transatlantico #4

annuncio pubblicitario
numero 4 _ febbraio 09
transatlantico
trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
• CHARLES BAUDELAIRE • GIORGIO RAIMONDI • CECILIA FONTANESI •
FILIPPO TOMMASO MARINETTI • PAOLA SOMENZI • MICHELE EMMER • SIMONE BORGHI
• IVAN FIACCADORI • GILLES DELEUZE • LEONARDO ZUNICA • LUIGI RUSSOLO • GABRIO TAGLIETTI •
trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica
transatlantico
editoriale
Dedichiamo questo numero di transatlantico al centenario della pubblicazione, su Le Figaro, il
20 febbraio del 1909, del Manifesto del futurismo. Unica fra le avanguardie italiane a corroborare la
vita culturale europea, il futurismo ci lascia certo una mole di documenti e opere di qualità discontinua.
Ma come non condividere, ridendo con gusto e nascondendo una certa amarezza dell’oggi, l’impeto
di certe parole del manifesto, come non abbracciare immediatamente quelle invenzioni, prestandosi
con stupore ai metallici gracidii degli intonarumori, alle scomposizioni di Boccioni, alle parole libere di
Marinetti o Palazzeschi? O alle costruzioni di Sant’Elia? I futuristi erano certi che qualcuno, prima o
poi, avrebbe preso (o rubato?) il loro posto. Non si tenevano stretti alla sedia. Fedeli ad una presenza
istantanea, corrosiva, volevano che qualcuno presto li soppiantasse, carpendone lo spirito e forse anche
l’ironia. Incenerendo, come essi avevano tentato di fare, la pesantezza di certa rinnovata accademia, i
cortocircuiti di cui la società e la politica, in ogni generazione, si trova innervata. Essi sono stati fra gli
inventori inconsapevoli di quella che qualche tempo fa si chiamava contro-cultura, atto legittimo di
una dialettica oggi paradossalmente liquefatta nella cultura di massa, che ingloba tutto ma non offre
nessuna alternativa plausibile. Ma se certa accademia teme ancora l’abolizione delle sue istanze, e il
nuovo è parola di vigore consunto come quello di uno spettro, occorrerebbe forse guardare a quella
forza rinnovatrice, a quell’impeto un po’ missionario, per recuperare fra le macerie, ancora una volta,
ciò che vi è di buono.
Leonardo Zunica
direttore responsabile
Leonardo Zunica
redazione
Leonardo Zunica
Giovanna Venturini
Micol Ferretti
art director
Paola Pradella
editing
Antonio Galuzzi
hanno collaborato
Simone Borghi
Gabrio Taglietti
Giorgio Raimondi
Michele Emmer
Paola Somenzi
Cecilia Fontanesi
Ivan Fiaccadori
si ringraziano
Cronopio edizioni
Nicola Malaguti
Gabriella Pauletti
Giovanni Pasetti
Daniele Bollea
stampa
FDA Eurostampa
Borgosatollo BS
sommario
numero 4 _ febbraio 09
3
L’arte dei rumori di Luigi Russolo
Dal manifesto della danza futurista
di Filippo Tommaso Marinetti
Che cos’è l‘atto di creazione (II)
di Gilles Deleuze
4
Conversazione con Ariella Vidach
di Cecilia Fontanesi
18
La casa e il cosmo
di Simone Borghi
6
Al di là del giornalismo
di Paola Somenzi
20
Attualità di Janácek
ˇ
di Gabrio Taglietti
8
Un evento importante
di Marco Tariello
21
Editoriale
Il mondo sta finendo
di Charles Baudelaire
pag 2
14
16
in copertina
“Marevento”di Giacomo Balla,
collezione privata
Il caso Janácek
ˇ
di Leonardo Zunica
10
Antropologia jazzistica
di Giorgio Raimondi
22
info
[email protected]
[email protected]
Opere grafiche
di Gabriella Pauletti
11
Visibili armonie
di Michele Emmer
23
Fondazione e manifesto del futurismo
di Filippo Tommaso Marinetti
12
Ogni cosa è (comunque) illuminata (II)
di Leonardo Zunica
24
Emilio Jesi, una vita per l’arte
di Ivan Fiaccadori
26
Associazione Culturale
Diabolus in Musica
Via Eremo, 37/A
46010 Curtatone MN
www.diabolusinmusica.org
www.eterotopie.it
Registrato presso il
Tribunale di Mantova N. 4/2008
Registro di stampa in data
16 Giugno 2008
Stampato in 2.000 copie
transatlantico2
Il mondo sta finendo
di Charles Baudelaire
Il mondo sta finendo. La sola ragione per la quale potrebbe
durare, è che esso esiste. Questa ragione è debole, confrontata
a tutte quelle che annunciano il contrario, particolarmente a
questa: che cosa gli rimane ormai da fare sotto il cielo? — Perché,
supponendo che esso continui ad esistere materialmente, sarà
essa un esistenza degna di questo nome, tale da rientrare nel
dizionario della storia? Non dico che il mondo sarà ridotto
agli espedienti e al disordine buffonesco delle repubbliche del
Sud-America — che forse ritorneremo allo stato di selvaggi e
andremo, attraverso le rovine erbose della nostra civilizzazione,
a cercare il nostro cibo, con il fucile alla mano. No; — perché
questa sorte e queste avventure supporrebbero ancora una
certa energia vitale, eco dei primi tempi. Nuovo esempio e
nuove vittime delle inesorabili leggi morali, noi periremo laddove
abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente
americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi
tutte le nostri parti spirituali, che niente, tra i sogni sanguinari,
sacrileghi, o anti-naturali degli utopisti, potrà essere confrontato
ai suoi risultati positivi. Domando ad ogni uomo che pensa di
mostrarmi cosa sussiste alla vita. Della religione credo sia inutile
parlarne e cercarne i resti poiché darci la pena di negare Dio
è il solo scandalo in simili materie. La proprietà era scomparsa
virtualmente con la soppressione del diritto di nascita; ma verrà
il tempo dove l’umanità, come un orco vendicatore, strapperà
l’ultimo pezzo a quelli che hanno creduto essere gli eredi legittimi
delle rivoluzioni. Ma ancora non sarà il male supremo.
L’immaginazione umana può concepire, senza darsi troppa
pena, repubbliche o altri stati comunitari, degni di una qualche
gloria, se essi sono dirette da uomini sacri, da certi aristocratici.
Ma non è particolarmente per una qualche istituzione politica
che si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale;
poiché poco m’importa il nome. Sarà per l’avvilimento dei
cuori. Devo proprio dire che il poco che resterà della politica si
dibatterà penosamente nelle spire di una animalità generale,
e che i governanti saranno costretti, per mantenere e per
creare un fantasma d’ordine, a ricorrere a mezzi che farebbero
fremere la nostra attuale umanità, anche se indurita? — Allora
il figlio fuggirà dalle famiglie, non a diciotto anni, ma a dodici,
emancipato dalla sua ingorda precocità; la fuggirà, non per cercare
eroiche avventure, non per liberare una bellezza prigioniera in
una torre, non per immortalare una misera soffitta di pensieri
sublimi, ma per fondare un commercio, per arricchirsene, e per
fare concorrenza al suo infame papà, — fondatore e azionista
di un giornale che diffonderà i lumi e che farà considerare il
“Secolo” (Siècle, ndt) come un partigiano della superstizione.
Allora, le errabonde, le declassate, coloro che hanno avuto
qualche amante, e che talvolta chiamiamo Angeli, in ragione
e in ringraziamento della sventatezza che brilla, luce del caso,
nella loro esistenza logica come il male, — allora a costoro, dico,
non saranno che saggezza impietosa, saggezza che condannerà
tutto, all’infuori del denaro, tutto, anche gli errori dei sensi!
... Allora, ciò che assomiglierà alla virtù, — che dico, — tutto
quello che non sarà l’ardore verso Pluto, sarà coperto di ridicolo.
La giustizia, se in questa epoca fortunata può ancora esistere
una giustizia, farà interdire i cittadini che non avranno saputo
fare fortuna. — la tua sposa, o Borghese! la tua casta metà, la
cui legittimità è per te poesia, introducendo ormai nella legalità
una infamia irreprensibile, guardiana vigile e amorosa della
tua cassaforte, non sarà che l’ideale perfetto della mantenuta.
Tua figlia, con una infantile nubilità, sognerà nella sua culla,
di vendersi per un milione. E tu stesso, oh Borghese, — meno
poeta di quanto tu sia oggi, — tu non ci troverai niente da
ridire; tu non avrai nulla di cui rammaricarti. Poiché ci sono delle
cose nell’uomo, che si fortificano e prosperano nella misura in
cui altre si rendono più delicate e si ammorbidiscono, e, grazie
al progresso dei tempi, delle tue interiora non resteranno che
budella!
Quanto a me, che sento qualche volta il ridicolo d’un
profeta, io so che non troverò mai la carità di un medico.
Perduto in questo mondo bruto, sgomitato dalle folle, sono
come un uomo stanco il cui occhio non vede indietro, negli
anni profondi, che disillusione e amarezza, e davanti a lui che
una tempesta in cui non vi è contenuto nulla di nuovo, né
insegnamento, né dolore. La sera in cui quest’uomo ha rubato
al destino qualche ora di piacere, cullato nella sua digestione,
dimentico — per quanto possibile — del passato, contento del
presente e rassegnato all’avvenire, inebriato dal suo sangue
freddo e dal suo dandismo, fiero di essere meno spregevole di
quelli che passano, si dice contemplando il fumo del suo sigaro:
Che m’importa dove vanno quelle coscienze?
Credo di essere andato alla deriva, verso quello che la
gente del mestiere chiama antipasto. Eppure, lascerò queste
pagine, — perché voglio datare la mia collera. Tristezza.
(traduzione di Leonardo Zunica)
tratto da Charles Baudelaire JOURNAUX INTIMES
FUSÉES / XV
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Che cos’è l’atto di creazione
di Gilles Deleuze
continua dal numero 3_08
Un’idea cinematografica è, per
esempio, la famosa dissociazione
vedere-parlare in un tipo di cinema
relativamente recente: Syberberg,
gli Straub, Marguerite Duras, prendo
solo gli esempi più noti.
Che cosa c’è di comune e in che
senso fare una disgiunzione fra
il visivo e il sonoro è un’idea
propriamente cinematografica?
Perché non si può fare in teatro?
O, almeno, lo si può anche fare, ma
allora, se si fa in teatro e se il teatro
trova dei mezzi, si potrà dire, salvo
eccezioni, che il teatro l’ha presa in
prestito dal cinema. Cosa che non è
necessariamente un male.
Ma assicurare la disgiunzione del
vedere e del parlare, del visivo
e del sonoro è un’idea talmente
cinematografica che potrebbe essere
una risposta alla domanda: che cos’è
un’idea in cinema?
Una voce parla di qualcosa. Si parla di qualcosa.
Allo stesso tempo ci viene mostrata un’altra cosa. E infine
ciò di cui si parla è sotto ciò che si vede. Questo terzo
punto è molto importante. Capite che è proprio questo che
il teatro non può fare. Il teatro potrebbe fare sue le prime
due operazioni: si parla di qualcosa e ci viene mostrato
qualcos’altro. Ma che ciò di cui si parla si metta allo
stesso tempo sotto ciò che ci viene mostrato – e questo
è necessario perché altrimenti le prime due operazioni
non avrebbero né senso né interesse – lo si può dire in
un’altra maniera: la parola si leva nell’aria, mentre la terra
che vediamo sprofonda sempre di più. O, meglio, mentre
questa parola si leva nell’aria, ciò di cui essa ci parlava
sprofonda sotto terra.
Che cos’è allora, se c’è solo il cinema che possa
farlo? Non dico che debba farlo, ma che il cinema l’ha
fatto due o tre volte, posso dire solo che sono stati dei
grandi registi ad avere avuto questa idea. Ecco un’idea
cinematografica. È straordinario perché questo assicura,
nel cinema, un’autentica trasformazione degli elementi, un
ciclo che fa sì che improvvisamente il cinema sia in sintonia
con una fisica qualitativa degli elementi. Questo produce
una specie di trasformazione, una grande circolazione
degli elementi nel cinema a partire dall’aria, dalla terra,
dall’acqua e dal fuoco. Tutto questo non sopprime una
storia. La storia resta, ma ciò che ci colpisce è che la storia
sia così interessante solo per il fatto che c’è tutto questo,
dietro di essa e con essa. In questo ciclo che ho appena
definito così rapidamente – la voce si leva mentre ciò di
cui essa parla si nasconde sotto terra – avrete sicuramente
riconosciuto la maggioranza dei film degli Straub, il grande
ciclo degli elementi negli Straub. Ciò che vediamo è sotto
la terra deserta, ma questa terra deserta è per così dire
gravida di tutto ciò che sta sotto. E mi direte: ma di quello
che c’è sotto, che cosa ne sappiamo? È proprio di questo
che la voce ci parla. Come se la terra si incurvasse sotto
il peso di quanto la voce ci dice, sotto il peso di quanto
viene a mettersi sotto terra a suo tempo e suo luogo. E se
la voce ci parla di cadaveri, di tutta la stirpe dei cadaveri
che prende posto sotto terra, in quello stesso momento il
minimo fremito di vento sulla terra deserta, nello spazio
vuoto che sta sotto i vostri occhi, il minimo vuoto in questa
terra, tutto questo acquista senso.
Mi dico che avere un’idea non è comunque dell’ordine
della comunicazione.
È a questo che vorrei arrivare. Non tutto ciò di cui
si parla è riducibile alla comunicazione. Poco male. Che
cosa vuol dire? In primo luogo che la comunicazione è
la trasmissione e la propagazione di un’informazione.
Ma che cos’è un’informazione? Non è difficile, tutti lo
sanno, un’informazione è un insieme di parole d’ordine.
Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume
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tratto dal volume “Che cos’è l’atto di creazione” di G. Deleuze
gentilmente concesso da Cronopio Edizioni
che crederete. In altri termini informare è far
circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della
polizia sono chiamate giustamente dei comunicati.
Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si
presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a
credere. O anche a non credere, ma facendo come
se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere,
ma di comportarci come se credessimo. Questa è
l’informazione, la comunicazione, e senza queste
parole d’ordine e senza la loro trasmissione, non c’è
informazione, non c’è comunicazione. Ciò significa
che l’informazione è proprio il sistema del controllo.
È evidente, e oggi ci concerne particolarmente.
È vero che stiamo entrando in una società che
si può chiamare società di controllo. Un pensatore
come Michel Foucault aveva analizzato due tipi di
società abbastanza vicine a noi. Le prime, le chiamava
società di sovranità e le seconde società disciplinari.
Il passaggio tipico da una società di sovranità a
una società disciplinare, lo faceva coincidere con
Napoleone. La società disciplinare si definiva – le
analisi di Foucault sono restate giustamente celebri
– attraverso la costituzione di spazi di reclusione:
prigioni, scuole, fabbriche, ospedali. Le società
disciplinari ne avevano bisogno. Quest’analisi ha
prodotto delle ambiguità in alcuni lettori di Foucault
perché si è creduto che fosse il suo ultimo pensiero.
Evidentemente no. Foucault non ha mai creduto che
queste società disciplinari fossero eterne e lo ha detto
molto chiaramente. Anzi pensava che stiamo entrando
in un nuovo tipo di società. Certo, dappertutto ci
saranno resti delle società disciplinari, ancora per
anni e anni, ma sappiamo che siamo già in un altro
tipo di società che bisognerebbe chiamare, secondo
il termine proposto da Borroughs – per il quale
Foucault aveva una grande ammirazione – società
di controllo. Stiamo entrando in società di controllo
che si definiscono molto diversamente dalle società
di disciplina. Coloro che vegliano sul nostro bene,
non avranno più bisogno di spazi di reclusione. Tutto
questo, le prigioni, le scuole, gli ospedali, sono già
un argomento di continue discussioni. Non sarebbe
meglio dispensare le cure a domicilio? Sì, questo
sarà probabilmente il futuro. Le officine, le fabbriche
fanno acqua da tutte le parti. Non sarebbe meglio
il subappalto o il lavoro a domicilio? Non ci sono
altri mezzi per punire che non siano la prigione? Le
società di controllo non passeranno più per gli spazi
di reclusione. Neanche per la scuola. Bisogna stare
attenti ai temi che nascono, che si svilupperanno
tra quaranta o cinquant’anni e che ci dicono che
la cosa formidabile sarà fare allo stesso tempo la
scuola e la professione. Sarà interessante capire quali
saranno l’identità della scuola e della professione
con la formazione permanente che è il nostro
futuro e che non comporterà più necessariamente
il raggruppamento di alunni in uno spazio chiuso.
Il controllo non è la disciplina. Con un’autostrada
non si reclude nessuno, ma facendo autostrade si
moltiplicano i mezzi di controllo. Non dico che questo
sia l’unico fine delle autostrade, ma si può andare in
giro all’infinito e “liberamente” senza essere affatto
reclusi, pur essendo completamente controllati. È
questo il nostro futuro.
che cos’è che resiste alla morte? Basta guardare una
statuetta di tremila anni avanti Cristo per trovare che
la risposta di Malraux è in fondo una buona risposta.
Si potrebbe dire allora, meno bene, dal punto di vista
che è il nostro, che l’arte è ciò che resiste, anche se
non è la sola cosa che resiste. Di qui il rapporto così
stretto fra l’atto di resistenza e l’opera d’arte. Non
ogni atto di resistenza è un’opera d’arte, benché, in
un certo senso, lo sia. Non ogni opera d’arte è un atto
di resistenza e tuttavia, in un certo senso, lo è.
Mettiamo che l’informazione sia questo: il
sistema controllato delle parole d’ordine che valgono
in una determinate società.
Che cosa vuol dire avere un’idea in cinema?
Che cosa può avere a che fare con questo l’opera
d’arte?
Non parliamo di opera d’arte, ma diciamo
almeno che c’è contro-informazione. Ci sono dei
paesi dittatoriali, nei quali, anche in condizioni
particolarmente dure e crudeli, c’è controinformazione. Ai tempi di Hitler gli ebrei, che
arrivavano dalla Germania ed erano i primi a dirci
che c’erano i campi di sterminio, facevano controinformazione. Ma bisogna constatare che la controinformazione non è mai stata sufficiente a fare
qualcosa. La contro-informazione non ha mai dato
fastidio a Hitler. Tranne che in un caso. Qual è questo
caso? È importante. La sola risposta è che la controinformazione diventa effettivamente efficace solo
quando è – e lo è per natura – o diventa un atto di
resistenza. E l’atto di resistenza non è né informazione
né contro-informazione. La contro-informazione è
effettiva solo quando diventa un atto di resistenza.
Che rapporto ha l’opera d’arte con l’informazione?
Nessuno. L’opera d’arte non è uno strumento
di comunicazione. L’opera d’arte non ha niente a
che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non
contiene letteralmente la minima informazione. C’è
invece un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte
e l’atto di resistenza. Questo sì. Essa ha qualcosa a
che fare con l’informazione e la comunicazione in
quanto atto di resistenza. Qual è questo misterioso
rapporto tra un’opera d’arte e un atto di resistenza,
se gli uomini che resistono non hanno né il tempo
né talvolta la cultura necessaria per avere il minimo
rapporto con l’arte? Non so. Malraux sviluppa un
bel concetto filosofico, dice una cosa molto semplice
sull’arte, dice che è la sola cosa che resiste alla morte.
Torniamo al principio: che cosa si fa quando si fa
filosofia? Si inventano concetti. Secondo me questa
è la base di un bel concetto filosofico. Riflettete...
Prendete il caso, per esempio, degli Straub,
quando operano quella disgiunzione fra voce sonora
e immagine visiva che essi prendono in questa
maniera: la voce si leva, si leva, si leva, e ciò di
cui ci parla passa sotto la terra nuda, deserta, che
l’immagine visiva ci stava mostrando, immagine
visiva che non aveva nessun rapporto diretto con
l’immagine sonora. Ora qual è quest’atto di parola
che si leva nell’aria mentre il suo oggetto passa sotto
terra? Resistenza. Atto di resistenza. E in tutta l’opera
degli Straub, l’atto di parola è un atto di resistenza.
Da Mosé e Aronne all’ultimo Kafka (Rapporti di
classe) passando attraverso – non cito nell’ordine –
Nicht versöhnt o Bach (Cronaca di Anna Magdalena
Bach). L’atto di parola di Bach – è la sua musica che è
l’atto di resistenza, lotta attiva contro la ripartizione
del sacro e del profano.
Quest’atto di resistenza nella musica culmina
in un grido. Così come c’è un grido in Woyzeck, c’è un
grido anche in Bach: “Fuori, fuori! Andatevene, non
voglio vedervi!”. Quando gli Straub lo sottolineano,
questo grido, quello di Bach o quello della vecchia
schizofrenica di Nicht versöhnt, tutto questo deve
rendere conto di un duplice aspetto. L’atto di
resistenza ha due facce. È umano ed è anche l’atto
dell’arte. Solo l’atto di resistenza resiste alla morte,
sotto forma di opera d’arte o sotto forma di una lotta
di uomini.
Che rapporto c’è fra la lotta umana e l’opera d’arte?
Il rapporto più stretto e, secondo me, più
misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire
quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo
manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo
manca vuol dire che questa affinità fondamentale
tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste non è
ancora chiara e non lo sarà mai. Non c’è opera d’arte
che non faccia appello a un popolo che non esiste
ancora.
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la casa e il cosmo
di Simone Borghi
La musica o l’arte in senso lato non sono, secondo Deleuze e Guattari,
un’esclusiva dell’uomo e del suo mondo. Nel mondo animale, infatti,
possiamo facilmente trovare fenomeni che a tutti gli effetti, dicono i
due filosofi, dobbiamo considerare artistici. Certo, per posizionarci in un
tale punto di vista dobbiamo, da una parte, lasciarci dietro le spalle la
nostra abitudine a porre una distanza o una netta frontiera fra l’uomo
e l’animale; dall’altra, non vedere l’opera d’arte come il risultato del
lavoro individuale di un soggetto, ma di un divenire espressivo molto
più generale. Per queste ragioni, la nostra analisi unirà nella sua prima
sezione l’estetica con l’etologia, prendendo in considerazione le teorie
sul mondo animale di Von Uexküll e quelle sul territorio di Lorenz, ai
quali Deleuze e Guattari fanno esplicito riferimento. In entrambi i casi
vedremo come il pensiero dei due etologi venga accolto nel pensiero dei
due filosofi francesi.
Il problema non è affatto, comunque, quello di eguagliare l’uomo e
l’animale, come neanche di spingerci verso un’ideale primitivismo o
un’animalizzazione dell’umano. La vera questione sta invece nel dover
porre un piano filosofico sul quale la distinzione fra naturale e artificiale
perda di senso, per far posto a nozioni che ritagliano o distribuiscono il
reale in modo sensibilmente diverso. Non più uomini, animali o vegetali,
anche se continueremo ad usare questi termini, ma milieux (ambienti),
territori, agencements (concatenamenti) e piani cosmici. Concetti, questi,
che non tengono per nulla conto delle differenze di specie che siamo
soliti utilizzare, poiché prendono in considerazione un’unica materia
“quasi fluida” per tutti gli esseri, per tutte le realtà concrete o astratte
che siano, e dei gradi di stabilità strutturale oppure di potenza creativa
che possiamo di volta in volta discernere e valutare.
Queste nozioni non rinviano dunque a strutture o ad archetipi sui quali
i viventi si installerebbero, ma a tipologie di agglomerati di materia
aventi ognuna le proprie possibilità espressive, così come le proprie
forme più o meno rigide. Lo scopo di tali concetti è quello di permettere
l’individuazione delle forze o dei movimenti attraversanti ogni essere, cioè
di renderle pensabili, proprio nel senso in cui Klee diceva che l’arte deve
“rendere visibile” e non riprodurre il visibile. I movimenti che analizzeremo
sono: la codificazione, la decodificazione, la territorializzazione, la
deterritorializzazione relativa e assoluta, e la riterritorializzazione.
Analizzeremo dunque le forme di vita che popolano la filosofia di Deleuze
e Guattari, dalle più semplici basate su dei codici fino alle instaurazioni
di un piano cosmico informale, sul quale un materiale “molecolarizzato”
con una sua propria valenza non ha più bisogno di una forma vera e
propria che lo strutturi. La loro presentazione sarà sequenziale ma esse
non dovranno essere pensate come i termini di un’evoluzione, bensì
contemporanee e mescolate l’una nell’altra come all’interno, per così dire,
di un caleidoscopio. La loro logica né strutturalista né gerarchica, o quello
che potremmo dire il loro “libero gioco”, è ciò che il concetto di ritornello
riassume in sé in quanto molteplicità qualitativa. Una logica del divenire
che trascina nel suo complicato dinamismo, strutturante ed espressivo allo
stesso tempo, a gradi e in modi di volta in volta diversi, tutto il vivente.
In sottofondo, la presenza di Spinoza nel pensiero di Deleuze e Guattari
è evidente: non più soggetti, non più coscienze o essenze, ma buoni o
cattivi incontri, affetti positivi o negativi e gradi di potenza.
L’analisi sul ritornello ci obbligherà inoltre a dover ripensare le nostre
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classiche categorie di spazio e di tempo, aiutandoci con la riflessione di
due compositori contemporanei ai quali Deleuze e Guattari devono molto:
Olivier Messiaen e Pierre Boulez. Non più un solo tempo e un solo spazio
dove tutti gli esseri viventi si muovono e svolgono la propria vita, ma una
pluralità di durate e di spazi diversi a seconda delle situazioni. Non più
soltanto il tempo come misura, ma anche come differenza, e non più lo
spazio solo come estensione, ma anche come intensità. Raddoppieremo
dunque le due nozioni e parleremo di due coppie concettuali in perenne
commistione: uno spazio e un tempo tipico di una certa abitudine della
materia, o di una ripetitività reiterata, che si mischiano rispettivamente
ad un altro spazio e un altro tempo di natura diversa e ben più complicati
da capire, appartenenti invece ad ogni atto espressivo o creativo. Gli uni
sono sempre già dati, gli altri sono invece da “conquistare”. L’importanza
del concetto di ritornello è allora evidente: non soltanto un’originale
teoria del divenire, ma anche una nuova concezione dello spazio e del
tempo. Dalla più piccola cellula all’organismo più complesso, è il ritornello
che imprime o “produce” sia una ritmicità sia uno schema spaziale
trascendentale, per il suo sviluppo detto regolare. Ma allo stesso tempo
è sempre a causa del suo interno dinamismo che ogni organismo può
essere costretto ad intraprendere un movimento espressivo, a rivedere i
propri schemi spazio-temporali, e cioè a crearne di nuovi. Il ritornello non
è una struttura, non ha una forma, perché è una forza o un complicato
movimento che nel suo ripetersi dà di volta in volta risultati diversi.
Verranno in luce infatti come due poli o due modi di pensarlo: il piccolo
e il grande ritornello.
Il concetto centrale di questo studio intrattiene poi col suono una stretta
relazione, come testimonia la definizione dell’arte musicale dataci da
Deleuze e Guattari, in quanto “attività che consiste nel deterritorializzare
il ritornello”, essendo quest’ultimo il “contenuto proprio della musica”.
Da una parte il presente lavoro è un’analisi del concetto di ritornello e,
dall’altra, ha lo scopo di rendere chiara la definizione di musica di cui
sopra. In filosofia, come in musica o nelle altre arti, si è creduto per lungo
tempo di non poter pensare, comporre o dipingere, senza ricorrere a certe
forme o luoghi privilegiati, ritenuti imprescindibili. Si riteneva impossibile
fare musica senza le note, così come in filosofia si diceva: “Fuori della
persona e dell’individuo, non distinguerete nulla!”. Senza le note c’era
solo il rumore, ed al di là del soggetto solo un fondo indifferenziato, la
notte dove tutte le mucche sono nere. Ma fra la fine del XIX° e l’inizio
del XX° secolo, la nota ed il soggetto hanno subìto a ben vedere lo stesso
destino, poiché si è scoperto che al di là di essi c’è un modo informale,
e non per questo meno rigoroso, di organizzare i suoni, i pensieri o le
proprie affezioni. E non si tratta, ben inteso, di abolire ogni uso delle note
o della tonalità, ma di non esserne assoggettati. Presteremo un’attenzione
particolare, dunque, ad un certo tipo di musica contemporanea, ma senza
la minima intenzione di svalorizzare quella precedente.
tratto dal volume “La casa e il cosmo”
Il ritornello e la musica nel pensiero di Deleuze e Guattari
Ombre Corte, Verona 2008, pp. 7-9
per la musica
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transatlantico7
di Gabrio Taglietti
Parlare dell’attualità di Leóš Janáček può apparire
una contraddizione in termini, trattandosi di un
compositore per cui l’essere ‘moderno’ sembra
essere una delle ultime preoccupazioni. La sua
originalità non passa attraverso particolari ricerche
nel campo dell’armonia; se dovessimo giudicarlo in
base al gradiente di ‘emancipazione della dissonanza’
dovremmo anzi archiviarlo come un compositore
piuttosto arretrato: il suo linguaggio armonico è
sostanzialmente tonale, con solo qualche sfumatura
modale, alquanto lontano, negli anni DieciVenti, dalle posizioni più avanzate dell’epoca, in
particolare dalla Seconda scuola di Vienna. Del resto
ciò ha a che fare con fattori anagrafici e biografici:
ricordiamo che Janáček era nato in Moravia nel
1854, e aveva dunque vent’anni più di Schönberg,
trentuno più di Berg. Le sue opere più significative
nascono però quasi tutte nel suo ultimo decennio di
vita, attorno ai settant’anni: tra il 1921 e il ‘28 in una
straordinaria fioritura tardiva egli scrive i suoi più
grandi capolavori, tra cui La piccola volpe astuta,
i due Quartetti per archi, la Messa glagolitica e Da
una casa di morti.
Men che meno possiamo identificarlo con
l’invenzione di un qualche sistema compositivo:
la peculiarità della sua scrittura ha scoraggiato
qualunque tipo di epigonismo, e nella storia Janáček
è uno degli autori che vanta meno tentativi di
imitazione. Né postulò mai una qualche necessità
storica del nuovo: le uniche teorie da lui postulate
riguardano l’orgogliosa affermazione dell’identità
nazionale, la valorizzazione della musicalità della
propria lingua e la ricerca della ‘verità’ espressiva,
il che suona terribilmente vago o ingenuo. In effetti
molti commentatori hanno proprio accusato Janáček
di ingenuità; all’inizio del Novecento, gli stessi cechi
guardavano a lui con un po’ di diffidenza, giudicandolo
espressione di una cultura provinciale, legata al
piccolo contesto di Brno. Eppure, paradossalmente,
è proprio a partire da questo punto - o meglio: da
una lettura assolutamente originale e radicale di
questo punto - che si può cercare di comprendere
l’originalità di Janáček, un’originalità ancora in grado
di parlare alle orecchie contemporanee.
Come sottolinea Milan Kundera, “le sue opere
sono il massimo omaggio che mai sia stato reso alla
lingua ceca, ma si tratta di un omaggio in forma di
sacrificio, poiché Janáček ha immolato la sua musica
universale a una lingua pressoché sconosciuta”1.
La scelta quasi autosacrificale di chiudersi nel
suo piccolo mondo può però essere letta in un
senso assai particolare: ricordiamo che Deleuze e
Guattari, parlando di Kafka, sostenevano come ogni
transatlantico8
vera opera letteraria è in una certa misura
l’invenzione di un linguaggio nuovo, quasi un
dialetto, kafkianamente la costruzione di una
“tana”: “Di grande, di rivoluzionario non c’è
che il minore... Interessante la possibilità di
fare della propria lingua un uso minore. Essere
nella propria lingua come uno straniero...”2.
Il lavoro di Janáček alla ricerca dell’adesione al
tono e al ritmo della lingua parlata, guardando
più alla propria piccola regione che a un più
prestigioso palcoscenico internazionale, non
ha nulla di superficialmente folcloristico: la
sua è una ricerca della verità psicologica della
musica come linguaggio umano, ma senza nulla
di astratto, di volontaristico o cerebrale. In tal
modo egli si costruisce un linguaggio musicale
assolutamente personale e profondamente
poetico: il tentativo di modellare (anche
nella musica strumentale pura) la musica sul
parlato quotidiano lo porta a lavorare quasi
sempre su brevi cellule che, ripetute in modo
quasi ossessivo, con minime varianti, vengono
caricate di un’enorme energia espressiva. Ne
è un esempio clamoroso il primo movimento
del Concertino per pianoforte e 6 strumenti,
basato interamente su un’unica cellula di tre
note, con una radicalità che anticipa certe
composizioni successive nel concepire la
musica come costruzione di ‘oggetti sonori’.
La ripetizione secondo una caleidoscopica
tecnica di metamorfosi, apparentemente
asistematica ma a in realtà assai raffinata e
precisamente calcolata, è funzionale alla ricerca
spasmodica del segreto contenuto emotivo
del piccolo frammento. A questo proposito
abbiamo un’illuminante testimonianza di
Ludvík Kundera (padre di Milan) il quale
racconta che, passando davanti alla casa di
Janáček, lo si poteva sentire “martellare i tasti
quanto più forte possibile, per lo più col pedale
abbassato, suonando con le dita un motivo di
un paio di note... Ripeteva quel motivo più
volte, ora in forma identica, ora con qualche
piccola variazione. Dalla vivacità con cui
suonava si poteva capire quanto egli fosse
preso e trascinato dal sentimento contenuto in
quel motivo...”3.
La stessa libertà inventiva, fatta di capricciose
accensioni e brusche fermate, si può riscontrare
nell’articolazione ritmica, metrica e formale
della musica di Janáček. Pensiamo a certe
battute apparentemente assurde di 1/4 che in
realtà sono la rappresentazione del naturale
respiro tra una frase e l’altra. Pensiamo a
certi strani ritmi (il primo tema del Secondo
Quartetto, ansante e inquieto nelle alternanze
di duine e terzine interrotte da pause) che
seguono le asimmetrie della prosa, a certe
sovrapposizioni metriche che sembrano
riprodurre la naturale polifonia di una piccola
folla al mercato. E anche la strumentazione
offre colori assolutamente personali. Non
tanto per l’uso di particolari impasti o effetti
sonori, ma per la colorata fantasia ottenuta
più per sottrazione che per addizione: una
strumentazione che privilegia i timbri puri,
con coraggiose e imprevedibili invenzioni,
macchie violente di colore stese con dolcissima
rabbia sulla tela. Pensiamo ad esempio al rullo
di tamburo, quasi circense, che nel bel mezzo
del Credo della Messa glagolitica compare al
culmine di un crescendo per poi esplodere
in un delirante assolo dell’organo. Mentre il
discorso musicale, teso più a limare che a far
proliferare, procede per giustapposizioni più
che per trasformazioni: le figure retoriche
più tipiche della sua musica sono l’irruzione
e la lacerazione, l’alternarsi di zone di grande
dolcezza ed espressività a episodi lancinanti e
violenti (ricordiamo il mostruoso tremolo al
ponticello nel finale del Secondo Quartetto).
In tal modo Janáček costruisce un rapporto
assolutamente nuovo e personale con il tempo
della musica, in una sorta di narrazione che
segue fedelmente le intermittenze della psiche
in un vero e proprio elettrocardiogramma
dell’anima, ora in spasmodiche accelerazioni,
ora in fasi di totale stasi, di blocco del tempo.
Come forse solo in Schubert o in Mahler, anche
in Janáček il tema più banale può assumere
l’aura della memoria che lo rende dolce e
straziante al tempo stesso. Nel terzo movimento
del Secondo Quartetto c’è un passaggio in cui
risuona una melodia da orchestrina di località
termale, e sembra - quasi inequivocabilmente
- un messaggio cifrato alla donna amata:
“Ricordi quel giorno, come eravamo felici?”.
La musica di Janáček veramente mette a nudo
il cuore dell’autore e altrettanto richiede
all’ascoltatore: è una musica che, quando ci
tocca, fa vibrare le nostre corde emotive più
profonde, più nascoste e intime.
Tutto ciò in una totale assenza di volontarismo
ideologico e tuttavia nella piena assunzione
di responsabilità nei confronti della storia e
della propria opera. Oggi Janáček ci può forse
servire da segnavia alla ricerca di una strada
che eviti le secche di un malinteso modernismo
ideologico, slegato dalla verità dell’ascolto,
come pure il vicolo chiuso del postmoderno,
che nell’indifferenza per la storia conduce
inevitabilmente alla superficialità. Egli trovava
la propria originalità in quella che si potrebbe
definire una semplicità necessaria, risultato
di una depurazione della complessità, di un
duro lavoro di sfrondamento del superfluo
fino a trovare l’essenziale. In un percorso che
non parte da astratte verità, ma sempre va alla
ricerca della necessità interiore di ogni evento
sonoro, della poesia insita in ogni oggetto, per
comune o bizzarro che sia.
D’altronde la capacità di rileggere in modo
creativo oggetti apparentemente banali è
molto evidente anche nelle opere teatrali di
Janáček, nel modo come egli rilegge e adatta
i testi originali. La piccola volpe astuta, ad
esempio, si basa come è noto su una serie di
disegni umoristici pubblicati su un piccolo
giornale locale: le avventure di una giovane
volpe in un piccolo ambiente rurale. In questa
storia semplice (si narra che la sua cameriera
ne fosse un’appassionata lettrice) Janáček
introduce qualche piccolo ma significativo
cambiamento: la volpe, simbolo della libertà,
della giovinezza e dell’amore, a un certo punto
viene uccisa da un bracconiere. Ma la vita
continua. Così alla fine può scattare il colpo di
genio, che con un piccolo tocco poetico dà il
senso a tutta l’opera. Il guardiacaccia, che un
anno prima aveva catturato la piccola volpe
cercando inutilmente di addomesticarla, la
sogna; svegliandosi cerca di afferrarla e si trova
fra le mani una rana (come esattamente un
anno prima): “Io già ti conosco!”, le dice. “No,
risponde il ranocchio, quello che tu conoscevi
era mio nonno, che infatti mi aveva raccontato
di te!”. Con questo piccolo episodio che chiude
ciclicamente l’opera Janáček ci dice che la
vita è appunto questo, una continua rinascita
dopo la morte, nel tempo che inesorabilmente
trascorre: La piccola volpe astuta si
trasforma così (senza inutili enfasi, quasi
inavvertitamente) da piccola storia comica a
fumetti in una parabola bellissima e straziante
sulla nostalgia dell’anziano per la vita che ora
è inevitabilmente alle sue spalle. Una nostalgia
dolce e struggente, senza recriminazioni, di
chi ha vissuto fino in fondo e contempla lo
scorrere del tempo con serenità e tenerezza.
1
Milan Kundera, I testamenti traditi, Milano 1994.
2
Deleuze-Guattari, Kafka. Per una letteratura minore,
Macerata 1999.
3
Cit. in Jaroslav Vogel, Leóš Janáček, Kassel-Prag 1958.
transatlantico9
di Leonardo Zunica
stesura della partitura pianistica del “Diario
di uno scomparso”, considerata oggi uno dei
capolavori di Janáček. In seguito, dopo la
morte del compositore (1928) curerà l’edizione
critica delle opere pianistiche. Poco importa se
vedremo poi Milan sbizzarrirsi come pianista
jazz nei locali parigini.
Il caso Janáček
Se si sfoglia la lista dei personaggi famosi e illustri (Famous Czech
People) nati tra i confini della Cecoslovacchia (e della Repubblica
Ceca) non si può non rimanere stupiti dalla moltitudine
“rumorosa” di scrittori, musicisti, poeti. Tra i primi troviamo
Bohumil Hrabal, autore di prose metalliche e vorticose, Milan
Kundera, Max Brod e Franz Kafka, ovviamente. Ancora nel
catalogo: Milos Forman, regista di Amadeus, film girato molto
a Praga, e anche un criminale, tale Victor Lustig, truffatore
sui transatlantici di spola fra Parigi e New York, l’uomo che
vendette la Tour Eiffel, e che tentò di truffare anche Al Capone,
che finì per marcire ad Alcatraz. Fra i compositori e musicisti
Antonin Dvořák, l’onnipresente Smetana e il dimenticato Erwin
Schulhoff, fra i primi del secolo scorso a sentirsi attratto dalle
calde atmosfere del jazz (Hotmusic) e ad ammettere la musica
fra le arti dadaiste: con In Futurum compone un intricato pezzo
fatto di sole pause, anticipando John Cage. Non dimentichiamo
inoltre la sua versione musicale del “Manifesto del Partito
Comunista”. Non da ultimo l’impegnato Leós Janáček. Appaiono
pianisti nella lista: Rudolf Firkusny, Ivan Morawetz (entrambi
presenti nella ormai storica collana di CD della Sony, Great
Pianists of the Century) e ancora Ignaz Moscheles, autore
ottocentesco ed autoritario di un celebre metodo (nel quale
appare anche il contributo di Chopin con tre delicatissimi
Etudes). Vi troviamo anche un amico e allievo di Janáček, Ludwig
Kundera, padre di Milan. Infine, Alfred Brendel, che ha lasciato
recentemente la scena concertistica per dedicarsi alla scrittura
e alle conferenze. Fra i boemi di lingua tedesca Gustav Mahler,
Adolf Loos, Reiner Maria Rilke, Adalbert Stifter, Franz Werfel,
Gustav Meyrink, autore de il Golem, romanzo orrorifico.
Ne I testamenti traditi, Milan Kundera si sofferma a lungo su
due compositori: Igor Stravinsky e Leós Janáček. Stupisce la
perizia con cui Kundera affronta gli argomenti musicali e come
insista, partendo dal complesso rapporto Brod/Kafka, sul fatto
ricorrente che spesso interpreti e lettori tradiscono le intenzioni
più intime e più chiare degli autori, quelle intenzioni che il testo,
nella sua chiarezza, esibisce senza ambiguità, senza possibilità
alcuna di tradimento. Sembra una querelle tutta fra cechi:
Brod che tradisce Kafka, gli esecutori che tradiscono Janáček.
Brod è stato anche il primo biografo di Janáček. La prossimità
di Milan Kundera a Janáček è il trait d’union tra Kundera e la
musica. Il padre di Milan, Ludvik, pianista e musicologo – che
impartisce al figlio una educazione musicale - diventa assistente
e collaboratore di Janáček, e aiuta il compositore boemo alla
transatlantico10
L’incontro di chi scrive con la musica di
Janáček fu qualche anno fa, alla Hochschule
di Vienna. Un amico austriaco mi aveva fatto
ascoltare un disco con musiche pianistiche
del compositore di Brno, interpretate da Ivan
Morawetz, che avevo incontrato qualche anno
prima. Al ritorno da Vienna il mio maestro
mi diede la partitura della Sonata “1.x.1905”
per pianoforte, dicendomi che non era musica
che poteva piacere molto al pubblico. Pensai
per la prima volta che cosa potesse veramente
piacere al pubblico. Forse pensai per la prima
volta al pubblico. Il secondo tempo della Sonata è intitolato Smrt
ed è l’atto finale di un dramma, storia di un operaio ucciso. Smrt
in ceco vuol dire “morte” e non poteva che essere raffigurata da
una parola che si tronca in bocca, fatta di sole consonanti.
La produzione delle opere significative di Janáček è pressoché
concentrata negli ultimi vent’anni della sua vita:
Sonata
per
pianoforte
e Sonata per violino e
pianoforte – Quartetto
La Sonata a Kreutzer e
Quartetto Lettere Intime,
– Diario di Uno Scomparso
– Nella Nebbia (pianoforte)
– Concertino e Capriccio
composto per il pianista
– monco Paul Wittgenstein,
fratello di Ludwig – Messa
Glagolitica – La volpe astuta
– Da una casa di morti –
L’affare Makropulos.
Appuntamenti in Conservatorio,
Auditorium Monteverdi
MantovaMusicaContemporanea
3 Aprile 2009
Ensemble Contemporaneo,
direttore Gabrio Taglietti
Leonardo Zunica, pianoforte
Musiche di Wolff, Crumb, Janáček
4 Aprile 2009
Oleksandr Semchuk, violino
Leonardo Zunica, pianoforte
Musiche di
Schubert, Messiaen, Ravel, Janáček
Le sue composizioni sono
fatte di momenti, cellule di
un inventiva che sembra
presentarsi immediatamente
al compositore, e fissata
sulla carta - e che l’esecutore
acquisisce come gesto, a volte
anche parossistico. Il suo linguaggio armonico è l’espressione di
tale parossismo. Un linguaggio che scava se stesso. Attraverso le
lettura di Hemholtz, con un paziente lavoro, Janáček considera
aspetti della dissonanza che lo portano ad allontanarsi dalle regole
ferree dell’armonia tradizionale, come fissandosi su frequenze,
su vortici di suono. Dirà in seguito: “la storia della musica è un
percorso di adattamento dell’uomo alle dissonanze”. Per fare ciò
il suo istinto aveva bisogno di una pratica decennale. Alcuni i
presunti aborti distrutti dal compositore. Emblematico il caso
della Sonata per pianoforte: appena ascoltata, Janáček ritenne
opportuno distruggerla; bruciò il terzo movimento e gettò
i manoscritti dei primi due nel fiume Vltava. Il salvataggio fu
operato dalla stessa pianista che eseguì per la prima volta l’opera.
Ma era riuscita a ricopiarne solo i primi due movimenti.
pastello, tempera, carboncino su carta
zattere
Gabriella Pauletti
Opere grafiche
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pastello, carboncino su cartongesso
senza titolo
pastello, ferro e gesso su cartongesso
senza titolo
FONDAZIONE E MANIFESTO DEL FUTURISMO
di Filippo Tommaso Marinetti
Avevamo vegliato tutta la notte -i miei amici ed io- sotto
lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le
nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un
cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti
orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini
estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.
Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli,
in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle
avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai
loro celesti accampamenti.
Soli coi fuochisti che s’agitavano davanti ai forni infernali delle grandi
navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle
locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con
un incerto batter d’ali, lungo i muri della città.
Sussultammo ad un tratto, all’udire il rumore formidabile degli
enormi tramvai a due piani, che passavano sobbalzando, risplendenti
di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa
e sràdica d’improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e
attraverso i gorghi di un diluvio.
Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato
borbottio, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar d’ossa dei
palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo
subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.
- Andiamo, diss’io; andiamo amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l’ideale
mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto
vedremo volare i primi Angeli!... Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne
i cardini e i chiavistelli!...Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! Non v’è
cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la
prima volta nelle nostre tenebre millenarie!...
Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti.
Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai
sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco.
La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie,
scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i
vetri d’una finestra, ci insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi
perituri.
Io gridai: - Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve! E noi, come giovani leoni, inseguivamo
la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo
violaceo, vivo e palpitante.
Eppure non avevamo un’Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime
figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme, contorte a guisa di anelli
bisantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio di liberarci finalmente dal
nostro coraggio troppo pesante!
E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si
arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare.
La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con
grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti,
mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli.
- Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti
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pimentati d’orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!... Diamoci in pasto
all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi
dell’Assurdo!
Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso,
con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto
venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come
due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contraddittorii. Il loro stupido
dilemma discuteva sul mio terreno... Che noia! Auff!... Tagliai corto, e, pel disgusto,
mi scaraventai colle ruote all’aria in un fossato...
Oh! Materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io
gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella
nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai -cencio sozzo e puzzolente- di
sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal
ferro arroventato della gioia!
Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già
intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte
armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile a un gran
pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel
fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide
imbottiture di comodità.
Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una mia carezza bastò
a rianimarlo, ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne
possenti!
Allora, col volto coperto della buona melma delle officine -impasto di scorie
metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti- noi, contusi e fasciate le braccia ma
impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra:
9. Noi vogliamo glorificare la guerra -sola igiene del mondo- il militarismo, il patriottismo, il
gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere
contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo
le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni
ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro
fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio
di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che
scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante
degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come
una folla entusiasta.
20 febbraio 1909
MANIFESTO DEL FUTURISMO
1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo
esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo
schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la
bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a
serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è
più bello della Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra,
lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare
l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo
può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le
forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se
vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi
viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e
incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese
dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquarii.
Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla
dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli.
Musei: cimiteri!... Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si
conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o
ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi
di colori e linee, lungo le pareti contese!
Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei
morti... ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla
Gioconda, ve lo concedo... Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio
per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché
volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro,
se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere
opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?...Ammirare un quadro antico
equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in
violenti getti di creazione e di azione.
Volete dunque sprecare tutte le forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del
passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti?
In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle
accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci stroncati!...) è,
per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri
del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri,
sia pure: -l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è
sbarrato... Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti, futuristi!
E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date
fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la
gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!...
Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite senza pietà le città venerate!
I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio per compiere
l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci
gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili - Noi lo desideriamo!
Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando
su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando
caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già
promesse alle catacombe delle biblioteche.
Ma noi non saremo là... Essi ci troveranno alfine -una notte d’inverno- in aperta campagna,
sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati
accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino
che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini.
Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal
nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più
implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi.
La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. - L’arte, infatti, non può essere che
violenza, crudeltà e ingiustizia.
I più anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di
forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente,
in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato... Guardateci! Non
siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, perché sono nutriti di
fuoco, di odio e di velocità!... Ve ne stupite?... È logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno
di aver vissuto!
Ci opponete delle obiezioni?...Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo capito!... La nostra
bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi
nostri. -Forse!... Sia pure!... Ma che importa? Non vogliamo intendere!... Guai a chi ci ripeterà
queste parole infami!... Alzare la testa!...
Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle
stelle!...
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l’Arte dei Rumori
Caro Balilla Pratella, grande musicista futurista,
A Roma, nel Teatro Costanzi affollatissimo, mentre coi miei amici futuristi Marinetti,
Boccioni, Carrà, Balla, Soffici, Papini, Cavacchioli, ascoltavo l’esecuzione orchestrale della
tua travolgente MUSICA FUTURISTA mi apparve alla mente una nuova arte che tu solo
puoi creare: l’Arte dei Rumori, logica conseguenza delle tue meravigliose innovazioni.
La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine,
nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini.
Per molti secoli la vita si svolse in silenzio, o, per lo più, in sordina. I rumori più forti che
interrompevano questo silenzio non erano nè intensi, né prolungati, né variati. Poiché, se
trascuriamo gli eccezionali movimenti tellurici, gli uragani, le tempeste, le valanghe e le cascate,
la natura è silenziosa.
In questa scarsità di rumori, i primi suoni che l’uomo poté trarre da una canna forata o da una
corda tesa, stupirono come cose nuove e mirabili. Il suono fu dai popoli primitivi attribuito agli
dèi, considerato come sacro e riservato ai sacerdoti, che se ne servirono per arricchire di mistero
i loro riti. Nacque così la concezione del suono come cosa a sé, diversa e indipendente dalla
vita, e ne risultò la musica, mondo fantastico sovrapposto al reale, mondo inviolabile e sacro.
Si comprende facilmente come una simile concezione della musica dovesse necessariamente
rallentarne il progresso, a paragone delle altre arti. I Greci stessi, con la loro teoria musicale
matematicamente sistemata da Pitagora, e in base alla quale era ammesso soltanto l’uso
di pochi intervalli consonanti, hanno molto limitato il campo della musica, rendendo così
impossibile l’armonia, che ignoravano.
Il Medio Evo, con gli sviluppi e le modificazioni del sistema greco del tetracordo, col canto
gregoriano e coi canti popolari, arricchì l’arte musicale, ma continuò a considerare il suono
nel suo svolgersi nel tempo, concezione ristretta che durò per parecchi secoli e che ritroviamo
ancora nelle più complicate polifonie dei contrappuntisti fiamminghi. Non esisteva l’accordo; lo
sviluppo delle parti diverse non era subordinato all’accordo che queste parti potevano produrre
nel loro insieme; la concezione, infine, di queste parti era orizzontale, non verticale. Il desiderio,
la ricerca e il gusto per l’unione simultanea dei diversi suoni, cioè per l’accordo (suono
complesso) si manifestarono gradatamente, passando dall’accordo perfetto assonante e con
poche dissonanze di passaggio alle complicate e persistenti dissonanze che caratterizzano la
musica contemporanea.
L’arte musicale ricercò ed ottenne dapprima la purezza, la limpidezza e la dolcezza del suono,
indi amalgamò suoni diversi, preoccupandosi però di accarezzare l’orecchio con soavi armonie.
Oggi l’arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti,
più strani e più aspri per l’orecchio. Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore.
Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano
dovunque coll’uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle
campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha oggi creato tanta
varietà e concorrenza di rumori, che il suono puro, nella sua esiguità e monotonia, non suscita
più emozione. Per eccitare ed esaltare la nostra sensibilità, la musica andò sviluppandosi verso
la più complessa polifonia e verso la maggior varietà di timbri o coloriti strumentali, ricercando
le più complicate successioni di accordi dissonanti e preparando vagamente la creazione del
rumore musicale.
Questa evoluzione verso il “suono rumore” non era possibile prima d’ora. L’orecchio di un
uomo del settecento non avrebbe potuto sopportare l’intensità disarmonica di certi accordi
prodotti dalle nostre orecchie (triplicate nel numero degli esecutori rispetto a quelle di allora). Il
nostro orecchio invece se ne compiace, poiché fu già educato dalla vita moderna, così prodiga
di rumori svariati. Il nostro orecchio però se ne accontenta, e reclama più ampie emozioni
acustiche. D’altra parte, il suono musicale è troppo limitato nella varietà qualitativa dei timbri.
Le più complicate orchestre si riducono a quattro o cinque classi di strumenti ad arco, a pizzico,
a fiato in metallo, a fiato in legno, a percussione. Cosicché la musica moderna si dibatte
in questo piccolo cerchio, sforzandosi vanamente di creare nuove varietà di timbri. Bisogna
rompere questo cerchio ristretto di suoni puri e conquistare la varietà infinita dei “suonirumori”.
Ognuno riconoscerà d’altronde che ogni suono porta con sé un viluppo di sensazioni già note
e sciupate, che predispongono l’ascoltatore alla noia, malgrado gli sforzi di tutti i musicisti
novatori. Noi futuristi abbiamo tutti profondamente amato e gustato le armonie dei grandi
maestri. Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo
sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori di tram, di motori a scoppio,
di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, l’”Eroica” o la “Pastorale”. Non
possiamo vedere quell’enorme apparato di forze che rappresenta un’orchestra moderna senza
provare la più profonda delusione davanti ai suoi meschini risultati acustici. Conoscete voi
spettacolo più ridicolo di venti uomini che s’accaniscono a raddoppiare il miagolìo di un violino?
Tutto ciò farà naturalmente strillare i musicomani e risveglierà forse l’atmosfera assonnata delle
sale di concerti. Entriamo insieme, da futuristi, in uno di questi ospedali di suoni anemici. Ecco:
la prima battuta vi reca subito all’orecchio la noia del già udito e vi fa pregustare la noia della
battuta che seguirà. Centelliniamo così, di battuta in battuta, due o tre qualità di noie schiette
aspettando sempre la sensazione straordinaria che non viene mai. Intanto si opera una miscela
ripugnante formata dalla monotonia delle sensazioni e dalla cretinesca commozione religiosa
degli ascoltatori buddisticamente ebbri di ripetere per la millesima volta la loro estasi più o
meno snobbistica ed imparata. Via! Usciamo, poiché non potremmo a lungo frenare in noi
il desiderio di creare finalmente una nuova realtà musicale, con un ampia di ceffoni sonori,
saltando a piè pari violini, pianoforti, contrabbassi ed organi gemebondi. Usciamo! Non si
potrà obbiettare che il rumore sia soltanto forte e sgradevole all’orecchio.
transatlantico14
di Luigi Russolo
Mi sembra inutile enumerare tutti i rumori tenui e delicati, che danno sensazioni acustiche
piacevoli. Per convincersi poi della varietà sorprendente dei rumori, basta pensare al rombo
del tuono, ai sibili del vento, allo scrosciare di una cascata, al gorgogliare d’un ruscello, ai
fruscii delle foglie, al trotto d’un cavallo che s’allontana, ai sussulti traballanti d’un carro sul
selciato e alla respirazione ampia, solenne e bianca di una città notturna, a tutti i rumori che
fanno le belve e gli animali domestici. E a tutti quelli che può fare la bocca dell’uomo senza
parlare o cantare. Attraversiamo una grande capitale moderna, con le orecchie più attente
che gli occhi, e godremo nel distinguere i risucchi d’acqua, d’aria o di gas nei tubi metallici,
il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indiscutibile animalità, il palpitare delle
valvole, l’andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe meccaniche, i balzi dei tram sulle
rotaie, lo schioccar delle fruste, il garrire delle tende e delle bandiere. Ci divertiremo ad
orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte
sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccìo delle folle, i diversi frastuoni delle
stazioni, delle ferriere, delle filande, delle tipografie, delle centrali
elettriche e delle ferrovie sotterranee.
Né bisogna dimenticare i rumori nuovissimi della guerra
moderna. Recentemente il poeta Marinetti, in una
sua lettera dalle trincee bulgare di Adrianopoli,
mi descriveva con mirabile stile futurista
l’orchestra di una grande battaglia:
‘’Ogni 5 secondi cannoni da
assedio sventrare spazio con
un accordo TAM-TUUMB
ammutinamento di 500
echi per azzannarlo
s m i n u z z a r l o
sparpagliarlo
all’infinito.
Nel
centro di quei
TA M - T U U M B
spiaccicati
ampiezza 50
chilometri
quadrati
balzare
s c o p p i
tagli pugni
batterie a
tiro rapido
Violenza
ferocia
regolarità
q u e s t o
basso grave
scandire gli
strani folli
agitatissimi
acuti
della
battaglia
Furia affanno
orecchie occhi
narici
aperti!
attenti!
forza!
che gioia vedere
udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle
mitragliatrici
strillare
a perdifiato sotto morsi
schiaffi traak-traak frustate
pic-pac-pum-tumb bizzarie salti
altezza 200 metri della fucileria
Giù giù in fondo all’orchestra stagni
diguazzare buoi bufali pungoli carri pluff
plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing
sciaaack ilari nitriti ììììì.... scalpicii tintinnii 3
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac (lento
due tempi) Sciumi Maritza o Karvavena croooc-craaac
grida degli ufficiali sbatacchiare come piatti d’ottone pan di qua
paack di là cing BUUM cing ciak (presto) ciaciacia-ciaciaak su giù là là
intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello! Vampe vampe vampe vampe
vampe vampe ribalta dei forti laggiù dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica
telefonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò! Ibrahim! Rudolf! allò allò!
attori ruoli echi suggeritori scenari di fumo foreste applausi odore di fieno fango
sterco non sento più i miei piedi gelati odore di salnitro odore di marcio Timpani
flauti clarini dovunque basso alto uccelli cinguettare beatitudine ombrie cip-
1916
cip-cip brezza verde mandre don-dan-don-din-bèéè Orchestra i pazzi bastonano
i professori d’orchestra questi bastonatissimi suonare suonare Grandi fragori
non cancellare precisare ritagliandoti rumori più piccoli minutissimi rottami di
echi nel teatro ampiezza 300 chilometri quadrati Fiumi Maritza Tungia sdraiati
Monti Ròdopi ritti alture palchi loggione 20.000 shapnels sbracciarsi esplodere
fazzoletti bianchissimi pieni d’oro TUM- TUMB 20 000 granate protese strappare
con schianti capigliature nerissime ZANG-TUMB-ZANG-TUMB-TUUMB l’orchestra
dei rumori di guerra gonfiarsi sotto una nota di silenzio tenuta nell’alto cielo
pallone sferico dorato che sorveglia i tiri”.
Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente
questi svariatissimi rumori. Intonare i rumori non
vuol dire togliere ad essi tutti i movimenti
e le vibrazioni irregolari di tempo
e d’intensità, ma bensì
dare un grado o tono
alla più forte e
predominante
di queste
del movimento. Ogni manifestazione della nostra vita è accompagnata dal rumore. Il rumore
è quindi famigliare al nostro orecchio, ed ha il potere di richiamarci immediatamente alla vita
stessa. Mentre il suono estraneo alla vita, sempre musicale, cosa a sé, elemento occasionale
non necessario, è divenuto ormai per il nostro orecchio quello che all’occhio è un viso troppo
noto, il rumore invece, giungendoci confuso e irregolare dalla confusione irregolare della vita,
non si rivela mai interamente a noi e ci serba innumerevoli sorprese. Siamo certi dunque che
scegliendo, coordinando e dominando tutti i rumori, noi arricchiremo gli uomini di una nuova
voluttà insospettata. Benché la caratteristica del rumore sia di richiamare brutalmente alla
vita, l’arte dei rumori non deve limitarsi ad una riproduzione imitativa. Essa attingerà la sua
maggiore facoltà di emozione nel godimento acustico in se stesso, che l’ispirazione dell’artista
saprà trarre dai rumori combinati.
Ecco le 6 famiglie di rumori dell’orchestra futurista che attueremo presto, meccanicamente:
1. - Rombi, Tuoni, Scoppi, Scrosci, Tonfi, Boati.
2. - Fischi, Sibili, Sbuffi.
3. - Bisbigli, Mormorii, Borbottii, Brusii, Gorgoglii.
4. - Stridori, Scricchiolii, Fruscii, Ronzìì, Crepitii, Stropiccìì.
5. - Rumori ottenuti a percussione su metalli, legni, pelli, pietre, terrecotte, ecc..
6. - Voci di animali e di uomini: Gridi, Strilli, Gemiti, Urla, Ululati, Risate, Rantoli, Singhiozzi.
In questo elenco abbiamo racchiuso i più caratteristici fra i rumori fondamentali; gli altri non
sono che le associazioni e le combinazioni di questi. I movimenti ritmici di un rumore sono
infiniti. Esiste sempre come per il tono, un ritmo predominante, ma attorno a questo altri
numerosi ritmi secondari sono pure sensibili.
vibrazioni.
Il rumore infatti
si differenzia dal
suono solo in quanto le
vibrazioni che lo producono
sono confuse ed irregolari, sia nel
tempo che nella intensità. Ogni rumore
ha un tono, talora anche un accordo che predomina
nell’insieme delle sue vibrazioni irregolari. Ora, da questo caratteristico
tono predominante deriva la possibilità pratica di intonarlo, di dare cioè ad un dato rumore
non un solo tono ma una certa varietà di toni, senza perdere la sua caratteristica, voglio dire il
timbro che lo distingue. Così alcuni rumori ottenuti con un movimento rotativo possono offrire
un’intera scala cromatica ascendente o discendente, se si aumenta o diminuisce la velocità
CONCLUSIONI:
1. - I musicisti futuristi devono allargare ed arricchire sempre di più il campo dei suoni.
Ciò risponde a un bisogno della nostra sensibilità. Notiamo infatti nei compositori
geniali d’oggi una tendenza verso le più complicate dissonanze. Essi, allontanandosi
sempre più dal suono puro, giungono quasi al suono-rumore. Questo bisogno e
questa tendenza non potranno essere soddisfatti che coll’aggiunta e la sostituzione
dei rumori ai suoni.
2. - I musicisti futuristi devono sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’
istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori,
riprodotti con appositi meccanismi.
3. - Bisogna che la sensibilità del musicista, liberandosi dal ritmo facile e
tradizionale, trovi nei rumori il modo di ampliarsi e rinnovarsi, dato che ogni
rumore offre l’unione dei ritmi più diversi, oltre a quello predominante.
4. - Ogni rumore avendo nelle sue vibrazioni irregolari un tono generale
predominante, si otterrà facilmente nella costruzione degli strumenti che lo
imitano una varietà sufficientemente estesa di toni, semitoni e quarti di toni.
Questa varietà di toni non toglierà a ogni singolo rumore le caratteristiche del
suo timbro, ma ne amplierà solo la tessitura o estensione.
5. - Le difficoltà pratiche per la costruzione di questi strumenti non sono gravi.
Trovato il principio meccanico che dà un rumore, si potrà mutarne il tono
regolandosi sulle leggi generali dell’acustica. Si procederà per esempio con la
diminuzione o l’aumento della velocità, se lo strumento avrà un movimento
rotativo, e con una varietà di grandezza o di tensione delle parti sonore, se lo
strumento non avrà movimento rotativo.
6. - Non sarà mediante una successione di rumori imitativi della vita, bensì
mediante una fantastica associazione di questi timbri vari e di questi ritmi vari, che
la nuova orchestra otterrà le più complesse e nuove emozioni sonore. Perciò ogni
strumento dovrà offrire la possibilità di mutare o no, e dovrà avere una più o meno
grande estensione.
7. - La varietà dei rumori è infinita. Se oggi, mentre noi possediamo forse mille macchine
diverse, possiamo distinguere mille rumori diversi, domani, col moltiplicarsi di nuove macchine,
potremo distinguere dieci, venti o trentamila rumori diversi, non da imitare semplicemente, ma
da combinare secondo la nostra fantasia.
8. - Invitiamo dunque i giovani musicisti geniali e audaci ad osservare con attenzione continua
tutti i rumori, per comprendere i vari ritmi che li compongono, il loro tono principale e quelli
secondari. Paragonando poi i timbri vari dei rumori ai timbri dei suoni, si convinceranno di
quanto i primi siano più numerosi dei secondi. Questo ci darà non solo la comprensione ma
anche il gusto e la passione dei rumori. La nostra sensibilità moltiplicata, dopo essersi conquistati
degli occhi futuristi avrà finalmente delle orecchie futuriste. Così i motori e le macchine delle
nostre città industriali potranno un giorno essere sapientemente intonati, in modo da fare di
ogni officina una inebbriante orchestra di rumori. Caro Pratella, io sottopongo al tuo genio
futurista queste mie constatazioni, invitandoti alla discussione. Non sono musicista: non ho
dunque predilezioni acustiche, né opere da difendere. Sono un pittore futurista che proietta
fuori di sé in un’arte molto amata la sua volontà di rinnovare tutto. Perciò più temerario di
quanto potrebbe esserlo un musicista di professione, non preoccupandomi delle mia apparente
incompetenza, e convinto che l’audacia abbia tutti i diritti e tutte le possibilità, ho potuto
intuire il grande rinnovamento della musica mediante l’Arte dei Rumori.
transatlantico15
La danza ha sempre estratto dalla vita i suoi ritmi e le sue forme. Gli stupori
e gli spaventi che agitarono l’umanità nascente davanti all’incomprensibile ed
intricatissimo universo, si ritrovano nelle prime danze che dovevano naturalmente
essere danze sacre.
Le prime danze orientali pervase dal terrore religioso erano pantomime ritmate
e simboliche che riproducevano ingenuamente il movimento rotatorio degli astri.
La «ronda» nasce cosí. I diversi passi e i gesti del prete cattolico nel celebrare la
messa derivano da queste prime danze ed hanno lo stesso simbolo astronomico.
Le danze cambogiane e javanesi si distinguono per la loro eleganza architettonica
e la loro regolarità matematica. Sono lenti bassorilievi in marcia.
Le danze arabe e persiane sono invece lascive: impercettibili fremiti delle anche
accompagnati da un battito monotono di mani o di tamburo; sussulti spasmodici
e convulsioni isteriche della danza del ventre; enormi balzi furenti di danze
sudanesi. Sono tutte variazioni sull’unico motivo di un uomo seduto a gambe
incrociate e di una donna seminuda che con abili mosse cerca di persuaderlo
all’atto d’amore.
Morto e sepolto il glorioso balletto italiano, incominciarono in Europa stilizzazioni
di danze selvagge, elegantizzazioni di danze esotiche e modernizzazioni di danze
antiche. Pepe rosso parigino + cimiero + scudo + lancia + estasi davanti a idoli che
non significano piú nulla + ondulazioni di cosce montmartroises = anacronismo
erotico passatista per forestieri.
Prima della guerra a Parigi si raffinavano le danze sud-americane: tango argentino
spasmodico furente, zamacueca del Chile, maxixe brasiliana, santafé del Paraguay.
Quest’ultima danza descrive le evoluzioni galanti di un maschio ardente e audace
intorno ad una femmina attirante e seduttrice che egli finalmente afferra con un
balzo fulmineo e trascina con sé in un valzer vertiginoso.
Molto interessante artisticamente il balletto russo organizzato dal Diaghilev, che
modernizza i balli popolari russi con una meravigliosa fusione di musica e danza,
penetrate l’una nell’altra, e dà allo spettatore un’espressione perfetta e originale
della forza essenziale della razza.
Col Nijinsky appare per la prima volta la geometria pura della danza liberata dalla
mimica e senza l’eccitazione sessuale. Abbiamo la divinità della muscolatura.
danzava in libertà, spensieratamente, come si parla, si desidera, si ama, si piange,
su una arietta qualsiasi, anche volgare, come quella di Mariette, ma petite Mariette
strimpellata su un pianoforte, non riusciva a dare che emozioni complicatissime
di nostalgia disperata, di voluttà spasmodica e di giocondità, infantilmente
femminile.
Vi sono molti punti di contatto tra l’arte di Isadora Duncan e l’impressionismo
pittorico, come pure tra l’arte del Nijinsky e le costruzioni di forme e di volumi di
Cézanne.
Cosí, naturalmente, sotto l’influenza delle ricerche cubiste e in particolar modo
di Picasso, si creò una danza di volumi geometrizzati e indipendenti quasi dalla
musica. La danza diventò un’arte autonoma, equivalente della musica. La danza
non subiva piú la musica, la rimpiazzava.
Valentine de Saint-Point concepí una danza astratta e metafisica che doveva
tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua
métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente sono
poesie passatiste che navigano nella vecchia sensibilità greca e medievale;
astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde e senza emozione. Perché privarsi
dell’elemento vivificatore della mimica? Perché mettersi un elmo merovingio e
velarsi gli occhi? La sensibilità di queste danze risulta monotona limitata elementare
e tediosamente avvolta nella vecchia atmosfera assurda delle mitologie paurose
che oggi non significano piú nulla. Geometria fredda di pose che non hanno nulla
a che fare con la grande sensibilità dinamica simultanea della vita moderna.
Con intenti molto piú moderni il Dalcroze ha creato una ginnastica ritmica molto
interessante, che limita però i suoi effetti alla igiene dei muscoli e alla descrizione
dei lavori agresti.
Noi futuristi preferiamo Loie-Füller e il cake-walk dei negri (utilizzazione della
luce elettrica e meccanicità).
Bisogna superare le possibilità muscolari, e tendere nella danza a quell’ideale
corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da molto tempo. Bisogna
imitare con i gesti i movimenti delle macchine; fare una corte assidua ai volanti,
alle ruote, agli stantuffi; preparare cosí la fusione dell’uomo con la macchina,
giungere al metallismo della danza futurista.
Isadora Duncan crea la danza libera, senza preparazione mimica, trascurando la
muscolatura e l’euritmia, per concedere tutto all’espressione passionale, all’ardore
aereo dei passi. Ma essa in fondo non si propone che di intensificare, arricchire,
modulare in mille modi diversi il ritmo di un corpo di donna che languidamente
rifiuta, languidamente invoca, languidamente accetta e languidamente rimpiange
il maschio donatore di felicità erotiche.
La musica è fondamentalmente e incurabilmente passatista e perciò difficilmente
utilizzabile nella danza futurista. Il rumore, essendo il risultato dello strofinamento
o dell’urto di solidi, liquidi o gas in velocità, è diventato mediante l’onomatopeia
uno degli elementi piú dinamici della poesia futurista. Il rumore è il linguaggio
della nuova vita umano-meccanica. La danza futurista sarà dunque accompagnata
da rumori organizzati e dall’orchestra degli intonarumori inventati da Luigi
Russolo.
Isadora Duncan, che io ebbi molte volte il piacere di ammirare nelle sue libere
improvvisazioni fra i tendaggi di fumo madreperlaceo del suo atelier, quando
La danza futurista sarà: disarmonica - sgarbata - antigraziosa - asimmetrica sintetica - dinamica - parolibera.
transatlantico16
1917
di Filippo Tommaso Marinetti
FUTURISTA
dal Manifesto della Danza
mantovabanca
www.eterotopie.it
per la danza
transatlantico17
di Cecilia Fontanesi
A cento anni dalla pubblicazione del Manifesto Futurista, il
Comune e l’Assessorato alla Cultura di Milano danno vita
al progetto FuturisMI, una ricca serie di mostre, spettacoli
ed eventi per celebrare la nascita della prima avanguardia
artistica italiana.
Dal 5 febbraio al 7 giugno sarà presente a Palazzo Reale
la mostra “Futurismo 1909-2009 Velocità + Arte
+ Azione”, comprensiva di circa cinquecento opere fra
dipinti, sculture, progetti, scenografie teatrali e fotografie.
Ad inaugurare la mostra sarà la performance “Rissa in
galleria”, messa in scena dell’omonimo dipinto di Umberto
Boccioni. Il progetto nasce con l’intento di “accogliere,
fondere e far scontrare” il pubblico della Galleria Vittorio
Emanuele II, attraverso un’azione dinamica ed energica di
un gruppo di danzatori-attori, diretto da Ariella Vidach.
Ariella lavora come coreografa da oltre un ventennio,
fra l’Italia e la Svizzera, utilizzando il linguaggio fisico in
stretto rapporto alle tecnologie multimediali. Insieme al
videoartista Claudio Prati fonda nel 1988 l’associazione
A.i.E.P. (Avventure in Elicottero Prodotti), e un decennio più
tardi la Compagnia di danza contemporanea Ariella Vidach
– A.i.E.P. Il nostro incontro avviene presso il DiDstudio,
dove la compagnia è attualmente impegnata nelle prove di
InterVITA, ultima produzione che porterà a Neuchatel il 14
febbraio. Ariella mi offre un the “marocchino” al sapore di
menta, speziato.
conversazione con ariella vidach
A.i.E.P. è un punto di incontro di artisti di diversa
provenienza, come nasce la vostra associazione
culturale?
”Ho conosciuto Claudio negli Stati Uniti. Lui è svizzero,
io sono italiana. In quel periodo costruire e mantenere
un’associazione in Svizzera era sicuramente più semplice e
meno costoso che in Italia. A.i.E.P. è nata a Lugano con il
contributo di altri due amici, uno scultore e un produttore
televisivo. Usavamo le nostre diverse competenze, con la
funzione di imparare a stare insieme”.
transatlantico18
Avete scelto un acronimo curioso, “Avventure
in Elicottero Prodotti”. A cosa si riferisce?
“È Claudio che inventa i titoli. “Avventure in elicottero”
era una serie televisiva che lui vedeva da piccolo.
Racconta di una squadra di soccorso alpino, una squadra
che si muove in elicottero. Per Claudio il volo è sempre
stato una grande sfida, aveva una forte passione per il
parapendio. “Prodotti” indica il risultato, ciò che deriva
della sperimentazione di questo gruppo”.
In che modo siete riusciti a portare l’associazione
in Italia?
“A metà degli anni ‘90, venne istituita per la prima volta
la Commissione consultiva della Danza del Dipartimento
dello Spettacolo. Prima esisteva solo una Commissione
Musica che valutava anche i progetti relativi alla danza.
In quegli anni cercavamo di ottenere maggiore visibilità,
partecipando a diverse “vetrine” della danza in Italia.
Su consiglio di Stefania Donnini, ex danzatrice di Virgilio
Sieni, ho deciso di fondare a Milano una compagnia di
danza contemporanea. Con il riconoscimento ministeriale
siamo riusciti a mettere insieme i fondi provenienti dalla
Svizzera e quelli dall’Italia. Ancora oggi questo è l’unico
modo che ci permette di lavorare”.
Come hai trascorso gli anni che precedono la
tua formazione negli Stati Uniti?
“Sono nata in Istria, sono una profuga istriana. Dall’età
di due anni mi sono spostata con la mia famiglia in
diversi campi profughi in Italia, a Udine, Tortona, Marina
di Ravenna, fino ad arrivare a Milano. In seguito ho
deciso di vivere a Roma per qualche anno, fra il ’77 e
l’80. Mi interessavano più che altro le correnti teatrali di
avanguardia, la sperimentazione delle “cantine” romane.
Quello che avevo visto sul movimento non era qualcosa
in cui mi riconoscevo. Poco dopo ho avuto modo di
conoscere un gruppo che faceva Contact Improvisation.
Allora ho capito che era quello che cercavo e mi sono
detta: se voglio fare qualcosa che viene dagli Stati Uniti,
preferisco farlo là! Così mi sono trasferita a New York,
avevo ventiquattro anni”.
Quali influenze hai raccolto in America in quel
periodo?
“Ho vissuto a New York per dieci anni, dall’80 al ’90.
Il paese era ricchissimo, l’America di Regan, del boom
economico. In molti locali si poteva lavorare come
danzatori e performer, bastavano due giorni alla
settimana per poter vivere. Scambiavo gli spazi delle
sale prove con qualche ora come baby-sitter, potevo
prendere lezioni, avere un mio gruppo e riuscivo a pagare
i miei danzatori. Studiavo danza classica una volta al
giorno, ma spesso seguivo laboratori intensivi a New
York, così come a San Francisco, Seattle e in Colorado.
Ho conosciuto il lavoro di Steve Paxton, Dana Reitz e dei
grandi protagonisti delle correnti postmoderne. Ricordo
il carisma di Bill T.Jones, il movimento particolare e
distintivo di Steven Petronio”.
Che cosa ti ha portato dalla Contact
Improvisation a lavorare con tecnologie
interattive?
“Nella Contact Improvisation ci si educa all’ascolto,
alla percezione dell’altro e alle risposte che ci
fornisce. In fondo si impara ad essere interattivi, si
ha già una mente organizzata in questo modo. Poi,
indipendentemente dallo strumento scelto, rimane il
modo in cui lo usiamo. L’altro danzatore, la persona,
così come l’ambiente visivo o sonoro, fornisce una
chance in più rispetto all’essere da soli. Le uniche due
realtà in Italia che lavorano con la danza e le nuove
tecnologie sono A.i.E.P. a Milano e Altroteatro a Roma.
La stessa fondatrice, Lucia Latour, ha lavorato per molti
anni nella Contact Improvisation, per poi sviluppare
l’interazione con gli spazi virtuali. I nostri due percorsi
sono del tutto indipendenti, è un’assoluta coincidenza”.
Come si inserisce, nel tuo lavoro, il rapporto
uomo-macchina?
“Personalmente mi interessano le diverse possibilità di
utilizzare la scena, in un collage di modalità, in cui la
danza fornisce un’opportunità in più, uno strumento. A
metà degli anni ’80 Merce Cunningham ha sviluppato
Life Forms, un software in grado di riprodurre i movimenti
dei danzatori.
In quel caso la modalità offerta dal computer era
qualitativamente diversa da quella di un corpo organico.
I suoi danzatori erano costretti a muoversi con una
cinesi non umana, a capire i movimenti disimparando
i propri e rimparandone altri attraverso l’immagine.
Penso che il computer possa offrire alcune componenti,
il movimento altre. L’aspetto creativo sta nel trovare
delle soluzioni, combinando elementi diversi per farli
diventare espressivi”.
Che tipo di informazioni possono scambiare il
danzatore e il sistema artificiale?
“Molti esperimenti sulla tecnologia interattiva sono
stati condotti fra gli anni ’60 e ‘70. Da allora non c’è
stata una grande evoluzione concettuale. Piuttosto,
l’estetica delle immagini è molto migliorata. Le proposte
visive possono dare un diverso impatto al lavoro, ma
non è la potenza della macchina che lo cambia. All’inizio
usavamo un Commodore Amiga 3000, che ci forniva
elementi interessanti su cui lavorare, nonostante la
grafica un po’ “underground”.
Nel ’95 abbiamo prodotto Exp, vero e proprio
esperimento, in cui il danzatore si trovava a muoversi
di fronte all’immagine della propria silhouette collocata
in un sistema di oggetti virtuali. In scena si aveva la
sensazione che quegli oggetti esistessero realmente.
Oggi sperimentiamo l’utilizzo di accelerometri, sensori
realizzati dalla STMicroelectronics. Questi oggetti,
indossati dal danzatore, sono in grado di rispondere
al movimento associando diversi suoni a caratteri
differenti: così la voce è quella del corpo. Altri coreografi,
come Wayne McGregor, vogliono entrare nella “mente”
del sistema artificiale per capire come la struttura della
macchina possa cambiare l’agire del danzatore. A me
non interessa entrare nel merito di un meccanismo,
piuttosto amo considerarlo un mezzo espressivo. Quello
che mi affascina è la possibilità di dare vita ad uno
spazio”.
Quali sono le differenze nel rispondere ad una
persona piuttosto che a uno stimolo digitale?
“Nel contatto con una persona passano informazioni
diverse. Tuttavia non sono importanti solo gli input che
ricevi, da che cosa siano generati, ma come sei capace di
elaborarli. La storia ci ha abituato a realtà sconvolgenti.
Possono esistere situazioni, con persone in carne e
ossa, che non smuovono nessuno. In altri casi, anche
solo l’immagine di una sottoveste può commuovere. Si
potrebbe prendere spunto da una bottiglia che cade, da
qualcosa di diverso, per giocare a trasformare queste
informazioni in modo espressivo e creativo”.
Trovi qualche affinità fra il tuo lavoro e le idee
futuriste in Italia?
“Il nostro rapporto con le macchine non ha niente a
che fare con il Futurismo. Tuttavia, quando mi è stato
proposto il quadro di Boccioni, ho trovato che contenesse
una bellissima energia e ho pensato che fosse quella
la cosa da proporre. Mi interessava trasformare un
ambiente, farlo diventare molto energico.
Non avevo mai lavorato ispirandomi ad un dipinto,
pur apprezzando le esposizioni d’arte. Mi è capitato di
trarre ispirazione dalla mostra Post-Human, con opere
di Matthew Barney e Jeff Koons. Penso che gli artisti
visivi siano molto efficaci nello spiegarsi. Mi piace l’idea
di prendere un oggetto e contestualizzarlo in modo
creativo, trovo possa offrire nuovi punti di vista sullo
stato dell’arte”.
Come hai vissuto la creazione di “Rissa in
galleria”?
“La produzione di questa performance ha richiesto
uno sforzo di coordinamento, di regia, piuttosto che
di coreografia. In generale mi piace poter compiere un
lavoro sottile, un lavoro sulle forme.
Lavorare con un gruppo così vario di danzatori, è
stato molto frammentario, difficile e faticoso. Inoltre
in strada tutto ciò che è piccolo non si vede, perciò
ho dovuto scegliere qualcosa di vigoroso, che fosse
efficace. La “rissa” è sempre stata la parte più vera
della performance, era un momento appassionato,
convincente. Avere un interlocutore ti obbliga a non
fingere e permette alle persone di trovarsi una con l’altra.
Apprezzo molto la qualità grezza dei corpi che emerge
in questa circostanza, quando c’è un forte desiderio”.
Che cosa ti colpisce di un danzatore, di un
interprete?
“Quando non assomiglia a nient’altro, quando
vedo un movimento pieno. Se si lavora insieme
è ancora diverso, cerco la componente creativa.
Anche se mi piacerebbe tornare a proporre le mie
sequenze, è molto difficile riuscire a valorizzare alcuni
movimenti, e quando non vedo questo, mi pesa. È
necessaria una lunga esperienza di frequentazione.
Quando non riconosco più la stessa intensità
di un’improvvisazione, vorrei smettere di fare
coreografia. Preferisco che un interprete si
mantenga ricco entrando nel discorso, avanzando
proposte, facendo proliferare le proprie idee.
Il lavoro è fatto da tutti quelli che partecipano.
Con i ragazzi delle Scuole Civiche di Milano ho imparato
che nei giovani non esiste un modello scontato, c’è
una grande capacità di offrirsi, quando ancora non
sanno chi sono e si scoprono nuovi agli occhi degli
altri e di se stessi. Dopo anni di esperienza si possono
smussare molti angoli, diventare più compiuti. Bisogna
essere capaci di affinare la propria sensibilità e
creatività, per non rischiare di impoverirsi maturando”.
Quando ti trovi ad essere dall’altra parte, da
spettatrice, cosa cerchi sulla scena?
“La ricerca sul movimento. Non voglio arrivare a
comprendere che una mente ha escogitato quel
meccanismo, ma guardare qualcosa che sia capace di
portarmi altrove, di portarmi via. Sono reduce da una
“vetrina” di danza in Svizzera. Nei lavori proposti il
movimento era quasi assente, ciò che rimaneva era
soltanto l’idea scenica. Ricordo di essere stata a vedere
uno spettacolo di Saburo Teshigawara, chiamato in
Italia un paio di anni fa da La Milanesiana. Durante i
primi quindici minuti di Black Water ho pensato ‘non è
possibile che qualcosa mi faccia ancora quest’effetto’.
Saburo Teshigawara in scena non si può descrivere,
è come se arrivasse subito, come se nei suoi gesti ci
fosse una potenza che non ho mai visto, qualcosa di
commovente, e non sai cosa tocca.
Non è un coreografo, dopo un po’ il lavoro si sgretola,
ma sa creare immagini, lavorare sulle luci. Vedevo i
capelli di queste donne, talmente neri che proiettavano
luce. I danzatori giapponesi sono molto radicati, ma
insieme velocissimi nelle braccia e nelle gambe, capaci
di fondere un senso di ampio respiro con l’imprevisto”.
Cosa cerchi nel futuro? A cosa volgerai lo
sguardo per un nuovo lavoro?
“In questo momento sto cercando di capire, forse mi
piacerebbe andare contro la mia natura. Con Dana
Reitz lasciavamo che i nostri movimenti fossero come
i colpi necessari a scrivere gli ideogrammi, con precise
direzioni, diversa intensità e variazioni di pressione.
Cerco questa immediatezza, il senso di esistere in quel
preciso momento, senza perdere il vero senso. Io penso
che il movimento scriva lo spazio, lo suoni. Vorrei fare
dei segni più profondi e più larghi”.
transatlantico19
al di là del giornalismo
La principale attività di Mino Somenzi fu quella di
giornalista e divulgatore delle idee e dell’arte futurista. Tra
le altre occupazioni al “servizio” del movimento Futurista
(moltissime, per la verità), organizza nel 1933, a Roma, in
Piazza Adriana, la Prima mostra nazionale d’arte futurista,
dopo aver presenziato alla precedente esposizione futurista
di Mantova (maggio 1933) ed essere stato “l’artefice
morale” della mostra, tenuta nel giugno dello stesso anno,
alla Galleria Pesaro di Milano, in occasione delle Onoranze
a Boccioni.
Appassionato aviatore e membro del Reale Aereo Club
d’Italia, collabora con riviste specializzate (“L’Aviazione”)
e come corrispondente in caso di eventi aeronautici o come
esperto di volo per altri periodici. Fonda, inoltre, e dirige
il periodico “Futurismo - quindicinale [poi settimanale]
dell’artecrazia italiana”, organo di stampa del Futurismo,
nella cui direzione e scelte editoriali si mantiene in costante
rapporto con F.T. Marinetti.
Ma la sua opera più significativa è, senz’altro, un libretto
dal titolo “Difendo il Futurismo”, edito nel 1937 dalla Casa
Editrice A.R.T.E.
E’ un libello di 142 pagine, nel quale Mino si rivolge al Prof.
Ano Ano, definito “spirito ed essenza del professorume
intellettualoide tipo italietta ottocentesca, fortunatamente
agonizzante”, un professore, parte dell’Accademia tanto
aborrita e rifuggita dai Futuristi che, secondo Mino,
pronuncia “inascoltabili parole - escrementi.” Al quale
Mino, però, risponde con approfondite argomentazioni
dando, inconsapevolmente, prova di quanto il professorume
riesca comunque a condizionare il desiderio fortissimo
di eversione di questi nuovi artisti. Che non riescono,
nonostante le dichiarazioni e i manifesti di vera avanguardia
culturale, a staccarsi dalla cultura in cui vivono.
Il Futurismo, in Mino, appare come una vera filosofia
di vita che viene espressa nella risposta alle critiche
che l’Accademia muove alla definizione futuristica di
pagliaccismo, parola coniata non per definire il “clown
che fa capriole e piglia a schiaffi” ma per dare l’idea
quasi filosofica di “doversi adeguare alle diverse esigenze
della vita, talora contrastanti col nostro carattere e con la
nostra volontà”. Mino sostiene che “se andassimo dietro
al feretro di un lontanissimo conoscente, della cui morte
non ci è importato nulla, ridendo e ballando, saremmo
scambiati per pazzi; ma andandovi col viso atteggiato
ad una mestizia di circostanza, siamo dei pagliacci che
dimostrano ciò che non sentono: con la parola pagliaccismo
si sono volute individuare tutte le menzogne convenzionali
a cui, la civiltà, l’educazione, l’obbligo della convivenza coi
transatlantico20
nostri simili, quotidianamente ci costringono”. Pur molto
critici verso la società in cui vivono, quasi tutti gli artisti che
si sono, in fasi diverse della vita, accostati al Futurismo e
l’hanno sostenuto con le loro opere aderendo alla poetica
del movimento d’avanguardia, hanno fatto l’esperienza
della guerra. Una guerra che, anche se contava nuove
strategie e nuove armi, ha costretto uomini di ogni età
spesso al combattimento fisico, alla prova di forza e alla
devastante esperienza del guardare negli occhi il nemico.
Tratta in salvo la vita e tornati alle proprie case, alcuni
reagiscono con fierezza a questa dimostrazione di
coraggio, che è orgoglio personale - sono convinta prima che amore per la patria, difesa di una nazione o di
un’ideologia e cercano di affermare con forza la propria
esperienza. Mino scrive, sempre nell’introduzione e sempre
rivolto al professore tacitamente considerato dal futurista
anche socialmente un po’ vile, nel suo arroccarsi in musei
o biblioteche: “dopo ogni guerra ed ogni rivoluzione, si
scatena una reazione nel campo dell’arte, tendente a
distruggere o solamente a denigrare coloro che, artisti ed
insieme uomini d’azione, abbiano compiuto qualcosa fuori
del comune o di grande, nell’uno o nell’altro settore”.
Individua, poi, in D’Annunzio e Marinetti due artisti dalle
personalità opposte che hanno, però, saputo trasfondere la
loro sensibilità artistica in un sentimento patriottico nuovo
esprimendo così il loro “italianissimo ideale: ARTE-PATRIA”.
E chiede al Prof. Ano Ano: “ammettete o no la nostra ARTEPATRIA? ... Ammettete la funzione politica dell’arte?”.
Funzione, che “ha maggior pregio e quindi ragion d’essere,
solo quando serva a uno scopo universale, nazionale o
politico, rappresentando e valorizzando l’atmosfera civile,
il clima spirituale e storico dai quali trae l’ispirazione e la
sua fonte di vita”.
Alla fine della parte introduttiva, Mino scrive del Futurismo
dal punto di vista strettamente artistico, ribadendo
“originalità e priorità del Futurismo su tutti i movimenti
artistici d’avanguardia”. Esprime posizioni sue e del
movimento, corredando il tutto di fotografie di opere e di
eventi futuristi.
Il binomio futurismo/fascismo ha reso sempre ostico
per me da digerire questo movimento d’avanguardia. In
realtà leggendo le pagine di Mino, mi rendo conto che la
tentazione di fare un’apologia del Futurismo è forte. È forte
la tentazione di riconoscere come valori che andrebbero
riscoperti nella nostra epoca quelli, per esempio, della
funzione politica dell’arte, del coraggio di affermare
le proprie idee senza incamminarsi per una strada già
tracciata, più comoda, più sicura ma senz’altro priva di
di Paola Somenzi
originalità e di linfa vitale. Ci sono espressioni del Futurismo
che piacerebbero anche oggi a menti che vivono un po’ al
confine, che non si riconoscono nella cultura diffusa, che
osano ma mai completamente. Attira la capacità di “uscire”,
di esprimersi, di poterlo fare senza essere additati per matti
o per disadattati. Piacerebbe, forse, poter dare luce alla
propria creatività sostenuti da chi la può ”sponsorizzare”,
magari anche politicamente (costume molto diffuso anche
ai giorni nostri). Anche se oggi condividere questi aspetti
del futurismo può essere rischioso. Anche se da esso può
derivare il tacito ed involontario appoggio ad un’ideologia
che sta divenendo sempre meno condivisibile e sempre più
temibile.
Mino ha creduto molto in questa forza eversiva dell’arte,
l’ha sostenuta per tutta la vita. L’ha fatto anche insieme
a sua moglie, quella Brunas, pittrice, pure appassionata di
volo, che ha affermato il tentativo femminile di farsi strada
nella cultura del tempo. Mino ha sostenuto il Futurismo
con la sua scrittura di giornalista, quella che forse più di
altre, ha permesso l’esistenza sociale della poesia, della
pittura, della scultura e dell’arte futurista. Sopra tutti, ha
appoggiato Marinetti. Al quale ha ceduto, come scrive
Claudia Salaris nel suo Dizionario del Futurismo, la paternità
del manifesto dell’aeropittura, così come la paternità del
concetto stesso di aeropittura. Mino, nella purezza delle
sue idee e nell’entusiasmo di sostenere amici artisti e
movimento non si è accorto che il tempo stava cambiando.
È rimasto solo e senza lavoro quando, nel gennaio del
1939, il suo giornale viene soppresso dal Regime, ormai
avverso all’arte moderna, accusata di minare il senso della
romanità. E, contrariamente a quanto scrive a chiusura del
suo coraggioso libretto: “... la giustizia ce la renderà, come
in parte ce l‘ha già resa, il Tempo”, il Tempo, a lui, non ha
reso purtroppo una giustizia che si possa... toccare.
Nella foto l’arrivo a Roma della II crociera atlantica descritta al
microfono da Marinetti (a destra Mino Somenzi), a sinistra Ritratto
di Mino eseguito da Marinetti e sullo sfondo due opere di Brunas,
moglie di Mino e pittrice aerofuturista
Un evento importante che ha cambiato la mia vita: la musica
di Marco Tariello, 5a elementare
VIALE DON LUIGI STURZO, 4 • 46100 MANTOVA
www.consorziocsp.it
Un evento che ha cambiato i miei giorni, il tempo che trascorre, i sentimenti,
le emozioni della mia vita è stato sicuramente l’apprendimento della
musica, lo studio, ma anche l’ascolto della musica. Il mio primo contatto
con la musica è avvenuto all’età di quasi 4 anni (ero molto piccolo),
quando ho iniziato a frequentare la scuola di propedeutica musicale
dove ho incominciato a comprendere il senso, il ritmo della musica e tutti
gli elementi fondamentali che la caratterizzano. Così, andando avanti a
studiare, a cinque anni ho deciso di suonare, come strumento principale,
il pianoforte che a quel tempo (probabilmente, perché non riesco a
ricordarmelo) mi ispirava passione oppure un sentimento sconosciuto che
con il tempo avrei espresso.
Nel 2003, quindi, ho iniziato a frequentare la “Nuova Scuola di Musica”,
dove ho toccato, guardato e capito il pianoforte e ho iniziato a studiarlo
piano piano con un’insegnante di nome Mirella. Quando sono entrato
per la prima volta nella stanza dove si svolgeva la lezione e in cui ho
visto il piano in tutto il suo aspetto, ero un po’ incerto e nervoso, ma poi,
schiacciando un tasto nero, sfiorando un tasto bianco e toccando questo
magnifico strumento, mi è passata tutta l’incertezza.
Con il passare del tempo, imparando le note, il ritmo, i simboli e le
legature, a leggere la musica ed esprimere emozioni attraverso il suono,
m’accorgevo che più suonavo, più mi tranquillizzavo e mi riempivo di
gioia, serenità e di molti altri sentimenti che non si possono solamente
esprimere con le parole. Così, cambiando continuamente maestri e
professori, ho imparato sia ad interpretare la musica con il suono che con
le parole, l’immaginazione ma anche con le orecchie, ascoltandola nei
teatri, dai CD, l’opera, che si esprime anche con gli occhi, e tutti gli altri
tipi di musica che possono piacere ed essere suonati. Insomma, ho capito
che è la mia guida, la mia fonte di emozioni che riempiono il mio cuore,
è lei che mi dice come agire e affrontare le difficoltà e la sento sempre
dentro di me.
Per la preparazione ai saggi, esami, concorsi, ma anche a singole lezioni,
ho appreso inoltre che l’impegno è fondamentale per lo studio e per
raggiungere dei grandi risultati. L’esercizio, però, occupa molto del mio
tempo libero e dopo 8 ore di scuola devo impegnarmi ugualmente, ma
tutto questo sacrificio verrà sicuramente ricompensato con qualcosa (ma
questo è ovviamente un mistero).
La musica ha riempito molte pagine e capitoli bianchi della mia vita e ne
riempirà ancora un’infinità. Spero che seguendo i suoi consigli diventerò
un bravissimo e famosissimo pianista che suonerà e comporrà molti
brani, farà concerti in tutto il mondo, ma questo sarà tutto regalato dalla
passione, dall’impegno, dallo studio che ho avuto e che dovrò avere per
la musica.
Consorzio Servizi e Produzione
transatlantico21
Antropologia Jazzistica
Fotografia di Nicola Malaguti
di Giorgio Raimondi
Per quanto mi riguarda, il jazz ha fatto chiarezza su due punti: la necessità di una relatività del gusto
e il bisogno di diversificare lo sguardo sui modi d’esistenza di un opera d’arte”. Con queste parole,
leggibili in un intervista concessa a “Jazz Magazine” nel giugno 2001, Girard Genette ribadisce
l’importanza che ha avuto la musica afroamericana sulla sua attività di studioso, consentendogli
di verificare la validità di concetti che egli applica in ambito critico-letterario. Considerato tra i più
importanti teorici della letteratura, Genette è stato infatti direttore della prestigiosa École des hautes
Études en Sciences Sociales e ha dedicato a Thelonius Monk il suo fondamentale Palimpsestes, del
1982. Ma il suo non è un caso isolato, quanto piuttosto l’ennesima conferma della serietà con cui,
oltralpe, il mondo accademico si misura con il jazz. E d’altra parte è cosa nota: dacchè questa musica
sbarcò sul suolo di Francia dopo il primo conflitto mondiale non se n’è più andata, e molti sono i
musicisti che su quel suolo hanno poi scelto di risiedere e di lavorare. Ciò è all’ origine della ricchezza
degli studi, dell’ invenzione dei “festival” jazzistici, della creazione delle prime riviste specializzate e
di importanti spazi di riflessione teorica come gli storici “Cahiers du jazz”.
Non è dunque accidentale il fatto che proprio in Francia la scoperta della musica nera sia stata una
sorta di catalizzatore per la formazione e la generazione di antropologi ed etnologi: da Michel Leris,
che ne riconobbe l’insostituibile contributo per pensare il Novecento e le sue contraddizioni, ad
André Schaeffner. Autore nel 1926 del primo importante studio sul Jazz e successivamente fondatore
Dipartimento di Etnomusicologia presso il Museo del Trocadéro. La continuità di questo interesse è
documentata anche dall’editoria. E non intendo riferirmi alla produzione specialistica e musicologia
quanto, soprattutto, agli studi interdisciplinari. Nel settembre del 2001, ad esempio, “L’Homme”,
prestigiosa rivista di antropologia fondata da Emile Benveniste, Pierre Gourou e Claude Levi-Strauss,
oera diretta da Jean Jamin, ha intitolato un suo numero Jazz et Anthropologie. Sfogliandone le pagine
si incontrano interventi come quelli di Denis-Constant Martin (De l’excursion à Harlem au débat sur
le “Noirs”), che ricorda il prevalere, nel campo jazzistico, di analisi condotte senza l’indispensabile
“inchiesta sul campo” e di Xavier Daverat (Sur des erres de jazz), che riflette sul rapporto del jazz
con la storia e la tradizione, cioè a dire sulla trasmissione del sapere jazzistico all’interno di una
dimensione che, privilengiando la circolarità, instaura una sorta di tempo mitologico.
Ora, che il jazz sia oltre che un problema estetico anche un fatto sociale, non costituisce in sé
una novità. Nel suo Blues People LeRoi Jones-Amiri Baraka aveva già criticato ogni concezione
essenzialistica della musica nera, riconducendone le radici all’interno della comunità afroamericana e
cercando di far coincidere fatto musicale e fatto sociale. Ma queste indicazioni di metodo non hanno
avuto molta fortuna. Senza trascurarne la portata estetica, si tratta dunque di ripensare il jazz come
“oggetto culturale” che fin dal suo arrivo in Europa ha stimolato la riflessione nei più diversi campi
del sapere. Si tratta forse di riconoscere che il jazz è prima di tutto un modo di vivere il cui legame
con alcuni luoghi (quelli “mitici” dell’origine e poi della diaspora come New Orleans, Chicago, ecc.),
situazioni (il rapporto fra minoranze nere e società bianca), circostanze (una nascita contemporanea
a quella della registrazione sonora) di fatto lo istituisce come un oggetto privilegiato di indagine
antropologica. E, a ben vedere, sembra proprio che il jazz stesso abbia dovuto in qualche modo farsi
antropologia, ovvero visione del mondo, in grado di leggere criticamente e dunque trasformare la
propria condizione. Come intendere altrimenti il fatto che Charlie Parker e Dizzy Gillespie chiamarono
Anthropology il loro rifacimento di I Got Rhythm?
Ma non basta. Nelle edizione Parenthèse di Marsiglia, nella collana Jazz et musique improvisées
diretta da Philippe Fréchet, troviamo titoli come La france du jazz. Musique, modernité et identité
dans la premiére moitié du XXe siécle, di Denis-Costant Martin e Olivier Roueff e Le champe
Jazzistique di Alexandre Pierrepoint. Martin e Roueff sono entrambi sociologi ma con interessi storici
e antropologicia Pierrepoint è una figura atipica, che unisce la passione per il movimento surrealista
all’attività di ricercatore di antropologia ed etnologia all’università di Paris VII. Sono infatti di tipo
etnologico i presupposti che gli consentono di considerare il “campo jazzistico” come uno spazio
socio-culturale a tutti gli effetti. Avvalendosi di un vastissimo numero di testimonianze – fitte
sequenze di spezzoni di interviste che formano l’indispensabile controcanto all’indagine – egli,
mostra come il jazz non sia tanto un’etichetta musicale quanto un universo di valori potenziali,
non esclusivamente centrati sulla musica. Per questo nel corso della sua evoluzione ha potuto
metabolizzare le esperienze più varie, allargando il suo territorio fino al punto da non possederne
più uno proprio.
Nell’immaginario comune, infatti, la comunità jazzistica non condivide un preciso spazio simbolico
ma semmai una condizione d’esilio, dal momento che i musicisti creatori portano con sé il loro
territorio. Il quale appunto si definisce di volta in volta e in base alle circostanze, non in riferimento a
uno specifico luogo ma piuttosto alla variabilità degli incontri. Tale condizione produce due importanti
conseguenze. Da un lato collega l’esistenza del jazzman alla capacità di costruire giorno per giorno lo
spazio del proprio sentire, dall’altro propone un inedito concetto di appartenenza legato ad un’idea
di comunità senza territorio e senza sovranità, per la quale non è tanto questione di condividere
procedure tecniche e compositive quanto piuttosto un diverso modello relazionale. A una domanda
idealistica circa l’”essenza” del jazz si sostituisce così un campo di forze che riattualizza il discorso
di Amiri Baraka sulla musica nera come espressione di un‘attitudine concernente principalmente
il mondo, e solo secondariamente la tecnica musicale. Ovvero – lo ricorda Andela Davies – come
transatlantico22
capacità di tenere insieme la creatività artistica e l’emancipazione culturale. Da cui discende che il
“campo jazzistico” è in grado di proporsi come spazio politico in senso lato, poiché interviene sulle
modalità di costituzione della polis praticando un altro modo di stare insieme, una diversa ipotesi
di società.
Non sono questioni di poco conto, e suggeriscono qualche riflessione sullo stato della ricerca in
Italia e sulla connessa attività editoriale. Se in Francia si studia il jazz osservandolo da molti punti
di vista, è perché lo si considera una chiave interpretativa del moderno e della sua complessità. Ciò
consente di estendere il concetto di “campo jazzistico” oltre i limiti della musica, comprendendovi
tutte quelle pratiche discorsive che ne precisano il senso e sostengono la ricezione, a cominciare dal
lavoro critico. Al quale in Francia contribuisce la parte migliore del mondo accademico, quella che
non ha perduto il coraggio di raccogliere le sfide intellettuali e che interpreta la propria funzione
condividendo un ambito di ricerca e non difendendo un sapere gerarchizzato. (...)
Naturalmente lo studioso italiano non ignora la produzione straniera, e nel suo lavoro ne tiene
debito conto. Tuttavia la mancata traduzione impedisce talvolta di comprendere l’importanza, o
addirittura di conoscere l’esistenza, di un problema. Quanti, per esempio, in mancanza di testi di
lingua italiana hanno potuto riflettere sul dibattito che un tempo coinvolse LeRoi Jones (non ancora
Amiri Baraka), Ralph Ellison e Albert Murray sulla funzione del Blues, ovvero sul senso più profondo
dell’esperienza musicale nera? Aveva forse ragione Madame de Stäel, quando ai primi dell’Ottocento
ci stimolava a tradurre i contemporanei per capire il presente? E non si tratta solo di un problema di
politica editoriale, dunque di mercato, che penalizza il pubblico dei lettori. Si tratta di un problema
che influisce anche sull’orientamento degli studi, sul fatto che mentre si affinano progressivamente
gli strumenti di indagine non si riflette abbastanza sullo statuto della critica.
In ambito jazzistico, infatti, chi si affida a un modello scientista tende a supporre che il discorso
possa comprendere l’oggetto, ricoprirlo interamente riconducendolo alle leggi della propria dialettica
interna. Ma le pratiche discorsive non sono innocenti, e interagiscono fra loro e con il mondo in
modo problematico: le parole, insomma, non sono le cose (e nemmeno i suoni). Dal canto suo, chi
si muove in ambito storiografico pare invece che l’ostensione dei dati basti a se stessa, che la loro
organizzazione e interpretazione non faccia problema. Questo perché c’è una diffusa resistenza
ad ammettere (comprendere?) che la trasparenza è più che altro un orizzonte di riferimento, che
l’istanza critica si misura con forze (prime fra tutte quelle relative all’atto di scrittura) più vicine alla
disordinata spinta del desiderio che alla quiete, un po’ mortifera, dell’appagamento. Ciò si traduce
in una evidente difficoltà a valutare le implicazioni teoriche connesse allo svolgimento del proprio
lavoro, a risalire dalla attualità del dato alla più ampia cornice di un progetto culturale.
Se poi il sapere accademico appare poco attento ai temi transculturali (nessun dubbio che in Italia
sia così), non si può ignorare che da sempre si interroga sul proprio statuto e non cessa di porsi il
problema dell’interpretazione, della sua possibilità filosofica e praticabilità etica. Fra le caratteristiche
del sapere istituzionale c’è forse la rigidità, non il dilettantismo. Come fra i pregi del sapere non
istituzionale s’incontra più spesso il gusto dell’avventura che una reale consapevolezza dei propri
strumenti. Per questo il mancato colloquio è una doppia iattura: chi snobba il jazz non sa cosa perde,
in termini di possibilità conoscitive, e chi lo difende a oltranza tende a scivolare nell’equivoco di una
critica ingenua o risentita.
Tutto questo è puntualmente registrato dal nostro panorama editoriale, spia (ma anche causa) di
un paradosso che vede da un lato la colpevole disattenzione di quanti, accademici di professione, si
limitano a gestire la rendita del loro potere simbolico ed economico, e dall’altro lo zelo un po’ naïf di
chi ambisce soprattutto a un risarcimento, e sentendosi istituzionalmente sottostimato cerca poi di
procurarsi una cattedra universitaria. Si tratta di una situazione interessante e che chiarisce, se mai
ve ne fosse bisogno, coma l’accademia non sia solo uno stato di fatto ma anche, e forse soprattutto,
uno stato d’animo. Tuttavia la particolarità francese è forse più marcata sotto il profilo dello stato
degli studi che non dello svolgersi delle vicende che costituiscono l’oggetto d’analisi. Basti pensare
all’ampiezza della ricezione jazzistica nell’Italia degli anni venti e trenta: che determinò la moda
del “nero”, la passione per i ritmi sincopati, un’ampia letteratura di genere (non sempre di scarso
rilievo), innumerevoli polemiche giornalistiche e l’insorgere di una vera e propria “febbre” del jazz.
Senza dimenticare un osservatore attento come Antonio Gramsci, che in alcune lettere dal carcere si
mostra preoccupato dell’influenza della musica sincopata sui costumi degli italiani.
Se tutto ciò è plausibile, s’intende come da noi scarseggi non tanto il materiale di studio ma l’interesse
degli studiosi, scarseggino insomma la cultura del confronto e la passione dell’interdisciplinarietà.
Per questo stentiamo a comprendere che l’importanza del jazz non risiede in quella o quell’altra
sua caratteristica ma nella rete di relazioni che ha saputo istituire. Si potrebbe allora ipotizzare che
il “campo jazzistico” italiano goda di una salute incerta. Poiché fatica a costituirsi come modello
di una sociabilità aperta ma anche a proporsi come luogo di un sapere innovativo, come istanza
intellettuale in grado di inventarsi, sono parole di Pierrepont, “la sua misura del possibile”.
tratto dal volume “Il suono in figure” pensare con la musica,
edito da Scuola di Cultura Contemporanea
visibili armonie
di Michele Emmer
Nel 1999 Peter Greenaway partecipò a un convegno
della serie “matematica e cultura” a Venezia. Tra
l’altro, arrivò con molte ore di ritardo con l’aereo da
Amsterdam perché lo spazio sopra la città nella laguna
era chiuso. Era il primo giorno del bombardamento
sulla ex Jugoslavia. Greenaway aspettò a lungo e
arrivò alla sera tardi. Voleva arrivare perché come
disse non voleva “che la guerra fermasse la cultura”.
Veniva a Venezia a presentare il film Drowning by
Numbers (“affogare con i numeri”); il titolo italiano, in
cui si perde il sapore numerico, era Giochi nell’acqua.
Veniva a parlare della sua fascinazione per i numeri,
da sempre, sin dai primi film. In un lungo articolo dal
titolo Come costruire un film, Greenaway ha descritto
molto chiaramente come è nato l’interesse per i
numeri e per le griglie numeriche da usare nei suoi
film. Non a caso aveva intitolato Fear of Drowning by
Numbers, in italiano “Paura dei numeri”, un suo libro
dal sottotitolo “100 pensieri sul cinema”.
Qual’è il ruolo privilegiato dei numeri nel cinema?
Contare è il modo più semplice e primitivo di
narrare – 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 – una storia con
un principio, un centro, una fine e un senso della
progressione – che culmina in un finale a due cifre
– , uno scopo realizzato, un epilogo raggiunto.
L’esigenza che aveva Greenaway era di
ricercare qualcosa di più sostanziale della narrazione
per tenere insieme il vocabolario del cinema:
Ho costantemente ricercato, citato e inventato
principi organizzatori che riflettessero il passare
del tempo con più successo della narrazione, che
codificassero il comportamento più in astratto
che nella narrazione e adempissero a questi
compiti con una qualche forma di distacco
appassionato.
[Per far questo] i numeri aiutano. I numeri
possono
significare
strutture
definibili,
facilmente comprensibili in tutto il mondo.
Con coerenza – alle volte anche eccessiva
– Greenaway ha quasi sempre applicato questo
dogma numerico al suo cinema, cominciando dalle 92
mappe che erano contenute in The falls (1980) e ai 92
personaggi di A Walk through H. (1978). Greenaway
indica anche un responsabile principale di questa
“fuga dal testo, dalla trama, dalla storia e dall’intreccio
per mettere in risalto i numeri”: il musicista John
Cage. Negli anni cinquanta Cage aveva inciso su
disco tanti racconti, ognuno di sessanta secondi.
Greenaway si sbagliò e contò 92 racconti, mentre in
realtà erano solo 90. Quando il film The falls venne
mostrato a Washington uno spettatore entusiasta
disse a Greenaway che gli era piaciuto molto l’utilizzo
del numero 92, numero atomico dell’uranio, in un film
che trattava come il mondo poteva finire!
In molti film ha prevalso poi l’utilizzo del
numero 100 ( i 100 numeri erano disseminati in tutte
le scene di Giochi nell’acqua). 100 era anche il numero
di oggetti nella mostra organizzata da Greenaway
100 Objects to Represent the World, che ha girato a
lungo in Europa. A Venezia nel 1999 il regista inglese
annunciò che con il prossimo progetto, Tulse Luper
Suitcases (sottotitolo “il racconto dell’uranio”),
sarebbe ritornato “pieno di speranze alle primitive
mitologie e al magico numero atomico 92”. E in
effetti i numeri sono tra i protagonisti del film, una
lunga storia, divisa in diverse parti, della vita di Tulse
Luper. Che in realtà è qualcosa di diverso da un film,
un’opera multimediale si potrebbe dire, banalizzando.
Con alcuni momenti molto coinvolgenti, e altri dove
prevale il “racconto”, anche irritanti, ma comunque
sempre molto curati visivamente.
Tutto è numerato nel film, catalogato si
potrebbe dire. I personaggi, che saranno 92, i secondi
dei filmati d’epoca che compaiono nella pellicola.
Il tempo è sempre stato un fattore importante del
cinema di Greenaway, e d’altra parte non esisterebbe
il cinema senza lo scorrere del tempo, calcolato in 24
fotogrammi al secondo. Ci sono numeri che volano
sulle immagini che compongono forme. Sono numerati
i pugni che riceve in ogni sequenza il protagonista.
Alle volte le figure che compongono i numeri servono
a distrarre dalla visione stessa delle scene, a far
cogliere che si sta guardando della sequenze della
vita del protagonista ma non si deve essere troppo
coinvolti. Stiamo assistendo a una catalogazione, a
un esperimento numerato, filmato, contato. Che alle
volte coinvolge, altre volte no.
Chi è il protagonista, Tulse Luper? È un
collezionista, si potrebbe dire, è il regista, che ogni
tanto immette nel film alcuni richiami di altri suoi
lavori. Greenaway riprende le idee che funzionavano
molto bene nel documentario su Darwin e nel film
Prospero’s Book. Nel primo, sulla scrivania dello
scienziato apparivano immagini di animali, mondi,
navi, oggetti, uomini. Tutto il mondo passava da
quella scrivania senza che mai Darwin si muovesse. Il
mondo in una scatola, la scatola cinematografica. Così
come nel film tratto da La Tempesta di Shakespeare,
(Prospero’s Book) è l’enciclopedia del sapere che
riempie la scena. Per capire, per comprendere, bisogna
catalogare, numerare, avere un sistema, avere delle
liste, ricordare. Certo non per caso si parla del nazismo,
della violenza, dei numeri dei deportati. Il metodo, il
sistema, che diventa la perversione, l’inferno, l’uomo
come numero, senza nessun coinvolgimento.
Tutto è numero. I pezzi di carbone, che
diventeranno le montagne nelle avventure di Luper.
Perché tutto è già scritto, numerato. E ogni oggetto,
gli oggetti che descrivono il mondo tornano a essere
92, e 92 è il carbone. E tutto viene sistemato in valigie.
In un gigantesco gioco dell’oca, in cui ogni casella ha
una sorpresa. Come catalogavano tutto i nazisti. I
nasi, le bocche, i visi. Il bambino è il numero 15; 43 è
la macchina da presa. L’avventura umana ricondotta
in scatole e numeri. Il pesce 53, la vasca da bagno
5. Negli scaffali dove tutto il contenuto delle valigie
di Luper viene sistemato, un uomo, rannicchiato, ha il
numero 92. Il fascino dei numeri, ma anche il fascismo
dei numeri. Il delirio di trasformare milioni di persone
i numeri, del contare, della contabilità di milioni di
persone (o di semplici numeri, che sono molto più
facilmente contabili).
Il film non finisce, ovviamente; continua,
la numerazione deve arrivare a 92. Numeri, numeri
ovunque che segnano il tempo della nostra vita, che
ci indicano, che ci condizionano. E dai sognatori di
numeri, i matematici. Il fascino dei numeri, il fascino
dei matematici. Oramai per vincere un premio come
miglior attore, per essere candidato a un Oscar, bisogna
interpretare il ruolo di un matematico, fascinatore e
sognatore.
Che personaggio poteva essere in un
film il candidato a un trapianto di cuore, che dopo
l’intervento decide di andare alla ricerca del donatore,
lo trova, nel senso che scopre che il donatore è stato
ucciso in un incidente d’auto? Quindi vuol conoscere
la moglie, la vedova, la seduce e quando sono a
letto e lei scopre le cicatrici dell’intervento al cuore
e di chiede cosa si tratta, risponde “È il cuore di tuo
marito” e allo sgomento di lei – comprensibile credo
– se ne esce con una delle battute memorabili della
storia del cinema: “Ma è un cuore buono!!!”. Non
può trattarsi che di un matematico, che per affascinare
la recentissima vedova se ne esce con battute del
tipo: “ Tutto è numero, la natura opera tramite la
matematica”. La geometria della natura è caotica,
frattale. Insomma, i sistemi complessi visti tante volte
al cinema. La stessa matematica che hanno utilizzato
matematici e psicologi per cercare i modelli di una
“matematica del matrimonio”. “È la matematica
che ha permesso il nostro incontro”. Non Dio, come
crede l’altro protagonista, il cattivone pentito (Benicio
del Toro). Si tratta del film 21 Grams di Alejandro
Gonzáles Iñárritu; protagonista, il matematico Sean
Penn. Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia,
candidato all’Oscar come migliore attore. Certo un film
di un regista messicano, barocco, ricorsivo, ossessivo,
frattale. Eccessivo, ripetitivo. Preferisco il fascino dei
numeri astratti, sarebbe troppo facile dire...senza
cuore.
tratto dal volume
“Visibili armonie” di Michele Emmer,
Bollati Boringhieri 2006
transatlantico23
di Leonardo Zunica
ogni cosa
è (comunque)
illuminata - II parte
Intermezzo 1. Coincidenze
Carl Gustav Jung, in uno dei suoi ultimi scritti, cerca di spiegare
come alcune cose a volte accadono secondo un principio
stocastico non ortodosso, che lui chiama sincronicità. Ovvero
coincidenze, fatti che si presentano alla nostra esperienza e ci
forzano a considerare principi non razionali. Lui, questi principi, li
definisce nessi a-causali. Oppure, più semplicemente, si potrebbe
anche pensare che ognuno viva la propria esperienza secondo
un proprio ignoto ma svelabile archetipo, il quale fa del mondo
una continua fabbricazione di coincidenze, su misura, a propria
immagine: un mondo come postulava William James, e poi anche
i cibernetici, in cui la nostra esperienza del reale produce di
continuo il reale.
Il libro che Giovanna mi ha prestato per il viaggio, parla di Ebrei ucraini
ed è ambientato a Luzk.
Il nome dell’autore (Safran) è anche il nome di un bar di Vinnizia (più
vecchio del libro).
L’ultimo concerto che facciamo è in una sinagoga, adibita, dopo le
epurazioni staliniste, a sala da concerti.
Il protagonista del libro è vegetariano, come Xenia, la fidanzata di
Oles che ci segue nel viaggio. E mangia solo patate, come la fidanzata
di Oles.
L’altro libro che ho preso con me è di Henry James, fratello di William
James.
L’ex direttore della Philarmonia di Zhytomir assomiglia a Sean Connery.
Anche l’amico di Kiev, Anatoly, incontrato l’anno scorso, assomigliava
a Sean Connery.
L’attuale direttore della Philarmonia di Zhytomir è stato a Poggiorusco
(Mn). Non sono mai stato a Poggiorusco. Ma è come se ci fossi stato.
Lesia e la sua amica, le uniche due ragazze con le quali faccio amicizia,
sono dello Scorpione.
transatlantico24
Intermezzo 2.
Kiev appare nel suo splendore. E’ illuminata come un palazzo orientale, e ingioellata come
una donna. La gente si riversa sul kreshatik, la grande, monumentale via centrale, e canta
e balla. Kiev non è l’Ucraina come New York non è gli Stati Uniti. Al di là dello Dnepr si
accalcano i nuovi quartieri, sulle macerie delle periferie di ieri. Giganteschi silos inzuppati
di vite umane sembrano nascere dal nulla. Come a Las Vegas nascono dalla polvere di un
deserto, queste nuove, sterminate cose abitate, fanno pensare ai racconti di fantascienza,
in cui i panorami disumanizzati sono lì a testimoniare un mondo che fatica a riconoscersi.
Pop Star
L’autobus che porta a Rivne parte dalla stazione dei treni di Kiev. Non è un vero e proprio
autobus. È un cabinato, a 12 posti, che qui chiamano marshrutka. Costa il doppio degli
autobus statali, ma è molto più veloce. Ogni giorno, in Ucraina, milioni di persone si
spostano con questi mezzi. Impieghiamo 4 ore per arrivare a Rivne, città che ogni giorno si
affolla di gente per il bazaar, mercato all’aperto dove si trova tutto il necessario. A pranzo
Pavlo Baginsky, il direttore d’orchestra, coreano di Mosca, figlio delle politiche transrazziali
del comunismo orientale e trapiantato in Ucraina, mi delucida sulle differenze tra gli
aggettivi rusky – russisky. Dice: “Tutto quello che si riferisce alla grande stagione culturale
della Russia fino al crollo della Soyuz è chiamato rusky. Tutto quello che viene dopo, invece,
è russisky”. Leggo in questo attento specificare un tono quasi dispregiativo,nei confronti
della nuova Federazione Russa. Non corre buon sangue fra molti russi e molti ucraini.
Dopo il concerto, foto finale con ragazzine che studiano il francese ma che evidentemente
trovano l’Italiano egualmente esotico. Poi aspettiamo le due di notte nella stazione degli
autobus, circondata da qualche locale notturno dal quale fuoriescono barcollanti minigonne
e chiassose sacche di pelle nera; involucri accattivanti i primi e disgustosi i secondi, che
contengono la vita notturna di Rivne. Arriviamo a Kiev alle sei e trenta, dopo una notte
insonne passata ad ascoltare alla radio le pop stars dell’ex-madre russia.
il lungo ritorno (1)
Nella mia stanza c’è un odore acre e pungente di piscio. Alzo la testa sul soffitto e scopro
una colonia di zanzare che sopravvivono purtroppo anche con il freddo. È l’Hotel che ci
ospita a Dnipropetrovsk, città che non ha ancora cambiato i nomi delle vie dopo il crollo
dell’Unione sovietica. La sala della Philarmonia si trova in Lenin Uliza, mentre l’albergo
nelle vicinanze della Marxiskaja. Il teatro è in remont e i soldi per la ristrutturazione si
raccimolano ospitando all’entrata un bazaar che vende ogni cosa: spazzolini da denti,
accessori per la casa, indumenti a costi popolari, giornali, pellicce sintetiche. Si accede sul
palco da un’entrata laterale, dove in vestito da concerto passiamo attraverso una fumosa
sala da biliardo (noto al tavolo una bionda e una mora con pantaloni neri attillati che
maneggiano la stecca, soddisfando appieno il più esigente immaginario maschile) e di
video poker, che qui chiamano automaty, ai quali sono automaticamente attaccati giovani
dall’aria poco simpatica.
A Dnipropetrovsk in pochi parlano ucraino. Il russo è la lingua ufficiale. L’Italia, come al
solito, è un immaginario collettivo, una specie di sogno presente nelle vie, nella gente: ma
un sogno che si frantuma nella catena di ristoranti Celentano (dove si mangia malissimo),
nelle canzoni di Ramazzotti e Masini alla radio, nel concerto di Toto Cotugno. E vedere il
suo nome in cirillico fa un certo effetto.
Arriviamo, scendendo a sud-est da Kiev verso Poltava, da Kharkov, ex capitale ucraina
dell’era sovietica. Fa un milione e mezzo d’abitanti e vi si trova la più grande piazza
d’Europa, come dice la guida, in stile post-cubista. In piena crescita economica Kharkov è
una città viva, piena di cafè-bar, negozi e ristoranti. La Russia è a soli 15 chilometri. Alla sera
dopo il concerto si mangia con Sergey, moscovita ma con origini del Kazakstan, che vive
da quindici anni a Singapore ed è appassionato di musica. Di lavoro installa impianti audio
per auto. Entusiasta del nostro concerto ci offre la cena in uno dei ristoranti più frequentati
dai nuovi ucraini, legittima estensione dei nuovi russi: il Pappagallo Verde. Effettivamente,
come mi mostra fieramente un cameriere fin troppo ossequioso, il variopinto animale se ne
sta nella sua gabbia. Insieme a lui popolano il ristorante energumeni dai colli schiacciati,
vestiti di nero o panna con cravatte sgargianti, accompagnati da bionde ossigenate in
rosso-viola-rosa, con stivali neri fino alle ginocchia, e che fumano, una dietro l’altra, le
sigarette sottili, quasi-simbolo dell’emancipazione femminile.
Prima di andare a dormire guardo fra le mie cose, e trovo uno spartito che una tale Olga
Eduardovna (come leggo sul biglietto da visita) mi ha consegnato subito dopo il concerto.
Mi dice: “questa è una mia composizione, tu devi suonarla”. Poi farfuglia qualcosa che
non capisco. I suoi occhi sono segnati da un’incalcolabile tristezza, e il suo corpo, ricurvo e
modesto, appare provato, forse da qualche malanno cronico. Nello stringerle la mano e nel
ringraziarla le provoco una smorfia di dolore che non so recuperare. Si prova qualcosa che
deve assomigliare alla vergogna nel non capire ciò che le persone dicono, nel non sapere,
alla fine, chi sono e da dove vengono.
Intermezzo 3. prima del lungo ritorno
Cioran dice, in Storia e Utopia, che il popolo russo (estendo la cosa anche agli ucraini)
possiede una speciale inclinazione ed ossessione per la grandezza. Bolshoy (grande; sic)
kolossalna, catastropha, sono normali aggettivazioni disseminate nei discorsi degli abitanti
di questo pezzo di pianeta. Vi è nell’eloquio un’appariscente e megalomane tendenza
all’approssimazione per eccesso. Il risorgimento dell’anima slava/russa/ucraina si attacca
ad un’isterica quanto encomiabile attenzione per le manifestazioni di quell’individualismo
eroico e anche un po’ maschilista (e oggi, comunque, consumistico e lievemente
pornografico) che l’etica comunista ha cercato di estirpare, ottenendo al contrario una
generazione di nazionalisti e sessisti, per la verità, un po’ goffi.
il lungo ritorno (2)
Quattro giorni ci separano dalla frontiera ungherese. Sulla via sbagliamo strada e ci
troviamo faccia a faccia con la Moldavia. Non nascondiamo una certa curiosità di varcare
il limite, visto, a quanto si dice, che in Moldavia ci siano delle donne bellissime. Non
appuriamo la cosa e, dopo 900 km di autostrada ucraina, pensiamo bene di fare rotta
verso Ivano – Frankivsk e poi, l’indomani, verso Uzgorod, dove abbiamo l’ultimo concerto.
Ci fermiamo per una visita alla città. Di fronte alla chiesa della Madre del Nostro Signore
di Ivano-Frankivsk (nome attribuitole solo negli anni ‘60, in onore al poeta nazionale Ivan
Franko) ci si rende conto di come Dio qui sia forte e fisico, corporeo. Il senso religioso che
trasuda dalla gente è fatto di ardenti baci alle icone, di un continuo e danzante segnarsi
in senso contrario al segno cristiano-romano, di ex-voto depositati ai piedi delle immagini
votive. L’inginocchiamento repentino e senza esitazione di vecchi e giovani ha qualcosa di
imbarazzante e allo stesso tempo ammirevole, come è imbarazzate ed ammirevole ogni
segno che unisce in sé abbandono, fiducia, speranza, rassegnazione.
A Uzgorod, tranquilla cittadina adagiata sul fiume Uz, e appoggiata al confine slovacco,
alloggiamo nel sovietico Hotel Zakarpathia, al decimo piano, in classe economica, cioè
senza televisione. L’acqua calda c’è, come sempre, al mattino e alla sera. Di fronte alla mia
stanza una nuova cattedrale ortodossa. Ma pare di stare a Baghdad. Mangiamo benissimo
in un ristorante che si chiama Old Continent, a nostre spese. Un opuscolo turistico rivela
come qui vivano, side by side, ucraini, rom, slovacchi, cechi, ebrei, ungheresi. Il concerto
è domani alle 18.00, mentre alle sette e mezza di mattina dobbiamo essere pronti per
apparire su TeleUzgorod, per l’ennesima intervista.
Siamo sicuri che andrà tutto bene.
transatlantico25
nella foto Emilio Jesi e Marino Marini
la poesia è tratta dalla raccolta ‘Lathe biosas’
Galata Edizioni, Genova 2008
gentilmente concessa dall’autore
di Ivan Fiaccadori
Il tempo è galantuomo, si dice. Eppure talvolta anche
chi galantuomo lo è stato può subire l’oblio, quasi una damnatio
memoriae, se viene a mancare quell’attenzione e curiosità per la
sostanza che forma la Storia.
Forse questo è quanto accade oggi a Emilio Jesi (1902 - 1974).
Nell’anno dei festeggiamenti per i 200 anni della Pinacoteca di
Brera, il visitatore attratto dalla ricorrenza, dopo aver osservato
già qualche decina di capolavori di scuola veneta e lombarda,
oltrepassato il salone delle grandi tele, quasi magicamente rischia
d’imbattersi in una rassegna di autori che costituiscono l’ossatura
dell’arte novecentesca italiana, quali Boccioni, Carrà, de Pisis,
Modigliani, Morandi, Marini, Sironi e Severini, solo per citarne
alcuni, tutti collocati in una stretta manica che costringe ad una
visione fin troppo incalzante delle opere.
Ebbene, la formazione di questa sezione straordinaria per qualità
e coerenza si deve soprattutto alla donazione fatta allo Stato da
Emilio Jesi e dalla moglie Maria, che hanno voluto dedicare la
propria raccolta, distillato mutevole della loro vita, “agli artisti e
agli amatori d’ieri, d’oggi e di domani”.
Ed è stata questa ri-scoperta artistica, propiziata da frequentazioni
estive e da incombenze milanesi, e non il napoleonico bicentenario,
a sollecitarci la necessità curiosa di conoscere meglio la figura di
Emilio Jesi.
Alcune persone scelgono anche inconsciamente di assegnarsi un
proprio ruolo nel mondo, ed Emilio Jesi si è ritagliato quello del
cultore dell’arte, o forse meglio del savoir vivre, in senso profondo,
più che semplicemente mondano.
Come uomo, egli è vissuto per l’arte a lui contemporanea nel segno
della ricerca/raccolta/lascito. È per questo che la sua vicenda umana
pare meritevole di attenzione per l’estrema passione artistica e
civile, ma anche per una certa riservatezza nel condurre la propria
vita.
La traccia della sua visione dell’arte è paradossalmente molto
evidente, sotto gli occhi di tutti, ed è rintracciabile tra queste due
polarità: l’impressionante collezione di opere del Novecento che
porta il suo nome presso Brera e la Torre Belforti di Montecatini Val
di Cecina, piccolo borgo toscano affacciato sulle crete di Volterra.
Tra queste due evidenze si snoda la storia di un uomo che, come
ricordato dal nipote Daniele Bollea, considerava le opere d’arte
come ‘amici’, come graditi ospiti in grado di portare significato
e vita nella sua austera ed elegante casa, ma anche di sviluppare
relazioni personali complesse con artisti, critici e mercanti.
Attratto fin da giovane dall’arte, Emilio Jesi, terminati gli studi
giuridici, aveva scelto di dedicarsi all’attività di famiglia, restando
comunque intimamente legato al mondo artistico romano, ma
ampliando poi il suo raggio d’azione tra Genova e Milano, con
transatlantico26
quella disinvoltura tipica dell’intellettuale prestato agli affari.
Suggestivo il racconto di Miriam Mafai del 1982, in visita al primo
nucleo della collezione Jesi nell’allestimento pensato da Ignazio
Gardella. Lì testimonia che il rapporto tra i propri genitori (Mario e
Antonietta Raphael) e il committente non era fatto solo di rapporti
economici, ma soprattutto di frequentazione, di affetto e persino di
protezione, specialmente durante i tempi duri della guerra e della
discriminazione razziale trascorsi a Genova.
Ma l’interesse per condividere il suo “distillato” artistico con la
società viene perseguito anche prendendo dei rischi. È infatti Gian
Alberto Dell’acqua, funzionario all’epoca della Soprintendenza
milanese, che ci ricorda come Emilio Jesi, nel 1942, avesse prestato
14 opere per una mostra monografica su Carrà nelle sale di Brera
sotto la dicitura di “Collezione della Lanterna” scegliendo quindi
l’anonimato per motivi di cautela nel periodo delle persecuzioni
antisemite. Quella mostra era stata pensata per occupare gli
spazi lasciati liberi dalle tele degli antichi maestri, già trasferite
per precauzione a Perugia, ed era stata voluta per mantenere
vivo il confronto sulla scena milanese. Va infatti riconosciuto a
quell’ambiente artistico un alto senso d’appartenenza civica, come
dimostrato in quegli anni difficili dall’associazione degli Amici di
Brera che nel 1939 aveva deciso di donare alla Pinacoteca la Cena
di Emmaus di Caravaggio.
L’amicizia e la stima reciproca con Russoli, soprintendente milanese
tra il 1973 e il 1977, consentono a Jesi di realizzare il suo disegno
critico sull’arte moderna attraverso la donazione a Brera della sua
collezione/creazione, scegliendo di metterla in relazione con l’arte
del passato per diventarne riscontro, e non di venire ammutolita nella
‘specializzazione’ e nell’autoreferenzialità dei musei monotematici.
E così, con perfetta simmetria d’intenti, alla fine degli anni ‘60, in
cambio di un credito commerciale inesigibile, decide di riscattare
il rudere della torre Belforti di Montecatini Val di Cecina e di dar
corso ai lavori di restauro del manufatto lapideo trecentesco, quasi
a voler saturare in modo definitivo la sua passionale attrazione
per la scultura. Il manufatto storico, riferimento pubblico su scala
territoriale, come un enorme totem piantato nelle colline toscane,
può essere interpretato come un punto esclamativo posto alla fine
di un lungo, costante, devoto e operoso discorso recitato proprio
“agli artisti e agli amatori d’ieri, d’oggi e di domani”.
È per tanti motivi, ma soprattutto per questa idea di patrimonio
artistico aperto e inserito nel continuum del tempo e della civitas,
che dobbiamo ricordare la visione di Emilio Jesi e forse ricominciare
a seguire e decifrare quelle tracce che ha lasciato durante il suo
cammino nell’arte e nella società.
Filippo de Pisis, Fiori alla finestra
Filippo de Pisis, Natura morta con fiori e bottiglia
Filippo de Pisis, Le peonie
Filippo de Pisis, Natura morta con cestino di frutta
Filippo de Pisis, San Moisè
Filippo de Pisis, Grandi fiori
Filippo de Pisis, Lungosenna agli Invalidi
Filippo de Pisis, Parigi con la fabbrica
Filippo de Pisis, Natura morta marina con la pavoncella
Filippo de Pisis, Natura morta marina con scampi
Filippo de Pisis, I pesci sacri
Filippo de Pisis, Natura morta con le uova
Carlo Carrà, La segheria dei marmi
Carlo Carrà, La casa dell’amore
Carlo Carrà, Madre e figlio
Carlo Carrà, La camera incantata
Carlo Carrà, La musa metafisica
Carlo Carrà, Ritmi di oggetti
Massimo Campigli, Il giardino
George Braque, Le gueridon vert devant la fenètre
Pierre Bonnard, Ritratto di Marta Bonnard
Umberto Boccioni, La città sale
Umberto Boccioni, Rissa in Galleria
Afro Basaldella, Silver dollar club
presso la Pinacoteca di Brera
Collezione Jesi
Emilio Jesi, una vita per l’arte
la torre del merlo
di Daniele Bollea
Mecenate prossimo alla morte
mio zio restaurò un’antica torre.
Lo rattristava l’arte del tempo
e il Medio Evo sentiva alle porte.
Forse per espiare, ascendeva zoppo
le molte scale della torre Belforti,
o forse per trovarsi in assetto
per rampe ultraterrene. Ateo incerto,
di tutto dubitava salvo del bello:
base indefinibile di tutto, per cui
puoi vivere senza sapere cos’è.
Ma poi che sulla verità non si fa tana
e a nessuno è concessa l’esclusiva
soleva dire: tu sai quel che sai dire,
il resto è inganno.
Come a lasciarsi dietro tanti inganni
saliva quelle scale Emilio Jesi.
La terza sala in verticale
ha finestre da ogni parte,
vedi città, paesi, monti, laghi e il mare.
Sospeso in quella aereo-nave del ‘300
sostava ammutolito il vecchio ebreo,
così come attonito si arresta,
in vista della meta, il pellegrino.
Poi, pensando al costoso supplizio,
rideva di sè dicendo che quella
era la torre del merlo.
transatlantico27
Wols, Composizione IV
Ardengo Soffici, Santa Cristina
Ardengo Soffici, Cocomero e liquori
Mario Sironi, Paesaggio urbano con ciminiera
Mario Sironi, Paesaggio urbano con viandante
Mario Sironi, Paesaggio urbano
Mario Sironi, La lampada
Mario Sironi, L’atelier delle meraviglie
Mario Sironi, Il camion
Gino Severini, Grande natura morta con la fruttiera
Gino Severini, Grande natura morta con la zucca
Gino Severini, Le Nord-Sud
Scipione, Ritratto della madre
Scipione, Natura morta con sogliole e moneta
Scipione, Il cardinale Vannutelli sul letto di morte
Medardo Rosso, Dame à la voilette
Medardo Rosso, Bambino ebreo
Medardo Rosso, La petite rieuse
Ottone Rosai, Concertino
Ottone Rosai, Casa toscana
Ottone Rosai, Natura morta: il banco del falegname
Antonietta Raphael de Simon Mafai, Passeggiata archeologica
Serge Poliakoff, Composizione
Pablo Picasso, Testa di toro
Giorgio Morandi, Paesaggio (1936)
Giorgio Morandi, Paesaggio (1932)
Giorgio Morandi, Natura morta (1929)
Giorgio Morandi, Natura morta (1929)
Giorgio Morandi, Paesaggio (1925)
Giorgio Morandi, Autoritratto
Giorgio Morandi, Natura morta (1921)
Giorgio Morandi, Natura morta metafisica con la squadra
Giorgio Morandi, Natura morta (1919)
Giorgio Morandi, Natura morta (1918)
Giorgio Morandi, Fiori
Giorgio Morandi, Paesaggio (1916)
Giorgio Morandi, Paesaggio (1914)
Amedeo Modigliani, Ritratto d’uomo (trafugato nel 1986)
Amedeo Modigliani, Testa di giovane donna
Amedeo Modigliani, Ritratto del pittore Moisé Kisling
Arturo Martini, Ofelia
Arturo Martini, Bevitore
Marino Marini, Miracolo (Cavallo e cavaliere)
Marino Marini, Pomona (Nudo)
Marino Marini, Ritratto di Emilio Jesi
Marino Marini, Il miracolo(Cattedrale)
Marino Marini, Giovinetta (Nudo femminile o Nuda)
Marino Marini, Pomona sdraiata (Pomona)
Mario Mafai, Fiori secchi
Mario Mafai, Bue squartato
Osvaldo Licini, Angelo ribelle con luna bianca
Osvaldo Licini, Il bilico
Maurice Estève, Interieur à la baie
Filippo de Pisis, Natura morta marina con la penna
Filippo de Pisis, Ritratto di donna
Filippo de Pisis, Fiori nel bicchiere e libro
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