Fede e cultura: può la civiltà cancellare Dio? Giuseppe Angelini Fede e ragione, oppure fede e sapere? La prima formula suppone che la ragione sia fonte di sapere; la seconda suggerisce invece che il sapere ha sempre bisogno d’altro che di ragione. E anche di altro che rispetto all’esperienza sensibile. Ha bisogno di memoria, del sapere che si trasmette di generazione in generazione e attraverso le generazioni si rigenera. Ha bisogno di dialogo, e dunque della lingua; essa non è soltanto un codice di cui servirsi; è sempre anche un’incoativa visione del mondo. La lingua attinge alla figura del mondo elaborata dalla la storia e scritta nei modi di vivere comuni. Il sapere umano ha bisogno di cultura. E ogni cultura porta di segni di Dio. Nel lessico cristiano, come nel lessico di tutti, la categoria di cultura è entrata soltanto in tempi recenti. Appartiene ormai al numero delle categorie che non si possono evitare. Manca però ancora un’idea precisa. Tale difetto rende l’uso del termine assai confuso. Per suggerire il significato di cultura è utile procedere dalla nozione di senso. Il senso di tutte le cose noi lo conosciamo non certo grazie allo studio, o alla ragione; ma attraverso le forme concrete del vivere. Anzi tutto attraverso le relazioni primarie, che consentono di dare nome a tutte le cose, e con il nome anche il senso, le ragioni dunque di prossimità delle cose alla nostra vita. Potremmo definire la cultura proprio così, il complesso dei codici di senso sottesi alla vita comune. Tali codici sussistono non come realtà ipostatiche, ma grazie all’uso che ne fanno i singoli; esso non è mai tautologico, rigenera invece l’attitudine del codice a propiziare la percezione del senso – o magari deprecabilmente la sfinisce. La nascita dell’idea di cultura Il primo incentivo all’elaborazione dell’idea di cultura è venuto dallo studio delle popolazioni non storiche, di quelli che un tempo erano chiamati i primitivi; i loro riti e le loro abitudini apparivano incomprensibili a procedere dai codici di senso correnti; inizialmente si pensava che tale incomprensibilità dipendesse dalla loro ignoranza; lo schema sotteso era quello evolutivo: i primitivi sarebbero poi diventati evoluti. Presto però lo schema evolutivo fu mitigato. Edward Burnett Tylor, antropologo vissuto nell’età vittoriana, dunque in un tempo di notevole sviluppo coloniale e di grande fiducia nel progresso, nella sua opera Cultura primitiva (1871) ha dato una prima formulazione del concetto di cultura; essa ha la forma di un elenco; concorrono a definire la cultura conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e ogni altra attitudine che il singolo acquisisca in quanto membro di una società. Presso ogni popolo l’appartenenza sociale configura insieme una visione del mondo da parte del singolo; Tylor concepisce come elemento di cultura ogni competenza a vivere acquisita dal singolo grazie alla sua appartenenza sociale. La credenza in esseri spirituali – egli nota tra l’altro – è un ingrediente essenziale di ogni cultura; appunto da tale credenza si dipana una visione via via più complessa della religione. Il concetto di cultura introduce insieme l’idea che le singole credenze e usanze si possono comprendere soltanto nella correlazione reciproca e nella loro relazione con una pratica di vita; non invece per comparazione alla visione moderna del mondo. L’introduzione dell’idea di cultura nei discorsi sull’uomo si accompagna spesso ad uno schema semplicistico, che distingue natura e cultura, e addirittura le oppone. Quel che è solo culturale sarebbe per ciò stesso convenzionale, contingente, mutevole, non tale da impegna la libertà del singolo. In realtà, tra natura e cultura non si può tracciare una divisione materiale, sicché si possa attribuire l’una cosa alla natura e l’altra alla cultura; tutto è culturale, e insieme tutto trova il proprio fondamento nella comune natura umana. Il fatto che essa non sia mai adeguatamente nota, non si possa mai definire in termini concettuali, non è argomento sufficiente per smentire quest’evidenza: l’dea di natura umana è irrinunciabile; essa è nota sempre e solo in forme sempre parziali, disposte dalla cultura. Propongo un’illustrazione concreta, riferendomi alla differenza tra maschio e femmina. Naturale o culturale? Certamente naturale, e tuttavia riconosciuto nel suo senso grazie alle forme della cultura. Soltanto a condizione che alla differenza sia riconosciuto un senso essa è la differenza propriamente umana. Un recente filone di pensiero nord americano distingue – come noto – tra sex e gender; attribuisce il primo alla natura e lo intende in termini riduttivamente biologici (“scientifici”); attribuisce invece il gender alla cultura e lo intende come in nessuno modo normativo; addirittura disfare il genere e la sua indebita apparenza normativa è l’imperativo che propone la più nota fautrice della teoria del gender, Judith Butler. Quale sia il compito della teologia a fronte del processo di indeterminazione obiettiva del genere a livello di cultura per un lato, e a fronte della teoria che sancisce la fine del genere per altro lato, è facile intuirlo; l’intelligenza che procede dalla fede nel Dio Creatore, che maschio e femmina li creò, li benedisse e disse loro …, deve tenere insieme i due dati, la qualità naturale della differenza e la necessaria mediazione culturale del suo senso. Per tenere insieme le due cose, deve anzitutto produrre una teoria della cultura, così come una teoria della differenza sessuale che non la riduca in termini biologici; deve poi, con l’aiuto delle categorie elaborate, chiarire le dinamiche sottese ai presenti processi civili di indeterminazione del genere. La frattura tra cultura e coscienza Come accade per tutti i temi di riflessione fondamentale sull’umano, anche nel caso della cultura si produce un nesso prevedibile: finché la cultura va da sé non ha bisogno d’essere pensata; quando cessa di funzionare nasce l’interrogativo, e quindi la necessità dell’elaborazione teorica. In che senso la cultura cessa di ‘funzionare’? e quando cessa di funzionare? Possiamo distinguere, schematicamente, due momenti maggiori: quello segnato dall’epopea del moderno, e quello segnato invece dal momento di crisi del moderno e quindi del passaggio al postmoderno. Comune ai due momenti è l’aspetto di un distacco della coscienza del singolo dai codici di senso espressi dalla cultura comune; mentre in un primo momento al distacco si accompagna una sostanziale fiducia della coscienza soggettiva di potere sostituire al codice culturale messo in dubbio le risorse offerte da un’evidenza interiore, in un secondo momento la coscienza soggettiva riconosce di non potere prescindere dalle risorse simboliche della tradizione culturale; e tuttavia rivendica il potere di ricombinarle a propria discrezione. Anzi, afferma addirittura il dovere di una tale ricombinazione, senza della quale mancherebbe un’appropriazione personale e libera. Proprio l’esperienza religiosa offre le illustrazioni più eloquenti. Espressione tipica del distacco moderno della coscienza individuale dal codice sociale – in questo caso ecclesiastico – dei comportamenti è il rifiuto dei segni sacramentali. Il caso più chiaro è quello della confessione; il singolo dice: “Non ho bisogno del prete per confessarmi davanti a Dio, per chiedere e ottenere il suo perdono; lo posso fare interiormente, anzi è meglio che lo faccia così”. In effetti, la persona che ha avuto una pratica precoce della confessione attraverso di essa ha appreso un senso della confessione del peccato davanti a Dio, che può poi praticare senza atto sacramentale. L’esperienza insegna tuttavia come facilmente accada che, con il distendersi dei tempi, quella pratica della confessione interiore, che inizialmente era apparsa possibile e convincente, addirittura più convincente della confessione davanti al prete, conosca un progressivo illanguidimento e poi l’abbandono. Non molto diverso dal caso della confessione è quello stesso della Messa. Molti fino ad oggi dicono: “In chiesa vado più volentieri quando la chiesa è vuota e silenziosa; si prega meglio”; non considerano che quella loro preghiera silenziosa è resa possibile dal prolungato ascolto del vangelo da parte di loro stessi, e da parte dei molti attraverso la cui testimonianza ha preso forma la loro fede; la chiesa stessa, nella quale essi trovano il clima adatto per pregare, è uno spazio che ha potuto essere scavato nella città grazie alla celebrazione liturgica. Il distacco della coscienza singola dal codice ecclesiastico della vita cristiana è possibile, in un primo momento, proprio grazie all’interiorità della fede, che la tradizione ecclesiastica ha reso possibile. E tuttavia, la religione interiore è vissuta poi di fatto, ed è anche pensata, quasi fosse soltanto interiore. In un secondo momento – ed è il momento di quanti oggi sono ancora giovani e non hanno vissuto in età infantile una pratica ecclesiastica della fede proporzionalmente distesa nel tempo – viene a mancare la risorsa della memoria per vivere in forma interiore l’esperienza religiosa; in quel momento conosce facile fortuna il bazar religioso, nella forma della ripresa del Lumen orientale, magari del New Age, o anche della ripresa di tradizioni cattoliche tramite le nuove aggregazioni con forte connotazione emotiva. Qualche cosa di simile accade anche nel caso del rapporto tra coscienza individuale e cultura, tra vita del soggetto e forme nelle quali i significati elementari della vita trovano oggettivazione nella vita comune. Il soggetto singolo protesta la propria autonomia rispetto ai codici sociali, dai quali al di là della sua consapevolezza continua a dipendere. All’origine di tale frattura tra coscienza e cultura stanno i profondi e rapidi mutamenti della cultura, propiziati dall’avvento delle scienze, dal disincanto quindi del mondo, dall’avvento del mercato e quindi dalla separazione sistemica tra scambio economico e scambio simbolico, dalla laicità civile, e dunque dalla fine di ogni referenza della vita comune alla visione religiosa del mondo. Tutti questi fattori, oltre a mettere in crisi la cultura precedente, accedono un sospetto nei confronti della cultura in genere; paiono addirittura pregiudicare la possibilità che si realizzi una nuova cultura, e cioè una nuova oggettivazione sociale dei significati elementari della vita. Per rimediare alla crisi dell’antica visione del mondo i filosofi moderni progettano di sostituire la ragione e la scienza in genere alla tradizione (illuminismo). Nella stagione civile più recente (postmoderna) ci si rende però conto che le pretese evidenze di ragione, o comunque le evidenze della coscienza morale del soggetto, potevano apparire come evidenze non grazie alla ragione, ma soltanto grazie a una tradizione culturale. Gli ideali forti del moderno – libertà, uguaglianza e fraternità – erano evidenze propiziate dal costume costruito dalla lunga tradizione cristiana; lo sgretolamento di quel costume nella stagione recente dispone le condizioni per un vuoto culturale, che pregiudica la percezione del senso di tutte le cose ad opera della coscienza singola. Tale circostanza mette in evidenza la necessaria dipendenza della coscienza dalla tradizione. Il pensiero postmoderno prospetta una comprensione decostruttiva della tradizione culturale: ad essa sarebbe necessario attingere, certo; ma essa non proporrebbe alcuna visione del mondo, ma soltanto le risorse simboliche mediante le quali il singolo si costruisce in maniera autonoma, o addirittura autarchica, una propria visione del mondo. Rimane la negazione di ogni valore normativo alla tradizione; ma si riconosce la necessità che la coscienza del singolo attinga ad una tradizione per costruirsi un mondo. Prende allora consistenza la tesi del relativismo culturale: di qualche cosa come una patrimonio culturale non possiamo fare a meno; esso però deve servire al singolo per costruire un senso del mondo, non può invece valere come documento di una pretesa verità che lo preceda e lo convochi. La Chiesa cattolica e la nuova cultura Il cattolicesimo, che già s’era opposto in maniera vivace al progetto illuministico, quello dunque di un’emancipazione del singolo dalla tradizione e dal costume, da capo si oppone al relativismo culturale. E tuttavia, a partire dal Concilio esso registra la distanza ormai intollerabile che si è venuta a creare tra la propria lingua e la cultura comune, tra i propri costumi e quelli raccomandati dai nuovi stili di vita. In fretta proclama un programma di aggiornamento. In Italia la Chiesa, con il suo famoso progetto culturale, ha addirittura riconosciuto che il mutamento culturale costituisce il fattore fondamentale di crisi della fede stessa; la fede incontra difficoltà croniche a divenire principio di vita – sorgente di una visione del mondo e anche forma morale della vita – proprio a motivo della rapida trasformazione antropologica. Di conseguenza, la riforma pastorale della Chiesa deve di necessità passare attraverso un confronto critico con le nuove forme della cultura; deve descriverne la dinamica, denunciarne i rischi e suggerire i rimedi. L’uso della categoria di cultura è diventato nella lingua ecclesiastica recente assai insistente, addirittura inflattivo; ma ad esso non corrisponde ancora un’idea proporzionalmente precisa, né tanto meno una diagnosi articolata della transizione culturale che stiamo vivendo. Il difetto di pensiero dispone lo spazio propizio a rappresentazioni banalizzanti del compito di aggiornare la pastorale. Consistente è il rischio che il compito sia inteso come necessità di un adeguamento alle verità del giorno. Il compito è invece di prendere atto dei nuovi codici mediante i quali si realizza il riferimento ai significati elementari della vita o forse la loro rimozione, nelle forme effettive dello scambio sociale; quei codici non possono essere ignorati, se il ministero pastorale vuole comunicare con i contemporanei. La necessità di un aggiornamento del ministero è segnalata dalla percezione diffusa della grande distanza che divide predicazione, catechesi, e forme tutte del ministero dalla coscienza diffusa. Prendere atto dei nuovi codici non significa però adeguarsi ad essi. Occorre invece, a procedere dalla fede, istruire una critica determinata dei luoghi comuni dell’epoca. È un luogo comune – ad esempio – quello che descrive l’obiettivo della vita come autorealizzazione, o quello che pensa l’imperativo morale in termini di valori; la lingua oggi corrente nella Chiesa accoglie questi luoghi comuni come verità scontate; non sa riconoscere invece in essi la cifra di una malattia spirituale del nostro tempo, a riguardo della quale la coscienza cristiana deve essere istruita. La verità stessa del vangelo non è nota alla coscienza a monte della mediazione culturale. La teologia convenzionale non riconosceva il debito essenziale della coscienza nei confronti della cultura, della lingua appresa, delle forme tutte della vita comune; il modello della psicologia razionale faceva dipendere la conoscenza e ogni esercizio spirituale dell’uomo unicamente dalle sue facoltà. Il debito nei confronti delle condizioni sociali della vita s’impone alla comune evidenza soltanto a seguito dei rapidi mutamenti recenti; essi rendono trasparente il nesso che lega forme della coscienza e qualità dei costumi; quel che a una generazione appariva ovvio cessa di apparire tale alla successiva. Assume allora rilievo proporzionalmente maggiore il momento di un discernimento critico da parte della coscienza individuale nei confronti dei modi di dire, di fare, di sentire comuni. Il mutamento culturale rapido propizia la crescente distanza tra modi di pensare e vivere del singolo e codici sociali. Questi difettano di densità morale; il difetto è particolarmente evidente nel caso dei temi che più interessano gli stili di vita personale. I codici sociali appaiono agli occhi del singolo sempre più come regole convenzionali, non invece come indicazioni che interpretano il sentimento del dovere che connota l’esperienza della prossimità; essi distinguono ambiti di competenza e servono alla coesistenza pacifica, non ad essere buoni. Le regole sociali appaiono come regole di etichetta più che come leggi della vita buona; non possono essere ignorate, ma non hanno valore edificante. Ad una tale distanza è possibile rimediare soltanto conferendo al ministero della Chiesa un profilo di più alta attenzione al vissuto soggettivo, che i codici di senso espressi dalla cultura corrente sempre più ignora. Non a caso di vissuti soggettivi si occupano sempre più gli psicologi, e in una prospettiva clinica, per rimediare alla sofferenza o anche solo al disagio. I vissuti soggettivi, sempre più ignorati e non interpretati dalle forme della vita comune, regrediscono a livello inconscio e operano sulla coscienza del soggetto in maniera incontrollata. La trattazione clinica del disagio minaccia di rinforzare la rimozione sociale dell’obiettiva consistenza morale delle ragioni del disagio. Perché il ministero della Chiesa possa assolvere a compiti tanto impegnativi ha bisogno di essere assistito da un deciso incremento del sapere teorico a proposito di tali fenomeni, dunque dalla teologia. Siamo ancora molto lontani da un tale obiettivo. Di conseguenza avviene della simbolica religiosa e cristiana qualche cosa di simile a quel che avviene di tutti i codici di senso offerti dalla tradizione culturale; il singolo ne fa un uso soggettivo; nel caso dei simboli religiosi l’uso soggettivo è quello consolatorio assai più che quello edificante. Il vangelo serve – così pare – a immaginarsi buoni assai più che a diventarlo. La tradizione religiosa appare come una riserva simbolica alla quale attingere per dare parola alla vita ‘interiore’, a una vita altra rispetto a quella delle relazioni umane effettive, siano esse famigliari, professionali e civili; a una vita che le forme correnti della cultura ignorano. 2.4.4. La differenza tra senso e verità Tra codici culturali del senso e verità ultima, verità di Dio, alla quale sola si riferisce in ultima istanza il consenso della fede sussiste un nesso indubitabile, e insieme una differenza, Come chiarire l’uno e l’altro? Merita di sottolineare come tra cultura e religione, oltre che una differenza, e addirittura prima che una differenza, sussista un nesso: la cultura ha sempre una incancellabile referenza religiosa, e alla verità di Dio il singolo non può accedere altrimenti che istruito dai significati elementari della vita, ai quali dà articolazione la cultura. La religione individuale ha indispensabile bisogno di attingere alle risorse della cultura. Esse offrono una mediazione, soltanto una mediazione; grazie a tale mediazione, il singolo deve rapportarsi poi in maniera personale alla verità di Dio. La ripresa delle tradizioni culturali comporta sempre anche una loro rinnovata e più univoca determinazione ad opera della coscienza; la ripresa potrà (o magari dovrà) assumere anche la forma di un discernimento critico; di quelle tradizioni infatti vengono sempre fatti a livello sociale anche usi arbitrari. Le tradizioni di senso articolate dalla cultura sono mediazioni necessarie della percezione del senso di tutte le cose da parte del singolo. Come precisare la nozione di senso, con tanto insistenza impiegata per parlare di cultura? E come distinguere tra senso e verità? La tradizione teologica e filosofica non prevedeva la nozione di senso, ma solo quella di verità; oggi invece la questione del rapporto tra senso e verità è uno dei compiti essenziali della riflessione cristiana; soltanto un tale così permetterà di correggere la concezione intellettualistica di verità, che affligge il discorso sulla fede anche a livello pastorale. Il senso attestato attraverso le forme della cultura indica una direzione nella quale il soggetto deve muoversi per conoscere la verità. La verità non è mai accessibile mediante parole, né mediante una qualsiasi altra forma di oggettivazione sociale del senso, ma sempre e solo attraverso un cammino personale; soltanto le forme effettive dell’agire del singolo rendono manifesta la verità fin dall’inizio promessa attraverso le forme dell’esperienza sensibile. La cultura è mediazione; non dispensa il singolo dal compito di rapportarsi direttamente alla verità, che sta sempre al di là della cultura. Proprio perché soltanto mediazione, la cultura ha essenziale consistenza simbolica; non definisce la verità, ma rimanda ad essa; istituisce un rapporto pratico con essa. Offre uno schema suggestivo per descrivere un tale intreccio la sentenza pronunciata da Gesù all’indirizzo di quei Giudei che avevano creduto in lui, che pensavano di avere creduto: Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8, 31s); la fede non termina alle parole, ma alla cosa stessa, e la cosa stessa – la verità di cui Gesù dice – è raggiunta soltanto mediante la pratica delle sue parole. Per chiarire la forma che assume la mediazione della cultura occorre descrivere il processo disteso nel tempo attraverso il quale soltanto il singolo giunge alla conoscenza della verità, che pure fin dall’inizio egli intuisce attraverso le forme dell’esperienza passiva. L’esperienza iniziale del mondo ha infatti i tratti dell’essere affetti dalla realtà. Il singolo è colpito e proprio la sorpresa accende in lui l’interrogativo: “Che cos’è?”. All’interrogativo egli può rispondere unicamente cimentandosi con la realtà, andando ad essa incontro, andando anzi tutto incontro all’altro che prossimo; appunto attraverso il prossimo il singolo è raggiunto dall’appello che la realtà tutta gli rivolge. Il confronto con l’altro, d’altra parte, è possibile soltanto grazie alla parola, e più in generale grazie alle risorse simboliche attraverso le quali trovano oggettivazione sociale i significati della vita. Soltanto attraverso una tale risposta pratica si configura per il singolo l’immagine del mondo, e insieme la sua stessa identità. Una nuova immagine per l’uomo Per rendere ragione di questa connotazione pratica che assume l’accesso alla visione del mondo e insieme della necessaria distensione nel tempo che caratterizza il processo di identificazione è necessario passare dallo schema essenzialistico di comprensione dell’uomo allo schema drammatico. Essenzialistico è lo schema della psicologia razionale; lo schema drammatico esige invece attenzione al momento empirico. Già Kant aveva segnalato la necessità di un approccio empirico all’umano e aveva scelto per esso il nome di antropologia pragmatica. Egli distingueva in tal senso l’antropologia pragmatica da quella fisiologica: La conoscenza fisiologica dell’uomo si propone di indagare ciò che fa dell’uomo la natura, la pragmatica ciò che fa o può fare di se stesso l’uomo stesso, in quanto essere libero1. Nel caso della teologia cristiana la prospettiva pragmatica appare obbligatoria. Per dire dell’uomo infatti la fede passa attraverso il racconto di una storia, quella che va da Adamo a Gesù. La conoscenza dell’uomo, e della verità credendo alla quale soltanto è possibile che l’uomo viva, attinge ad evidenze dischiuse appunto dalla vicenda passata. Soltanto attraverso la memoria di quella vicenda si dischiude alla coscienza la verità, che dà senso e speranza alla sua avventura. Il nesso radicale che lega l’identità dell’uomo alla storia, alla memoria, e più precisamente alla memoria di Gesù Cristo è rimasto latente nel pensiero cristiano della tradizione; come latente è rimasto il nesso tra conoscenza della verità e sua pratica; in ogni caso, quei nessi non sono stati chiariti in maniera riflessa. Appunto per pensare la mediazione culturale della coscienza appare indispensabile passare per questo chiarimento riflesso. La necessità obiettiva che la considerazione dell’uomo passi a una prospettiva empirica, attenta alla vicenda storica e al rapporto sociale, aiuta a 1 I. KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET, 1970, p. 541, traduzione lievemente corretta. capire le ragioni del progressivo passaggio dell’interesse per l’uomo dalla filosofia alle scienze umane. Tale passaggio si annuncia già nell’Ottocento, con la grande lievitazione delle conoscenze storiografiche, la nascita dell’etnologia, poi anche della sociologia e della psicologia. Si realizza però in forma cospicua soltanto nel Novecento. E soltanto allora assume rilievo crescente la categoria di cultura. Pur senza fare ricorso esplicito alla categoria di cultura, già il progetto di Max Weber di una “sociologia comprendente” (il saggio Alcune categorie della sociologia comprendente è del 1913) procede dalla consapevolezza del nesso essenziale che lega i rapporti sociali all’agire intenzionale, e dunque alla condivisione dei significati elementari del vivere. Per comprendere l’agire sociale è indispensabile comprendere il senso che orienta l’agire del singolo; in ordine a tale interpretazione, Weber propone lo strumento dei tipi ideali, modelli generalizzanti che descrivono le caratteristiche ricorrenti di determinate classi di agire; tipi ideali sono, ad esempio, i due modelli dell’agire, razionale rispetto allo scopo e razionale rispetto al valore; e quindi ai due tipi di etica, della convinzione e della responsabilità. Il progetto di una sociologia comprendente consente a Weber di concepire un’opera come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (del 1905), che studia la correlazione tra sorgere del capitalismo e visione del mondo propria delle chiese riformate. Sul solco dal progetto di una sociologia comprendente, aperto da Weber, si colloca una linea di ricerca sociologica, e poi psicosociologica, che ha dato contributi assai significativi alla comprensione delle nuove forme dell’esperienza religiosa nella società tardo moderna. Ricordiamo in particolare la riflessione di Th. Luckmann e P. Berger sulla visione del mondo come costruzione sociale2, e i numerosi saggi dedicati singolarmente dai due autori al tema della religione. Berger assomma alla competenza sociologica quella teologica; sotto tale profilo appare come interprete di una sorta di rinnovata teologia liberale, che accorda grande credito ad una consistenza trascendentale del rapporto religioso; nelle forme simboliche offerte dalla cultura esse cercherebbe risorse espressive, ma per dire di un vissuto che non avrebbe bisogno dei rapporti sociali per prendere forma; l’approccio teorico neoliberale funge da giustificazione – così interpretiamo - per lo spiccato tratto soggettivo della religione dell’uomo occidentale contemporaneo3. Più critica e preoccupata è la diagnosi di Luckmann, che certo condivide la tesi di Berger circa il nesso privilegiato tra religione e questione dell’identità, e tuttavia sottolinea il difetto obiettivo delle risorse offerte all’abitante della società secolare per realizzare la propria identità. Provvedere a tale identità è diventato un Insieme essi hanno firmato l’opera di carattere teorico generale La realtà come costruzione sociale (1966), Il Mulino, Bologna 1969. 2 3 Di P.L. BERGER ricordiamo, come rilevanti per il tema, La sacra volta (1967), SugarCo, Milano 1984, un saggio di sociologia della religione nella civiltà secolare, sotteso dalla tesi che fa della religione l’equivalente della generica istanza del senso, e dunque una forma della vita dello spirito che a stento si distingue dalla morale; Il brusio degli angeli (1969), Il Mulino, Bologna 1970, dedicato in particolare alla possibilità della teologia, del discorso sensato su Dio, in un mondo secolare; L’imperativo eretico. Possibilità contemporanee di affermazione religiosa (1979), ElleDiCi, Leumann (Torino) 1987: l’espressione pittoresca imperativo eretico intende suggerire la necessità per l’uomo secolare di scegliere il proprio credo religioso, senza la possibilità di appoggiarsi ad alcuna ortodossia rassicurante, e quindi la necessità di vivere accompagnati dalla costante consapevolezza del tratto solo congetturale della convinzione religiosa. compito ‘privato’; il singolo deve provvedere da solo; lo soccorre in tal senso la tradizione religiosa, certo; e tuttavia la sua religione, devenuta ormai invisibile e senza verifica pratica, appare più libera e ‘creativa’, ma illusoria: L’identità personale diventa, essenzialmente, un fenomeno privato. È questo forse l’aspetto più rivoluzionario della società moderna. Il frazionamento istituzionale ha lasciato non strutturate ampie zone della vita dell’individuo e non determinato il contesto biografico globale della significanza. Dagli interstizi della struttura sociale derivanti dal frazionamento istituzionale è sorta quella che potremmo chiamare la sfera privata. La liberazione della consapevolezza individuale dalla struttura sociale e la libertà nella sfera privata costituiscono la base per quel senso alquanto illusorio di autonomia che caratterizza la persona tipica della società moderna4. La descrizione dei fattori sistemici che alimentano lo scollamento tra coscienza e società nella stagione postmoderna offre spunti illuminanti per intendere lo stesso scollo tra fede e Chiesa che largamente interessa lo stesso cattolicesimo contemporaneo. La fede è vissuta oggi con frequenza crescente senza appartenenza alla Chiesa; il consenso del singolo alle credenze, alle pratiche cultuali e morali proposte dalla Chiesa appare sempre meno ovvio e sempre più selettivo. Riflesso di tale spiccata soggettività della fede è la soggettività della stessa coscienza morale; occorre certo riconoscere anche una soggettività buona, assolutamente essenziale alla coscienza morale; il vigore della norma per il singolo non è garantito dalla semplice notizia che egli ne ha, per quanto essa sia autorevole; richiede invece una vicenda pratica che garantisca l’iscrizione della norma nella coscienza; cattiva è la soggettività in forza della quale il soggetto, sollecitato dalla fastidiosa coscienza dell’un indice di arbitrio che vizia tutti i suoi comportamenti, sceglie di darsi una regola, ma appunto solo sceglie, così come sceglie una religione; immagina che scegliere basti a conferire un profilo di libertà alla sua vita; ma quel senso di autonomia appare alquanto illusorio. Gli interrogativi elusi Che cos’è dunque cultura? Il complesso delle forme simboliche mediante le quali trovano articolazione i significati elementari del vivere. Essa è ingrediente assolutamente essenziale del singolo, e prima ancora del rapporto umano attraverso il quale il singolo prende coscienza di sé; vivere insieme si può soltanto sulla base di un’intesa circa i significati elementari; l’intesa è garantita non da un sapere antecedente al rapporto; essa si realizza grazie ad evidenze che la stessa vita comune dischiude; realizzandosi, la vita comune produce insieme le risorse che consentono l’intesa. L’idea di cultura illustra una qualità del rapporto sociale, che tradizionalmente era ignorata: quel rapporto concorre in maniera essenziale alla configurazione della coscienza. Cicerone riconosceva che, perché sussista una res publica, non basta l’accordo sull’utile, ma occorre quello su ciò che è giusto5, o addirittura su ciò che è buono e rende degna la vita. La necessità di un consenso morale perché sussista res publica spiega il nesso stretto che lega la nascita della città o della civiltà alla nascita dell’uomo. 4 TH. LUCKMANN, La religione invisibile (1963), Il Mulino, Bologna 1976, p. 137; cfr. in generale tutto il cap. VI, pp. 107-152, dedicato appunto al rapporto tra “Religione e identità personale nella società moderna”. 5 Egli definiva la res publica come un coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus, CICERONE, De re publica 1,39. Soltanto la città consente di dare nome a tutte le cose, e con il nome un senso; tutte le cose sono iscritte entro la cornice della vita buona. Soltanto grazie a tale attitudine a plasmare la percezione del senso di tutte le cose, l’alleanza civile dispone insieme le condizioni che consentono di promettere, che anzi impongo al singolo di promettere; la promessa è possibile soltanto sullo sfondo di un mondo che conosce un ordine morale condiviso. La vita comune addomestica – per così dire – il mondo, lo rende come una casa (domus), un luogo familiare e amichevole, propizio alla vita comune. Alla cultura, intesa come sistema simbolico che rende possibile il consenso su quel che è buono, corrispondono i modi di vedere del singolo. Tra forme oggettive della cultura e visione del mondo del singolo sussiste un rapporto circolare. La cultura intesa come codice di senso sotteso allo scambio sociale non sussiste che grazie all’uso effettivo che ne fanno i singoli; la cultura vive grazie a tale uso; esso determina sempre da capo i contenuti della cultura e li trasmette da una generazione all’altra. Soltanto l’uso effettivo consente al singolo di accedere alla verità del codice. Il debito del codice nei confronti dell’uso illustra appunto il carattere circolare del rapporto che lega cultura e coscienza. Non è vero che il singolo è in grado di sapere e volere a monte rispetto al rapporto con altri, e alle indicazioni che appunto dalla cultura condivisa gli vengono; soltanto grazie alla vox suggerita dalla lingua comune egli viene a coscienza del verbum interiore6. Vale a proposito della cultura quel che più volte è stato osservato a proposito della lingua: essa prefigura una visione del mondo, ma non la realizza. La cultura non è ancora una visione del mondo, ma la prefigura. La ripresa delle sue risorse simboliche ad opera della coscienza non è tautologica; essa ulteriormente determina i significati della cultura comune; ma di una ripresa pur sempre si tratta, che sconta vantaggi e pregiudizi connessi alla qualità del codice. Nel giorno della sua vocazione Isaia vide Dio nel tempio; si spaventò moltissimo, cadde a terra e disse: Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti; la sua confessione si accompagna a una sommessa scusa, in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; come potrei essere sincero? Egli confessa d’essere dalle labbra impure; ma prima ancora delle sue, impure sono le labbra del popolo a cui appartiene; ha imparato a parlare grazie a una lingua che mente; come potrebbe dire la verità? La lingua è espressione della cultura tra le più qualificanti; soltanto grazie alla lingua i membri di un popolo possono intendersi. Il profeta segnala un profilo del rapporto tra cultura e religione troppo trascurato; rimuove un tale profilo una concezione troppo interiore della religione. La qualità del nostro rapporto con Dio è segnata dalla tradizione civile della quale viviamo, dalla sua cultura. Essa non è certo al di sopra di ogni sospetto; anche espone all’inganno; nella sua ripresa delle risorse della cultura la coscienza ha sempre un compito di discernimento; la ripresa del singolo non è tautologica. I discorsi ecclesiastici sulla cultura e sulla necessità di aggiornare le forme del ministero troppo spesso ignorano questo aspetto non asettico dell’aggiornamento. Le riprese di elementi di cultura nella prospettiva della fede non possono essere tautologiche; comportano una rinnovata interpretazione di quegli elementi; comportano, sotto altro profilo, la rinnovata determinazione del senso stesso della verità di fede. 6 La distinzione tra vox esteriore che passa e verbum interiore che rimane è, come a tutti noto, di sant’Agostino; essa è svolta a interpretazione della differenza e insieme del rapporto tra il Precursore e il Verbo fatto carne (vedi Tractatus in Johannis Evangelium 4,7). I modi correnti di esprimersi suggeriscono l’idea che il singolo sappia da solo quel che pensa e quel che vuole; si serva delle risorse offerte dalla cultura comune soltanto per dirlo ad altri. In realtà la dinamica è più complessa. A monte della parola udita da altri il singolo non ha pensiero proprio, e neppure volontà propria. La coscienza del singolo è resa possibile dalle risorse offerte dal codice civile. Non c’è prima il soggetto, e soltanto poi il rapporto sociale; il singolo viene a capo di sé attraverso il rapporto con altri, attingendo al codice comune. Il soggetto articola la propria visione del mondo appunto mediante le risorse offerte dal codice della cultura, e mediante le risorse offerte dai rapporti pratici con altri; essi gli consentono di accedere alla verità intesa dal codice. Occorre ricordare anche l’altro lato della questione: il codice comune sussiste soltanto grazie alla vicenda che lo ha generato. Il codice, proprio perché tale, appare universale, sembra quasi cancellare la memoria della vicenda che lo ha generato. Che tale vicenda possa generare un codice universale, si capisce soltanto quando di consideri la necessità che le vicende individuali mostrano fin dall’inizio di riferirsi appunto a una legge universale per trovare la loro verità. L’affermazione dev’essere meglio chiarita. In che senso si può parlare di verità a proposito di una vicenda singolare? Come chiarire l’idea che sia necessario riferirsi a una legge universale per trovarne quella verità? Ogni vicenda singolare genera rapporti di prossimità, che promettono d’essere per sempre; “vera” appare in tal senso la vicenda che sappia determinare la figura di quel per sempre che all’inizio promette. Appunto per definire tale figura è indispensabile il riferimento a una legge. Il nesso tra singolare e universale si chiarisce meglio appunto per riferimento alla figura della promessa. La prossimità sorprendente con altri è subito apprezzata da chi la vive come buona, come il bene – infatti non è bene che l’uomo sia solo (Gn 2, 18). Per trovare la verità alla quale rimanda, la prossimità postula che intervenga una promessa; essa d’altra parte è possibile soltanto a condizione di trovare la parola, che iscrive la vicenda singola nell’orizzonte della legge per sempre. A meno di promettere, di poter dire una parola ferma per sempre, la prossimità reciproca appare mancante, esposta al rischio di apparire come menzogna. La verità di tali affermazioni trova chiaro riscontro nel rapporto tra uomo e donna. Convincenti indizi mostrano come proprio tale rapporto sia l’archetipo di ogni relazione umana. A procedere da esso nasce la parola, e quindi la lingua, la cultura, l’universo intero dei significati. Ora appunto quel rapporto illustra in maniera eloquente il nesso tra parola e promessa. Il legame tra uomo e donna, annunciato dal desiderio che tra di essi si accende, e poi dall’affetto che la consuetudine di rapporti genera, invoca un’alleanza per sempre; invoca in tal senso la parola capace di iscrivere il rapporto entro l’ordine universale; solo così è possibile la promessa. L’alleanza coniugale ha appunto la forma di una promessa, di uno sposalizio (il latino spondere significa promettere). Invocano un per sempre anche i rapporti tra genitori e figli o tra fratelli, certo; essi diventano possibili però unicamente a seguito dell’alleanza tra uomo e donna. Il carattere universale della parola, o del concetto, non può essere inteso nei termini troppo formali che presumono di vedere in esso l’opera della ragione. La parola è universale, non perché astratta e senza riferimento alla storia di chi la pronuncia; al contrario, soltanto quella vicenda consente di istituire il senso della parola; la parola è universale, perché la vicenda concreta istituisce per i singoli una speranza per sempre, e quindi la necessità morale di promettere. Il nesso tra carattere universale della parola ed esigenze della promessa si rinnova da ogni volta che ha inizio una nuova vicenda, ogni volta che l’incontro tra uomo e donna da capo suscita il desiderio della promessa. I singoli apprendono le parole della promessa dalle generazioni che li hanno preceduti, certo; e tuttavia la verità di quelle parole è come risuscitata grazie a evidenze dischiuse non dalle parole, ma dal rinnovato evento dell’incontro. La verità di cui è gravido il codice della lingua, e sono gravidi i codici tutti che concorrono a definire la cultura di un popolo, diventa manifesta grazie alle vicende singolari; possiamo verificare nella maniera più perspicua e persuasiva la pertinenza del principio considerando il rapporto con l’infante senza parola; soltanto attraverso il suo apprendimento gli adulti toccano con mano l’effetto magico della parola, la capacità ch’essa ha di addomesticare il mondo, di dischiudere in tal modo il suo volto accogliente e promettente agli occhi del bambino. Una tale esperienza vive in maniera eloquente in primo luogo la madre; la virtù della parola sembrava ormai come dimenticata, ma grazie al bambino essa rivive. Questa circolarità di rapporti tra lingua e parola, e in generale tra cultura e vicende singolari, è esposta a minacce sistemiche nell’esperienza civile presente; la rottura di tale circolarità pare pregiudicare la stessa efficienza formativa della cultura. In tal senso, la cultura sociale (Kultur) rischia di venire separata dalla formazione (Bildung) della coscienza del singolo. A misura in cui avviene questo, è compromessa l’attitudine della cultura stessa a fungere quale legge dell’alleanza sociale, documento di quel che accomuna e rende vera la prossimità. La coscienza del singolo diventa una faccenda privata; le leggi della vita comune sanciscono l’estraneità reciproca e non provvedono in alcun modo alla prossimità. La separazione tra cultura pubblica e forme della Bildung individuale trova spiegazione in molteplici ragioni. La più radicale è il regime di sostanziale separazione che regola i rapporti tra famiglia e società. Proprio nella famiglia, luogo dei rapporti “primari”, trovano sempre rinnovata espressione i significati elementari della vita. La sottrazione dei rapporti famigliari alla competenza pubblica, la loro rappresentazione come rapporti soltanto affettivi, e quindi il regime di clandestinità in cui sono vissuti, sono fattori che erodono lo spazio della famiglia quale luogo di tradizione. Se la consegna della cultura alle nuove generazioni si produce nel quadro di rapporti secondari, soprattutto di rapporti tra pari, pregiudicata è la possibilità che la cultura conosca quei processi di rigenerazione che si producono grazie alle evidenze dischiuse dalle esperienze primarie della vita. Nella vita pubblica hanno rilievo egemonico le forme scientifiche del sapere, che per loro natura rimuovono l’interrogativo sul senso di tutte le cose; quelle forme istruiscono soltanto sul come fare, su ciò che serve per rapporto a obiettivi di esclusiva competenza del singolo. I saperi pubblici sempre meno investono i territori dei rapporti primari. Minaccia in tal modo di ottundersi quella valenza simbolica della città, o della civiltà, o della cultura, che un tempo era invece fondamentale. L’interruzione della circolarità spontanea tra codici sociali e rapporti primari propone con urgenza un compito alla teologia, e in generale al pensiero che ha a cuore la questione umana, quello di chiarire la dinamica dei rapporti tra cultura ed esperienza personale. La ricerca di carattere antropologico culturale, che statutariamente privilegia l’uso della categoria di cultura, privilegia decisamente l’attenzione al codice precostituito e ignora le risorse per comprendere il codice che sono disposte dalle vicende individuali; si occupa di cultura non nell’ottica della coscienza, ma in quella della funzionalità sociale. In tal senso l’antropologia culturale appare assai distante dalla sensibilità per i problemi posti dalla transizione civile tardo moderna, che pure appaiono clamorosamente evidenti. Tanto maggiore appare la responsabilità della riflessione teologica, la quale, per natura sua attenta al punto di vista proprio della coscienza individuale, e sotto altro profilo attenta al rilievo determinante che deve essere riconosciuto alla memoria in ordine al riconoscimento del senso di tutte le cose, è nelle condizioni più propizie per cogliere la gravita dello scollo presente tra cultura e coscienza. Occorre però che la teologia superi finalmente quella prospettiva troppo ingenua, che affronta il problema dei rapporti tra fede e cultura subito e solo nei termini dell’“aggiornamento”. Occorre che la teologia abbia occhi per i problemi sistemici della trasformazione culturale recente. A tal fine appunto appare indispensabile un’elaborazione di carattere propriamente teorico a proposito dell’idea di cultura; non basta la ricognizione delle forme effettive della cultura contemporanea; questa stessa ricognizione, per essere realizzata in maniera consapevole e critica, ha bisogno di quell’elaborazione.