N 48 – Anno XXII – Dicembre 2016 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Ferrante Gonzaga Governatore di Milano Si è descritta in una precedente nota l’attività di Ferrante Gonzaga, uno dei più celebri generali italiani del Cinquecento, sino a quando da Viceré di Sicilia venne nominato Governatore di Milano. L'imperatore Carlo V sin dall'anno precedente aveva preso questa decisione, oltre per voler soddisfare il desiderio dell'interessato, per la necessità di sostituire in tale incarico Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, uno dei più grandi capitani del tempo. Il suo ingresso nella sua nuova capitale ebbe luogo il 19 giugno 1546, qualche mese dopo la morte di Francesco I di Francia. Tale evento di fatto comportò un minore interesse del successore, Enrico II, verso il Milanese, cui sembravano di assai maggiore interesse altre aree, quali: i Paesi Bassi; la lotta con l’Inghilterra contraddistinta dal lungo assedio di Boulogne, porto francese troppo importante per essere lasciato nelle mani dell'avversario; i contrasti fra l'Impero ed i principi tedeschi; il Mediterraneo. che queste azioni rimasero solo intenzioni. Riuscì invece ad esercitare un maggior controllo su Genova, profittando della congiura dei Fieschi, sottovalutata da Andrea Doria che costò Andrea Doria la morte a Giannettino, nipote dello stesso, reagì reprimendo la rivolta e occupando i feudi della famiglia a Pontremoli ed in Val di Taro, sequestrò poi il marchesato di Massa e Carrara occupato da Giulio Cibo Malaspina che tradusse prigioniero a Milano e fece condannare a morte quando scoprì che con l'aiuto francese voleva effettuare un altro colpo di Stato a Genova. Affrontò poi in modo irruento la questione dei ducati di Parma e Piacenza, che, liberatisi dal dominio sforzesco, erano entrati nel 1512 negli Stati della Chiesa e che malgrado i tentativi di Francesco Sforza prima e degli imperiali non erano stati recuperati. A complicare le cose si era poi aggiunto il fatto che papa Paolo III Farnese, salito al soglio pontificio con l’inten- Ferrante Gonzaga - Statua a Guastalla Cessata l’esigenza di confrontarsi sul campo con il nemico di sempre, Ferrante, che riteneva il ducato di Milano il nocciolo attorno al quale sarebbe dovuto crescere l'impero spagnolo in Italia, appena insediato nel nuovo incarico, voleva condurre una politica estera decisamente espansionistica. Suo obiettivo era la conquista di Bellinzona, l’occupazione e successivo inglobamento della Val Chiavenna e della Valtellina nel ducato, la conquista di Bergamo, Brescia e Crema, allora possedimenti della repubblica di Venezia. Fu solo la prudente azione di Carlo V, in quel periodo impegnato da altri problemi Paolo III Farnese zione di contrastare la potenza dell’imperatore, ne aveva infeudato il figlio Pier Luigi Farnese che aveva mostrato sentimenti di ostilità nei confronti dei potenti vicini, provocato incidenti, e soprattutto si era inimicato parte della nobiltà locale. Ferrante, che si può ritenere fosse al corrente delle congiure in atto Pier Luigi Farnese Stemma Ducato Parma e Piacenza Le cose andarono poi in altro modo, i congiurati uccisero il duca, si svilupparono dei tumulti, le truppe imperiali presero il controllo del ducato di Piacenza, e lo stesso Ferrante concluse un patto con i rappresentanti piacentini perché accettassero la sovranità imperiale e contemporaneamente iniziava il movimento per raggiungere Parma, dove risiedeva il nipote del pontefice, Ottavio Farnese, nominalmente duca di Parma affiancato da Alessandro Vitelli Paolo III cercò allora di sviluppare un’attività diplomatica per cercare di trovare una soluzione che salvaguardasse le aspirazioni del nipote. La politica asburgica e le intenzioni del Gonzaga non potevano però prevedere una rinuncia a Parma e Piacenza, fondamentali per estendere il controllo spagnolo e consolidare lo stato di Milano, non c'erano la condizioni per dare Siena a Ot-tavio Farnese, Francia e Venezia non avevano interesse in quel momento a sostenere il papa contro l'Impero in questa azione. indipendente, Lucca e Piombino, tutto ciò avrebbe consentito un controllo pressoché assoluto dell'Italia da parte dell’Impero. Firenze, volente o no, circondata da ogni parte avrebbe dovuto seguire i voleri dell’Imperatore, gli Stati della Chiesa serrati a nord e a sud da un potere tutto spagnolo, non potevano più svolgere nessuna azione politica. Disegno questo suo che non trovò appoggio a Madrid, Carlo V non aveva alcuna intenzione di cedere le Fiandre. Nei suoi piani rientrava sempre la soluzione dei ducati di Parma e Piacenza, la cui conquista da parte imperiale riteneva essenziale per il controllo dell’Italia settentrionale, in tale quadro vedeva come facile la conquista di Siena da dare al Farnese in cambio di Parma. Camillo Orsini Nel dicembre del 1550 Ferrante ricevette a Milano la visita del figlio dell'Imperatore, il futuro Filippo II, ecco come si trova descritto nella biografia del Gonzaga scritta dall’Ulloa la fastosa cerimonia:«E giunto Filippo in Milano, fece la sua entrata regalmente e pomposamente, essendo piene le strade di cocchi di varie sorti, riccamente vestiti di panni di seta, e di broccato di diversi e bellissimi colori, con gli stessi fornimenti (sic) forniti i cavalli che li tiravano, e gli aurighi, e uomini che li reggevano. Ne’ quali cocchi si vedevano le principali e più belle donne della città. Cavalcava il principe un gran cavallo spagnolo di colore castagno, con fornimenti di velluto chermisino con ricami d'argento e dinnanzi alla sua persona andava Don Ferrante a cavallo. Veniva al suo destro lato il Cardinale di Trento e al sinistro il Duca di Savoia. Dietro a lui camminava a piedi D. Andrea Gonzaga, giovinetto figliolo di D. Ferrante con quattordici gentiluomini giovani de’ primi di Milano [...]» Ottavio Farnese Paolo III però fallì, perché quando, per preservarsi il possesso di Parma, propose ad Ottavio di inglobare questa città negli Stati della Chiesa offrendogli in cambio Camerino, questi rifiutò. Nel 1550, quando fu eletto papa Giulio III la situazione non cambio. Il pontefice voleva la restituzione di Piacenza ad Ottavio Farnese, che però Carlo V e per lui Ferrante non ritenevano dei Farnese ma al limite degli Stati della Chiesa. Fra il ‘47 e il ‘50 sia per lo sviluppo delle trattative diplomatiche, sia perché Parma era sotto il saldo controllo delle milizie pontificie condotte da Camillo Orsini, sia per la grave situa-zione finanziaria del ducato non vi furono azioni militari. Se non si mosse sul campo di battaglia non per questo il nostro cessò di formulare piani per espandere il potere dell'impero in Italia, in tale quadro riteneva che si potessero cedere le Fiandre a Emanuele Filiberto di Savoia ricevendone in cambio subito le fortezze del Piemonte e dopo la sua morte l'intero stato, inoltre era secondo lui necessario espandersi nella parte della Toscana non facente parte del ducato di Firenze, acquisire cioè Siena, allora retta in repubblica 2 Filippo II Stemma di Filippo II Dopo la partenza di Filippo, nei primi mesi del 1551, la situazione precipitò, se da una parte il Gonzaga fremeva per conquistare Parma, ritenuta una minaccia, Giulio III era entrato in contrasto con l’Orsini che voleva stringere alleanza con Enrico II, conscio che ciò avrebbe riportato la guerra in Italia. L’Orsini non se ne diede per inteso e sottoscrisse un'alleanza formale con la Francia, a questo punto il Gonzaga decise di assumere il controllo di Brescello, piccolo feudo imperiale in possesso del cardinale Ippolito d’Este, schierato con la Francia, ciò provocò una serie di reazioni che portarono l'invio di aiuti francesi al Farnese, la dichiarazione della sua decadenza dal ducato da parte del Pontefice e la nomina del Gonzaga a capitano generale della Chiesa. Ippolito d’Este Arma del Card. Ippolito Este La guerra si sviluppò senza troppo entusiasmo, solo una serie di scaramucce, qualche saccheggio, degli assedi, ma nessuna battaglia campale sino a quando dopo circa un anno si giunse ad una tregua. Nello stesso tempo però, grazie alla dichiarazione di guerra francese, il Gonzaga aveva occupato in Piemonte parte del marchesato di Saluzzo che nel 1549 era stato annesso alla Francia. La guerra si trascinò in Piemonte dal 1551 al 1553, con alterne vicende, senza vedere mai alcuna battaglia decisiva, il motivo di fondo era che il Gonzaga non aveva le risorse necessarie per condurre un’azione conclusiva. Carlo V era impegnato su altri fronti, in Germania doveva tener buoni i principi tedeschi, in Lorena far fronte all’attacco francese, nell'oriente europeo alla minaccia turca, l'impero Ottomano aveva rinnovato la sua alleanza con la Francia, e nel Mediterraneo all’azione aggressiva dei pirati Barbareschi. La guerra in Italia non poteva quindi avere la priorità, però l'iniziative di Ferrante, tese a guadagnare tempo con delle tregue non piacquero al governo imperiale, perché consentivano lo spostamento in altri settori delle forze francesi impegnate in Italia, così come alcuni insuccessi, come la temporanea conquista di Vercelli da parte del nemico, furono l'occasione perché venisse richiamato a corte nel settembre del 1553 per difendersi da accuse di malgoverno e malversazione. Al termine di una lunga istruttoria, nell’estate del 1554 venne prima richiamato in servizio e successivamente scagionato del tutto dallo stesso imperatore, rifiutò tuttavia gli incarichi che gli vennero offerti e tornò a Mantova. A Milano intanto si era insediato, un suo nemico personale, il Duca d’Alba, Ferrante scontava in tale occasione sia gli ottimi rapporti fra questo ed il nuovo sovrano Filippo II e l'avver-sione che mostrava nei suoi confronti l'altro astro nascente dell'esercito imperiale Emanuele Filiberto di Savoia. Rifiutata nel 1556 una proposta dei Veneziani di passare al loro servizio, l'anno dopo tornò alle dipendenze del re di Spagna, allora Filippo II, nella campagna condotta nell'Italia Meridionale dal papa Paolo IV. Questo non aveva riconosciuto valide le decisioni di Carlo V in merito alla sua successione, al figli Filippo la Spagna ed al fratello Ferdinando l’Impero, in quanto non concordate in precedenza con lui, inoltre non considerava valida l’elezione di Ferdinando I ad imperatore in quanto ad essa avevano preso parte anche i principi elettori protestanti. L’anno dopo, Ferrante si trasferì nelle Fiandre dove partecipò il 10 agosto alla battaglia di San Quintino, durante la quale, cadendo da cavallo, si procurò una ferita che lo portò alla morte. La sua salma fu trasportata a Mantova ove venne sepolto nella sacrestia del Duomo. Nel periodo in cui fu governatore di Milano commissionò l'ampliamento ed il restauro del palazzo ducale ed ampi lavori nel duomo e nell'area circostante, potenziò le difese murarie della città così come le difese di altre città del ducato, fra le quali Alessandria, Pavia, Novara, Lodi. Non sempre in questo periodo viene ricordato con favore, la cronica mancanza del sostegno finanziario da parte dell’Impero cui si aggiungevano costanti esigenze di carattere militare lo costrinsero ad una politica fiscale assai rigorosa ed è per questo che non ha lasciato un buon ricordo. Fu tuttavia uno dei maggiori capitani italiani del Cinquecento e degli uomini più rappresentativi del secolo. P.I.Gastone La società gerarchica medievale La prima cosa che si scoprì nel medioevo fu la cavalleria ed identificare il medioevo con la cavalleria è cosa sola. L’epoca della fioritura cavalleresca e del vero feudalesimo si chiuse già nel tredicesimo secolo. Il periodo seguente è quello comunale e poi, quello principesco nel quale i fattori dominanti nello Stato e nella società sono, la potenza mercantile, della nascente borghesia, e la potenza finanziaria dei principi che, su di essa, poggiava. La potenza della nobiltà era già, più o meno, spezzata dappertutto. Tuttavia le fonti storiche, che si sono “democratizzate”, dall' epoca romantica in poi, assegnarono, alla nobiltà, ed al proprio ruolo politico un posto ben più importante di quanto le spettasse. La ragione di tutto ciò sta nel fatto che, la nobiltà, ha continuato a dominare, con il proprio “stile di vita”, la società, anche quando, come ceto, aveva già perso parte del proprio potere originario. Sennonché, il concetto della divisione della società in classi, pervase, profondamente, tutto il medioevo, sia nelle espressioni politiche che in quelle teologiche. Infatti la divisione della società in ordini, non si limita ai soliti tre: clero, nobiltà e terzo stato ma, il concetto stesso di “ordine” include ogni funzione o mestiere che, essendo qualificato, quale ordine stesso, se ne possono, quindi, significare molti di più. Nel pensiero medievale, infatti, il concetto di ordine o stato è esteso ad ogni esercizio umano in virtù del fatto che, ogni individuo, esercita una funzione secondo la Volontà Divina e rappresenta, così facendo, una istituzione divina costitutiva del sistema universale del cosmo, più simile, pertanto, ai troni celesti, alle gerarchie ed alle potestà degli Angeli. Ad ognuno di questi ordini, nella società medievale, è quindi 3 assegnata la propria funzione, non secondo la propria sensata utilità, ma secondo il proprio grado di santità o del proprio esterno splendore. Si poteva, infatti, deplorare la degenerazione del clero o la decadenza della cavalleria, senza minimamente rinunciare alla loro immagine ideale. L’immagine della società medievale è, infatti, statica e non dinamica! Dio ha creato il popolo comune affinché lavori, coltivi la terra e provveda, con il commercio, al sostentamento durevole della vita; il clero per le opere di Fede e la nobiltà affinché promuova la virtù e mantenga la giustizia e divenga con le azioni ed i costumi, un modello per gli altri (!). La protezione della Chiesa; la diffusione della Fede; gli alti compiti di governo e la difesa del popolo contro gli invasori, le erano, totalmente, assegnati. La scarsa considerazione della borghesia (il terzo stato) deriva dal fatto che, per essa, non era ancora stato elaborato il concetto socio-politico coerente alla realtà che la riguardava e che, tale rimase, fino ai tempi di poco precedenti la rivoluzione francese (anche se, da essa, si traevano le forze cetuali atte a rinsanguare la nobiltà). Le virtù borghesi erano: l’umiltà, lo zelo e l’ubbidienza al sovrano nell’attuare i suoi programmi politici. Le vedove di ricchi borghesi, tuttavia, in genere, servivano a rimpinguare gli scarsi patrimoni di nobili in rovina, per volere degli stessi monarchi. La storia, che vede come protagonisti, questi ordini sociali, si manifesta, tuttavia, nella intima potenza delle guerre e dei fatti d'arme, a cui, tutti partecipano e, a questo punto: «chi sono i testimoni della vera storia o di questi fatti d'arme e di queste solenni cerimonie»? Sono gli araldi e i re d’arme che, sempre, assistono a queste nobili azioni ed hanno il compito di giudicarle ufficialmente; essi sono i giudici in materia d'onore e di gloria, sono i testimoni storiografici. La concezione cavalleresca, in quanto ideale di vita estetico, pone, in se medesima, la propria singolarità, tuttavia, essa, deve pur sempre possedere anche un ideale etico e, ciò, non poteva che essere coniugato se non con la pietà e la virtù. Ma, al contrario, essendo l'orgoglio, il motore principale dell’aristocrazia (dal quale nasce il senso dell’onore), il significato dell’ideale cavalleresco ne risulta immiserito. Mentre il profitto, risulta il movente principale degli strati medi della società, l'ideale aristocratico come ce lo definisce Burckard è: «la misteriosa mescolanza di coscienza morale e di egoismo, (che sopravvive nell'uomo moderno), anche quando ha perduto, con o senza colpa sua, tutto il resto: Fede, Amore e Speranza». Questo senso dell'onore, essendo compatibile con molto egoismo e con grandi vizi, lascia, quindi, adito a grandi illusioni. Si dice che, in altre culture, sia presso gli Ebrei che presso i Pagani, il senso dell’onore, fosse più rispettato, in quanto, fine a se stesso e con l'aspettativa di esclusivi vantaggi terreni. Al contrario, i Cristiani, avendo ricevuto l’onore della Fede e della Rivelazione, si aspettano ricompense anche celesti! L’aspirazione cavalleresca all'onore e alla gloria è, quindi, inseparabile dal culto degli eroi e, questi ideali, pertanto, confluiranno direttamente, dal medioevo al rinascimento, consegnando ai Principi ed ai Cavalieri, un modello da imitare. La medesima fusione inseparabile degli elementi cavallereschi e rinascimentali la ritroveremo nel culto dei “nove prodi”; quel gruppo di nove eroi (tre pagani, tre ebrei, tre cristiani) che origina proprio da quell'epoca. 4 La loro scelta infatti evidenzia il loro stretto legame con lo spirito cavalleresco ed ermetico*. Essi sono: Ettore, Cesare e Alessandro; Giosuè, Davide e Giuda Maccabeo; Arturo, Carlo Magno e Goffredo da Buglione. Essendovi, ancora, necessità di simmetria, (secondo i dettami “dell'ordine medievale” di tutte le cose), Guglielmo di Machaut, l'ideatore, aggiunse, ai nove prodi le nove eroine (inventandone i nomi, a dir poco, pietosi....) ma, nonostante ciò, l’idea ebbe successo e, il culto degli eroi, dal basso medioevo, trovò la sua fortuna letteraria e sociale nell'ideale del perfetto cavaliere. Le belle apparenze pertanto costituiscono un’immagine eroica. Il cavaliere deve, quindi, essere morigerato e pio; cortese e dotato di buona educazione letteraria. Si alza presto e rimane tre ore in preghiera ed ascolta ogni giorno, in ginocchio, due messe. Il venerdì si veste di nero; alla domenica e nei giorni di festa fa un pellegrinaggio a piedi verso i luoghi santi. È sobrio; parla poco e, prevalentemente, di Dio e dei Santi o delle virtù della cavalleria. Propone a se stesso di onorare le dame e, se può, fonda “ordini cavallereschi” in loro difesa. Tuttavia, nonostante ciò, la violenza e l'avarizia, non erano men sconosciute tra i cavalieri... anzi! Questi primitivi impulsi ideali costituivano i sentimenti più puri dell'antica cavalleria basantesi sulla perfezione virile di impronta cristiana: una profonda aspirazione ad una vita bella e virtuosa, improntata ad un energia rigeneratrice di sommi valori... ma, questa era al contrario, soltanto, una maschera, dietro la quale si celava un mondo avido, corrotto e violento. Il mondo gerarchico della società medievale, in generale, attraversato e pervaso, per ogni dove, da concezioni religiose, (specialmente perpetuato dal più ristretto gruppo che viveva nella sfera della nobiltà di corte ed imbevuto dei più alti ideali cavallereschi), si nutriva, al contrario, di tradimenti e crudeltà, di astuta avidità, soprusi e di imprese militari utilizzabili soltanto come mezzi di arricchimento. Essi adoperavano la “finzione cavalleresca” quale correttivo ai propri nefasti comportamenti così che, gli storici dell'epoca, non essendo in grado di definire in tutto ciò una vera analisi sociale, si riferirono all’ideale cavalleresco, al fine di ridurre il tutto entro un “bel quadro” nel quale brillavano: l’onore dei principi e la virtù dei cavalieri, nel quale, per mezzo di un bel gioco di nobili forme, si potesse creare, per lo meno, l'illusione di un vero ordine sociale. *Non può, infatti, sfuggire (in questa così stretta logica simmetrico-letteraria) il significato alchemico-numerico del numero 9 (i nove prodi) raggruppati in ordine di 3+3+3 e delle nove eroine (anch'esse raggruppate alla stessa stre-gua numerica) ed al fatto che, sommando il numero dei due gruppi, si ottenga il numero 18 che, numericamente riunito, ricompone il numero 9 (1+8); quivi risultano presenti, infatti, i significati alchemici del numero 3 e dei propri multipli: il 9 ed il 18 che rappresentano, ciascuno con i propri molteplici significati esoterici, (che, qui, non posso trattare, per ragioni di opportunità tematica) legati ad un pensiero ermetico-sacrale che può appartenere solo a colui che è degno di poterlo comprendere: cioè all'iniziato e che, anche per mezzo del linguaggio araldico, può diventare di grande importanza significativa proprio perché, in ragione, del suo ricchissimo sistema figurato e policromo ci consente di poter comunicare, segretamente, senza limiti di lingua o di territorialità. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi Amedeo VIII Nel sesto centenario della elevazione a ducato della contea di Savoia, si sono svolte a Torino manifestazioni che ricordano l‘evento, a modesto contributo a tale avvenimento una sintetica sintesi dell’azione di Amedeo VIII che portò alla concessione del titolo ducale, rimandando ad un eventuale successivo articolo il periodo assai ricco di eventi fra il 1416 e il 1451. Amedeo VIII, figlio di Amedeo VII e di Bona di Berry, alla morte del padre nel 1391 era troppo giovane per salire sul trono, la reggenza venne assunta dalla nonna Bona di Borbone, in cui favore intervennero il re di Francia, i duca di Borgogna, di Berry e di Borbone. Il principe di Acaia, Aimone, membro maschile più anziano della famiglia aveva rinunciato alla successione, si ricorda che in quel periodo essa non seguiva rigidamente il principio della primogenitura ma piuttosto del più potente fra i successori. Filippo l’Ardito Vale la pena di ricordare tuttavia che l’insieme delle terre sulle quali si esercitava la signoria dei Savoia alla fine del Trecento inizi del Quattrocento non rappresentavano uno stato unitario ma piuttosto un mosaico, non continuo in cui diritti feudali, privilegi, concessioni si mischiavano fra loro lasciando ampio margine d’indeterminatezza nel definire chi in concreto avesse il potere. Fra i domini dei Savoia erano allora la regione del Lemano, eccetto Ginevra e Losanna, il Vaud, il basso Vallese, il Chiablese, il Faucigny, il Bugey, la Bresse sino alla periferia di Lione, la Savoia propriamente detta, la Moriana, la Tarantasia, la valle d’Aosta, la contea di Nizza, la contea di Torino, quest’ultima però appannaggio dei Savoia-Acaia, le terre di Cuneo, Biella e Santhià. Uno stato frantumato in vari pezzi separati fra loro da altri stati, a volte di poco peso e altri di peso assai maggiore. Il marchesato di Saluzzo, la contea di Tenda, sul versante italiano ed il Valentinois e il Diois su quello savoiardo dividessero in due il dominio sabaudo, problemi dovuti a realtà locali rendevano inoltre solo nominale la sovranità del conte sull’alto Vallese, lungo le rive del Rodano e su parte dello stesso Vaud. Minacce esterne provenivano inoltre dalla politica Visconti a Milano, dei marchesi di Monferrato e di Ginevra. Amedeo VIII La contea in quel periodo era sotto l’influenza del duca di Borgogna, che nell’ottobre del 1393 assegnò in sposa la propria figlia Maria ad Amedeo, che pur dichiarato maggiorenne rimase sotto la tutela dei suoi tutori Aimone d’Aspremont e Oddone di Thoire e Villars, quest’ultimo feudatario delle terre dell’Impero e per lungo tempo al servizio di Amedeo VI e fedelissimo alla dinastia. Nel 1398 Amedeo era. a Parigi per essere presentato al re di Francia Carlo VI e in quello stesso anno, per contrastare l’influsso della Francia sulla Savoia, l’imperatore Venceslao dichiarò nulli gli atti della reggenza tenuta di fatto dai principi francesi e rinnovò la concessione a Vicario Imperiale già concessa al conte Verde nel 1365. In quell’anno vi fu riorganizzazione del governo in Savoia in cui rimase forte l’ingerenza borgognona, tirava i fili di questo controllo Filippo l’Ardito (quarto figlio del re di Francia, duca di Borgogna dal 1363 al 1404, padre di Maria di Borgogna, moglie di Amedeo), che portò fra l’altro all’allontanamento di Oddone di Thoire e Villars, che venne però ripreso al servizio di Amedeo quando questi recuperò la sua liberta d’azione. Cosa questa che avvenne per l‘accentuarsi delle lotte civili in Francia, gli scontri familiari tra Filippo e il duca d’Orelans, la reggenza per l’infermità del sovrano che costrinsero Filippo l’Ardito ad occuparsi più delle diatribe interne e della spada di Damocle di una eventuale ripresa della guerra con l’Inghilterra piuttosto che della contea di Savoia Stati di Savoia alla fine del XIV secolo e inizi XV La politica di Amedeo dal 1398 fu quella di consolidare i suoi stati, con un’azione politica supportata a volte da azioni militari per consolidare i propri stati ed iniziò già nel 1398 nel 5 Vaud, dove, dopo una permanenza durata qualche mese, più con la diplomazia che con la forza riportò la tranquillità facendo cessare rivolte e insubordinazioni di comuni e feudatari . Nel 1401, a conclusione di una lunga diatriba, il conte di Savoia acquistò da Oddone di Villars la contea del Genevese che consolidò poi negli anni successivi. Rimase in essere il contrasto con Ginevra che mantenne la sua indipendenza anche se formalmente l’imperatore Sigismondo nel 1422 lo investì della contea del Ginevrino, precisando peraltro che Ginevra era una città imperiale, sotto la protezione diretta dell’ Imperatore, e ordinando di non molestarla. Amedeo, divenuto come si dirà duca, non rinuncio tuttavia mai almeno formalmente a Ginevra, tanto che nel 1434 nominò il suo secondo genito, Filippo,conte di Ginevra, titolo puramente onorifico. Altro territorio di grande interesse per il conte di Savoia era il Vallese parte della valle del Rodano che adduce al Sempione e quindi consente di assicurarsi il controllo dell’importante via di comunicazione fra la ricca Lombardia e i territori al di là delle Alpi. Nel 1399 Bona di Borbone, a seguito della pace con i feudatari locali e con i comuni del luogo, aveva accettato un accordo in base al quale i comuni dell’alta Vallese mantenevano l’indipendenza nei confronti del conte di Savoia, che peraltro manteneva la sua autorità sul basso Vallese e Martigny, paese dal quale si aveva accesso al Gran San Bernardo che faceva parte degli stati del conte. Bona di Borbone Il possesso di Martigny consentiva quindi i vantaggi economici relativi ai dazi che si traevano da una delle più importanti vie di comunicazioni attraverso le Alpi. Amedeo VIII confermò il trattato e iniziò una efficace penetrazione lungo la valle utilizzando i conflitti fra il feudatario locale Guglielmo di Rarogna ed i vallesani a seguito dell’assegnazione alla sua famiglia dei diritti spettanti al Vescovo di Sion, ma non riuscì mai a conquistare l’alto Vallese, fatto che gli impedì di unire in un unico blocco le terre del Ginevrino, il Vaud e il Chiablese. Troppo grande era e sarebbe stata la resistenza dei valligiani per conservare il controllo della più importante via di comunicazione transalpina che assicurava loro una importante, se non fondamentale, fonte di ricchezza. Legato a questo problema era quello della val d’Ossola e delle valli ticinesi di Maggia e Verzasca che nel 1411 avevano chiesto la protezione del conte di Savoia e l’anno dopo s’impegnarono a versargli ogni anno 200 lire imperiali quale tributo. Il controllo della valle dell’ Ossola avrebbe avuto grande importanza per il conte, che avrebbe di fatto avuto il controllo del Sempione e dell’alto Vallese. Ciò provocò la reazione di Facino Cane, signore di Novara, degli altri comuni svizzeri ed infine di Filippo Maria Visconti che suscitarono gravi disordini nella valle, tanto che Amedeo, anche se nel frattempo era stato investito del titolo di duca, preferì per evitare l’ingrandimento del ducato di Milano di sta6 bilire un alleanza con i Cantoni confederati svizzeri rinunciando a loro favore ad ogni suo diritto sull’Ossola. Giangaleazzo Visconti Nel 1414 il conte riuscì a concludere a suo favore la diatriba su alcune terre del Bresse che gli venivano contestate da Giovanni senza paura, il duca di Borgogna successo al padre Filippo l’Ardito, la questione sottoposta per volontà del re di Francia al Parlamento di Parigi, vide come conclusione la cessione ad Amedeo VIII di Montréal, Arbent, Matafélon, Aspremont, St. Martin du Fresne, la guardia di Nantua e le loro dipendenze, considerate tutte come facenti parte della dote di Maria, moglie del conte e sorella di Giovanni. Risultato che accontentò solo parzialmente il conte che in realtà mirava ad ottenere tutte le terre ad est della Saona. Dal 1399 al 1417 nella contea di Nizza Amedeo VIII dovette contrastare l’azione dei Grimaldi e degli Angiò che non accettavano che la contea di Nizza si fosse data al Savoia, a tal fine fomentavano rivolte, risse, creavano una situazione di instabilità, il ristabilimento della situazione venne affidato inizialmente al maresciallo Bonifacio di Challant, poi a Ottone di Villars ed infine a Giovanni di Pritignac che riuscirono ad aver ragione dei Grimaldi e a stabilire una lunga tregua con gli Angiò riportando la tranquillità nella contea. Nello stesso periodo riuscì a stabilire la sua autorità anche nell’area vitale per il collegamento fra Nizza ed il Piemonte, il colle di Tenda. Le regioni di Briga e Tenda erano sotto il controllo dei Lascaris, conti di Ventimiglia e feudatari degli Angiò, i quali non riconoscevano l’autorità dei Savoia, Amedeo con un’ accorta azione diplomatica nei confronti degli Angiò, che rinunciarono ai loro diritti riconoscendo che Tenda faceva parte della contea del Piemonte, e la concessione di qualche beneficio economico ai fratelli Lascaris che accettarono di divenire suoi vassalli riuscì ad assumere il controllo della strada che collegava il Cuneese con la Provenza collegando così fra loro importanti regioni dello Stato. Quando nel 1398 Amedeo VIII iniziò, sia pure ancora sotto al tutela borgognona, ad assumere le redini dello stato, in Piemonte accanto ai Savoia Acacia erano in competizione per assicurarsi il dominio della regione il marchese di Monferrato e quello di Saluzzo e soprattutto i Visconti, accanto a loro numerosi importanti feudatari che lottavano per mantenere la loro autonomia, quali i marchesi di Valperga, i conti di San Martino, di San Giorgio e di Masino. Nel 1395 l’imperatore Venceslao aveva concesso a Gian Galeazzo Visconti il titolo di duca di Milano, principe di Lombardia e l’autorizzazione di apporre sulla propria arme l’aquila imperiale. In quegli anni gli Acaia ebbero più volte a scontrarsi, sostenuti da Amedeo VIII con denaro, qualche aiuto militare ma soprattutto con la diplomazia, sia con i Visconti sia con i marchesi di Saluzzo e Monferrato in una lotta nella quale non ci fu mai un vero vincitore. Le cose cambiarono, all’improvviso, nel 1402 con la morte di Gian Galeazzo Visconti, per l’indebolimento del ducato di Milano a causa della lotta intestina per la successione al duca. Il marchese di Monferrato, non più sostenuto dai Visconti si riavvicinò ai Savoia e nel 1404 venne firmata fra Amedeo VIII, Luigi di Acaia e Teodoro II di Monferrato un’alleanza difensiva contro i Visconti. Il conte di Savoia peraltro dopo questo evento cominciò ad estendere sempre più la sua influenza nella regione, ciò provocò la reazione di Teodoro II, che rotto il patto si fece aiutare dai Visconti ed il periodo sino al 1412 fu caratterizzato da una situazione di conflitto che interessò Lombardia, Piemonte e Genova sino a quando con la morte nel 1412 di Giovanni Maria Visconti subentrò a questo Filippo Maria che firmò col conte di Savoia un trattato di reciproco aiuto, che dava un temporaneo momento di tregua. In quegli stessi anni si chiuse anche la diatriba fra il marchese di Saluzzo ed i Savoia. Gli Acaia infatti nel tempo si erano gradatamente impossessati dei feudi attorno al marchesato, riducendolo e facendogli perdere di forza ed importanza, malgrado ciò Tommaso III di Saluzzo mal sopportava questa situazione così prendendo l’occasione del ritiro di truppe francesi dalla piazza di Carmagnola la occupò provocando la reazione di Amedeo VIII che gli dichiaro guerra proclamandolo fellone e ribelle e gli inviò contro le proprie forze. Il 22 giugno 1413 il conte ricevé il marchese di Saluzzo a Rivoli che gli rese omaggio e gli giurò fedeltà. Nei confronti dell’Impero la politica di Amedeo VIII fu quella del fedele vassallo: assicurare il passaggio delle truppe dell’ impero attraverso le Alpi, contenere l’espansione e l’influenza francese, Non era però affatto soddisfatto del fatto che nel 1395 l’Imperatore avesse conferito ai Visconti il titolo di duca, d’altra parte non v’era dubbio che in quel momento, almeno sul versante italiano delle Alpi, Milano fosse lo stato indipendente più forte, la cui potenza dava ombra anche a molti dei feudatari imperiali in Germania e in Italia. Il matrimonio di Filippo Maria Visconti con Beatrice di Tenda oltre tutto aveva portato in dote un patrimonio ingentissimo comprendente fra l’altro Alessandria, Valenza, Varese, Novara e Vigevano. Uno stato troppo potente e non legato all’Impero nel settentrione d’Italia non era però negli intendimenti di Sigismondo, da qui la necessità di controbilanciare la potenza milanese con un’altra entità statale. Filippo Maria Visconti La contea di Savoia che l’accorta politica di Amedeo VIII aveva consolidato facendole assumere anche nella pianura padana una forza commendevole tale da poter fare da contraltare ai Visconti, la ripetuta sottolineatura in ogni dichiarazione del suoi legami con l’Impero e la fedeltà dimostrata portarono così l’imperatore a soddisfare la legittima aspirazione del conte a vedersi eletto duca. Già nel 1415 Sigis- mondo lo aveva incontrato a Lione e per un’intera giornata aveva esaminato con lui i principali problemi politici, lasciandolo gli promise che l’anno dopo si sarebbe fermato a Chambéry e gli preannunciò che in quell’occasione lo avrebbe investito del titolo di duca. Sigismondo di Lussemburgo L’imperatore mantenne fede alla sua promessa, così il 19 febbraio del 1416 ebbe quindi luogo nella piazza del castello della capitale della Savoia la cerimonia dell’investitura. Su un grande palco che era stato costruito apposta era l’Imperatore con alla sua destra il conte di Oettingen con in mano il globo, a sinistra Carlo Visconti con in mano lo scettro, attorno ad essi una folla di feudatari savoiardi, tedeschi, qualche signore borgognone, vescovi savoiardi, francesi e svizzeri. Amedeo, accompagnato dai principali dignitari della sua corte salì sul palco, si inginocchiò avanti a Sigismondo che lo proclamò duca. Seguì un sontuoso banchetto, secondo l’etichetta del tempo mentre ai personaggi di rango più elevato venivano servite più razioni della stessa portata, ai cavalieri erano offerti due o tre piatti di selvaggina, ai valvassori infine una sola portata. La concessione del titolo non era in questo caso una fatto esclusivamente di prestigio sulla cui validità si potrebbe anche discutere, ma l’affermazione dell’importanza politica della contea ora ducato di Savoia. Fatto che avveniva in un momento in cui la Francia, sconfitta ad Anzicourt nell’anno precedente doveva rinascere come grande potenza, la Borgogna quale erede del regno di Arles, erosa prima dalla Francia e poi travolta dalla sua sconfitta era ormai senza importanza politica. Il ducato di Savoia veniva a riempire nella regione alpina quel vuoto di potere provocato proprio dalla scomparsa del regno di Borgogna. Il consolidamento che si ebbe poi negli anni seguenti, quando nel 1418 Amedeo VIII, con la fine degli Acaia, riprese il controllo effettivo delle terre piemontesi, nominando, a scanso di equivoci, suo figlio ed erede principe di Piemonte, prometteva un ulteriore grande sviluppo territoriale che venne però bloccati da un lato dal risveglio nazionale francese, opera di Giovanna d’Arco, e dalla politica espansionistica di Filippo Maria Visconti con cui furono numerosi gli scontri e non ultimo la necessità di fare i conti con un bilancio che non consentiva il mantenimento di una grande potenza militare e quindi la necessità di ricorrere alla diplomazia e al compromesso, limitandosi al consolidamento dello stato. ALF 7 Case in Castello Qui vissero... Le dimore dei nobili in Castello Piccolo volume di Fabia Cocco Ortu di alcuni anni fa che come l’autrice scrive “non è stato pensato come un testo di vera e propria storia, ma più semplicemente come studio, censimento ed illustrazione delle case e residenze private del rione storico per eccellenza della città capoluogo, che ne hanno costituito, nel tempo, l’ossatura portante.” Qui non è possibile fare l’illustrazione completa di tutte le dimore di cui l’autrice traccia, si pure sinteticamente, la storia, ma di estrarne dal testo solo alcune per dare l’idea del pregevolissimo lavoro svolto. Vale innanzi tutto precisare che per Castello si intende quella parte della città costruita sul colle che domina la baia di Cagliari, quartiere di cui nel documento “Castell de Caller” del 1326 si trova un’accurata descrizione in cui sono riportate strada per strada tutte le abitazioni con in nomi dei cittadini pisani che dovevano lasciarle a favore dei Catalani ed Aragonesi. Altro esodo dalla zona si verificò nel 1491, quando gli Ebrei che risiedevano in Sardegna vennero espulsi dall’isola, allora sotto il dominio spagnolo, per la volontà del sovrano iberico. Fra il XVII ed il XVIII secolo in questa parte della città vennero ad insediarsi le famiglie nobili dell’isola, mutò quindi la fisionomia del quartiere, sparirono la maggior parte delle piccole case e gli spazi liberi ed al loro posto sorsero numerosi palazzi. Non si tratta però di monumenti grandiosi, l’architettura mira più che altro all’essenziale, tanto che l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo nel 1812 scrisse a proposito dell’architettura della città che gli Spagnoli se ne erano andati senza lasciare dimore sulle quali valesse la pena di fermarsi e che i Piemontesi avevano fatto qualcosa di più ma non troppo. In Castello la popolazione era dei ceti più diversi, accanto a numerosi feudatari, vi erano molti alti funzionari dello Stato, soprattutto magistrati e militari, e quindi ecclesiastici, artigiani, e bottegai. In Castello erano anche il palazzo Viceregio, il Duomo, l’Arcivescovado, il Comune, il forte con i comandi militari, infine i bastioni chiudevano il quartiere. Uno dei palazzi più antichi è quello chiamato Palazzo Zapata, realizzata nel 1622 su commissione di Antonio Brondo conte di Serramanna, il portale, assai pregevole, venne realizzato nel 1633 da tale Francesco Pinna per volontà della consorte dell'Antonio di cui sopra, Elena Gualbes, lo stemma che lo sovrasta è quello del figlio di questa Francesco Lussorio Brondo, composito che alle armi paterne (Brodo e Ruecas) unisce quelle materne (Gualbes e Zuniga). 8 Successivamente, nel 1670, a seguito del matrimonio della figlia del sopraccitato Francesco con Ignazio Zapata, il palazzo divenne di proprietà di quest'ultima famiglia. Altra costruzione fra le più antiche è palazzo Asquer, datato inizi del 1600, fatto erigere dal Viceré Giovanni Zapata, e successivamente passato agli Asquer. Il palazzo di stile neoclassico, parzialmente distrutto dai bombardamenti della II Guerra Mondiale, era suo tempo formato da due corpi, di essi ne è rimasto solo l’ala destra. Sul portale è ancora collocato lo stemma della famiglia costruttrice. Arma Centelles: losangato d'oro e di rosso Palazzo Zapata Palazzo Cugia è di difficile datazione, in un documento del 1752 si parla di lavori da effettuare nell’edificio di proprietà dei Centelles marchesi di Quirra, che passò agli inizi del XIX secolo nelle mani di D. Gavino Nieddu, già amministratore dei beni dei Centelles, e quindi nel 1919 fu ereditato da Umberto Cugia di sant’Orsola. Arma Cugia: Spaccato. Nel 1° d’azzurro al cane d’argento passante e più in alto a destra un’aquila dello stesso volante verso un sole d'oro, nell'angolo destro del capo; nel 2° d’oro all'olmo di verde nudrito sulla campagna erbosa del medesimo e sinistrato da un leone di rosso impugnante con la branca destra una spada d'argento alta in palo Arma Nieddu: Di rosso, con due leoni d’oro affrontati e controrampanti ad una ruota d’oro, sormontata da una cometa d’argento, leoni moventi su una pianura ombrata di verde, col capo cucito d’azzurro alla montagna d'oro addestrata da un uccello dello stesso, volante verso la sommità della montagna La costruzione che ha subito nel tempo numerosi restauri e lavori di trasformazione è di stile neoclassico, la facciata principale è caratterizzata da un bel portale sovrastato da un grande balcone con una bella ringhiera di ferro sormontato dalle armi dei Carroz Centelles marchesi di Quirra. Altro palazzo notevole è un altro denominato anch'esso Asquer, costruzione del quale si trovano diverse ipotesi, una di esse dice che venne fatto costruire dal marchese Pietro Vivaldi Pasqua nel 1781, altra attribuisce alla famiglia Nin di San Tommaso l'averlo fatto erigere ed indica invece nei Vivaldi 9 Pasqua la famiglia che ne era proprietaria nel 1799, occasione nella quale vi ospitò alcuni membri della famiglia reale che nel dicembre del 1798 avevano dovuto lasciare Torino. Il palazzo divenne quindi proprietà del cavaliere Giovanni Bonfant e in seguito a seguito del matrimonio della figlia di questo, Domitilla, passò alla famiglia Asquer. Sul timpano del portale fa tuttavia bella mostra di sé lo stemma dei Nin di San Tommaso. precedente costruzioni, quali la trecentesca Torre dell'Aquila semidistrutta dal bombardamento navale spagnolo del 1717. All'altezza del piano nobile una terrazza con balaustra con quattro statue di marmo. A voler ricordare i bombardamenti subiti dalla città nel corso dei secoli precedenti sulla facciata sono incastrate tre palle di cannone a ricordo dei di quelli del 1708, 1717 e 1793. Palazzo Asquer, già Nin di S. Tommaso Arma Asquer: Di verde al leone d’oro coronato dello stesso impugnante con la branca destra una spada al naturale in palo Stemma Amat sulla volta dell'atrio del palazzo (originariamente della famiglia Masones). Imponente e dominante l'intera città il palazzo Boyl, fatto erigere nel 1840 da Carlo Boyl di Putifigari, sorge sul Bastione di Santa Caterina e venne realizzato sfruttando anche PTdOli 10 Attività della Società XXXIV Convivio Scientifico Il 12 novembre u.s. ha avuto luogo a Torino presso la Sala dei rettori del Santuario della Consolata l’annuale Convivio Scientifico della S.I.S.A. cui hanno partecipato 25 soci alcuni dei quali accompagnati dalle proprie consorti. Particolarmente gradita è stata la presenza dei soci provenienti dal Veneto, dal Lazio e dalla Campania che hanno così ampiamente giustificato il voler chiamare la nostra Società come Italiana e non solo Piemontese. Dopo un breve saluto da parte del Presidente si è avuta l’esposizione di ben 15 relazioni, attività che ha comportato un impegno sino a quasi le 1700, con un breve intervallo per la colazione. Fabrizio Antonielli d’Oulx ha illustrato le recenti vicende del Libro d’Oro della Nobiltà italiana e del Collegio Araldico, in proposito ha proposto la realizzazione di più stretti legami fra S.I.S.A. e il Collegio Araldico e la Rivista Araldica considerato anche che molti soci S.I.S.A. lo sono anche del Collegio. Il presidente ha recepito la proposta e ha detto che essa sarà messa all’odg della prossima riunione del Consiglio Direttivo della Società. Luigi Alzona è successivamente intervenuto con una relazione dal titolo: “I San Martino d’Agliè tra Seicento e Settecento: alcune precisazioni e integrazioni alle genealogie Angius e Manno. Angelandrea Casale ha successivamente presentato lo studio realizzato con Felice Marciano e Vincenzo Amorosi relativo ad un fondo araldico inedito di grande interesse da loro individuato a Cava dei Tirreni dal titolo: L’araldica del fondo Mansi, conservato presso la badia cavese della SS Trinità. Interventi di Luigi Alzona e Angelandrea Casale Ha successivamente preo la parola Alberto Gamaleri Calleri Gamondi per un intervento incentrato sull’esame di uno studio politico di fine Settecento dal titolo: Governo monarchico o democratico? Analisi storico-filosofica-religiosa di un inquisitore alessandrino nel 1799. Angelo Scordo è quindi intervenuto con una relazione dal titolo: L’abolizione dell’illustre sedile di San Basilio e il patriziato di Amantea. Interventi di Fabrizio Antonielli e Alberto Lembo L’On. Alberto Lembo ha presentato un’interessante relazione sulla cognomizzazione dell’antico predicato “di Rolasco” Mario Palazzi ha fatto una relazione dal titolo “Quattro processi inediti intentati da nobili vicentini nella seconda metà del Seicento, sempre rimanendo in area veneta Ottavio Bevilacqua ha parlato sul tema” Cavalieri e Gentiluomini. Per una storia dell’Accademia Filotima di Verona”. Interventi di Alberto Gamaleri e Angelo Scordo Con queste due relazioni si è chiusa la prima sessione del Convivio, tuttavia tenuto conto che per la concisione degli interventi si era guadagnato uno spazio di tempo, il presidente ha chiesto a Gustavo Mola di Nomaglio che è stato uno degli organizzatori della manifestazione di illustrare l’attività svolta per la celebrazione del VI centenario della Contea a Ducato di Savoia, celebrazioni che fra l’altro hanno visto numerosi interventi di soci della S.I.S.A. Interventi di Mario Palazzi e Ottavio Bevilacqua Successivamente sono intervenuti: Alberto Lonigo che ha parlato sul tema: Nicolò Leoniceno: un nobile veneto ala corte di Ercole I e Claudia Ghiraldello che ha svelato un enigma araldico di Castellengo Interventi di Alberto Lonigo e Claudia Ghiraldello Intervento di Gustavo Mola di Nomaglio 11 Ѐ quindi seguita una colazione di lavoro, espressione del tutto formale per indicare il fatto che anche i partecipanti ad un convegno scientifico hanno bisogno di alimentarsi. Colazione di lavoro Nella seconda sessione del convegno, il primo ad intervenire è stato Mario Coda, con una relazione dal titolo: Le armi di alleanza dipinte nel castello della Rocchetta a Sandigliano. Andrew M. Garvey ha presentato inizialmente lo studio dal titolo: Considerazioni storico araldiche sul Sovrano Ordine di Malta di Giorgio Aldrighetti, che non è potuto intervenire al convegno. Successivamente è intervenuto con una relazione dal titolo: Brutta araldica: alcuni ufficiali della Royal Navy e le loro onourable augmentations. Dopo il ringraziamento del Presidente ai convenuti alle 1630 il convegno si è quindi chiuso. Particolare ringraziamento va a Mario Coda autore della documentazione fotografica riportata in questa sintetica cronaca della manifestazione.. MDB Segnalazione libraria Per gli studiosi di araldica si segnalano di tre interessanti opere, la prima di Angelandrea Casale e Felice Marciano. Il sedile dei Nobili di Ravello con particolare riguardo al SeiSettecento. Opera ricca di una bellissima iconografia; la seconda, sempre di Angelandrea Casale e Raffaele D’Avino dal titolo: Intorno ad alcune famiglie nobili di Somma; la terza, di un nuovo socio della S.I.S.A., Alessandro Scandola, dal titolo: Le insegne cavalleresche autorizzate dalla Repubblica. Interventi di Mario Coda e Andrew M. Garvey Gabriele Reina è intervenuto con una relazione dal titolo: Il Konigssthul: il “Seggio regale” del Reno. Carlo Del Grande, secondo la tradizione ha presentato una relazione dal titolo enigmatico, che costringe a seguire il suo dire per riuscire poi a scoprire di chi e cosa si parla. Titolo della relazione: Il generale archeologo. Interventi di Gabriele Reina e Carlo Del Grande Ha concluso il convivio la relazione di Paolo Fiora di Centocroci dal titolo: Un armoriale poco noto sotto le volte di S. Secondo d’Asti Intevento di Paolo Fiora di Centocroci 12 Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali12 Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco di Bartolo, Via IV Novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] Segreteria della Società Arch. Gianfranco Rocculi. Via S. Marco 28 20121 Milano I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto magnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scrit-ti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare modifiche ai testi per renderli conformi allo stile del periodico.