Presentazione e introduzione - Fondazione Cassa di Risparmio di

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Silvia Cecchi
Le tredici vite di Costanza Monti Perticari
Silvia Cecchi
Silvia Cecchi
Vive a Pesaro, città in cui è nata e dove esercita
professione di magistrato.
Diplomata in pianoforte, ha collaborato con la rivista
letteraria pesarese “Lengua” diretta da Gianni D’Elia.
Vincitrice di premi di poesia ai concorsi “Centro
Culturale Messapo” di Siena, “Nuove scrittrici” di
Pescara, e del premio “Montale Europa 2004” sezione
inediti, è autrice di raccolte poetiche e testi in prosa
(racconti, saggi e romanzi brevi).
Ha scritto il testo dell’azione lirica Solo di donna, con
musica di Adriano Guarnieri, pubblicata dalla casa
editrice Ricordi ed eseguita in prima assoluta al Teatro
“Le Muse” di Ancona il 7 marzo 2004.
Sempre in collaborazione con il compositore Adriano
Guarnieri ha scritto il testo dell’opera lirica da camera
All’alba dell’umano. Processo a Costanza, che sarà eseguita
nel corso del 2008.
Rosario Salamone
Nato a Catanzaro nel 1949, laureato in Filosofia
teoretica, ha svolto attività di ricerca e insegnamento
presso l’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
e nei licei romani.
Si è occupato di questioni inerenti la Filosofia moderna
e contemporanea. Nel 1989 ha vinto il primo premio di
Filologia moderna con il saggio Lingua e linguaggio nella
filosofia di Giambattista Vico, conferitogli dall’Accademia
Nazionale dei Lincei.
Attualmente è Preside del Liceo ginnasio statale
“Ennio Quirino Visconti” di Roma.
Le tredici vite di Costanza Monti Perticari
La personalità di Costanza, la sua intima felicità/infelicità, intellettualità/sentimentalità, saggezza/follia,
sintonia/distonia coi tempi e l’ambiente: risultato di
momenti interpretativi differenti della stessa persona,
la protagonista, che pensa sé stessa con profondità
etica e psicologica e che si lascia analizzare dall’interprete secondo altrettante prospettive.
Costanza Monti Perticari ben si presta a questo assunto per i molti talenti, la notevole cultura, la complessità e contraddittorietà della coscienza (documentata da
lettere e diari), per la collocazione tra gli intellettuali
più importanti del suo tempo, oltre che per il respiro
culturale europeo che la apre a interessi e correnti culturali disparati.
La prospettiva adottata per la ricostruzione del ‘personaggio Costanza’ sembra tuttavia riproponibile per
ogni vita e ogni persona. Il paradosso è realtà, le vite
si giustappongono non tanto come sfaccettature di
un’unica condizione, ma più propriamente come molteplicità di dimensioni esistenziali astrattamente autonome e tuttavia concretamente riunite, nella soggettività della persona storica.
La sequenza accosta dunque interpretazioni sia complementari, sia antitetiche dello stesso soggetto, se è
vero che la carta che è dato ad ognuno giocare è la
libertà di scegliere, non tanto la propria/altrui vita,
quanto l’interpretazione della propria/altrui vita.
L’effetto formale che ne scaturisce è quello di una
strutturazione dei capitoli per simmetrie speculari, in
cui si evidenzia una sorta di linea mediana o faglia,
collocabile nella parte centrale del libro e coincidente
con l’asse estremo della spaccatura oppositiva.
In copertina, immagine elaborata da Cristina Ortolani (sullo
sfondo: Dante Alighieri, La Divina Commedia, L’Inferno, annotato da Costanza Monti Perticari; in primo piano: dettaglio
da Filippo Agricola, Costanza Monti Perticari).
Silvia Cecchi
Le tredici vite di Costanza Monti Perticari
con postfazione di Rosario Salamone
Fondazione
Cassa di Risparmio di Pesaro 1841
Costanza Monti Perticari aveva tutto per riuscire felice: una grande e persuasiva
bellezza, una naturale bontà d’animo, un’intima propensione alla poesia, una versatile
facondia sostenuta da studi adeguati, infine un padre - Vincenzo Monti - che l’amava
teneramente e che, dall’Olimpo delle patrie lettere, avrebbe potuto consigliarla, guidarla
tra i pericoli, sostenerla nel cammino della vita.
Fu invece una donna profondamente infelice, piegata dalle avversità e dalla “spietata
persecuzione” - sono parole sue - che le mossero alcuni contemporanei, ai quali poté
opporre solo la propria intima fibra morale.
Il lavoro di Silvia Cecchi - che ha svolto con passione, competenza e sicurezza un’accurata indagine bibliografica e documentaria - ci offre una visione disincantata di quelle
vicende con una lettura affettuosa ma non di parte, serena ma non cieca davanti al pro
e al contro. Una lettura che, attingendo al vasto epistolario superstite di Costanza, aggiunge nuove chiavi interpretative ai casi personali della protagonista.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Fano e la Fondazione Cassa di Risparmio
di Pesaro sono liete di sostenere un’opera che, rievocando eventi in gran parte accaduti
nelle valli del Foglia e del Metauro, si pone tra storia, costume e letteratura e consente
una miglior comprensione di un’età - quella della Restaurazione - ormai davvero remota.
Per le due Fondazioni, inoltre, questa è una gradita occasione per una cooperazione che
potrà dare altri utili frutti.
Fabio Tombari
Gianfranco Sabbatini
Presidente
Fondazione Cassa di Risparmio di Fano
Presidente
Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro
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Introduzione
Ci voleva una donna per comprendere una donna. E che donna! Perché stiamo parlando di Costanza Monti Perticari. Così eccezionale che Silvia Cecchi per provare a
comprenderla fino in fondo ha dovuto disarticolare la sua biografia in tredici vite o se
si preferisce in tredici stazioni di quella che fu la sua personale Via Crucis. Costanza
nata in tempi tempestosi, privata a quattro anni dell’affetto del padre in fuga da Roma,
collocata subito in un Collegio bolognese poi affidata a parenti ed amici di famiglia.
Entrata nel 1805 nel Collegio delle Orsoline di Ferrara, tornata in famiglia soltanto
nel 1810 per andare sposa ventenne, nel giugno del 1812, al nobile pesarese Giulio
Perticari con un matrimonio combinato. Lei innamorata di un altro e lui praticamente
accasato con una popolana che gli aveva dato un figlio. Per padre il più celebrato poeta
dell’epoca, per madre una donna la cui bellezza è passata alla storia, per marito un letterato insigne per l’epoca, per amici uomini d’ingegno e veri e propri geni come Rossini e
Stendhal. Per un po’ ospite prediletta della moglie dell’erede al trono d’Inghilterra. Cosa
desiderare di più? Eppure Costanza si sentì sempre esclusa. Esclusa dall’affetto della
madre-matrigna. Nei suoi confronti indifferente, ostile, nemica? Non sappiamo. Certamente antagonista “Specchio delle mie brame, chi è la più bella del Reame?”, esclusa
o meglio estranea ai riti di una nobiltà di Provincia gretta, superficiale ed arretrata, da
poco uscita dallo Stato Pontificio per entrare nel napoleonico Regno d’Italia, incapace
di apprezzare un’intellettuale di sesso femminile. Antagonista in fascino della madre
e quindi di tutte le altre donne che la ripagheranno con la moneta dell’invidia, sole
eccezioni la suocera e la cognata. Antagonista in intelletto degli uomini che superava
ampiamente per cultura e vivacità d’ingegno in un periodo in cui alle donne, salvo pochi casi passati alla storia, non era consentito esserlo. Con il rischio di essere definita
bizzarra e far sorgere sulla sua persona vere e proprie leggende. Vocata alla poesia per
imitazione. Ben presto consapevole dopo l’incontro con Stendhal e la lettura di Madame
de Stael che in Europa lo sterile classicismo italico faceva solo sorridere. Ed allora l’illusione della fuga. A Roma, come Leopardi. Una delusione cocente. Un fallimento totale.
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Tradita come donna, come moglie, come poetessa. Tanto amore sprecato mentre lei
desiderava soltanto amare ed essere amata. Il marito, scoperta la sua inferiorità morale
ed intellettuale, si rifugia definitivamente negli squallidi amori ancillari per altro mai
abbandonati e lei donna d’amore resta senza amore. Donna d’amore irricambiato
perché impossibile per chiunque ricambiare il suo amore ideale, il suo amore totale, quello
che nelle tragedie dell’epoca, comprese quelle del padre nelle quali era stata allevata, è
sempre collegato con la morte. Comprese la grandezza dell’ infelicita’ di Giulio solo
dopo la sua morte e solo allora scoprirà l’amore coniugale, quando potrà viverlo senza
riferimento alcuno alla realtà ed alle miserie della quotidianità. Per lei l’etica veniva
prima dell’estetica. Romantica senza saperlo e soprattutto volerlo, combatté quello che
avrebbe potuto e dovuto amare. Come molti professò una religione in cui non credeva.
Scalpitò, anelò, soffrì ma non si tolse mai la palla al piede che si era messa da sola.
Perché? Ecco la tara di Costanza. Il suo assolutismo morale, frutto ad un tempo di
una concezione letteraria della realtà e di una ossessione vicina alla paranoia “malattia
di chi non fu amato a tempo debito”, che si evidenzierà in particolare dopo la morte di
Giulio, non può non accentuare la sua già conclamata “misantropia”. Diventerà “avida
di solitudine”. Non vuol vedere nessuno, si nega. Si sente vicina soltanto a chi soffre.
All’ebreo Laudadio Della Ripa, dimostratosi il più “cristiano” degli amici, scrive parole
appassionate per solidarizzare con lui ed i suoi correligionari nuovamente perseguitati
nello Stato Pontificio della Restaurazione. Ma la malattia, aggravata dal tumore al
seno, incalza, nell’ultimo periodo giungerà persino a maltrattare la cameriera ed il medico amorevole. Su di lei gli amici, i parenti e gli affini dopo la morte di Giulio si erano
scagliati come una muta di cani idrofobi. Un odio inestinguibile che dimostra soltanto
quanto Costanza fosse stata concupita, ammirata ed invidiata. Ed ecco il “libello” e
la incredibile accusa di uxoricidio scientificamente ed anonimamente diffusa in tutto il
mondo letterario di allora dal cugino Cassi e dall’amico Ferri. Non si riprenderà più:
“l’universo intero per me è diventato muto”. Non ci fu mai l’omicidio Perticari, ad
essere assassinata fu sua moglie quindi di omicidio Costanza Monti occorre parlare.
Non per essere buoni nei confronti di una donna così sfortunata da essere nata prima che
alle donne fosse consentito di essere più intelligenti degli uomini in un secolo in cui ancora
nel 1860 Giuseppe Mazzini nei suoi “Doveri dell’Uomo” era costretto a scrivere: “Un
lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale ed una perenne oppressioni
di leggi, quell’“apparente” inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per
mantenere l’oppressione. Ma la storia delle oppressioni, non v’insegna che chi opprime
s’appoggia sempre su un fatto creato da lui? Non per essere buoni dunque, ma per essere
giusti. Oggi possiamo solennemente affermare che Silvia Cecchi con “Le Tredici Vite di
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Costanza Monti Perticari” ha lucidamente fatto giustizia restituendo a Costanza quello
che è sempre stato suo e che nessuno tra i contemporanei od i posteri gli potrà mai togliere:
la sofferenza inaudita di una vita senza amore.
Alberto Berardi
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