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libri
Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
P
aolo L ago si è addottorato in Letterature stranie-
carta canta / libri
re e Scienze della letteratura nell’Università di Verona. In un recente saggio erudito, I personaggi classici secondo Metastasio, esamina tre drammi del poeta cesareo – Catone in Utica, L’Olimpiade, Achille in Sciro – piuttosto diversi fra loro, ma accomunati dalla presenza di personaggi classici, mutuati dalla letteratura antica. Il Metastasio, autore fra l’altro di un acuto commento alla Poetica di Aristotele e di Osservazioni sul teatro greco, ebbe grande dimestichezza con la classicità. Dato a Roma nel 1728
con musica di Vinci, il Catone in Utica, di soggetto romano, suscitò polemiche per via dell’ultima scena, col suicidio del protagonista: il poeta dovette riscrivere il terz’at-
Pietro Metastasio
to e far morire dietro le quinte l’eroico difensore della libertà romana. Lago, con sottile perizia filologica, discute le fonti, quelle citate dall’autore e quelle non dichiarate: compara il dramma col Cato dell’inglese Joseph Addison (1713) che, tradotto da Pier Iacopo Martello, può essere stata una fonte d’ispirazione, oltre la Pharsalia di Lucano. Dell’Olimpiade (Vienna 1733, musica di Caldara), argomento greco arcaico, Lago analizza la struttura narrativa e scenica: sebbene il Metastasio non ne faccia cenno, la costruzione del dramma rimanda ai romanzi greci,
narrazioni avventurose, come le Efesiache di Senofonte e
le Etiopiche di Eliodoro (sec. I-III d.C.). Per l’Achille in Sciro,
rappresentato per le nozze di Maria Teresa nel 1736 con
musica di Caldara, l’unica fonte dichiarata è Igino, ma
Lago ha buon gioco nel dimostrare che la caratterizzazione di Achille, Ulisse e Deidamia deve molto all’Achilleide di Stazio. Il saggio, che coniuga acribia filologica e finezza interpretativa, interesserà il musicologo, il teatrologo, il critico letterario.
Giovanna Morelli, regista d’opera, insegna Arte scenica nell’Istituto «L. Boccherini» di Lucca. A Sylvano
Bussotti, col quale ha collaborato, dedica il saggio Dopo
il melodramma: vi passa in rassegna la produzione teatrale
dell’artista dagli anni sessanta ai primi novanta. Nell’articolata introduzione traccia un quadro efficace della poe-
Paolo Lago, I personaggi classici secondo Metastasio. «Catone in
Utica», «Olimpiade», «Achille in Sciro», Verona, Edizioni Fiorini,
(«Mneme», 13), 191 pp., 22,00 euro, ISBN 978-88-96419-08-3.
Giovanna Morelli, Dopo il melodramma. Il teatro lirico di Sylvano
Bussotti, Pisa, Edizioni ETS, 2009 («Accademia lucchese di
Scienze, Lettere e Arti: Saggi e Ricerche», 21), 130 pp., 12,00
euro, ISBN 978-88-4672061-0.
Roberto Calabretto, Lo schermo sonoro. La musica per film,
Venezia, Marsilio, 2010, 319 pp., 28,00 euro, ISBN
978-88-317-9999-7.
tica bussottiana, analizzandone gli aspetti salienti: l’opera d’arte totale procurata dall’unione delle arti nella finzione teatrale, la preminenza della danza, l’uso della voce
e degli strumenti, i riferimenti autobiografici, l’erotismo, la
grafia. Giunge
alla conclusione che l’opera di
Bussotti, pur accogliendo certi
gesti estremi delle avanguardie,
non li isola bensì li «ingloba in
manifestazioni
artistiche spesso
tradizionalmente autoreferenti».
Negli otto capitoli tratta le singole opere, dalla
Passion selon Sade a Rara Requiem, Lorenzaccio, Fedra, Nympheo, Tieste, squadernando sotto gli occhi del lettore cinquant’anni di creatività d’uno dei grandi compositori di
teatro contemporanei.
Roberto Calabretto, esperto di musica contemporanea, è professore associato di Musica per film nell’Università di Udine. A questo tema dedica Lo schermo sonoro, un’indagine a tutto tondo sulla musica per lo schermo, nella quale confluiscono i generi più vari, classica
elettronica jazz rumorismo eccetera. Il volume, che non
ha un taglio storico – fuorché nella prima parte, dedicata all’evoluzione del sistema produttivo cinematografico e dei rapporti che con esso hanno avuto i compositori – è concepito per problemi: preproduzione, scrittura, postproduzione, risonorizzazione, restauro. Molti
esempi musicali, schemi, tabelle arricchiscono e facilitano la lettura, chiarendo al profano il senso dei vari termini e concetti. Nell’esemplificare il discorso Calabretto attinge dai registi che, a suo dire, meglio hanno saputo mettere a frutto la musica o i rumori. Il saggio, che
punta ad indagare come la colonna sonora «sia pianificata, composta, registrata, montata e finanziata», sarà utilissimo agli studenti universitari, ma anche ai musicofili e cinefili; grazie agli indici per nomi e per titoli rappresenta anche un buon manuale di pronto intervento. ◼
carta canta — 51
libri
In volume il progetto Claudio Longhi
di Fanny & Alexander racconta il magistero
intorno al «Mago di Oz» di Marisa Fabbri
«
I
l teatro purtroppo dimentica presto»: quest’ama-
der alla saga del Mago di Oz è ora «riassunto» in O/Z
Atlante di un viaggio teatrale, l’ultimo nato della collana dei Libri Quadrati Ubulibri, vale a dire le più belle
pubblicazioni teatrali in circolazione. Ma Luigi De Angelis e Chiara Lagani, lungi dal
costruire una narrazione didascalica del loro lungo percorso sulle orme di L. Frank
Baum (e di Victor Fleming),
hanno invece creato un’affascinante opera autonoma, le
cui splendide pagine, pur collegandosi implicitamente alla
serie di spettacoli che hanno
occupato la compagnia negli ultimi anni, vivono di vita propria.
La prima parte infatti accosta a trentasette «tavole immaginali» – composte (come dicono gli stessi autori nell’introduzione) da «fotografie, riproduzioni di figure tratte da libri o cataloghi d’arte, oppure dal web,
materiali visivi estrapolati da giornali e/o dalla vita
quotidiana» – altrettanti testi commissionati ad artisti,
studiosi, amici e pensatori e incentrati su parole-chiave
che hanno contraddistinto a livello semantico l’elaborato progetto scenico, e che sono ordinate alfabeticamente. Così, per esempio, Cristina Ventrucci trae dai suoi ricordi una poetica riflessione su «Casa/Home», cui segue – per citarne solo alcune – quella di Goffredo Fofi su «Cervello/Brain», quella di Stefano Tommassini su
«Ferinità/Ferity» e quella di Fiorenza Menni attorno a
«Training». La complessità e il fascino che ne emergono sono quelli cui il gruppo ravennate ci ha ormai da
tempo abituato, e che già avevano caratterizzato il precedente e bellissimo Ada. Romanzo teatrale per enigmi in
sette dimore liberamente tratto da Vladimir Nabokov (Ubulibri, 2006). La seconda parte è poi affidata agli scatti di
Enrico Fedrigoli, che – accompagnati da incisivi lacerti testuali – ci conducono attraverso il cammino intrapreso da Dorothy e declinato in otto capitoli, che corrispondono alle stazioni affrontate da Fanny & Alexander
per approdare infine a quel West che conclude il magnifico progetto dentro il magico (e spesso dolente) mondo di Oz. Un libro prezioso, da guardare e da leggere. ◼
ra quanto veritiera considerazione di Luca Ronconi,
che Claudio Longhi ha posto all’inizio del suo monumentale Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia – pubblicato da Le lettere nella prestigiosa collana Storia
dello spettacolo-Saggi diretta da Siro Ferrone – assume un
significato ancora più dolente se si riferisce a una straordinaria interprete come la Fabbri, indimenticabile per chiunque abbia avuto l’occasione di vederla in azione. Per fortuna di chi per ragioni anagrafiche non ha avuto questo privilegio, esistono volumi come questo, che permettono di farsi un’idea sulla carriera di questa grande attrice scomparsa nel 2003. L’autore
– docente di Storia del Teatro allo Iuav
di Venezia e affermato regista – conduce i lettori in un percorso che prende in
esame l’intera vita dell’attrice, a partire dai suoi esordi fiorentini in pieno fascismo, presso compagnie amatoriali e
vernacole e per i primi tempi accompagnata dalla sorella Gilda. A differenza
di quest’ultima però per Marisa l’arte
di recitare diviene ben presto molto più che un passatempo. Così in queste quasi seicento pagine fitte fitte – e magnificamente scritte, accostando al rigore scientifico la passione e il piacere di raccontare – ritroviamo la giovane Fabbri a Milano, dove tenta invano l’incontro con il Piccolo
Teatro di Paolo Grassi, poi in terra giuliana alle prese per
la prima volta con uno Stabile, il Teatro della Città di Trieste, poi ancora di fronte alla realizzazione di un sogno: lavorare con quel Giorgio Strehler che aveva tanto amato da
spettatrice. L’ammirazione per il maestro triestino è tale da
seguirlo anche quando si distacca dal Piccolo per dare vita alla poco fortunata avventura del Gruppo Teatro Azione. Parallela all’attività professionale si fa però sempre più
strada nell’interprete fiorentina una forte coscienza politica (oltre a una spiccata attitudine pedagogica), che – nel
suo convinto impulso progressista ed egalitario – costituirà sempre un binomio indissolubile con la sua vocazione
artistica. Ma la parte più importante del poliedrico iter di
questo mostro sacro delle scene nazionali è certamente legata a doppio filo a Luca Ronconi: è con lui che Marisa raggiunge la maturità espressiva, in una lunga parabola che ha
la sua acmé nel periodo del Laboratorio pratese, a metà degli anni settanta, dove sola in scena ingloba tutti i personaggi delle Baccanti euripidee in uno spettacolo memorabile. Tuttavia il libro è molto di più di un’affascinante biografia. Attraverso un personaggio di primissimo piano come Marisa Fabbri vengono infatti raccontati in modo esaustivo e assai documentato settant’anni di storia del teatro
italiano, con tutte le contraddizioni e le zone d’ombra che
lo caratterizzano. Un’opera dotta e appassionante. (l.m.) ◼
Fanny & Alexander, O/Z Atlante di un viaggio teatrale / Atlas of a
Theatre Journey, I Libri Quadrati, Ubulibri, Milano 2010, 192 pagine,
testi in italiano e inglese, illustrato a colori, euro 27.00
Claudio Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro
di regia, Le Lettere, Firenze 2010, con cd-rom allegato, ill.,
pp. 576, euro 48.00.
I
l monumentale ciclo dedicato da Fanny & Alexan-
carta canta / libri
di Leonardo Mello
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libri
«L’arte di stare
in scena» secondo
Marco Bellussi
carta canta / libri
U
di Leonardo Mello
n manuale teorico -pratico a uso e consumo
degli studenti dei Conservatori riformati dalla
celeberrima Legge 508: questo è L’arte di stare in
scena di Marco Bellussi, giovane e affermato regista veneziano, che questa volta veste i panni del didatta per fornire ad attori e cantanti una serie di informazioni e precetti
spesso trascurati nell’iter formativo (con conseguenti ricadute negative sull’interpretazione).
Il primo pregio del
volumetto è la brevità:
in centoventi scorrevoli
pagine il ricco e frastagliato universo scenico è suddiviso, delimitato e analizzato punto per punto. Si parte dalla «voce parlata»,
un capitolo dedicato alla prosodia dove vengono descritti i diversi tipi di parole e di accenti
che compongono la lingua italiana, per passare poi ad alcuni consigli per una dicitura corretta ed efficace di versi e prosa. E qui si nota il secondo (e princiMarco Bellussi,
pale) pregio dell’opera,
L’arte di stare in scena,
vale a dire l’alternanza
Gruppo Editoriale Viator,
di considerazioni teoriMilano 2010, pp. 120, ill.,
che ed esemplificazioeuro 14
ni pratiche cui applicarle (in questo caso vengono sviscerati dal punto di vista
interpretativo Novembre di Pascoli e un brano di Uno, nessuno, centomila di Pirandello). La seconda sezione è invece incentrata sulla «voce cantata», e prende in esame, ancora attraverso una serie di arie liriche scelte come exempla, la molteplicità di azioni che contraddistingue il lavoro dei cantanti quando salgono sul palcoscenico. Segue una terza interessante parte, mirata più precisamente ai movimenti scenici e alla gerarchia tra i ruoli. Più tecnica, anche se molto utile per gli studenti, è poi la «Guida all’analisi di un libretto d’opera», in cui l’autore sceglie
il Flastaff verdiano per scomporre e ricomporre quel particolarissimo genere letterario che è il libretto, attraverso uno dei sodalizi più riusciti nella storia, cioè quello tra
Verdi e Arrigo Boito. Dall’opera si passa al singolo personaggio (e alla sua psicologia) nel capitolo seguente, dove la trattazione, suddivisa in due itinerari, prende spunto
questa volta da Dido and Aeneas di Henry Purcell. A completamento di questa sintetica e riuscita «grammatica della scena» non potevano mancare esaurienti cenni di storia
del costume, del trucco e dell’arredamento, che chiudono
questo maneggevole e accurato strumento di lavoro. ◼
Un libro su
«L ’estetica musicale
di Morton Feldman»
M
di Letizia Michielon
arco Lenzi, allievo di Aldo Clementi ed estetologo laureatosi con Giorgio Gargani, si dedica con passione, oltre che alla creazione di
un proprio stile di scrittura compositiva, anche all’attività saggistica. L’estetica musicale di Morton Feldman (Ricordi LIM, Collana Le Sfere), prima monografia in italiano
in omaggio al celebre discepolo di John Cage, rappresenta il suo ultimo lavoro, frutto di anni di studio e consuetudine con il pensiero e le opere del
musicista americano. Il volume, presentato lo scorso
maggio nella Sala
Concerti di Palazzo Pisani, contribuisce a illuminare il profilo di una
figura poliedrica,
decisiva nell’avanguardia del secondo Novecento, attraverso un’accurata contestualizzazione storico-culturale. Il
taglio divulgativo e insieme specialistico del saggio offre nella
prima parte uno
Marco Lenzi,
sguardo panoraL’estetica musicale di Morton Feldman,
mico sul pensiero
Ricordi LIM, Milano, Collana Le
e l’opera di FeldSfere, 2009, pp. 237, euro 25
man, con esempi
analitici e tecnici, mentre nelle sezioni successive vengono presi in considerazione gli scritti estetici e le affinità tra lo stile del compositore e le opere figurative di Guston, Pollock, Rothko e De Kooning. Emerge così il ritratto di un artista originale che ha recuperato, al di là
dei rigidi sistemi compositivi in voga allora in Europa,
un contatto diretto con il suono paragonabile all’action
painting di Rothko. Nella performance, infatti, attraverso scelte intuitive e momentanee, è possibile per Feldman lavorare sulla smaterializzazione della sostanza fonica e sulla destrutturazione ritimico-melodica. Se in Europa si stava approdando alla radicalizzazione seriale e in
America, con Cage, si reagiva all’eccesso di determinismo attraverso l’alea, Feldman elabora una propria estetica, insofferente a un lavoro che si svolge soprattutto a
tavolino. Ne sorge un linguaggio dalle ampiezze sonore ridottissime, alle soglie del silenzio, valorizzate dalla quasi totale assenza di dialettica interna e da una temporalità statica, sospesa in uno sfondo armonico non riconducibile ad alcun sistema regolato da leggi precise. ◼
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dischi
di Giovanni Greto
Un’incisione che ha lasciato il segno e per la
quale si può parlare di un prima e di un dopo, nel senso che potrebbe diventare un nuovo punto di partenza. Stiamo parlando delle suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach (1685-1750), composte tra il 1717
e il 1723, nel periodo in cui Bach lavorò come Kapellmeister alla corte del Margravio di
Brandeburgo, riregistrate a sedici anni di distanza da Mario Brunello, e pubblicate per
l’etichetta Egea, a completamento di un «progetto Brunello» in cinque cd. Prima di cercare di capire e conoscere qualcosa di più su
questa incisione, vorremmo sottolineare come mai ci sia capitato di ascoltare un suono
così bello per limpidezza, colore e vicinanza.
Delle sei, ci hanno catturato soprattutto la IV
e la V, che di solito si ricordano meno, poniamo, della I o della VI, per la poeticità e la malinconia di alcuni movimenti, interpretati a
un metronomo molto lento. Per prima cosa, chiediamo
al maestro, che ci concede un po’ del suo tempo prima di
un concerto al teatro Toniolo di Mestre, il motivo della
pubblicazione in tre cd invece che nei consueti due e secondo un ordine che non è il lineare 1-2-3/4-5-6, bensì
3-1/, 4-5/, 2-6. «La decisione di suddividere l’opera in tre
cd, parte dall’idea di non voler essere schiavi del tempo.
Nel senso che inserire tre suite in un cd non dà una completa libertà al musicista. Quanto all’accostamento, le ho
sempre abbinate in coppie, non tanto 1-2, 3-4, 5-6, ma
proprio 3-1, 4-5, 2-6, perché hanno un colore particolare
che ho anche cercato di riprodurre nella veste grafica del
disco, attraverso, rispettivamente, i colori dei licheni, rossi, grigi e gialli… Riguardo alla scelta dei tempi, suscettibile assolutamente di mutare a ogni esecuzione, posso
solo dire che adesso non ho più quell’esigenza che sentivo anni fa di mettere in evidenza la parte danzante delle suite. Il mio percorso,
cioè, mi ha portato a
trovare altri punti di riferimento,
non solo la metrica ritmica
o l’agogica,
a ricercare,
ad esempio, la melodia, nonostante
Bach non
abbia delle melodie vere e proprie, ma solo linee melodiche. Ecco, molto spesso queste linee melodiche mi hanno catturato, per cui il tempo, magari a volte si adatta a
questo». Nelle note introduttive al cofanetto, l’artista ha
parlato di «solitudine intimidatoria», riferita all’immagine delle suite. «Ho scelto queste due belle parole, perché
Bach è talmente grande che ti fa sentire da solo, sia che
lo ascolti, sia che lo suoni. E se riesci a trovare una sintonia, Bach non è mai vicino: o ti prende completamente, o
ti lascia da solo. Per questo motivo, indubbiamente, intimidisce il musicista, ma credo che intimidisca ogni volta
anche l’ascoltatore, se pensa a quanta distanza c’è tra lui e
la musica di Bach». E dunque come ci si prepara a un’opera così stimolante e complessa? «Non in maniera diversa dalle altre. Bisogna prepararsi. Ma Bach conquista, nel
senso che se si studia Bach, la prima cosa che vien voglia
di fare al mattino è suonare qualche cosa di suo». Quanto
alla qualità sonora «è una registrazione che ha cercato di
trovare un suono particolare, quello che sento io da sopra
il violoncello, a circa cinquanta centimetri di distanza.
Cioè, io non sentirò mai il mio suono davanti a me, però
nel disco l’ascoltatore è come se fosse vicino a me, perché
è in grado di sentire lo stesso suono che sento io. Questa
è stata la grande novità: posizionare la presa del suono secondo questa intenzione». Perché però aspettare così tanto tempo prima di reinciderle? «Be’, il tempo è passato da
solo, non è che ho fatto calcoli. È semplicemente trascorso, finché è arrivato un momento in cui non avevo più
quel timore reverenziale di affrontare Bach, che mi aveva
portato la prima volta a registrare dal vivo, perchè avevo
bisogno di un pubblico che mi desse l’avallo di quell’esecuzione. Questa volta, invece, sentivo che dopo averle
frequentate tantissimo – penso ad esempio all’esperienza di silenzio nei «Suoni delle Dolomiti» – e per la scelta davvero ideale del luogo (l’Oratorio S. Cecilia a Perugia, diventato Egea Recording Hall), fosse giunto il momento di fissare un’altra tappa di questo percorso». ◼
Mario Brunello,
Bach. Sei suites a violoncello solo senza basso,
Egea, tre cd
In alto: Mario Brunello (musicacolta.eu).
A sinistra: Johann Sebastian Bach.
carta canta / dischi
Mario Brunello
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Suite di Bach