Quattro notti con i Ricercatori 3°Incontro Il DNA antico. Studio

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Quattro notti con i Ricercatori
3°Incontro
Il DNA antico. Studio genetico di reperti biologici del passato
Elisabetta Cilli
Nella terza serata di “Quattro notti con i Ricercatori” la dott.ssa Elisabetta Cilli conduce il pubblico alla
scoperta del DNA antico. La prima parte dell’intervento è dedicata innanzitutto alla definizione del concetto
di DNA, ovvero la molecola che regola il funzionamento del nostro organismo ed è presente in tutte le
cellule del nostro corpo (si stima una cifra intorno ai 100 mila miliardi di cellule). Per dare un’idea delle
proporzioni, se srotolassimo quello racchiuso in una sola cellula, che occupa lo spazio di un centesimo di
millimetro, sarebbe lungo all’incirca due metri. Due sono le tipologie di DNA, ovvero il DNA mitocondriale
e il DNA nucleare. Il DNA nucleare è caratterizzato da quattro basi (timina, guanina, adenina e citosina),
come un testo scritto con soli quattro caratteri, che formano una struttura a doppia elica chiamata
cromosoma. Il DNA mitocondriale (mtDNA) invece rappresenta lo 0,0006% del DNA nucleare e si presenta
organizzato come un doppio filamento circolare. Elemento fondamentale è il fatto che sia ereditato solo per
via materna e che presenta un alto numero di copie per cellula, caratteristica primaria per la ricerca nel
campo del DNA antico. Il DNA pertanto è la molecola della vita che contiene tutte le informazioni che
regolano il funzionamento del nostro organismo, dalla nascita alla crescita, ma anche la storia delle specie,
delle popolazioni e degli individui. Le moderne tecnologie di analisi del DNA antico pertanto permettono di
ritrovarlo nei resti del passato e di decifrarlo, effettuando l’analisi genetica di campioni provenienti da reperti
biologici, animali o vegetali, quali ossa, resti mummificati, sedimenti, coproliti o organismi crioconservati. I
primi studi iniziarono a metà degli anni Ottanta, con l’estrazione del DNA da 23 mummie egizie ad opera di
Svante Pääbo e quella dai reperti museali di quagga, un antenato della zebra. Proprio questo filone di ricerca
spinse diversi studiosi a tentare, fino agli inizi degli anni Duemila, la codificazione di sequenze di DNA di
animali estinti, ma fu ben presto evidente che i risultati ottenuti erano frutto di contaminazione. La
degradazione del DNA e la contaminazione da DNA moderno sono le principali problematiche di analisi in
cui ci si imbatte e sono necessarie alcune favorevoli condizioni ambientali di deposizione del reperto che
possano facilitare la conservazione come temperatura bassa e costante, assenza di microrganismi, alta
concentrazioni di sali e assenza di ossigeno. Il DNA inoltre ha un tempo massimo stimato di sopravvivenza e
oscilla a seconda degli ambienti. Il rischio più grande per chi estrae DNA, come già ricordato, è certamente
quello della contaminazione e le cause risiedono nei microrganismi oppure negli stessi operatori che
lavorano sul reperto. Al fine di evitare tutto ciò, è essenziale rispettare alcune regole fondamentali. In
laboratorio è necessario un locale dedicato all’analisi del DNA antico, strumenti e reagenti devono essere
accuratamente sterilizzati, tutti gli operatori essere adeguatamente vestiti con camici, guanti, mascherine,
occhiali e cuffie e il loro DNA tipizzato. Essendo la contaminazione irreversibile, ed essendo comunque
assai difficile tipizzare tutti gli individui che sono venuti in contatto con il reperto, la contaminazione può
essere ridotta, trattando in maniera opportuna il campione e prelevando materiale solo dalla parte interna
dell’osso e del dente, senza dimenticare di maneggiarlo con guanti e mascherina come minimo. Messe da
parte le quotidiane problematiche della contaminazione e della degradazione, l’attenzione della dott.ssa Cilli
si sposta maggiormente sull’analisi vera e propria. I campioni dai quali è possibile estrarre DNA sono denti,
ossa, tessuti mummificati, coproliti, sedimenti, semi, capelli o carotaggio di uno strato di ghiaccio, ma i
primi due elementi, in particolar modo, appaiono i più indicati. I campioni ideali per l’analisi del DNA antico
perciò presentano un aspetto esterno la cui superficie è liscia e intatta, la patina simile all’avorio e l’osso
appare compatto e denso. Le informazioni ricavate permettono così di capire chi fosse l’individuo, i tratti
somatici caratteristici, le malattie genetiche o l’origine geografica. Uno degli aspetti che è importante
sottolineare è quale sia il contributo dello studio del DNA antico allo studio dei resti archeologici.
Innanzitutto permette di chiarire interrogativi che l’antropologia classica può solo in parte come i rapporti di
parentela in sepolture multiple (ad es. madre con i propri figli) o stabilire i pattern di migrazione riguardo
alla composizione per sesso dei colonizzatori di un'area. Ma può contribuire all’analisi morfometrica di
reperti, nell’individuare relazioni filogenetiche tra popolazioni o nella ricostruzione di tratti somatici. Le
applicazioni dello studio del DNA antico sono necessarie per l'identificazione personale, per comprendere
l'evoluzione dell'uomo e per il riconoscimento di specifiche patologie infettive. L’aspetto dell’identificazione
personale, quando il DNA antico è applicato come DNA forense, assume un fascino particolare nel momento
in cui s’interviene su resti di personaggi famosi. Uno degli esempi proposti è il caso di Niccolò Copernico, il
cui riconoscimento è stato possibile confrontando il DNA estratto da alcuni capelli rinvenuto nel volume
Calendarium Romanum Magnum, ritrovato nella biblioteca svedese di Uppsala e appartenuto all’astronomo
polacco, con quello estratto dall’individuo ritenuto tale, sepolto nella Cattedrale di Frombork. Per
comprendere invece aspetti dell'evoluzione umana è necessario fare un salto indietro per trovare risposte più
certe a domande sul chi siamo, da dove veniamo e chi sono i nostri progenitori. Nel 2006, il già citato Svante
Pääbo ottiene il DNA nucleare da un Neanderthal e scopre che essi condividono con l'uomo moderno tra l'1 e
il 4% del genoma, così come altri studi hanno evidenziato una variante del gene MC1R che definisce il
colore rosso dei capelli o il gene FOXP2 per quanto riguarda il linguaggio. Altri casi di particolare rilevanza
sono quelli riferibili ai rinvenimenti nelle grotte di Denisova in Siberia o a Sima de los Huesos in Spagna, nei
quali le analisi effettuate hanno permesso l’apertura di nuove ipotesi nell’albero evolutivo della specie
umana. Per l'identificazione di patologie infettive, il punto focale è comprendere l'evoluzione dei patogeni
nello spazio e nel tempo, come far luce sul loro stato attuale nelle popolazioni viventi e quali le ipotesi future
sulla loro evoluzione. La World Health Organization indica che le malattie infettive sono responsabili del
26% dei decessi registrati ogni anno nel mondo e sono causate da patologie emergenti e riemergenti.
Attenzione particolare viene rivolta alla peste, prendendo in considerazione le più grandi pandemie della
storia dalla peste di Atene del IV secolo a.C fino alla peste nera del XVI secolo. Quest’ultima in particolare
fu una delle più devastanti nella storia della umanità, capace in soli 5 anni di causare tra i 25 e i 50 milioni di
morti nella sola Europa. Se nel Medioevo la peste era causa di elevata mortalità, ai giorni nostri provoca un
numero di vittime decisamente inferiore ma è considerata una malattia riemergente con circa 2000 casi
riscontrati ogni anno e un’incidenza pari all’1-5%. Le analisi effettuate sul make-up genetico hanno poi
permesso di capire che non ci sono marcate differenze dai ceppi moderni e hanno spinto gli studiosi a
domandarsi cosa potesse aver causato una tale mortalità in passato, essendo il corredo genetico
sostanzialmente lo stesso. Il clima, la suscettibilità genetica della popolazione ospite, la possibile presenza
simultanea di altre malattie, le differenti condizioni sociali appaiono le risposte più plausibili
all’interrogativo. L’ultima parte della serata si riallaccia all'incontro della settimana precedente ed è dedicata
all'analisi genetica delle mummie di Roccapelago. Lo studio condotto mirava a creare una banca biologica
dei membri della comunità del passato e di quelli attuali, a partire dal XVI secolo fino ai giorni nostri,
soprattutto perché la comunità di Roccapelago sembra che possa essere assimilabile ad una popolazione
isolata con un basso flusso genetico esterno. Inoltre si è cercato di individuare le linee parentali maschili e
femminili attraverso l'incrocio dei dati anagrafici dei registri parrocchiali e civili con quelli emersi
dall’esame dei marcatori del cromosoma Y e del DNA mitocondriale. Lo studio del microbiota intestinale e
la longevità riscontrata all'interno della comunità sono gli ultimi due punti d’interesse dello studio, con
riferimento al curioso caso della signora Dina Guerri, originaria proprio di Roccapelago, emigrata negli Stati
Uniti e per un breve periodo donna più vecchia del mondo, con i suoi 115 anni. Effettuati prelievi dai tessuti
molli, dai denti e dai femori delle mummie, ma anche dai vestiti e dal terreno, si è passato poi al
campionamento della popolazione moderna, e grazie allo studio dei dati ricavati dall'archivio parrocchiale, è
stato possibile selezionare i cognomi fondatori della comunità di Roccapelago. Oltre i dati anagrafici e
genealogici, quelli sulle abitudini alimentari e lo stile di vita, è stato possibile scoprire chi fossero gli antenati
degli attuali abitanti della piccola comunità dell'Appennino Modenese.
Simone Sergio
Area Comunicazione
Laboratorio di Antropologia
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