella nostra memoria. 4 A questo proposito cfr. Givón (1985, p. 193 sgg.) a proposito dell’evoluzione graduale della lettera A nel nostro alfabeto a partire dalla rappresentazione pittorica della testa di un toro con le corna e proseguendo per successivi livelli di astrazione fino a giungere alla nostra A, così che “the magic of iconicity has been lost, and the gradual process of abstraction/generalization of the isomorphic/iconic model has been completed” (Givón, 1985, p. 195). 6 In questa sede5 ci soffermeremo, da un lato, sulle diverse funzioni che caratterizzano il parlato rispetto allo scritto, e, dall’altro, su alcuni dati lessicali, in particolare, sulle differenze quantitative e qualitative dei nomi e dei verbi nel parlato e nello scritto, per cui nel primo caso abbiamo una prevalenza di verbi e nel secondo di nomi. Tali differenze - a nostro parere - sono da attribuire non tanto a fattori specificamente semantici, quanto piuttosto, in un’ottica in cui la semantica interagisce con le strategie discorsive e testuali, sono da ricondurre alla base pragmatica che caratterizza gli eventi comunicativi e influenza la categorialità. 3.1. Le funzioni del parlato e dello scritto Negli ultimi anni il parlato e lo scritto sono stati ricondotti, secondo una terminologia introdotta da Alberto Mioni (1983), alla variazione cosiddetta diamesica, ossia a quel tipo di variazione condizionata dal mezzo (orale o scritto) impiegato nella comunicazione. È una variazione di tipo particolare che taglia - per dir così - trasversalmente le altre varietà, proprio perché sia a livello diacronico, diatopico, diastratico e diafasico possiamo trovare delle realizzazioni scritte e parlate (cfr. lo schema proposto da Gaetano Berruto, 1987: 21 per dar conto delle varietà presenti nel repertorio linguistico dell’italiano contemporaneo). Nella tradizione linguistica italiana è sempre esistita una profonda separazione tra il livello della scrittura e il livello dell’oralità, tanto che in taluni momenti l’uso dell’uno o dell’altro mezzo era sufficiente a selezionare un codice linguistico diverso, ad esempio l’italiano letterario per la scrittura e il dialetto locale per l’oralità, comportando pertanto non soltanto variazione, ma addirittura una situazione di bilinguismo. In generale, nell’architettura degli usi sociolinguistici di tutte le lingue, tali poli sono di norma piuttosto distanti tra loro, innanzitutto perché non poche lingue sono soltanto parlate (e dunque non presentano varietà differenziate diamesicamente), e, in secondo luogo, perché nelle lingue in cui esiste la scrittura questa nasce per riprodurre, memorizzare e trasmettere il parlato a distanza di spazio e di tempo, e questo fatto la rende, di conseguenza, conservatrice rispetto alla dinamicità del suo modello parlato. Senza contare che in una gran parte delle comunità linguistiche la scrittura è, almeno nelle fasi iniziali, appannaggio di ristrette cerchie (di intellettuali, di sacerdoti, di aristocratici ecc.) che tendono ad accentuare il conservatorismo delle produzioni scritte a fini discriminatori. Se ci poniamo in una 5 Per quanto riguarda le principali caratteristiche del parlato a livello di percezione, di ricorso a elementi deittici per l’organizzazione del discorso, a livello sintattico, di ordine dei costituenti, a livello di morfologia, di pronuncia e di lessico rimandiamo a Berruto (1993; 20005). 7 prospettiva storica ed evolutiva, il parlato è chiaramente primario, nel senso che viene acquisito prima dello scritto, tuttavia, una volta che una cultura ha sviluppato la comunicazione scritta, non c’è nessuna ragione di considerare lo scritto come secondario6. Sebbene sia lo scritto che il parlato possano essere usati per quasi ogni bisogno comunicativo, noi - come ha messo in evidenza Douglas Biber in Variation across Speech and Writing (1988) - di fatto non usiamo le due forme in maniera intercambiabile, ma, a seconda delle diverse situazioni comunicative, scegliamo una modalità piuttosto che un’altra. Infatti, una volta che una cultura ha sviluppato una forma scritta in aggiunta a una forma orale, le due modalità rispondono a differenti scopi comunicativi. Parlato e scritto sono insomma diversi e nessuno è primario rispetto all’altro. Lingua scritta e lingua parlata sono funzionalmente diverse nel senso che significano in modi diversi. Come abbiamo già visto nel paragrafo 1, noi esseri umani ci cimentiamo fin dai primi istanti della nostra vita con operazioni di semiosi, ossia tentiamo di dare una forma, di porre delle delimitazioni sia alla serie di fenomeni che ci si presentano dinanzi, sia, più in generale, alla materia del contenuto di cui parla il linguista danese Louis Hjelmslev (18991965), dunque a tutto ciò che è pensabile, esprimibile e dicibile. Ad una prima considerazione, la funzione principale del linguaggio sembra essere dunque proprio quella di significare, ossia di dare espressione a dei contenuti, a delle idee, a dei pensieri ecc. Espressione e contenuto sono - per riprendere la definizione proposta da Hjelmslev ne I fondamenti della teoria del linguaggio (1943) solidali, nel senso che si presuppongono reciprocamente in maniera necessaria. Un’espressione è tale se e solo se è espressione di un contenuto, e, viceversa, un contenuto è tale se e solo se è contenuto di un’espressione. Insomma, espressione e contenuto hanno fra loro un rapporto solidale che è di funzione segnica e quindi, considerando rispettivamente il rapporto tra la forma dell’espressione e la forma del contenuto, abbiamo un segno. Quando però abbiamo a che fare con la lingua parlata o con la lingua scritta è proprio la sostanza dell’espressione che è diversa, essendo costituita da materiale fonicoacustico nel caso del parlato e da materiale grafico-visivo nello scritto. Ed è proprio tale diversità a livello di sostanza, oltre alle diverse condizioni e ai diversi contesti di enunciazione che caratterizzano il parlato rispetto allo scritto, che fa sì che il parlato e lo scritto si 6 La scrittura non è una semplice appendice del discorso orale “poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella della vista, […] trasforma al tempo stesso discorso e pensiero. Le incisioni sui bastoni e gli altri aides-mémoire conducono infine alla scrittura, ma non ristrutturano l’ambiente vitale umano come fa la scrittura vera e propria” (Ong, 1982, p. 127). 8 rapportino in maniera diversa al continuum di tutto ciò che è dicibile, pensabile, esprimibile ecc. Il parlato e la scrittura, in sostanza, impongono delle griglie diverse all’esperienza e che, in un certo senso, creano realtà diverse, in quanto, molto schematicamente, la scrittura creerebbe un mondo di cose, di prodotti e il parlato un mondo di avvenimenti, di eventi (cfr. Halliday, 1985, p. 167). La lingua scritta presenta una visione sinottica della realtà e definisce il suo universo (cfr. supra, § 3) come prodotto piuttosto che come processo. La lingua parlata, invece, presenta una visione dinamica della realtà, in quanto essa definisce il suo universo in prima istanza come processo, codificandolo non come una struttura, ma come una costruzione e/o una demolizione7. Nella lingua parlata i fenomeni - per dir così - non esistono, ma accadono, sono osservati mentre nascono, cambiano, si muovono dentro e fuori il momento dell’enunciazione e interagiscono tra loro in un flusso continuo e progressivo. Inoltre, cambia anche il punto di vista del parlante/scrivente, nel senso che, nel caso del parlato, il parlante (o emittente) e l’ascoltatore (o ricevente) sono inestricabilmente immersi nel processo comunicativo e hanno una funzione intercambiabile, in quanto il parlante/emittente può diventare, in un turno successivo, l’ascoltatore/ricevente e viceversa, mentre, nel caso dello scritto, chi scrive è distante non solo dal/dai destinatario/i del messaggio scritto, ma anche dal prodotto della propria attività, ossia dal foglio di carta, di stoffa, di sughero ecc., dalla pergamena, dalla videata di un computer ecc., insomma da tutti i supporti materiali sui quali si depositano le parole scritte. La differenza più saliente fra parlato e scritto sembrerebbe dunque la forte discontinuità funzionale intrinseca che caratterizza il parlato (vedi Basile, Voghera, 2003). Sebbene sia il parlare che l’ascoltare siano processi continui e on-line, i testi parlati si presentano intrinsecamente discontinui: basti pensare alle interruzioni o ai cambi di progetto durante una conversazione spontanea faccia a faccia o telefonica. Un testo parlato è in sostanza il risultato di un processo di formazione di coerenza che avviene per approssimazioni successive cui partecipano tanto il produttore quanto il ricevente. Nel parlare è necessario rinnovare continuamente il contatto con l’ascoltatore e ricordargli l’argomento di cui si sta parlando. L’informazione viene così data secondo un andamento - per riprendere le parole di Giorgio 7 A questo proposito cfr. Cardona (1983) a proposito delle espressioni e dei modi di dire correnti che ci ricordano come, per noi che siamo alfabetizzati, lo scritto rappresenti il certo, il duraturo, di contro alla caducità di quanto viene affidato alla sola voce: v. per esempio espressioni come scrivere qualcosa a chiare lettere, mettere nero su bianco, carta canta ecc., laddove il parlato permette continui ripensamenti e cambi di progetto (per es. qui lo dico e qui lo nego ecc.). 9 Raimondo Cardona (1983) - epicicloidale, per cui il discorso (secondo un processo di cosiddetta incremental repetition) si riavvolge continuamente su se stesso in spire, ma ogni spira si sposta un poco più avanti, e non solo ripete tutto il già detto, ma aggiunge qualcosa di nuovo, qualcosa in più. È un meccanismo che possiamo osservare, ad esempio, nel dialogo, che, in quanto sistema di modellizzazione primario del parlato (vedi Voghera, 2001: 72), si presenta - per dir così - frammentato, ricco di interruzioni, di cambi di progetto. Nel dialogo ognuno dei partecipanti affianca le proprie battute a quelle dell’interlocutore, richiamando una parte di ciò che è stato detto, e aggiungendovi poi quel qualcosa di suo che vuole mettere in evidenza. Seguendo i suggerimenti di Michael Alexander Kirkwood Halliday (1985), possiamo insomma immaginare il parlato come più vicino alla realtà, come una rappresentazione più diretta del fluire degli avvenimenti, mentre lo scritto sarebbe caratterizzato da una – per dir così – distanza comunicativa. Come afferma Cardona (1943-1988) in Antropologia della scrittura (1981), l’adozione del codice grafico rappresenta una vera e propria rivoluzione cognitiva, in quanto si realizza la possibilità di una manipolazione di un determinato contenuto sui piani dello spazio visivo (con gli occhi, infatti, si può raggiungere un punto qualsiasi del testo e soffermarcisi a volontà) e del tempo (si possono confrontare messaggi differenti, quale che sia stato il momento della loro enunciazione) rispetto all’asse obbligato della linearità propria del discorso orale8. 3.2. Differenze lessicali tra parlato e scritto: i nomi e i verbi. A livello di lessico l’elemento che caratterizza maggiormente il parlato rispetto allo scritto è una maggiore presenza di verbi (sia a livello di types che di tokens) nel parlato e, di conseguenza, una maggiore presenza di nomi nello scritto. Halliday (1985) ha analizzato la frequenza d’uso di nomi e verbi in testi parlati e scritti italiani, inglesi, tedeschi e francesi e ha osservato delle differenze costanti nella frequenza d’uso di nomi e verbi. In generale, si può sostenere che la frequenza dei nomi e dei verbi è fortemente connessa al grado di dialogicità e di pianificazione dei testi, in particolare, la frequenza dei nomi sembra essere direttamente proporzionale al grado di pianificazione e inversamente proporzionale al grado di dialogicità. Di norma, infatti, un testo parlato è più dialogico e meno pianificato di un testo scritto, e, di conseguenza, esso tenderà ad avere un minor 8 Nel testo scritto si realizza infatti uno spostamento dal campo uditivo a quello visivo, rendendo possibile il riordinamento e il perfezionamento non solo delle frasi, ma delle singole parole (cfr. Goody, 1977). 10 numero di nomi rispetto ai verbi, mentre in un testo scritto si registrerà la tendenza inversa. Queste diversità non sono affatto diversità di superficie, e, in realtà, mettono in luce delle scelte discorsive profondamente diverse, le quali sono dipendenti dalle caratteristiche che assume il processo ideativo e produttivo nelle due modalità di trasmissione. Cerchiamo dunque di vedere se la diversa distribuzione di nomi e verbi nel parlato e nello scritto sia attribuibile o meno a fattori specificamente semantici. Il nome e il verbo sono stati riconosciuti, a partire dalle riflessioni dei primissimi grammatici, come le due parti del discorso più basiche: a questo proposito ricordiamo la posizione di Antoine Meillet (1866-1936) e quella di Edward Sapir (1884-1939), i quali, rispettivamente nel 1920 e nel 1921, hanno riconosciuto da un lato l’universalità di nomi e verbi (in quanto elementi comuni a tutte le lingue conosciute), e, dall’altro, la loro natura, potremmo dire, di condizioni semiotiche di base per il costituirsi di qualsiasi grammatica9. Nel corso del Novecento la questione è stata ripresa da studiosi di diversa provenienza e impostazione. In questa sede intendiamo soffermarci, in particolare, su Talmy Givón e Ronald Langacker, i quali tendono a dare una fondazione ontologica alle categorie linguistiche in termini temporali. Givón (1979, 1984) individua innanzi tutto il criterio della stabilità temporale per classificare le entità; infatti: “An entity x is identical to itself if it is identical only to itself but not to any other entity (y) at time a and also at time b which directly follows time a” (Givón, 1979, p. 320). Di norma nelle lingue ciò che è temporalmente più stabile ha più probabilità di essere lessicalizzato come un nome, mentre, ipotizzando una scala di stabilità temporale, dall’altro lato del continuum lessicale troviamo i verbi, che solitamente categorizzano azioni o eventi, dunque entità che, in un certo senso, sono meno concrete dei nomi e che hanno un’esistenza 9 Cfr. quanto dice Meillet: “Il n’y a, en réalité, que deux espèces de mots dont la distinction soit essentielle, commune à toutes les langues, et qui s’opposent nettement l’une à l’autre: la catégorie du nom et celle du verbe. Le nom indique les ‘choses’, qu’il s’agisse d’objets concrets ou de notions abstraites, d’êtres réels ou d’espèces: Pierre, table, vert, verdeur, bonté, cheval sont également des noms. Le verbe indique les ‘procès’, qu’il s’agisse d’actions, d’états ou de passages d’un état à un autre: il marche, il dort, il brille, il bleuit sont également des verbes» (Meillet, 1920, p. 175). Sapir un anno dopo scrive: “Deve esserci qualcosa di cui parlare, e, una volta scelto un soggetto di discorso, qualcosa deve essere detto a proposito di esso. (…) Il soggetto del discorso è un sostantivo. Dal momento che il più comune soggetto di discorso è una persona o una cosa, il nome gravita intorno a concetti concreti di questo tipo. Poi, dal momento che la cosa che si predica di un soggetto è generalmente un’azione, nel senso più lato di questo termine, cioè un passaggio da uno stato di esistenza a un altro stato di esistenza, la forma che è stata messa da parte per svolgere la funzione della predicazione, e cioè il verbo, gravita intorno a concetti di azione. Nessuna lingua manca in modo completo della distinzione tra verbo e nome, benché in casi particolari la natura della distinzione possa essere elusiva” (Sapir, 1921, pp. 120121). 11 solo nel tempo (Givón, 1979: ib.). Insomma, la temporalità e la nontemporalità sono per Givón le condizioni - per dir così - trascendentali che sono alla base della categorizzazione delle nostre esperienze e che si riflettono rispettivamente nella distinzione tra nomi e verbi10. Anche Langacker (1987a, 1987b) sottolinea il ruolo della priorità temporale nella codificazione dei nomi, per cui, mentre un nome designa una regione nello spazio concettuale, la quale viene definita per interconnessione e densità (interconnectedness and density Langacker, 1987b, pp. 198-203), il verbo è caratterizzato dalla temporalità, e dunque dal divenire attraverso il tempo. Sia per Givón che per Langacker il tempo è la caratteristica essenziale che definisce i verbi, ma, mentre il primo cerca di cogliere dei punti di stabilità all’interno del tempo, il secondo privilegia la caratteristica del processo. È proprio a queste differenze semanticocognitive che si richiama Halliday (1985) quando attribuisce la diversa frequenza di nomi e verbi nel parlato e nello scritto ad aspetti semantici. In particolare Halliday sostiene che la preferenza del parlato per i verbi dipende dalla sua dinamicità e processualità: il parlato infatti tende a presentare i fatti come processi. Al contrario lo scritto preferisce i nomi, e le nominalizzazioni, perché tende a presentare i fatti come prodotti, come oggetti più o meno statici. Questa posizione, che presuppone l’esistenza di un rapporto biunivoco tra il modo di significare e le categorie, ha un carattere un po’ troppo assertivo, ragion per cui proponiamo di adottare una spiegazione delle categorie di nome e di verbo che tenga conto dei diversi aspetti che entrano in gioco nei processi comunicativi. Nell’ambito delle riflessioni sugli aspetti iconici delle lingue Paul J. Hopper e Sandra Thompson propongono un approccio allo studio dei nomi e dei verbi “in terms of the diagrammatically iconic nature of linguistic categories” (Hopper, Thompson, 1985, p. 151). Anche questi due studiosi partono dalla definizione più comune di nomi e verbi, secondo la quale i nomi si riferiscono per lo più a cose o a oggetti, mentre i verbi a azioni o a eventi, per cui sembrerebbe esserci una tendenza universale ad associare le entità stabili nel tempo con la categoria dei nomi, e le entità non stabili nel tempo con quella dei verbi (cfr. Hopper, Thompson, 1984, p. 705). Questa correlazione, tuttavia, è spesso smentita da alcuni fatti linguistici concreti: molti verbi, infatti, si riferiscono a situazioni decisamente stabili (per esempio, to tower “sovrastare”), così come molti nomi possono riferirsi a situazioni di durata temporale molto limitata (per esempio, fire “fuoco” o fist “pugno”) o a entità che non possono essere 10 L’impostazione di Givón è ripresa da John M. Anderson, per il quale i nomi sono specifici di entità e i verbi sono specifici degli eventi (cfr. Anderson, 1997, p. 14). 12 percepite direttamente (per esempio, astrazioni quali la giustizia, il coraggio, l’orgoglio ecc.). Allo stesso proposito si era già espresso Hjelmslev (1948), il quale aveva criticato l’opinione comune per cui il verbo sarebbe una parola che indicherebbe unicamente un processo. Hjelmslev di fatto aveva messo in discussione proprio la nozione di processo (1948, p. 194 sgg.), che sarebbe un concetto vago, tanto più che vi sono parole che indicano sì esplicitamente dei processi, ma che si presentano in forma nominale (per esempio fuga, conversazione, pensiero, ecc.). Sulla stessa nozione di processo era intervenuto un paio di anni dopo anche Émile Benveniste (1902-1976) in un saggio dal titolo La phrase nominale (1950). In questo saggio Benveniste si era soffermato sulla distinzione tra nome e verbo e sulle definizioni che comunemente vengono date a queste due parti del discorso, per cui il verbo indicherebbe un processo e il nome un oggetto, o, ancora, il verbo implicherebbe il tempo mentre il nome no. Per un linguista entrambe queste definizioni sono inaccettabili, in quanto in linguistica un’opposizione tra processo e oggetto non può avere né una validità universale, né essere un criterio costante. Abbiamo piuttosto a che fare con dei concetti relativi, il che è verificabile, da un lato, come aveva messo in evidenza Hjelmslev, rilevando l’esistenza, all’interno delle lingue, di nomi che denotano un processo (come negli esempi di fuga, conversazione, pensiero ecc. sopra riportati), e, dall’altro, vedendo cosa succede in lingue diverse. A questo proposito Benveniste riporta infatti numerosi esempi tratti dalle lingue più diverse per vedere che cosa realmente esprimono sia i nomi che i verbi11. Ad esempio, in hupa (lingua amerindiana parlata nell’Oregon) vi sono delle forme verbali attive o passive alla terza persona usate come nomi: nañya “scende” è la parola per pioggia; nilliñ “scorre” designa il ruscello; naxowilloi “è attaccato intorno a lui” designa la cintura ecc. (v. Benveniste, 1950, p. 181). Nemmeno il tempo, che di solito è assunto come tratto caratteristico del verbo, è necessariamente legato ad esso. Per esempio, in hopi il verbo non implica alcuna modalità temporale, ma solo modi aspettuali, in tübatulabal, una lingua dello stesso gruppo uto-azteco dell’hopi, la più chiara espressione del passato non appartiene al verbo ma al nome, come nel caso di hani·l “la casa” vs. hani·pi·l “la casa al passato” (ossia ciò che era una casa e non lo è più). 11 La scoperta e la descrizione di lingue cosiddette esotiche hanno spinto i linguisti a riesaminare l’universalità o meno della distinzione tra nomi e verbi e, a questo proposito, gli studi di tipologia linguistica offrono degli spunti di riflessione molto interessanti. Questi studi affrontano la questione “soit en elle-même (…) soit à propos de la description de telles langues particulières (…), soit en traitant de questions plus générales, comme celles de la prédication (…) et des classes de mots ou ‘parties du discours’” (Lazard, 1999: 389). 13 Torniamo al punto di vista di Hopper e Thompson: i due studiosi, lungi dal considerare i nomi e i verbi come categorie date aprioristicamente al fine di costruire enunciati, sostituiscono alla base semantica la base pragmatica della funzione del discorso come il fattore-chiave che condiziona la categorialità. In sostanza, essi giungono a formulare un principio che si configura come un principio semiotico-discorsivo, in quanto “the categories of N and V actually manifest themselves only when the discourse requires it” (Hopper, Thompson, 1984, p. 747). Insomma, le caratteristiche semantiche dei nomi e dei verbi, il loro riferirsi a cose percettivamente più concrete e stabili o ad azioni, eventi, processi ecc. non sono - dal nostro punto di vista - sufficienti a riconoscere una data forma come decisamente nominale o decisamente verbale. L’individuazione di una determinata categoria linguistica come nome o come verbo non dipende solo da proprietà semantiche assunte indipendentemente dagli effettivi contesti di realizzazione, ma anche, e forse in modo teoricamente più fecondo, dalla sua funzione linguistica nel discorso. In quest’ottica la semantica interagisce con gli altri fattori relativi alla strategie discorsive e testuali che caratterizzano il discorso parlato o il discorso scritto, e dunque la maggiore o minore presenza di nomi e verbi nel parlato o nello scritto non è altro che una - per dir così - ricaduta semantica di processi semiotico-discorsivi più generali. Bibliografia Anderson, J. 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