N 48 – Anno XXII – Dicembre 2016 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Ferrante Gonzaga Governatore di Milano
Si è descritta in una precedente nota l’attività di Ferrante
Gonzaga, uno dei più celebri generali italiani del Cinquecento,
sino a quando da Viceré di Sicilia venne nominato Governatore di Milano. L'imperatore Carlo V sin dall'anno precedente aveva preso questa decisione, oltre per voler soddisfare
il desiderio dell'interessato, per la necessità di sostituire in tale
incarico Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, uno dei più
grandi capitani del tempo. Il suo ingresso nella sua nuova
capitale ebbe luogo il 19 giugno 1546, qualche mese dopo la
morte di Francesco I di Francia. Tale evento di fatto comportò
un minore interesse del successore, Enrico II, verso il Milanese, cui sembravano di assai maggiore interesse altre aree,
quali: i Paesi Bassi; la lotta con l’Inghilterra contraddistinta
dal lungo assedio di Boulogne, porto francese troppo
importante per essere lasciato nelle mani dell'avversario; i
contrasti fra l'Impero ed i principi tedeschi; il Mediterraneo.
che queste azioni rimasero solo intenzioni. Riuscì invece ad
esercitare un maggior controllo su Genova, profittando della
congiura dei Fieschi, sottovalutata da Andrea Doria che costò
Andrea Doria
la morte a Giannettino, nipote dello stesso, reagì reprimendo
la rivolta e occupando i feudi della famiglia a Pontremoli ed in
Val di Taro, sequestrò poi il marchesato di Massa e Carrara
occupato da Giulio Cibo Malaspina che tradusse prigioniero a
Milano e fece condannare a morte quando scoprì che con
l'aiuto francese voleva effettuare un altro colpo di Stato a
Genova.
Affrontò poi in modo irruento la questione dei ducati di Parma
e Piacenza, che, liberatisi dal dominio sforzesco, erano entrati
nel 1512 negli Stati della Chiesa e che malgrado i tentativi di
Francesco Sforza prima e degli imperiali non erano stati
recuperati. A complicare le cose si era poi aggiunto il fatto che
papa Paolo III Farnese, salito al soglio pontificio con l’inten-
Ferrante Gonzaga - Statua a Guastalla
Cessata l’esigenza di confrontarsi sul campo con il nemico di
sempre, Ferrante, che riteneva il ducato di Milano il nocciolo
attorno al quale sarebbe dovuto crescere l'impero spagnolo in
Italia, appena insediato nel nuovo incarico, voleva condurre
una politica estera decisamente espansionistica. Suo obiettivo
era la conquista di Bellinzona, l’occupazione e successivo
inglobamento della Val Chiavenna e della Valtellina nel
ducato, la conquista di Bergamo, Brescia e Crema, allora
possedimenti della repubblica di Venezia. Fu solo la prudente
azione di Carlo V, in quel periodo impegnato da altri problemi
Paolo III Farnese
zione di contrastare la potenza dell’imperatore, ne aveva
infeudato il figlio Pier Luigi Farnese che aveva mostrato
sentimenti di ostilità nei confronti dei potenti vicini, provocato
incidenti, e soprattutto si era inimicato parte della nobiltà
locale. Ferrante, che si può ritenere fosse al corrente delle
congiure in atto
Pier Luigi Farnese
Stemma Ducato Parma e Piacenza
Le cose andarono poi in altro modo, i congiurati uccisero il
duca, si svilupparono dei tumulti, le truppe imperiali presero il
controllo del ducato di Piacenza, e lo stesso Ferrante concluse
un patto con i rappresentanti piacentini perché accettassero la
sovranità imperiale e contemporaneamente iniziava il movimento per raggiungere Parma, dove risiedeva il nipote del
pontefice, Ottavio Farnese, nominalmente duca di Parma
affiancato da Alessandro Vitelli Paolo III cercò allora di
sviluppare un’attività diplomatica per cercare di trovare una
soluzione che salvaguardasse le aspirazioni del nipote.
La politica asburgica e le intenzioni del Gonzaga non
potevano però prevedere una rinuncia a Parma e Piacenza,
fondamentali per estendere il controllo spagnolo e consolidare
lo stato di Milano, non c'erano la condizioni per dare Siena a
Ot-tavio Farnese, Francia e Venezia non avevano interesse in
quel momento a sostenere il papa contro l'Impero in questa
azione.
indipendente, Lucca e Piombino, tutto ciò avrebbe consentito
un controllo pressoché assoluto dell'Italia da parte
dell’Impero. Firenze, volente o no, circondata da ogni parte
avrebbe dovuto seguire i voleri dell’Imperatore, gli Stati della
Chiesa serrati a nord e a sud da un potere tutto spagnolo, non
potevano più svolgere nessuna azione politica. Disegno questo
suo che non trovò appoggio a Madrid, Carlo V non aveva
alcuna intenzione di cedere le Fiandre. Nei suoi piani rientrava
sempre la soluzione dei ducati di Parma e Piacenza, la cui
conquista da parte imperiale riteneva essenziale per il
controllo dell’Italia settentrionale, in tale quadro vedeva come
facile la conquista di Siena da dare al Farnese in cambio di
Parma.
Camillo Orsini
Nel dicembre del 1550 Ferrante ricevette a Milano la visita del
figlio dell'Imperatore, il futuro Filippo II, ecco come si trova
descritto nella biografia del Gonzaga scritta dall’Ulloa la
fastosa cerimonia:«E giunto Filippo in Milano, fece la sua
entrata regalmente e pomposamente, essendo piene le strade
di cocchi di varie sorti, riccamente vestiti di panni di seta, e di
broccato di diversi e bellissimi colori, con gli stessi fornimenti
(sic) forniti i cavalli che li tiravano, e gli aurighi, e uomini
che li reggevano. Ne’ quali cocchi si vedevano le principali e
più belle donne della città. Cavalcava il principe un gran
cavallo spagnolo di colore castagno, con fornimenti di velluto
chermisino con ricami d'argento e dinnanzi alla sua persona
andava Don Ferrante a cavallo. Veniva al suo destro lato il
Cardinale di Trento e al sinistro il Duca di Savoia. Dietro a
lui camminava a piedi D. Andrea Gonzaga, giovinetto figliolo
di D. Ferrante con quattordici gentiluomini giovani de’ primi
di Milano [...]»
Ottavio Farnese
Paolo III però fallì, perché quando, per preservarsi il possesso
di Parma, propose ad Ottavio di inglobare questa città negli
Stati della Chiesa offrendogli in cambio Camerino, questi
rifiutò. Nel 1550, quando fu eletto papa Giulio III la situazione non cambio. Il pontefice voleva la restituzione di Piacenza
ad Ottavio Farnese, che però Carlo V e per lui Ferrante non
ritenevano dei Farnese ma al limite degli Stati della Chiesa.
Fra il ‘47 e il ‘50 sia per lo sviluppo delle trattative
diplomatiche, sia perché Parma era sotto il saldo controllo
delle milizie pontificie condotte da Camillo Orsini, sia per la
grave situa-zione finanziaria del ducato non vi furono azioni
militari. Se non si mosse sul campo di battaglia non per questo
il nostro cessò di formulare piani per espandere il potere
dell'impero in Italia, in tale quadro riteneva che si potessero
cedere le Fiandre a Emanuele Filiberto di Savoia ricevendone
in cambio subito le fortezze del Piemonte e dopo la sua morte
l'intero stato, inoltre era secondo lui necessario espandersi
nella parte della Toscana non facente parte del ducato di
Firenze, acquisire cioè Siena, allora retta in repubblica
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Filippo II
Stemma di Filippo II
Dopo la partenza di Filippo, nei primi mesi del 1551, la
situazione precipitò, se da una parte il Gonzaga fremeva per
conquistare Parma, ritenuta una minaccia, Giulio III era
entrato in contrasto con l’Orsini che voleva stringere alleanza
con Enrico II, conscio che ciò avrebbe riportato la guerra in
Italia. L’Orsini non se ne diede per inteso e sottoscrisse
un'alleanza formale con la Francia, a questo punto il Gonzaga
decise di assumere il controllo di Brescello, piccolo feudo
imperiale in possesso del cardinale Ippolito d’Este, schierato
con la Francia, ciò provocò una serie di reazioni che portarono
l'invio di aiuti francesi al Farnese, la dichiarazione della sua
decadenza dal ducato da parte del Pontefice e la nomina del
Gonzaga a capitano generale della Chiesa.
Ippolito d’Este
Arma del Card. Ippolito Este
La guerra si sviluppò senza troppo entusiasmo, solo una serie
di scaramucce, qualche saccheggio, degli assedi, ma nessuna
battaglia campale sino a quando dopo circa un anno si giunse
ad una tregua.
Nello stesso tempo però, grazie alla dichiarazione di guerra
francese, il Gonzaga aveva occupato in Piemonte parte del
marchesato di Saluzzo che nel 1549 era stato annesso alla
Francia. La guerra si trascinò in Piemonte dal 1551 al 1553,
con alterne vicende, senza vedere mai alcuna battaglia
decisiva, il motivo di fondo era che il Gonzaga non aveva le
risorse necessarie per condurre un’azione conclusiva. Carlo V
era impegnato su altri fronti, in Germania doveva tener buoni i
principi tedeschi, in Lorena far fronte all’attacco francese,
nell'oriente europeo alla minaccia turca, l'impero Ottomano
aveva rinnovato la sua alleanza con la Francia, e nel
Mediterraneo all’azione aggressiva dei pirati Barbareschi. La
guerra in Italia non poteva quindi avere la priorità, però
l'iniziative di Ferrante, tese a guadagnare tempo con delle
tregue non piacquero al governo imperiale, perché consentivano lo spostamento in altri settori delle forze francesi
impegnate in Italia, così come alcuni insuccessi, come la temporanea conquista di Vercelli da parte del nemico, furono
l'occasione perché venisse richiamato a corte nel settembre del
1553 per difendersi da accuse di malgoverno e malversazione.
Al termine di una lunga istruttoria, nell’estate del 1554 venne
prima richiamato in servizio e successivamente scagionato del
tutto dallo stesso imperatore, rifiutò tuttavia gli incarichi che
gli vennero offerti e tornò a Mantova.
A Milano intanto si era insediato, un suo nemico personale, il
Duca d’Alba, Ferrante scontava in tale occasione sia gli
ottimi rapporti fra questo ed il nuovo sovrano Filippo II e
l'avver-sione che mostrava nei suoi confronti l'altro astro
nascente dell'esercito imperiale Emanuele Filiberto di Savoia.
Rifiutata nel 1556 una proposta dei Veneziani di passare al
loro servizio, l'anno dopo tornò alle dipendenze del re di
Spagna, allora Filippo II, nella campagna condotta nell'Italia
Meridionale dal papa Paolo IV. Questo non aveva
riconosciuto valide le decisioni di Carlo V in merito alla sua
successione, al figli Filippo la Spagna ed al fratello
Ferdinando l’Impero, in quanto non concordate in precedenza
con lui, inoltre non considerava valida l’elezione di
Ferdinando I ad imperatore in quanto ad essa avevano preso
parte anche i principi elettori protestanti. L’anno dopo,
Ferrante si trasferì nelle Fiandre dove partecipò il 10 agosto
alla battaglia di San Quintino, durante la quale, cadendo da
cavallo, si procurò una ferita che lo portò alla morte.
La sua salma fu trasportata a Mantova ove venne sepolto nella
sacrestia del Duomo.
Nel periodo in cui fu governatore di Milano commissionò
l'ampliamento ed il restauro del palazzo ducale ed ampi lavori
nel duomo e nell'area circostante, potenziò le difese murarie
della città così come le difese di altre città del ducato, fra le
quali Alessandria, Pavia, Novara, Lodi. Non sempre in questo
periodo viene ricordato con favore, la cronica mancanza del
sostegno finanziario da parte dell’Impero cui si aggiungevano
costanti esigenze di carattere militare lo costrinsero ad una
politica fiscale assai rigorosa ed è per questo che non ha
lasciato un buon ricordo. Fu tuttavia uno dei maggiori capitani
italiani del Cinquecento e degli uomini più rappresentativi del
secolo.
P.I.Gastone
La società gerarchica medievale
La prima cosa che si scoprì nel medioevo fu la cavalleria ed
identificare il medioevo con la cavalleria è cosa sola.
L’epoca della fioritura cavalleresca e del vero feudalesimo si
chiuse già nel tredicesimo secolo.
Il periodo seguente è quello comunale e poi, quello
principesco nel quale i fattori dominanti nello Stato e nella
società sono, la potenza mercantile, della nascente borghesia,
e la potenza finanziaria dei principi che, su di essa, poggiava.
La potenza della nobiltà era già, più o meno, spezzata
dappertutto.
Tuttavia le fonti storiche, che si sono “democratizzate”, dall'
epoca romantica in poi, assegnarono, alla nobiltà, ed al
proprio ruolo politico un posto ben più importante di quanto le
spettasse.
La ragione di tutto ciò sta nel fatto che, la nobiltà, ha continuato a dominare, con il proprio “stile di vita”, la società, anche quando, come ceto, aveva già perso parte del proprio potere originario.
Sennonché, il concetto della divisione della società in classi,
pervase, profondamente, tutto il medioevo, sia nelle
espressioni politiche che in quelle teologiche.
Infatti la divisione della società in ordini, non si limita ai soliti
tre: clero, nobiltà e terzo stato ma, il concetto stesso di “ordine” include ogni funzione o mestiere che, essendo qualificato,
quale ordine stesso, se ne possono, quindi, significare molti di
più.
Nel pensiero medievale, infatti, il concetto di ordine o stato è
esteso ad ogni esercizio umano in virtù del fatto che, ogni
individuo, esercita una funzione secondo la Volontà Divina e
rappresenta, così facendo, una istituzione divina costitutiva del
sistema universale del cosmo, più simile, pertanto, ai troni
celesti, alle gerarchie ed alle potestà degli Angeli.
Ad ognuno di questi ordini, nella società medievale, è quindi
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assegnata la propria funzione, non secondo la propria sensata
utilità, ma secondo il proprio grado di santità o del proprio
esterno splendore.
Si poteva, infatti, deplorare la degenerazione del clero o la
decadenza della cavalleria, senza minimamente rinunciare alla
loro immagine ideale.
L’immagine della società medievale è, infatti, statica e non
dinamica!
Dio ha creato il popolo comune affinché lavori, coltivi la terra
e provveda, con il commercio, al sostentamento durevole della
vita; il clero per le opere di Fede e la nobiltà affinché
promuova la virtù e mantenga la giustizia e divenga con le
azioni ed i costumi, un modello per gli altri (!).
La protezione della Chiesa; la diffusione della Fede; gli alti
compiti di governo e la difesa del popolo contro gli invasori,
le erano, totalmente, assegnati.
La scarsa considerazione della borghesia (il terzo stato) deriva
dal fatto che, per essa, non era ancora stato elaborato il concetto socio-politico coerente alla realtà che la riguardava e che,
tale rimase, fino ai tempi di poco precedenti la rivoluzione
francese (anche se, da essa, si traevano le forze cetuali atte a
rinsanguare la nobiltà).
Le virtù borghesi erano: l’umiltà, lo zelo e l’ubbidienza al sovrano nell’attuare i suoi programmi politici.
Le vedove di ricchi borghesi, tuttavia, in genere, servivano a
rimpinguare gli scarsi patrimoni di nobili in rovina, per volere
degli stessi monarchi.
La storia, che vede come protagonisti, questi ordini sociali, si
manifesta, tuttavia, nella intima potenza delle guerre e dei fatti
d'arme, a cui, tutti partecipano e, a questo punto: «chi sono i
testimoni della vera storia o di questi fatti d'arme e di queste
solenni cerimonie»?
Sono gli araldi e i re d’arme che, sempre, assistono a queste
nobili azioni ed hanno il compito di giudicarle ufficialmente;
essi sono i giudici in materia d'onore e di gloria, sono i
testimoni storiografici.
La concezione cavalleresca, in quanto ideale di vita estetico,
pone, in se medesima, la propria singolarità, tuttavia, essa,
deve pur sempre possedere anche un ideale etico e, ciò, non
poteva che essere coniugato se non con la pietà e la virtù.
Ma, al contrario, essendo l'orgoglio, il motore principale
dell’aristocrazia (dal quale nasce il senso dell’onore), il
significato dell’ideale cavalleresco ne risulta immiserito.
Mentre il profitto, risulta il movente principale degli strati medi della società, l'ideale aristocratico come ce lo definisce
Burckard è: «la misteriosa mescolanza di coscienza morale e
di egoismo, (che sopravvive nell'uomo moderno), anche quando ha perduto, con o senza colpa sua, tutto il resto: Fede, Amore e Speranza». Questo senso dell'onore, essendo
compatibile con molto egoismo e con grandi vizi, lascia,
quindi, adito a grandi illusioni.
Si dice che, in altre culture, sia presso gli Ebrei che presso i
Pagani, il senso dell’onore, fosse più rispettato, in quanto, fine
a se stesso e con l'aspettativa di esclusivi vantaggi terreni.
Al contrario, i Cristiani, avendo ricevuto l’onore della Fede e
della Rivelazione, si aspettano ricompense anche celesti!
L’aspirazione cavalleresca all'onore e alla gloria è, quindi,
inseparabile dal culto degli eroi e, questi ideali, pertanto, confluiranno direttamente, dal medioevo al rinascimento, consegnando ai Principi ed ai Cavalieri, un modello da imitare.
La medesima fusione inseparabile degli elementi cavallereschi
e rinascimentali la ritroveremo nel culto dei “nove prodi”;
quel gruppo di nove eroi (tre pagani, tre ebrei, tre cristiani)
che origina proprio da quell'epoca.
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La loro scelta infatti evidenzia il loro stretto legame con lo
spirito cavalleresco ed ermetico*.
Essi sono: Ettore, Cesare e Alessandro; Giosuè, Davide e
Giuda Maccabeo; Arturo, Carlo Magno e Goffredo da
Buglione.
Essendovi, ancora, necessità di simmetria, (secondo i dettami
“dell'ordine medievale” di tutte le cose), Guglielmo di
Machaut, l'ideatore, aggiunse, ai nove prodi le nove eroine
(inventandone i nomi, a dir poco, pietosi....) ma, nonostante
ciò, l’idea ebbe successo e, il culto degli eroi, dal basso
medioevo, trovò la sua fortuna letteraria e sociale nell'ideale
del perfetto cavaliere.
Le belle apparenze pertanto costituiscono un’immagine
eroica.
Il cavaliere deve, quindi, essere morigerato e pio; cortese e
dotato di buona educazione letteraria.
Si alza presto e rimane tre ore in preghiera ed ascolta ogni
giorno, in ginocchio, due messe.
Il venerdì si veste di nero; alla domenica e nei giorni di festa
fa un pellegrinaggio a piedi verso i luoghi santi.
È sobrio; parla poco e, prevalentemente, di Dio e dei Santi o
delle virtù della cavalleria. Propone a se stesso di onorare le
dame e, se può, fonda “ordini cavallereschi” in loro difesa.
Tuttavia, nonostante ciò, la violenza e l'avarizia, non erano
men sconosciute tra i cavalieri... anzi!
Questi primitivi impulsi ideali costituivano i sentimenti più
puri dell'antica cavalleria basantesi sulla perfezione virile di
impronta cristiana: una profonda aspirazione ad una vita bella
e virtuosa, improntata ad un energia rigeneratrice di sommi
valori... ma, questa era al contrario, soltanto, una maschera,
dietro la quale si celava un mondo avido, corrotto e violento.
Il mondo gerarchico della società medievale, in generale,
attraversato e pervaso, per ogni dove, da concezioni religiose,
(specialmente perpetuato dal più ristretto gruppo che viveva
nella sfera della nobiltà di corte ed imbevuto dei più alti ideali
cavallereschi), si nutriva, al contrario, di tradimenti e crudeltà,
di astuta avidità, soprusi e di imprese militari utilizzabili
soltanto come mezzi di arricchimento.
Essi adoperavano la “finzione cavalleresca” quale correttivo ai
propri nefasti comportamenti così che, gli storici dell'epoca,
non essendo in grado di definire in tutto ciò una vera analisi
sociale, si riferirono all’ideale cavalleresco, al fine di ridurre il
tutto entro un “bel quadro” nel quale brillavano: l’onore dei
principi e la virtù dei cavalieri, nel quale, per mezzo di un bel
gioco di nobili forme, si potesse creare, per lo meno,
l'illusione di un vero ordine sociale.
*Non può, infatti, sfuggire (in questa così stretta logica
simmetrico-letteraria) il significato alchemico-numerico del
numero 9 (i nove prodi) raggruppati in ordine di 3+3+3 e delle
nove eroine (anch'esse raggruppate alla stessa stre-gua numerica)
ed al fatto che, sommando il numero dei due gruppi, si ottenga il
numero 18 che, numericamente riunito, ricompone il numero 9
(1+8); quivi risultano presenti, infatti, i significati alchemici del
numero 3 e dei propri multipli: il 9 ed il 18 che rappresentano,
ciascuno con i propri molteplici significati esoterici, (che, qui, non
posso trattare, per ragioni di opportunità tematica) legati ad un
pensiero ermetico-sacrale che può appartenere solo a colui che è
degno di poterlo comprendere: cioè all'iniziato e che, anche per
mezzo del linguaggio araldico, può diventare di grande
importanza significativa proprio perché, in ragione, del suo
ricchissimo sistema figurato e policromo ci consente di poter
comunicare, segretamente, senza limiti di lingua o di
territorialità.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
Amedeo VIII
Nel sesto centenario della elevazione a ducato della contea di
Savoia, si sono svolte a Torino manifestazioni che ricordano
l‘evento, a modesto contributo a tale avvenimento una
sintetica sintesi dell’azione di Amedeo VIII che portò alla
concessione del titolo ducale, rimandando ad un eventuale
successivo articolo il periodo assai ricco di eventi fra il 1416 e
il 1451.
Amedeo VIII, figlio di Amedeo VII e di Bona di Berry, alla
morte del padre nel 1391 era troppo giovane per salire sul
trono, la reggenza venne assunta dalla nonna Bona di
Borbone, in cui favore intervennero il re di Francia, i duca di
Borgogna, di Berry e di Borbone. Il principe di Acaia,
Aimone, membro maschile più anziano della famiglia aveva
rinunciato alla successione, si ricorda che in quel periodo essa
non seguiva rigidamente il principio della primogenitura ma
piuttosto del più potente fra i successori.
Filippo l’Ardito
Vale la pena di ricordare tuttavia che l’insieme delle terre
sulle quali si esercitava la signoria dei Savoia alla fine del
Trecento inizi del Quattrocento non rappresentavano uno
stato unitario ma piuttosto un mosaico, non continuo in cui
diritti feudali, privilegi, concessioni si mischiavano fra loro
lasciando ampio margine d’indeterminatezza nel definire chi
in concreto avesse il potere. Fra i domini dei Savoia erano
allora la regione del Lemano, eccetto Ginevra e Losanna, il
Vaud, il basso Vallese, il Chiablese, il Faucigny, il Bugey, la
Bresse sino alla periferia di Lione, la Savoia propriamente
detta, la Moriana, la Tarantasia, la valle d’Aosta, la contea di
Nizza, la contea di Torino, quest’ultima però appannaggio dei
Savoia-Acaia, le terre di Cuneo, Biella e Santhià. Uno stato
frantumato in vari pezzi separati fra loro da altri stati, a volte
di poco peso e altri di peso assai maggiore. Il marchesato di
Saluzzo, la contea di Tenda, sul versante italiano ed il
Valentinois e il Diois su quello savoiardo dividessero in due il
dominio sabaudo, problemi dovuti a realtà locali rendevano
inoltre solo nominale la sovranità del conte sull’alto Vallese,
lungo le rive del Rodano e su parte dello stesso Vaud.
Minacce esterne provenivano inoltre dalla politica Visconti a
Milano, dei marchesi di Monferrato e di Ginevra.
Amedeo VIII
La contea in quel periodo era sotto l’influenza del duca di
Borgogna, che nell’ottobre del 1393 assegnò in sposa la
propria figlia Maria ad Amedeo, che pur dichiarato maggiorenne rimase sotto la tutela dei suoi tutori Aimone d’Aspremont e Oddone di Thoire e Villars, quest’ultimo feudatario
delle terre dell’Impero e per lungo tempo al servizio di
Amedeo VI e fedelissimo alla dinastia. Nel 1398 Amedeo era.
a Parigi per essere presentato al re di Francia Carlo VI e in
quello stesso anno, per contrastare l’influsso della Francia
sulla Savoia, l’imperatore Venceslao dichiarò nulli gli atti
della reggenza tenuta di fatto dai principi francesi e rinnovò la
concessione a Vicario Imperiale già concessa al conte Verde
nel 1365. In quell’anno vi fu riorganizzazione del governo in
Savoia in cui rimase forte l’ingerenza borgognona, tirava i fili
di questo controllo Filippo l’Ardito (quarto figlio del re di
Francia, duca di Borgogna dal 1363 al 1404, padre di Maria di
Borgogna, moglie di Amedeo), che portò fra l’altro all’allontanamento di Oddone di Thoire e Villars, che venne però
ripreso al servizio di Amedeo quando questi recuperò la sua
liberta d’azione. Cosa questa che avvenne per l‘accentuarsi
delle lotte civili in Francia, gli scontri familiari tra Filippo e il
duca d’Orelans, la reggenza per l’infermità del sovrano che
costrinsero Filippo l’Ardito ad occuparsi più delle diatribe
interne e della spada di Damocle di una eventuale ripresa della
guerra con l’Inghilterra piuttosto che della contea di Savoia
Stati di Savoia alla fine del XIV secolo e inizi XV
La politica di Amedeo dal 1398 fu quella di consolidare i suoi
stati, con un’azione politica supportata a volte da azioni militari per consolidare i propri stati ed iniziò già nel 1398 nel
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Vaud, dove, dopo una permanenza durata qualche mese, più
con la diplomazia che con la forza riportò la tranquillità facendo cessare rivolte e insubordinazioni di comuni e feudatari .
Nel 1401, a conclusione di una lunga diatriba, il conte di
Savoia acquistò da Oddone di Villars la contea del Genevese
che consolidò poi negli anni successivi. Rimase in essere il
contrasto con Ginevra che mantenne la sua indipendenza
anche se formalmente l’imperatore Sigismondo nel 1422 lo
investì della contea del Ginevrino, precisando peraltro che Ginevra era una città imperiale, sotto la protezione diretta dell’
Imperatore, e ordinando di non molestarla. Amedeo, divenuto
come si dirà duca, non rinuncio tuttavia mai almeno formalmente a Ginevra, tanto che nel 1434 nominò il suo secondo
genito, Filippo,conte di Ginevra, titolo puramente onorifico.
Altro territorio di grande interesse per il conte di Savoia era il
Vallese parte della valle del Rodano che adduce al Sempione e
quindi consente di assicurarsi il controllo dell’importante via
di comunicazione fra la ricca Lombardia e i territori al di là
delle Alpi. Nel 1399 Bona di Borbone, a seguito della pace
con i feudatari locali e con i comuni del luogo, aveva accettato un accordo in base al quale i comuni dell’alta Vallese mantenevano l’indipendenza nei confronti del conte di Savoia, che
peraltro manteneva la sua autorità sul basso Vallese e Martigny, paese dal quale si aveva accesso al Gran San Bernardo
che faceva parte degli stati del conte.
Bona di Borbone
Il possesso di Martigny consentiva quindi i vantaggi
economici relativi ai dazi che si traevano da una delle più
importanti vie di comunicazioni attraverso le Alpi. Amedeo
VIII confermò il trattato e iniziò una efficace penetrazione
lungo la valle utilizzando i conflitti fra il feudatario locale
Guglielmo di Rarogna ed i vallesani a seguito
dell’assegnazione alla sua famiglia dei diritti spettanti al
Vescovo di Sion, ma non riuscì mai a conquistare l’alto
Vallese, fatto che gli impedì di unire in un unico blocco le
terre del Ginevrino, il Vaud e il Chiablese. Troppo grande era
e sarebbe stata la resistenza dei valligiani per conservare il
controllo della più importante via di comunicazione transalpina che assicurava loro una importante, se non fondamentale, fonte di ricchezza. Legato a questo problema era
quello della val d’Ossola e delle valli ticinesi di Maggia e Verzasca che nel 1411 avevano chiesto la protezione del conte di
Savoia e l’anno dopo s’impegnarono a versargli ogni anno 200
lire imperiali quale tributo. Il controllo della valle dell’ Ossola
avrebbe avuto grande importanza per il conte, che avrebbe di
fatto avuto il controllo del Sempione e dell’alto Vallese. Ciò
provocò la reazione di Facino Cane, signore di Novara, degli
altri comuni svizzeri ed infine di Filippo Maria Visconti che
suscitarono gravi disordini nella valle, tanto che Amedeo, anche se nel frattempo era stato investito del titolo di duca, preferì per evitare l’ingrandimento del ducato di Milano di sta6
bilire un alleanza con i Cantoni confederati svizzeri rinunciando a loro favore ad ogni suo diritto sull’Ossola.
Giangaleazzo Visconti
Nel 1414 il conte riuscì a concludere a suo favore la diatriba
su alcune terre del Bresse che gli venivano contestate da Giovanni senza paura, il duca di Borgogna successo al padre
Filippo l’Ardito, la questione sottoposta per volontà del re di
Francia al Parlamento di Parigi, vide come conclusione la
cessione ad Amedeo VIII di Montréal, Arbent, Matafélon,
Aspremont, St. Martin du Fresne, la guardia di Nantua e le
loro dipendenze, considerate tutte come facenti parte della
dote di Maria, moglie del conte e sorella di Giovanni. Risultato che accontentò solo parzialmente il conte che in realtà
mirava ad ottenere tutte le terre ad est della Saona.
Dal 1399 al 1417 nella contea di Nizza Amedeo VIII dovette
contrastare l’azione dei Grimaldi e degli Angiò che non accettavano che la contea di Nizza si fosse data al Savoia, a tal fine
fomentavano rivolte, risse, creavano una situazione di instabilità, il ristabilimento della situazione venne affidato inizialmente al maresciallo Bonifacio di Challant, poi a Ottone di
Villars ed infine a Giovanni di Pritignac che riuscirono ad
aver ragione dei Grimaldi e a stabilire una lunga tregua con gli
Angiò riportando la tranquillità nella contea. Nello stesso
periodo riuscì a stabilire la sua autorità anche nell’area vitale
per il collegamento fra Nizza ed il Piemonte, il colle di Tenda.
Le regioni di Briga e Tenda erano sotto il controllo dei
Lascaris, conti di Ventimiglia e feudatari degli Angiò, i quali
non riconoscevano l’autorità dei Savoia, Amedeo con un’
accorta azione diplomatica nei confronti degli Angiò, che
rinunciarono ai loro diritti riconoscendo che Tenda faceva
parte della contea del Piemonte, e la concessione di qualche
beneficio economico ai fratelli Lascaris che accettarono di
divenire suoi vassalli riuscì ad assumere il controllo della
strada che collegava il Cuneese con la Provenza collegando
così fra loro importanti regioni dello Stato.
Quando nel 1398 Amedeo VIII iniziò, sia pure ancora sotto al
tutela borgognona, ad assumere le redini dello stato, in Piemonte accanto ai Savoia Acacia erano in competizione per
assicurarsi il dominio della regione il marchese di Monferrato
e quello di Saluzzo e soprattutto i Visconti, accanto a loro
numerosi importanti feudatari che lottavano per mantenere la
loro autonomia, quali i marchesi di Valperga, i conti di San
Martino, di San Giorgio e di Masino. Nel 1395 l’imperatore
Venceslao aveva concesso a Gian Galeazzo Visconti il titolo
di duca di Milano, principe di Lombardia e l’autorizzazione di
apporre sulla propria arme l’aquila imperiale. In quegli anni
gli Acaia ebbero più volte a scontrarsi, sostenuti da Amedeo
VIII con denaro, qualche aiuto militare ma soprattutto con la
diplomazia, sia con i Visconti sia con i marchesi di Saluzzo e
Monferrato in una lotta nella quale non ci fu mai un vero
vincitore. Le cose cambiarono, all’improvviso, nel 1402 con la
morte di Gian Galeazzo Visconti, per l’indebolimento del
ducato di Milano a causa della lotta intestina per la successione al duca. Il marchese di Monferrato, non più sostenuto
dai Visconti si riavvicinò ai Savoia e nel 1404 venne firmata
fra Amedeo VIII, Luigi di Acaia e Teodoro II di Monferrato
un’alleanza difensiva contro i Visconti. Il conte di Savoia peraltro dopo questo evento cominciò ad estendere sempre più la
sua influenza nella regione, ciò provocò la reazione di Teodoro II, che rotto il patto si fece aiutare dai Visconti ed il periodo sino al 1412 fu caratterizzato da una situazione di conflitto che interessò Lombardia, Piemonte e Genova sino a
quando con la morte nel 1412 di Giovanni Maria Visconti subentrò a questo Filippo Maria che firmò col conte di Savoia un
trattato di reciproco aiuto, che dava un temporaneo momento
di tregua. In quegli stessi anni si chiuse anche la diatriba fra il
marchese di Saluzzo ed i Savoia. Gli Acaia infatti nel tempo si
erano gradatamente impossessati dei feudi attorno al marchesato, riducendolo e facendogli perdere di forza ed importanza, malgrado ciò Tommaso III di Saluzzo mal sopportava
questa situazione così prendendo l’occasione del ritiro di truppe francesi dalla piazza di Carmagnola la occupò provocando
la reazione di Amedeo VIII che gli dichiaro guerra proclamandolo fellone e ribelle e gli inviò contro le proprie forze. Il
22 giugno 1413 il conte ricevé il marchese di Saluzzo a Rivoli
che gli rese omaggio e gli giurò fedeltà.
Nei confronti dell’Impero la politica di Amedeo VIII fu quella
del fedele vassallo: assicurare il passaggio delle truppe dell’
impero attraverso le Alpi, contenere l’espansione e l’influenza
francese, Non era però affatto soddisfatto del fatto che nel
1395 l’Imperatore avesse conferito ai Visconti il titolo di
duca, d’altra parte non v’era dubbio che in quel momento,
almeno sul versante italiano delle Alpi, Milano fosse lo stato
indipendente più forte, la cui potenza dava ombra anche a
molti dei feudatari imperiali in Germania e in Italia. Il
matrimonio di Filippo Maria Visconti con Beatrice di Tenda
oltre tutto aveva portato in dote un patrimonio ingentissimo
comprendente fra l’altro Alessandria, Valenza, Varese,
Novara e Vigevano. Uno stato troppo potente e non legato
all’Impero nel settentrione d’Italia non era però negli
intendimenti di Sigismondo, da qui la necessità di
controbilanciare la potenza milanese con un’altra entità
statale.
Filippo Maria Visconti
La contea di Savoia che l’accorta politica di Amedeo VIII
aveva consolidato facendole assumere anche nella pianura
padana una forza commendevole tale da poter fare da contraltare ai Visconti, la ripetuta sottolineatura in ogni dichiarazione del suoi legami con l’Impero e la fedeltà dimostrata
portarono così l’imperatore a soddisfare la legittima aspirazione del conte a vedersi eletto duca. Già nel 1415 Sigis-
mondo lo aveva incontrato a Lione e per un’intera giornata
aveva esaminato con lui i principali problemi politici, lasciandolo gli promise che l’anno dopo si sarebbe fermato a Chambéry e gli preannunciò che in quell’occasione lo avrebbe investito del titolo di duca.
Sigismondo di Lussemburgo
L’imperatore mantenne fede alla sua promessa, così il 19 febbraio del 1416 ebbe quindi luogo nella piazza del castello
della capitale della Savoia la cerimonia dell’investitura. Su un
grande palco che era stato costruito apposta era l’Imperatore
con alla sua destra il conte di Oettingen con in mano il globo,
a sinistra Carlo Visconti con in mano lo scettro, attorno ad essi
una folla di feudatari savoiardi, tedeschi, qualche signore
borgognone, vescovi savoiardi, francesi e svizzeri. Amedeo,
accompagnato dai principali dignitari della sua corte salì sul
palco, si inginocchiò avanti a Sigismondo che lo proclamò duca. Seguì un sontuoso banchetto, secondo l’etichetta del tempo
mentre ai personaggi di rango più elevato venivano servite più
razioni della stessa portata, ai cavalieri erano offerti due o tre
piatti di selvaggina, ai valvassori infine una sola portata.
La concessione del titolo non era in questo caso una fatto
esclusivamente di prestigio sulla cui validità si potrebbe anche
discutere, ma l’affermazione dell’importanza politica della
contea ora ducato di Savoia. Fatto che avveniva in un momento in cui la Francia, sconfitta ad Anzicourt nell’anno precedente doveva rinascere come grande potenza, la Borgogna
quale erede del regno di Arles, erosa prima dalla Francia e poi
travolta dalla sua sconfitta era ormai senza importanza politica. Il ducato di Savoia veniva a riempire nella regione alpina
quel vuoto di potere provocato proprio dalla scomparsa del
regno di Borgogna. Il consolidamento che si ebbe poi negli
anni seguenti, quando nel 1418 Amedeo VIII, con la fine degli
Acaia, riprese il controllo effettivo delle terre piemontesi, nominando, a scanso di equivoci, suo figlio ed erede principe di
Piemonte, prometteva un ulteriore grande sviluppo territoriale
che venne però bloccati da un lato dal risveglio nazionale
francese, opera di Giovanna d’Arco, e dalla politica espansionistica di Filippo Maria Visconti con cui furono numerosi gli
scontri e non ultimo la necessità di fare i conti con un bilancio
che non consentiva il mantenimento di una grande potenza
militare e quindi la necessità di ricorrere alla diplomazia e al
compromesso, limitandosi al consolidamento dello stato.
ALF
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Case in Castello
Qui vissero... Le dimore dei nobili in Castello
Piccolo volume di Fabia Cocco Ortu di alcuni anni fa che
come l’autrice scrive “non è stato pensato come un testo di
vera e propria storia, ma più semplicemente come studio,
censimento ed illustrazione delle case e residenze private del
rione storico per eccellenza della città capoluogo, che ne
hanno costituito, nel tempo, l’ossatura portante.”
Qui non è possibile fare l’illustrazione completa di tutte le
dimore di cui l’autrice traccia, si pure sinteticamente, la storia,
ma di estrarne dal testo solo alcune per dare l’idea del
pregevolissimo lavoro svolto.
Vale innanzi tutto precisare che per Castello si intende quella
parte della città costruita sul colle che domina la baia di
Cagliari, quartiere di cui nel documento “Castell de Caller”
del 1326 si trova un’accurata descrizione in cui sono riportate
strada per strada tutte le abitazioni con in nomi dei cittadini
pisani che dovevano lasciarle a favore dei Catalani ed
Aragonesi. Altro esodo dalla zona si verificò nel 1491, quando
gli Ebrei che risiedevano in Sardegna vennero espulsi
dall’isola, allora sotto il dominio spagnolo, per la volontà del
sovrano iberico. Fra il XVII ed il XVIII secolo in questa parte
della città vennero ad insediarsi le famiglie nobili dell’isola,
mutò quindi la fisionomia del quartiere, sparirono la maggior
parte delle piccole case e gli spazi liberi ed al loro posto
sorsero numerosi palazzi. Non si tratta però di monumenti
grandiosi, l’architettura mira più che altro all’essenziale, tanto
che l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo nel 1812
scrisse a proposito dell’architettura della città che gli Spagnoli
se ne erano andati senza lasciare dimore sulle quali valesse la
pena di fermarsi e che i Piemontesi avevano fatto qualcosa di
più ma non troppo.
In Castello la popolazione era dei ceti più diversi, accanto a
numerosi feudatari, vi erano molti alti funzionari dello Stato,
soprattutto magistrati e militari, e quindi ecclesiastici, artigiani, e bottegai. In Castello erano anche il palazzo Viceregio, il
Duomo, l’Arcivescovado, il Comune, il forte con i comandi
militari, infine i bastioni chiudevano il quartiere.
Uno dei palazzi più antichi è quello chiamato Palazzo Zapata,
realizzata nel 1622 su commissione di Antonio Brondo conte
di Serramanna, il portale, assai pregevole, venne realizzato nel
1633 da tale Francesco Pinna per volontà della consorte
dell'Antonio di cui sopra, Elena Gualbes, lo stemma che lo
sovrasta è quello del figlio di questa Francesco Lussorio
Brondo, composito che alle armi paterne (Brodo e Ruecas)
unisce quelle materne (Gualbes e Zuniga).
8
Successivamente, nel 1670, a seguito del matrimonio della
figlia del sopraccitato Francesco con Ignazio Zapata, il
palazzo divenne di proprietà di quest'ultima famiglia.
Altra costruzione fra le più antiche è palazzo Asquer, datato
inizi del 1600, fatto erigere dal Viceré Giovanni Zapata, e
successivamente passato agli Asquer. Il palazzo di stile
neoclassico, parzialmente distrutto dai bombardamenti della II
Guerra Mondiale, era suo tempo formato da due corpi, di essi
ne è rimasto solo l’ala destra. Sul portale è ancora collocato lo
stemma della famiglia costruttrice.
Arma Centelles: losangato d'oro e di rosso
Palazzo Zapata
Palazzo Cugia è di difficile datazione, in un documento del
1752 si parla di lavori da effettuare nell’edificio di proprietà
dei Centelles marchesi di Quirra, che passò agli inizi del XIX
secolo nelle mani di D. Gavino Nieddu, già amministratore dei
beni dei Centelles, e quindi nel 1919 fu ereditato da Umberto
Cugia di sant’Orsola.
Arma Cugia: Spaccato. Nel 1° d’azzurro al cane d’argento
passante e più in alto a destra un’aquila dello stesso
volante verso un sole d'oro, nell'angolo destro del capo; nel
2° d’oro all'olmo di verde nudrito sulla campagna erbosa
del medesimo e sinistrato da un leone di rosso impugnante
con la branca destra una spada d'argento alta in palo
Arma Nieddu: Di rosso, con due leoni d’oro affrontati e
controrampanti ad una ruota d’oro, sormontata da una
cometa d’argento, leoni moventi su una pianura ombrata
di verde, col capo cucito d’azzurro alla montagna d'oro
addestrata da un uccello dello stesso, volante verso la
sommità della montagna
La costruzione che ha subito nel tempo numerosi restauri e
lavori di trasformazione è di stile neoclassico, la facciata
principale è caratterizzata da un bel portale sovrastato da un
grande balcone con una bella ringhiera di ferro sormontato
dalle armi dei Carroz Centelles marchesi di Quirra.
Altro palazzo notevole è un altro denominato anch'esso
Asquer, costruzione del quale si trovano diverse ipotesi, una di
esse dice che venne fatto costruire dal marchese Pietro Vivaldi
Pasqua nel 1781, altra attribuisce alla famiglia Nin di San
Tommaso l'averlo fatto erigere ed indica invece nei Vivaldi
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Pasqua la famiglia che ne era proprietaria nel 1799, occasione
nella quale vi ospitò alcuni membri della famiglia reale che
nel dicembre del 1798 avevano dovuto lasciare Torino. Il
palazzo divenne quindi proprietà del cavaliere Giovanni
Bonfant e in seguito a seguito del matrimonio della figlia di
questo, Domitilla, passò alla famiglia Asquer. Sul timpano del
portale fa tuttavia bella mostra di sé lo stemma dei Nin di San
Tommaso.
precedente costruzioni, quali la trecentesca Torre dell'Aquila
semidistrutta dal bombardamento navale spagnolo del 1717.
All'altezza del piano nobile una terrazza con balaustra con
quattro statue di marmo.
A voler ricordare i bombardamenti subiti dalla città nel corso
dei secoli precedenti sulla facciata sono incastrate tre palle di
cannone a ricordo dei di quelli del 1708, 1717 e 1793.
Palazzo Asquer, già Nin di S. Tommaso
Arma Asquer: Di verde al leone d’oro coronato dello stesso
impugnante con la branca destra una spada al naturale in palo
Stemma Amat sulla volta dell'atrio del palazzo (originariamente della famiglia Masones).
Imponente e dominante l'intera città il palazzo Boyl, fatto
erigere nel 1840 da Carlo Boyl di Putifigari, sorge sul
Bastione di Santa Caterina e venne realizzato sfruttando anche
PTdOli
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Attività della Società
XXXIV Convivio Scientifico
Il 12 novembre u.s. ha avuto luogo a Torino presso la Sala dei
rettori del Santuario della Consolata l’annuale Convivio
Scientifico della S.I.S.A. cui hanno partecipato 25 soci alcuni
dei quali accompagnati dalle proprie consorti. Particolarmente
gradita è stata la presenza dei soci provenienti dal Veneto, dal
Lazio e dalla Campania che hanno così ampiamente
giustificato il voler chiamare la nostra Società come Italiana e
non solo Piemontese.
Dopo un breve saluto da parte del Presidente si è avuta
l’esposizione di ben 15 relazioni, attività che ha comportato
un impegno sino a quasi le 1700, con un breve intervallo per
la colazione.
Fabrizio Antonielli d’Oulx ha illustrato le recenti vicende del
Libro d’Oro della Nobiltà italiana e del Collegio Araldico, in
proposito ha proposto la realizzazione di più stretti legami fra
S.I.S.A. e il Collegio Araldico e la Rivista Araldica considerato anche che molti soci S.I.S.A. lo sono anche del Collegio.
Il presidente ha recepito la proposta e ha detto che essa sarà
messa all’odg della prossima riunione del Consiglio Direttivo
della Società.
Luigi Alzona è successivamente intervenuto con una relazione
dal titolo: “I San Martino d’Agliè tra Seicento e Settecento:
alcune precisazioni e integrazioni alle genealogie Angius e
Manno.
Angelandrea Casale ha successivamente presentato lo studio
realizzato con Felice Marciano e Vincenzo Amorosi relativo
ad un fondo araldico inedito di grande interesse da loro
individuato a Cava dei Tirreni dal titolo: L’araldica del fondo
Mansi, conservato presso la badia cavese della SS Trinità.
Interventi di Luigi Alzona e Angelandrea Casale
Ha successivamente preo la parola Alberto Gamaleri Calleri
Gamondi per un intervento incentrato sull’esame di uno studio
politico di fine Settecento dal titolo: Governo monarchico o
democratico? Analisi storico-filosofica-religiosa di un
inquisitore alessandrino nel 1799.
Angelo Scordo è quindi intervenuto con una relazione dal
titolo: L’abolizione dell’illustre sedile di San Basilio e il
patriziato di Amantea.
Interventi di Fabrizio Antonielli e Alberto Lembo
L’On. Alberto Lembo ha presentato un’interessante relazione
sulla cognomizzazione dell’antico predicato “di Rolasco”
Mario Palazzi ha fatto una relazione dal titolo “Quattro processi inediti intentati da nobili vicentini nella seconda metà del
Seicento, sempre rimanendo in area veneta Ottavio Bevilacqua ha parlato sul tema” Cavalieri e Gentiluomini. Per una
storia dell’Accademia Filotima di Verona”.
Interventi di Alberto Gamaleri e Angelo Scordo
Con queste due relazioni si è chiusa la prima sessione del
Convivio, tuttavia tenuto conto che per la concisione degli
interventi si era guadagnato uno spazio di tempo, il presidente
ha chiesto a Gustavo Mola di Nomaglio che è stato uno degli
organizzatori della manifestazione di illustrare l’attività svolta
per la celebrazione del VI centenario della Contea a Ducato di
Savoia, celebrazioni che fra l’altro hanno visto numerosi
interventi di soci della S.I.S.A.
Interventi di Mario Palazzi e Ottavio Bevilacqua
Successivamente sono intervenuti:
Alberto Lonigo che ha parlato sul tema: Nicolò Leoniceno: un
nobile veneto ala corte di Ercole I e Claudia Ghiraldello che
ha svelato un enigma araldico di Castellengo
Interventi di Alberto Lonigo e Claudia Ghiraldello
Intervento di Gustavo Mola di Nomaglio
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Ѐ quindi seguita una colazione di lavoro, espressione del tutto
formale per indicare il fatto che anche i partecipanti ad un
convegno scientifico hanno bisogno di alimentarsi.
Colazione di lavoro
Nella seconda sessione del convegno, il primo ad intervenire è
stato Mario Coda, con una relazione dal titolo: Le armi di
alleanza dipinte nel castello della Rocchetta a Sandigliano.
Andrew M. Garvey ha presentato inizialmente lo studio dal
titolo: Considerazioni storico araldiche sul Sovrano Ordine di
Malta di Giorgio Aldrighetti, che non è potuto intervenire al
convegno. Successivamente è intervenuto con una relazione
dal titolo: Brutta araldica: alcuni ufficiali della Royal Navy e
le loro onourable augmentations.
Dopo il ringraziamento del Presidente ai convenuti alle 1630 il
convegno si è quindi chiuso.
Particolare ringraziamento va a Mario Coda autore della
documentazione fotografica riportata in questa sintetica
cronaca della manifestazione..
MDB
Segnalazione libraria
Per gli studiosi di araldica si segnalano di tre interessanti
opere, la prima di Angelandrea Casale e Felice Marciano. Il
sedile dei Nobili di Ravello con particolare riguardo al SeiSettecento. Opera ricca di una bellissima iconografia;
la seconda, sempre di Angelandrea Casale e Raffaele D’Avino
dal titolo: Intorno ad alcune famiglie nobili di Somma;
la terza, di un nuovo socio della S.I.S.A., Alessandro
Scandola, dal titolo: Le insegne cavalleresche autorizzate
dalla Repubblica.
Interventi di Mario Coda e Andrew M. Garvey
Gabriele Reina è intervenuto con una relazione dal titolo: Il
Konigssthul: il “Seggio regale” del Reno.
Carlo Del Grande, secondo la tradizione ha presentato una
relazione dal titolo enigmatico, che costringe a seguire il suo
dire per riuscire poi a scoprire di chi e cosa si parla. Titolo
della relazione: Il generale archeologo.
Interventi di Gabriele Reina e Carlo Del Grande
Ha concluso il convivio la relazione di Paolo Fiora di Centocroci dal titolo: Un armoriale poco noto sotto le volte di S. Secondo d’Asti
Intevento di Paolo Fiora di Centocroci
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Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci
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