LA CADUTA DEGLI DEI anno: titolo originale: nazionalità: durata: 1969 Gotterdammerung Germania, Italia, Svizzera 160 minuti scheda tecnica regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: musiche: montaggio: scenografia: costumi: Luchino Visconti Luchino Visconti Enrico Medioli Nicola Badalucco Luchino Visconti Enrico Medioli Nicola Badalucco Armando Nannuzzi Pasqualino De Santis Maurice Jarre Ruggero Mastroianni Vincenzo Del Prato Piero Tosi Vera Marzot interpreti: Dirk Bogarde (Friederick Bruckman) Ingrid Thulin (Sofia Von Essenbeck) Helmut Griem (Aschenback) Helmut Berger (Martin Von Essenbeck) Renaud Verley (Gunther Von Essenbeck) Umberto Orsini (Herbert Thallman) Reinhard Kolldehoff (Barone K.V Essenbeck) Albrecht Schoenhals (Barone J.Von Essenbeck) Florinda Bolkan (Olga) Nora Ricci (Governante) Charlotte Rampling (Elisabeth Thallman) Irina Vanka (Lisa) Karin Mittendorf (Thilde) Valentina Ricci (Erika) Wolfgang Hillinger (Yanek) Antonietta Fiorito (Cameriera) Bill Vanders (Commissario) Nelson H. Rubien (Rettore) Werner Hasselmann (Ufficiale Gestapo) Peter Dane (Impiegato alle acciaierie) Ester Carloni (Cameriera) produzione: Alfredo Levy e Ever Haggiag per Praesidens (Zurigo), Petaso Film, Italnoleggio (Roma) e Eichberg gmbh (Monaco) distribuzione: Istituto Luce Luchino Visconti Nasce a Milano il 02 novembre 1906. Muore a Roma il 17 marzo 1976. Nasce nel privilegiato ambiente dell'aristocrazia milanese. Suo padre Giuseppe è un discendente dei Visconti di Modrone e sua madre è Carla Erba (della celebre famiglia di industriali della chimica e farmaceutica). Sin da bambino si appassiona al teatro, alla musica e alle arti in genere, frequentando con i genitori la Scala di Milano (di cui i suoi avi sono stati soci fondatori) e leggendo assiduamente la letteratura classica europea. Finito il servizio militare, si dedica all'allevamento di cavalli purosangue e viaggia molto. A metà degli anni '30 inizia ad interessarsi al cinema - nel '34 gira un film amatoriale in 35mm che resterà incompiuto - e a Parigi entra in contatto con Jean Cocteau, Coco Chanel, Kurt Weill e sopratutto con il regista Jean Renoir. Con il regista francese fa la sua esperienza come aiuto regista con i film "La scampagnata" (1936) e "Tosca" (1941, girato in Italia, venne iniziato da Renoir ma fu terminato da Visconti e Carl Koch a causa dello scoppio della guerra). Il contatto con i membri della troupe, oltre a fornirgli un bagaglio di conoscenze tecniche nei vari campi che saranno fondamentali nel corso della sua carriera di regista, esercitano una forte influenza sulle sue scelte politiche poiché molti di loro sono legati al Front Populaire e al partito comunista francese. Il suo impegno politico si rafforza quando a Roma entra in contatto con il gruppo antifascista della rivista 'Cinema', di cui fanno parte intellettuali come Giuseppe De Santis, Mario Alicata e Gianni Puccini. Con loro pone le basi per il movimento cinematografico del neorealismo, realizzando il suo primo lungometraggio "Ossessione" (1943). Durante la guerra partecipa alla Resistenza - viene anche fatto prigioniero e torturato - e alla fine del conflitto realizza il documentario "Giorni di gloria" (1945), rievocazione dell'oppressione nazifascista dalle tristi giornate del settembre '43 alla liberazione del Nord Italia. Da questo momento la sua carriera si divide tra cinema - "La terra trema" (1948, Premio internazionale per valori stilistici e corali alla Mostra del Cinema di Venezia), "Bellissima" (1951, Nastro d'argento per Anna Magnani come miglior attrice), "Senso" (1954, snobbato dalla critica riscuote grande successo di pubblico) - e teatro, dove rinnova completamente i criteri di regia e la scelta dei repertori utilizzando spesso, soprattutto all'inizio, testi di autori estranei ai teatri italiani fino a quel momento come Jean Cocteau ("Parenti terribili", "La macchina da scrivere"), Jean Paul Sartre ("A porte chiuse"), Tennessee Williams ("Zoo di vetro" e "Un tram che si chiama desiderio"), Arthur Miller ("Morte di un commesso viaggiatore", "Il crogiuolo", "Uno sguardo dal ponte", "Après la chute"). A metà degli anni '50 rivolge la sua attenzione al melodramma e alla lirica, torna alla Scala e allestisce cinque spettacoli interpretati da Maria Callas che segnano la storia del genere: "La vestale", "La sonnambula", "La Traviata", "Anna Bolena" e "Ifigenia in Tauride". Nel 1960 realizza "Rocco e i suoi fratelli" (Premio della giuria a Venezia), accolto con successo dal pubblico nazionale e internazionale al pari di "Il Gattopardo" (1963, Palma d'oro a Cannes), mentre nel 1965 con "Vaghe stelle dell'orsa" vince il Leone d'oro a Venezia. Numerosi anche i premi ricevuti con la trilogia germanica: "La caduta degli dei" (1969) gli vale per la prima e unica candidatura all'Oscar (per la miglior sceneggiatura) e il Nastro d'argento per la miglior regia; con "Morte a Venezia" (1971) vince ancora il Nastro d'argento per la miglior regia e il David di Donatello nella stessa categoria; con "Ludwig" (1973) due David: miglior film e miglior regia. Alla fine delle riprese di quest'ultimo film viene colpito da un ictus che lo lascia semiparalizzato. Nonostante tutto continua a lavorare e porta sullo schermo "Gruppo di famiglia in un interno" (1975, miglior film ai David e sei nastri d'argento, tra cui quello per la miglior regia) in cui si avvale dell'aiuto dei suoi collaboratori più fidati: dalla sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico agli - attriceSilvana Mangano, Claudia Cardinale, Helmut Berger, Romolo Valli e Burt Lancaster (da lui prediletti insieme a Alain Delon, Romy Schneider, Massimo Girotti e Marcello Mastroianni). Muore durante il doppiaggio della sua ultima opera, "L'innocente" (1976) dal libro omonimo di Gabriele D'Annunzio. Filmografia 12 Dicembre [1970] - regia Bellissima [1951] regia, sceneggiatura, soggetto Bocacccio '70 [1962] - regia, sceneggiatura, soggetto Documento mensile n. 2 [1953] regia Il Gattopardo [1963] - regia, sceneggiatura Giorni di gloria [1945] - regia Gruppo di famiglia in un interno [1974] - regia, sceneggiatura L'innocente [1976] regia, sceneggiatura La caduta degli dei [1969] - regia, sceneggiatura, soggetto La terra trema [1948] - regia, sceneggiatura Le notti bianche [1956] - regia, sceneggiatura Lo straniero [1967] - regia, sceneggiatura Ludwig [1973] - regia, sceneggiatura, soggetto Morte a Venezia [1971] - regia, sceneggiatura Ossessione [1943] - regia, sceneggiatura Rocco e i suoi fratelli [1960] - regia, sceneggiatura, soggetto Ros e d’ a ut unn o [ 1962] sceneggiatura, soggetto La scampagnata [1936] - aiuto regia, costumi Senso [1954] - regia, sceneggiatura Siamo donne [1953] - regia Le streghe [1967] - regia Tosca [1941] - sceneggiatura Va gh es t e l l ede l l ’ Or s a[ 1965]- regia, sceneggiatura, soggetto Ingrid Thulin Nasce a Solleftea, Stoccolma ( Svezia) il 21 gennaio 1929. Muore a Sacrofano, Roma (Italia) il 07 gennaio 2004. Frequenta i corsi del Reale Teatro Drammatico a Stoccolma. Inizia l'attività in teatro, con i lavori di Lagerloff e Anouilh, distinguendosi con l'interpretazione di Anita nel Peer Gynt di Ibsen. A lanciarla sul grande schermo è Ingmar Bergman. Conosce la fama con "Il posto delle fragole" (1957), quando il film vince l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Dopo questo successo la Thulin diviene una sorta di Musa per il maestro svedese. Sempre con Bergman interpreta, fra gli altri, "Alle soglie della vita" (con cui vince il premio come migliore attrice al Festival di Cannes)," Luci d'inverno", "Il silenzio", "Sussurri e grida", "L'ora del lupo" e "Dopo la prova". Lavora con profitto anche con altri registi: per Mai Zetterling è la protagonista di "Giochi di notte" (1966), che fa scalpore alla Mostra del Cinema di Venezia. In Francia gira con Vincente Minnelli "I quattro cavalieri dell'Apocalisse" e con Alain Resnais "La guerra è finita". Nel 1962 approda in Italia per girare Agostino, di Mauro Bolognini. Lavora anche con Luchino Visconti in "La caduta degli dei", con Giuliano Montaldo in "Agnese va a morire" e con Tinto Brass per "Salon Kitty". L'ultima sua interpretazione in Italia è "La casa del sorriso" di Marco Ferreri, con cui nel 1991 vince l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Nel 1978 debutta dietro la macchina da presa dirigendo, con Erland Josephson e Sven Nykvist, "Noi due, una coppia". Tre anni dopo realizza "Cielo spezzato". Dopo una lunga malattia, l'attrice svedese muore a Stoccolma a 77 anni. Da oltre venti anni aveva stabilito la sua residenza a Sacrofano, nei pressi di Roma, ma negli ultimi tempi era tornata in Svezia per sottoporsi a delle cure mediche. Filmografia I 4 cavalieri dell'Apocalisse [1962] attrice Agostino [1962] - attrice Alle soglie della vita [1958] - attrice Angeli alla sbarra [1961] - attrice Bagnanti [1968] - attrice Cassandra Crossing [1976] - attrice Cielo spezzato [1982] - regia, sceneggiatura Corruzione in una famiglia svedese [1974] - attrice Dimensione della paura [1965] attrice Domani non siamo più qui [1967] attrice Dopo la prova [1983] - attrice E cominciò il viaggio nella vertigine [1974] - attrice Fino a farti male [1968] - attrice Giochi di notte [1966] - attrice La guerra è finita [1966] - attrice Il giorno prima [1987] - attrice Il posto delle fragole[1958] - attrice Il volto [1958] - attrice L'agnese va a morire [1976] - attrice La caduta degli dei [1969] - attrice La casa del sorriso [1991] - attrice La corta notte delle bambole di vetro [1971] - attrice La notte del desiderio [1964] - attrice La rapina perfetta [1961] - attrice La trappola [1975] - attrice Luci d'inverno [1962] - attrice Monismanien 1995 [1975] - attrice Mosè [1974] - attrice Noi due una coppia [1977] - attore, Regia L'ora del lupo [1966] - attrice Il rito [1969] - attrice Ros ed’ a ut un n o[ 1962]- attrice Salon Kitty [1975] - attrice Il silenzio [1963] - attrice Sussurri e grida [1972] - attore Dirk Bogarde Derek Jules Gaspard Ulric Niven Van Den Bogaerde Nasce a Londra il 28 marzo 1921. Muor eaLon dr al ’ 8ma r z o1999. Nasce da una famiglia di origine tedesca, il padre è giornalista del "Times" e la madre è un'attrice. Raffinatissimo ed elegante, rimasto sempre celibe, rappresenta la figura dello scapolo d'oro degli anni '50. Terminati gli studi universitari in Scozia e a Londra, intraprende la carriera teatrale. Nel 1947 "Power Without Glory" lo consacra attore davanti al pubblico londinese. Da questo momento in poi inizia a lavorare per il cinema. Esordisce sullo schermo con una piccola parte in "Ballo con delitto" di John Paddy Carstairs, in cui ottiene grande successo di critica e di pubblico. Ma la svolta vera e propria arriva nel 1961 in "Victim" di Basil Dearden, nel ruolo di un avvocato omosessuale. Le parti più scomode ma adatte al suo temperamento gliele riserva il regista Joseph Losey: nel 1963 indossa i panni di un viscido cameriere in "Servo", per cui si aggiudica il British Academy Award e nel 1967 in "L'incidente" è impegnato in un dramma psicologico imperniato sullo scontro fra due uomini per una ragazza straniera. Nel 1969 inizia un'intensa collaborazione con registi italiani. Visconti gli offre una parte in "La caduta degli dei" (1969) dove Bogarde riesce ad esprimere l'angoscia della morte. Sempre con Visconti gira nel 1971 "Morte a Venezia" in cui interpreta magistralmente il personaggio di Gustav von Aschenbach, il ritratto della decadenza europea. Nel 1974 Liliana Cavani lo vuole per interpretare "Il portiere di notte", una strana storia di un rapporto sadomasochistico fra una ragazza reduce da un campo di concentramento e il suo aguzzino ritrovato. Nel 1977 è il protagonista di "Despair" in cui il regista Fassbinder rievoca la Berlino anteguerra. Dopo questo periodo, Bogarde si allontana dalle scene cinematografiche per un lungo periodo, 12 anni, durante il quale si dedica alla sua grande passione, la scrittura. Ha pubblicato una monumentale autobiografia e sette romanzi. Ritorna sullo schermo nel 1990 con "Daddy Nostalgie", il capolavoro di Bertrand Tavernier, dove Bogarde è un uomo d'affari che torna a casa per morire, dopo aver girato il mondo. Il 13 febbraio 1992 la regina Elisabetta lo nomina Cavaliere. E' stato anche Presidente di giuria del Festival di Cannes. Muore per un attacco cardiaco l'8 maggio del 1999 nella sua abitazione londinese. Filmografia Alto comando: operazione uranio [1951] - attore CIA Criminal International Agency Sezione sterminio [1975] - attore Colpo di mano a Creta [1957] - attore Daddy nostalgie [1990] - attore Darling [1965] - attore Despair [1978] - attore Donna nel fango [1950] - attore Dottore a spasso [1957] - attore Dottore nei guai [1963] - attore Estasi [1960] - attore Esther Waters [1948] - attore I disperati [1953] - attore I giovani uccidono [1950] - attore Il coraggio e la sfida [1961] - attore Il cranio e il corvo [1963] - attore Il diavolo nello specchio [1959] attore Il dilemma del dottore [1959] - attore Il giardiniere spagnolo [1956] - attore Il portiere di notte [1974] - attore Il serpente [1973] - attore Il servo [1963] - attore Il sole scotta a Cipro [1964] - attore Il vento che non sa leggere [1958] attore L'incidente [1967] - attore L'ora del grande attacco [1953] attore L'uomo di Kiev [1968] - attore La caduta degli dei [1969] - attore La colpa del marinaio [1952] - attore La dinastia del petrolio [1957] - attore La poltrona vuota [1955] - attore La sposa bella [1960] - attore Lat i gr ene l l ’ ombra [1954] - attore La vittima [1961] - attore Modesty Blaise. La bellissima che uccide [1966] - attore Morte a Venezia [1971] - attore Oh che bella guerra! [1969] - attore Ombre sul palcoscenico [1962] attore Once a Jolly Swagman [1948] - attore Operazione Commandos [1955] attore Pa r ol a d’ or di n ec or a ggi o[ 1962] attore Passioni [1949] - attore Per il re e per la patria [1964] - attore Ponte di comando [1962] - attore Providence [1976] - attore Quattro in medicina [1954] - attore Que l l ’ ul t i mopon t e[ 1977]- attore Rapporto a quattro [1969] - attore Ros ed’ a ut un n o[ 1962]- attore Simba [1955] - attore Sposi in rodaggio [1954] - attore Su questa roccia [1970] - attore Tragica incertezza [1950] - attore Troppo caldo per giugno [1963] attore Tutte le sere alle nove [1967] - attore Un dottore in alto mare [1955] attore Verso la città del terrore [1958] attore Helmut Berger Filmografia Adelaide [1991] - attore Così bello così corrotto così conteso! [1972] - attore Donne [1982] - attore Gruppo di famiglia in un interno [1974] - attore I giovani tigri [1967] - attore I promessi sposi [1989] - attore I violentatori della notte [1988] attore Il bel mostro [1970] - attore Il dio chiamato Dorian [1970] - attore Il giardino dei Finzi Contini [1970] attore I lgi r ot on do de l l ’ a mor e[ 1973] attore Il grande attacco [1978] - attore Il padrino –parte III [1990] - attore L'alba dei falsi dei [1978] - attore La belva con il mitra [1977] - attore La caduta degli dei [1969] - attore La colonna infame [1973] - attore La lunga notte di Entebbe [1976] attore La puritana [1989] - attore La testa del serpente [1975] - attore Le rose di Danzica [1979] - attore Ludwig [1973] - attore Mercoledì delle Ceneri [1973] attore Mia moglie è una strega [1980] attore Nome in codice: Smeraldo [1985] attore Ros ed’ a ut un n o[ 1962]- attore Sai cosa faceva Stalin alle donne? [1969] - attore Salon Kitty [1975] - attore Le streghe [1967] - attore Teo [1997] - attore Tunnel [1980] - attore Una farfalla con le ali insanguinate [1971] - attore Una romantica donna inglese [1975] attore Vittoria [1983] - attore Vittoria 2 [1983] - attore Vittoria 3 [1984] - attore La parola a Luchino Visconti Cinema antropomorfico Che cosa mi ha portato ad una attività creativa nel cinema? (Attività creativa: opera di un uomo vivente in mezzo agli uomini. Con questo termine sia chiaro che mi guardo bene dall'intendere qualcosa che si riferisca soltanto al dominio dell'artista. Ogni lavoratore, vivendo, crea: sempre che egli possa vivere. Cioè: sempre che le condizioni della sua giornata siano libere e aperte; per l'artista come per l'artigiano e l'operaio). Non il richiamo prepotente di una pretesa vocazione, concetto romantico lontano dalla nostra realtà attuale, termine astratto, coniato a comodo degli artisti, per contrapporre il privilegio della loro attività a quella degli altri uomini. Poiché la vocazione non esiste, ma esiste la coscienza della propria esperienza, lo sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini, penso che solo attraverso una sofferta esperienza, quotidianamente stimolata da un affettuoso e obiettivo esame dei casi umani, si possa giungere alla specializzazione. Ma giungere non vuoi dire rinchiudersi, rompendo ogni concreto legame sociale, come a molti accade, al punto che la specializzazione finisce sovente col prestarsi a colpevoli evasioni dalla realtà, e in parole più crude: al trasformarsi in una vile astensione. Non voglio dire che ogni lavoro non sia lavoro particolare e in un certo senso "mestiere". Ma sarà valido solo se sarà il prodotto di molteplici testimonianze di vita, se sarà una manifestazione di vita. II cinema mi ha attirato perché in esso confluiscono e si coordinano slanci e esigenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore. E chiaro come la responsabilità umana del regista ne risulti straordinariamente intensa, ma, purché egli non sia corrotto da una decadentistica visione del mondo, proprio da essa verrà indirizzato sulla strada più giusta. Al cinema mi ha portato soprattutto l'impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. Di tutti i compiti che mi spettano come regista, quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori; materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che, chiamati a viverla, generano una nuova realtà, la realtà dell'arte. Perché l'attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Su di esse cerco di basarmi, graduandole nella costruzione del personaggio: al punto che l'uomo-attore e l'uomo-personaggio vengano ad un certo punto ad essere uno solo. Fino ad oggi, il cinema italiano ha piuttosto subito gli attori, lasciandoli liberi di ingigantire i loro vizi e le loro vanità: mentre il problema vero è quello di servirsi di ciò che di concreto e di originario essi serbano nella loro natura. Perciò importa fino a un certo grado che attori cosiddetti professionali si presentino al regista deformati da una più o meno lunga esperienza personale che li definisce in formule schematiche, risultanti di solito più da sovrapposizioni artificiose che dalla loro intima umanità. Anche se molto spesso è una dura fatica, quella di ritrovare il nocciolo di una personalità contraffatta e una fatica che tuttavia vale la pena di spendere: proprio perché al fondo una creatura umana c'è sempre, liberabile e rieducabile. Astraendo con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si cerchi di portare l'attore a parlare finalmente una sua lingua istintiva. Si intende che la fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia pure involuta e nascosta sottocento veli: se esiste cioè un vero "temperamento". Non escludo, naturalmente, che un "grande attore" nel senso della tecnica e dell'esperienza, possegga tali qualità primitive. Ma voglio dire che, spesso, attori meno illustri sul mercato, ma non per questo meno degni di attirare la nostra attenzione, ne posseggono altrettante. Per non parlare dei non attori, che, oltre a recare il contributo affascinante della semplicità, spesso ne hanno di più autentiche e di più sane, proprio perché, come prodotti di ambienti non compromessi, sono spesso uomini migliori. L'importante è scoprirle e metterle a fuoco. Ecco dove è necessario intervenga quella capacità rabdomantica del regista, tanto nell'uno come nell'altro caso. L'esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell'essere umano, la sua presenza, è la sola "cosa" che veramente colmi il fotogramma, che l'ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell'uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente. Il discorso è appena accennato, ma accentrando il mio netto atteggiamento, vorrei concludere dicendo (come spesso amo ripetermi): potrei fare un film davanti a un muro, se sapessi ritrovare i dati della vera umanità degli uomini posti davanti al nudo elemento scenografico: ritrovarli e raccontarli. © "Cinema", numero 173-174, settembre, ottobre 1943. Il lavoro con gli attori Io faccio delle lunghissime prove a tavolino: dieci, quindici, venti giorni, secondo quanto è necessario, in cui ognuno prende possesso del suo personaggio, del suo testo che viene corretto, ri corretto , tagliato, messo a punto, e lascio a tutti la libertà di lavorare a fondo il personaggio, guidando naturalmente verso la direzione giusta. E questo dà mol-ta fiducia all'attore, cioè lo rende sicuro del proprio personaggio; rivela i complessi se ha dei complessi, rivela le timidezze se ha delle timidezze. Sicché il giorno che si va in palcoscenico e si comincia a fare la mise en pIace, cioè a muoversi, sono già molto si-curi del loro personaggio. Tanto è vero che quando si va in piedi, io levo il suggeritore, addirittura, perché l'attore deve già sapere la parte a memoria. E questo dà loro una gran-de tranquillità. Perciò non ci sono mai urti violenti. Da parte mia cerco sempre di essere convincente su quello che dico, su quello che suggerisco, ed ho sempre visto che mi se-guono con molta fiducia e tranquillità. l'attore può avere il suo punto di vista; ma sicco-me io ho il mio, poi lo porto sul mio, evidentemente; non è che poi io vada sul suo. lo convinco. Un attore può avere anche dei dubbi su una certa cosa, cioè vale a dire sull'in-terpretazione di un dettaglio, di una scena o della battuta, ma io lo convinco che quella scena nell'insieme, così come io l'ho concepita, deve essere così e non cosà, perché altrimenti sarebbe un controsenso, sarebbe non in armonia con il resto. Non ho mai tro-vato difficoltà in questo sistema; mai, mai. E' lo stesso sistema che io ho adoperato in Francia, con degli attori che non conoscevo. Si sono adattati. loro dicevano: .. Ma noi non abbiamo l'abitudine, non l'abbiamo mai fatto, non lavoriamo mai a tavolino. (...) Que s t oèuns i s t e maot t oc e n t e s c o.Loc a mbi a mo" .l ' h of a t t o,pe re s e mpi o,pe r“ Domma gequ' e l l e s oi tun ep. ” ;qui ndi c igi or nidit a v ol i n oc ont u t t ique gl ia t t or i ,t ra cui c'erano anche degli attori consumati. E sono stati lie-tissimi di questo sistema, sistema che li ha portati verso il personaggio con una tran-quillità, direi quasi involontariamente... Questo è il sistema che io ho sempre adoperato, fin dagli inizi e continuo ad adoperare. Quando qualche attore ne ha più bisogno, allora lo convoco in altre ore, lavoro con lui solo, per esempio, per approfondire certe cose. Per esempio, con “ Domma ge ”c onDe l onel aSc hn e i de r … Ho lavorato molte ore anche con loro due soli, a parte il lavoro in comune con tutti. Facevano due o tre ore, in albergo, o in teatro stesso, quando il teatro era libero. Per esempio, la scena della morte n onl ’ h oma ipr ov a t ai ns i e mea gl ia l t r i .Las c e n adiqua n dol uia mma z z al as or e l l a .L’ h opr ov ata sempre da solo, anche perché loro non avessero pudori, perché non avevano esperienza oltretutto. Ta n t ’ èv e r oc h epoii lpr i mogi or n o,h ode t t o:“ Be ,oggidif i l al af a t el amor t e ” .“ Da va n t iat ut t i ? ” “ Sì ,da v a n t iat ut t i ” .Da va n t ia gl ia t t or ic h es t a nnos e dut ioi npa l c os c e ni c o.L’ ha nn of a t t at a l me n t e bene che tutti gli attori hanno applaudito. Cioè loro hanno guadagnato con questo una posizione; si sono sentiti tranquilli, da quel momento. E mi sono stati grati anche per questo, perché li avevo completamente montati fuori dagli altri. (...) Un av ol t al ’ a t t or ea f f r on t a val ac a r r i e r ade l l ’ a t t or e ,c i oèdi v e n t a v auna t t or e :el odi ve n t a v aqua s i s e mpr ea t t r a v e r s oiqua dr ide l l ec ompa gn i e ;e r ai nf a t t i ,pe rl opi ù,f i gl i od’ a r t e ,ec omi nc i a vas i nda ragazzino apor t a r ei ns c e n al al e t t e r a ,a da nn un c i a r e :“ I lpr a n z oèpr on t o” .Sif or ma v a n oque s t ia t t or i di una volta a una scuola, con una disciplina e una dedizione totale per il teatro. La nuova generazione di attori, questa disciplina e dedizione totali non ce l’ h a ,a s s ol ut a me n t e ;ei nunc e r t o s e n s on onh an e mme n oun as c uol as uc uif or ma r s i .E’di s t r a t t ac on t i n ua me n t edaa l t r epos s i b i l i t àdi lavoro, il cinema, la televisione, e mille altre cose. Ma non esiste più quella specie di sacerdozio che vigeva una volta. Entravano in arte, mettendosi il vestito da prete, e facevano il prete, talvolta a r r i va v a n os i n oa lpa pa t o:mae r al auni c al or op r e oc c upa z i on eel ’ uni c al or of i na l i t à . Oggi molti attori giovani, il teatro lo fanno per farsi vedere, durante qualche periodo, e poi passare ad altre attività. Manca loro quella specie di formazione militare o quasi che ho riscontrato in attori come Ruggeri o come Gandusio, la cui vita è stata semplicemente e solamente dedicata alla loro professione. La base della formazione del l ’ a t t or ed ov r e bb ee s s e r eque s t a :n onèc e r t a me n t eque s t i on e soltanto di disciplina, di essere puntuali alle prove, bensì, nelle ore in cui non si è a teatro, è questione di studiare, approfondire i testi, migliorare le proprie capacità. L’ a t t or eèc omeunpugilatore che ha come obiettivo di diventar campione del mondo, e perciò si allena sette, otto, dieci ore al giorno. Oggi il giovane attore teatrale viene alle prove, si presenta per la recita, già con una gran fatica, perché davvero gli fa fatica di stare a teatro: ma il resto della giornata che cosa fa mai: non fa niente, dorme, ozia, perde tempo inutilmente. Ora se questo giovane attore dovesse aspirare al campionato del mondo dei pesi medi, è chiaro che non ci arriverebbe mai, arriverebbe caso mai a metà strada, dal momento che non si allena. A qua n t igi ov a nia t t or ii odi c o:“ Fa ’l e z i onididi z i on e ,s vi l uppait uoime z z iv oc a l i ,f a ’de l l a gi nn a s t i c ape ra l l a r ga r eipol moni ,f a ’de l l ada nz a ,l e ggide it e s t i ” .I nv e r i t àf i ngon odia s c ol t a r eedi assentire, ma poi non fanno un beato niente. Questa è una deficienza notevolissima. Oggi noi lavoriamo su un materiale umano la cui preparazione è almeno la metà di quella che il materiale uma n ov e c c hi oof f r i va ;èunma t e r i a l e ,q ue s t ’ ul t i mo,a n da t oi nr i t i r o,c omeavviene per le vecchie automobili. E se noi avessimo potuto, con il metodo di lavoro di oggi lavorare su quel vecchio materiale, avremmo ottenuto risultati di parecchio più alti. Oggi lavoriamo su un tessuto che si smaglia facilmente, e che si stanca troppo presto. Non mettono passione nel mestiere, non prendono iniziative personali. Naturalmente il vecchio attore portava con sé parecchi difetti: però facilmente correggibili. Su un violino che suona bene, se uno suona con cattivo gusto, lo correggi facilmente, gli dai un gusto migliore voglio dire come esecuzione. Io quando ho avuto dei buoni strumenti, anche se avevano abitudini cattive, le hanno perse immediatamente. Ecco, Benassi: che strumento meraviglioso. Una volta che tu lo ripulivi dei suoi difetti, era uno strumento, un violoncello straordinario. Bastava di r gl i :“ No,t or ni a mounmome n t oa l l ’ i ni z i o:que s t ovi a ,que s t on ons if a ,que s t os idi c ec hi a r o, que s t os ipul i s c e ,que s t os idi c e …” Ora simili strumenti io, nei giovani, poche volte ho ritrovato: Gassman è un grandissimo strumento, s i a mod’ a c c or do,maa n c h el uièpi e n odidi f e t t iedic a t t i v ogus t o;epe r òqua n doun ogl idi c e :“ No,è c os ì ,en onc os à ,a l l or as ir i ve l aun os t r ume n t ome r a vi gl i os o.E’a n c or adique l l apa s t al ì ,dique l tessuto lì. Altr in on di r e i ,èun’ a l t r ac os a .Ma s t r oi a nni ,pe re s e mpi o,h amol t equa l i t à ,pe r ò Mastroianni è venuto su così, senza base alle spalle. Sì, è certo un attore moderno, ma non so se potrebbe affrontare certi personaggi. Certi personaggi li può affrontare soltanto chi ha alle spalle appunto dieci anni di allenamento in palestra (...) © "Sipario" 1965. Cosa penso del pubblico - Intervista a Luchino Visconti Che cosa pensa del pubblico in generale? M’ èc a pi t a t os pe s s odis t upi r mipe rc e r t er e a z i onif a v or e v ol iequalche volta entusiastiche di certi pubblici di fronte ad opere cinematografiche palesemente scadenti. Eppure anche in questi casi, in cui sarebbe stato abbastanza facile incolpare il pubblico o di insensibilità o di incultura o di pigrizia mentale, mi sono trovato a disapprovare piuttosto coloro che avevano confezionato un prodotto scadente e deprimente. Questo dimostra chiaramente che importanza dia io al pubblico, a questa entità fluida, misteriosa, composita che è la ragione prima di ogni nostro lavoro. Il pubblico difficilmente sbaglia. Di fronte al pubblico infatti io mi sento, e così credo si debba sentire la maggior parte degli artisti coscienziosi, in una condizione di inquietudine, di incertezza e di curiosità acute. Noi sbagliamo sovente. Crede che la maggioranza degli spettatori sia in grado di apprezzare i film intelligenti? Io sono convinto che non solo la maggioranza degli spettatori sia in grado di apprezzare film intelligenti, ma penso che la totalità degli spettatori sia in grado di apprezzarli. Riferendomi a quanto detto sopra penso che purtroppo non tutti i film siano abbastanza intelligenti per la maggioranza degli spettatori. Ha individuato una categoria di spettatori che preferisce i suoi film? Dal successo popolare riscosso in moltis s i meoc c a s i onida l l a“ Te r r at r e ma ”pe ns e r e ic h ei l pubblico popolare sia quello che sino a oggi mi abbia seguito con maggiore simpatia e i n t e l l i ge n z a .Tut t a vi aa n c h el ’ e l e me n t odia v a n gua r di ah as e mpr ea ppr e z z a t oea ppr of on di t o il mio lavoro cinematografico. Tiene conto di più del giudizio del pubblico o di quello della critica? Riconosco di essere sensibile a certa critica, intendo quella che su un elevato e serio piano culturale si comporta civilmente e costruttivamente sgombra da antipatie e risentimenti o preconcetti personalistici. Il giudizio del pubblico incide in maniera direi più emotiva e immediata e di quale importanza esso sia, ho già detto. Qual è il suo film che ha avuto maggior successo di pubblico, e quale lei ritiene il migliore artisticamente? Si n oa doggi ,c r e do,“ Os s e s s i on e ” ,a n c h es ege n e r a l me n t epr oi e t t a t oi nv e r s i on ea s s a ir i dot t a r i s pe t t oa l l ’ or i gi na l e .Pe rqua n t ol epr i mepr ogr a mma z i onii nI t a l i adi“ Be l l i s s i ma ”f a c c i a n o presagire un maggiore successo commerciale di questo mio ultimo lavoro. Il migliore dal pun t odivi s t as t r e t t a me n t ea r t i s t i c o,pe n s os i a“ Lat e r r at r e ma ” . © "Cinema" 1952. Le recensioni Vincenzo Patanè La caduta degli dei è un potente affresco della Germania all'avvento del nazismo, in cui la tragedia di una famiglia, divorata dalla sete di potere e dal sangue, simboleggia ed esemplifica la dissoluzione della società. La "caduta" è quindi lo sfacelo di una società che non distingue più il bene dal male. Il film quindi identifica nella trasgressione morale - sia essa pedofilia, omosessualità o incesto - il più vistoso decadimento dei valori, tipico di un momento di un disordine più vasto in atto. Non a caso il lucido Aschenbach è l'unico personaggio che, lontano da ogni tentazione sessuale, raggiunge senza mezzi termini il suo fine. Nonostante pertanto un netto giudizio morale carichi di valenze negative le trasgressioni, sono però proprio queste i momenti forti del film, contrassegnato da un'atmosfera morbosa. Martin (uno splendido Helmut Berger) è il simbolo di questa complessa ambiguità, in cui si rispecchia l'incertezza del periodo e in cui innocenza e perversione si fondono inestricabilmente. La sua sensualità vive su più livelli: aperto ad ogni forma di sesso, è attratto fisicamente dalla madre e nel frattempo ama rifugiarsi nell'innocenza delle bambine, senza per questo celare il proprio polimorfismo, come nella celeberrima scena in cui interpreta L'angelo azzurro nei panni di Marlene Dietrich. Il momento più famoso, di un debordante omoerotismo, è però quello che riguarda la "notte dei lunghi coltelli". Spinti dall'euforia e dalla birra, gli atletici giovani si bagnano nudi nel lago Tegernsee e poi si scatenano nella festa, travestendosi da donne ed facendo sesso. Quando, all'alba, le SS arrivano per sterminarli, li troveranno esausti dopo la gigantesca orgia. Tra di essi Kostantin, i cui gusti sono chiariti sin dall'inizio, quando è lascivamente lavato nella vasca da bagno da un aitante giovanotto biondo. Come è proprio del cinema di Visconti, la ricostruzione è accuratissima e notevole è la recitazione degli attori, tutti di eccellente bravura. Tra gli altri spicca il bellissimo Renaud Verley (il Telemaco dell'Odissea televisiva), il figlio di Kostantin che, forse unico fra tutti i personaggi, suona il violoncello e sembra legato ai valori dell' arte e dello spirito anziché alla produzione dell'acciaio. Giovanni Raboni Lo «straordinario» della Caduta degli dei sta anche, diciamo la verità, nel fatto di venire dopo una serie di film variamente bloccati o dispersivi, nei quali l'enorme talento di Visconti era parso irrigidirsi o formalizzarsi al di sotto di se stesso, in modelli inattendibili o parziali. Dal 1953, anno di Senso, a questa specie di resurrezione, Visconti é stato uno degli interpreti più sontuosi e malinconici dell'impoverimento - non tanto linguistico quanto sostanziale - della cultura italiana: si pensi, per citare l'estremo più enigmatico, all'inerzia hollywoodiana dello Straniero, con quei personaggi (e quei gesti) smangiati da una colata di qualunquismo figurativo. Con La caduta degli dei é come se Visconti, sbalzato a lungo nel vuoto di un'incertezza di contenuti che nel frattempo non è stata sua soltanto, ritoccasse finalmente terra. In vista di modelli adeguati e a contatto con un groviglio tematico di complessa e ardente pregnanza storica, Visconti ha ritrovato di colpo la concentrazione linguistica dei suoi grandi momenti narrativi: dei momenti, cioé, nei quali il suo talento figurativo e teatrale di grande creatore d'interni, di eccelso metteur en scène, non viene esibito ma rigorosamente funzionalizzato nel senso di una generale e solenne resa espressiva. Che cosa è successo? E' successo, credo, che Visconti ha smesso di «cercare» un tema e un ambito letterario congeniali alle sue attitudini (o a quelle che una critica lenta di riflessi, e forse lui stesso, hanno creduto le sue attitudini) e ha «trovato», invece, un sistema di significati e di simboli centra!e rispetto alla sua coscienza di uomo contemporaneo. La storia privata, paradossalmente e cupamente trionfalistica, degli Eschenbach coincide infatti con la cronologia e con le motivazioni dell'ascesa al potere del nazismo, così come il racconto manniano de!la decadenza dei Buddenbrook coincide con la crisi e la trasformazione della borghesia sotto la spinta del capitalismo industriale. La follia sanguinaria di Hitler e dei suoi accoliti ha per «materia» - e non soltanto per sfondo - la progressiva disumanizzazione e cannibalizzazione della dinastia, e viceversa: ciascuna delle due dimensioni del racconto servendo da rispecchiamento simbolico e da cassa armonica all'altra. Non è certo il caso di obiettare, mi sembra, che il rigore dell'analisi risulta compromesso dall'ambito patologico e demoniaco in cui si muovono alcuni personaggi. Non credo che Visconti, facendo del protagonista del racconto un maniaco, un folle, uno storpio dell'anima, e di tutti i membri della dinastia esseri dominati da istinti atrocemente oscuri e morbosi, intendesse scagionare, sotto il profilo del dolo, la borghesia industriale tedesca della responsabilità di aver messo in moto e consacrato il nazismo. E' chiaro, invero, che fra codice storico e codice simbolico esiste uno stacco che giustifica e pretende due livelli di lettura, presupponendo un rapporto di moltiplicazione e nello stesso tempo di semplificazione, di ritualizzazione espressiva. Dal punto di vista del progetto stilistico, l'ipotesi-base di Visconti é stata senza dubbio quella di una simbiosi fra la cruenta eloquenza del dramma elisabettiano, l'irrazionalismo dostoeievskiano e la solidità ironica del primo Thomas Mann. Può sembrare una simbiosi impossibile: è invece, in termini di resa, la creazione di uno spazio espressivo efficace e emozionante, alla cui compattezza non nuoce il sapiente viraggio espressionistico delle ultime scene. Si tratta, nell'insieme, di un omaggio grandioso e crudele (crudele perché finalizzato con naturalezza alla raffigurazione della crudeltà) che Visconti ha voluto e finalmente saputo rendere alla grande letteratura europea. Il passaggio graduale da Mann a Dostoievski e da Dostoievski a Shakespeare, man mano che la devastazione procede a colpi di tradimenti, assassinii, stragi, impiccagioni, incesti e atrocità d'ogni sorta, e la follia e la catastrofe prendono aspetti via via più corali, non é indice di incoerenza o incertezza linguistica ma é, al contrario, un accorgimento stilistico splendidamente manovrato.