RIFLESSIONI SUL FENOMENO ULTRAS IN ITALIA evoluzione presente e futuro RIFLESSIONI SUL FENOMENO ULTRAS IN ITALIA evoluzione presente e futuro Documento a cura del centro studi ed analisi della Fondazione Gabriele Sandri Prefazione a cura di Cristiano Sandri " Lo scorso anno per celebrare la finale di Coppa Italia abbiamo inaugurato presso i giardini di P.zza della Libertà una mostra d'arte dedicata al calcio. Oggi, in vista del derby che decreterà la squadra vincitrice della Coppa Nazionale, abbiamo pensato di fornire un nostro modesto contributo al tema tanto dibattuto degli ultras e più in generale della violenza nel calcio. Un argomento quest'ultimo di cui tanti parlano, molti ne straparlano, pochi ne capiscono. Tra questi pochi, ad esempio, vorremmo annoverare il neo Ministro dell'Integrazione Kyenge, la quale ha ben compreso che i beceri ululati che si sentono durante una partita allorchè un calciatore di colore tocca la palla, non possono classificarsi, tout court, come razzismo. Il razzismo è ben altro. Tanti addetti ai lavori, ad esempio, non hanno mai notato che in diverse partite i medesimi ululati vengono rivolti a giocatori bianchi. Ora, il fenomeno Ballotelli non deve fuorviare e condurre ad uno dei tanti giudizi approssimativi sul mondo delle tifoserie ( vorremmo sapere se quanti discettano sull'argomento degli ululati hanno presente che il fenomeno è importato dalla civilissima Inghilterrra, dove un atleta di colore della squadra del West Ham lo suggerì ai propri sostenitori per far innervosire l'avversario ). Detto questo, non vogliamo certo giustificare certe manifestazioni ma crediamo che ogni giudizio debba essere fornito con misura e consapevolezza, ed invece di razzismo, nel caso di specie, bisognerebbe parlare d'ignoranza. Il documento che segue vuole richiamare l'attenzione ad un diverso modo di analizzare il "fenomeno". Noi lo abbiamo individuato nell'inclusione, nel coinvolgimento diretto dei più giovani, anche attraverso progetti scolastici che possano intraprendere la via dell'educazione sportiva." 1. INTRODUZIONE La Fondazione Gabriele Sandri, nata in seguito al tragico evento dell’11 Novembre del 2007, nel corso degli anni trascorsi da quella triste data fino ad oggi, ha operato con l’intento di fornire contenuti ed argomenti ad una realtà profondamente radicata nei tessuti sociali, il mondo delle tifoserie organizzate. In questi anni, abbiamo preso coscienza delle nostre possibilità giorno dopo giorno, al momento della costituzione della Fondazione, eravamo infatti del tutto digiuni del mondo dell’associazionismo e delle ONLUS più in generale. Tra mille difficoltà, logistiche, organizzative e strategiche, abbiamo scelto di seguire l’arduo percorso della cultura, del pensiero, della riflessione, in un emisfero non proprio avvezzo ad un approccio così concepito dello sport. Fare cultura era ed è tutt’ora una scommessa, tentare di rendere coerente il legame calcio cultura, può essere possibile solo attraverso la volontà di analizzare in modo critico ma costruttivo il fenomeno stadio in tutte le sue manifestazioni, direttamente o indirettamente da esso prodotte, intendendo tali dinamiche sempre come una interazione tra uomini provenienti da una stessa società. Non è quindi per caso che siano nate attività come quelle dei donatori di sangue intitolate a Gabriele Sandri in dieci città italiane, la solidarietà e la voglia di aiutare il prossimo, donandosi, nasconde un legame profondo anche se invisibile tra l’uomo ed il suo bisogno di interagire con l’altro, esattamente come accade sugli spalti. Dalla nascita del calcio fino ai giorni nostri, la passione per questo sport, si è sviluppata con una velocità tipica del mondo industrializzato, diffondendosi in modo tanto radicale quanto rapido in tutti i settori della società civile. La partecipazione del pubblico a tutti gli eventi legati al calcio giocato è stata da subito importante, i numeri degli spettatori hanno seguito una curva sempre crescente tanto da rendere necessaria la costruzione di impianti monumentali per accogliere tanta condivisione. Se dovessimo limitarci ad analizzare il fenomeno stadio da un punto di vista meramente numerico, offriremmo però un dato asettico e privo di contenuti, quello che ha reso questo sport, un fenomeno eccezionale, è stato infatti il ruolo attivo svolto dagli spettatori, che per definizione, avrebbero dovuto limitarsi ad assistere passivamente allo spettacolo offerto dai 22 atleti in campo. Noi come Fondazione, per scelta e per obbligo morale nei confronti di Gabriele, abbiamo deciso di dare voce a quella forza reale che ogni domenica presenzia gli spalti, muovendosi da città a città al seguito di una squadra di calcio, fondendo l’identità del club sociale con quella dei supporters ad essa legata. Il senso di appartenenza prodotto da tale scambio, è la base di partenza per un’analisi a 360 gradi del fenomeno, senza questo indirizzo di fondo, non sarebbe possibile riuscire a fornire una spiegazione equilibrata e completa del fenomeno ultras. Risulterebbe impossibile comprendere come un elemento passivo come lo spettatore, potesse profondere così tante energie fisiche e mentali arrivando ad invertire, in certi casi, i ruoli fino a quel momento scritti, non limitandosi ad osservare inerme ma attivandosi ed organizzandosi in veri e propri gruppi, divenendo esso stesso il protagonista. Lo spettacolo coreografico offerto da alcune curve è un esempio lampante dell'indole attiva e propositiva che i tifosi possiedono, tale dinamismo viene confermato studiando la storia della nascita di club di sostenitori come di gruppi non ufficiali, si nota infatti che la loro dedizione è continua anche nei giorni e nei mesi lontani dalle competizioni calcistiche. Nell’ultimo decennio, abbiamo assistito ad una nuova accelerazione degli avvenimenti, l’aumentare dei fatti di cronaca legata ai disordini avvenuti attorno agli stadi, ha portato ad alcuni cambiamenti, le istituzione hanno deciso di affrontare il problema apportando nuove misure organizzative sia in materia di accesso agli impianti sia di prevenzione e sicurezza. Dal 2007 nuovi profili giuridici hanno preso vita, la legislazione per la sicurezza delle manifestazioni sportive ha quindi subito delle modifiche di rilievo. Sono apparsi i tornelli con lettura digitale del tagliando d’ingresso. La nuova figura professionale dello “Steward”, si è man mano definita andando a sostituire nei numeri i dispiegmanenti delle forze dell’ordine di stato, è nata la tessera del tifoso, si è imposto il divieto alle trasferte su discrezione della questura, sono diminuite le presenze degli spettatori sugli spalti. Come hanno reagito i tifosi? Come hanno metabolizzato questi cambiamenti, vi è stato un aumento od una diminuzione degli scontri? Se dovessimo dare una risposta secondo i discutibili criteri della moderna comunicazione di massa, potremmo liquidare il tutto con un richiamo all’ultimo derby svoltosi nella capitale, o peggio ancora lanciando lugubri presagi per la prossima finale di coppa Italia che vedrà opporsi nuovamente le due squadre della città eterna. Non approcceremo in questo modo, cercheremo invece di analizzare il fenomeno seguendo la sua evoluzione nel tempo, provando a comprendere le sue origini e le motivazioni che innescano determinate azioni-reazioni. Tenendo sempre ben presente che ad agire nel bene o nel male, da un lato o dall’altro degli schieramenti, sono sempre esseri umani e che pertanto, le loro attività sono il frutto di un complesso ed articolato scambio tra l’io privato e gli altri, tra il singolo dunque e la società. 1. IL FENOMENO ULTRAS • Tra psicologia e sociologia, la solidarietà e l’anomia Sono ormai anni che i media, intesi come il sistema globale dei comunicatori rivolti alla massa, ci descrivono la cornice che affianca il mondo calcistico, dividendola in due macro gruppi distinti e separati, i tifosi, ovvero l’insieme di persone che nutrono e condividono una passione accesa per una squadra di football e gli ultras. A quest’ultima figura viene invece spesso affibbiato un epitaffio tanto superficiale quanto eccessivo, quello del criminale completamente alienato dalla società civile come dalla realtà del tifo nella sua accezione positiva. Iniziamo quindi questa riflessione partendo da un concetto elementare anche se talvolta dimenticato, la società è un insieme di esseri umani differenti tra loro ed ogni singolo individuo ragiona agisce ed interagisce con gli altri. L’individuo dal momento in cui nasce è dotato di una sua specificità morale e comportamentale, che nel corso della sua esistenza verrà a sua volta modificata, completata, migliorata o peggiorata proprio attraverso il grado di percezione dell’insieme di regole che la società gli fornirà. L’indole iniziale di ognuno di noi andrà quindi a fondersi con le informazioni, le imposizioni e le libere scelte che il percorso della crescita potrà concedergli. Seguendo i principi che tale interpretazione dell’agire sociale prevede, non si può non arrivare ad una considerazione importante proprio per la sua universalità, ovvero che la società influenza il comportamento del singolo ed il singolo a sua volta, partecipa alla creazione della società, questo scambio bilaterale avviene sia che l’individuo accetti le regole sociali sia che non le accetti. Le due sfere psicologiche e sociologiche si incontrano e si condizionano in modo continuativo senza interruzioni. Il comportamento umano dunque non può mai essere affrancato dall’intreccio articolato delle relazioni interpersonali, in questo senso ci sentiamo di condividere la teoria di David Reisman il quale riprendendo un concetto dell’antropologo Abraham Kardiner, sostiene che i comportamenti umani nascono dalla personalità di base dell’individuo ma è altrettanto vero che tale personalità di base si formi nella società e quindi è il risultato di condizionamenti sociali. L’ uomo interagisce con gli altri uomini in quanto individuo esattamente come fa con il sistema di regole sociali e di norme su cui la società civile si fonda. Questo scambio percettivo condiziona i mutamenti epocali del comportamento umano ma non ne è la causa principale, i cambiamenti culturali, istituzionali, economici sono sì condizionati dal comportamento e dal pensiero dominante in un determinato arco temporale ma il cambiamento radicale passa sempre attraverso un principio condiviso da più individui. Il cambiamento è sempre frutto di un’idea che aggrega gli individui attorno ad essa, l’interpretazione umana quindi viene decodificata e resa principio, la divulgazione di tale concetto produce interesse, attrazione e quindi condivisione oppure repulsione e quindi rifiuto, dando origine ad altre azioni, spesso anche estreme. Questa evoluzione interpretativa genera quindi comportamenti che finiscono per diventare norme. Per Emile Durkheim, celebre sociologo francese di fine ottocento, il problema dell’ordine, della presenza di norme civili percepite dai membri della società e pertanto efficaci, era una questione cruciale per poter interpretare gli sviluppi del comportamento umano. Non fare nessun cenno alla sua teoria sull’anomia sarebbe un grave errore se, come nel nostro caso, si intenda fare luce sulle motivazioni di una tendenza sociale ormai molto diffusa nell’Europa occidentale ed orientale, quella dell’aggregazione ultras. Va infatti ribadito che la condivisione di un sentimento, sufficientemente forte da spingere gli individui ad associarsi tra loro è possibile anche e soprattutto per un senso di solidarietà tra i soggetti. E’ la solidarietà che da linfa all’aggregato, qualsiasi esso sia. In quanto uomo sociale, questo aspetto è comune a tutti i fenomeni sociali, potremmo quindi considerare la solidarietà una proiezione endemica dell’individuo umano, il quale tende verso l’altro per istinto irrazionale e non ragionato, la ragione subentra nel momento in cui l’uomo è chiamato a dare una valutazione qualitativa. Il nodo della questione è proprio questo, la scelta, decidere con chi stare e con chi non stare, con chi essere solidale e con chi non esserlo. In questa fase subentra il padre di tutte le scelte, il valore di fondo che tutto muove, affiancandosi alle dinamiche precedentemente elencate, il valore indirizza le energie dei soggetti permettendogli di muoversi in una direzione anziché in un’altra, guidando le coscienze ed orientando i comportamenti. Che lo si voglia o no, le istituzioni, per fronteggiare i moti sociali, per incanalare nella giusta direzione i comportamenti devianti, devono essere coerenti con i valori superiori che l’uomo è capace di condividere, l’imposizione di una norma incomprensibile o di un insieme di atti generati non all’interno del processo sociale ma in settori chiusi e scollegati dal mondo reale, possono interrompere il ciclo dello scambio tra uomo, comunità e società producendo anomia, ovvero assenza di regole e quindi rifiuto. A questo punto sarebbe fin troppo facile cadere nella tentazione del relativismo, giungendo quindi all’assoluzione a prescindere di tutti gli individui che commettono atti perseguibili, non è chiaramente questo il nostro scopo. Per riuscire nella difficile ed ardua impresa, della comprensione delle motivazioni che spingono ogni soggetto ad agire, dovremo sapientemente trovare il punto di incontro in cui razionalità ed irrazionalità si incontrano. Un argomento come questo, va trattato con l’unico scopo di fare luce sulle motivazioni che portano gruppi di giovani ad aggregarsi tra loro scatenando in alcuni casi reazioni violente. • L’aggregazione ed il senso di appartenenza I gruppi ultras nati in Europa tra Inghilterra ed Italia nel periodo che andava dagli anni 60 ai primi anni ottanta, hanno dimostrato di possedere una capacità quasi unica tra i gruppi sociali, la continuità. Voluto, sapientemente permesso o meno dagli apparati di sicurezza statali, il ricambio generazionale nelle curve c’è stato, per anni ed anni i settori negli stadi ed i ritrovi fuori da essi hanno continuato a ad attrarre folle di giovani e meno giovani. Il richiamo da parte di questa cultura metropolitana, per usare un termine molto in voga anni fa, era ed è tutt’ora rivolto verso le fasce più giovani, verso coloro i quali sono nella fase centrale della loro crescita. Gli adolescenti, più degli altri, sono in cerca di punti di riferimento tangibili verso i quali fare rotta. In molti casi la crescita interiore di un ragazzo passa attraverso la necessità di fare esperienze senza che vi sia un’analisi accurata a priori, non è certo un mistero che le scelte più estreme attirino in modo molto più potente rispetto a quelle meno radicali, spingendo ad emulare, ad imitare a tenere una condotta conforme a quella del gruppo dominante. L’impatto comunicativo di una curva in piena attività può rappresentare un’attrattiva irresistibile per un quindicenne. Ma al di là dell’aspetto più superficiale, dietro tale interesse c’è un qualcosa che trova spiegazione nella sociologia. Riallacciandoci al principio della solidarietà e della condivisione, possiamo esprimere con una certa sicurezza che l’individuo cerca al di fuori della sua sfera privata un sistema di regole comuni da fare proprie. Il senso di appartenenza fornito da un simbolo o da uno striscione steso sulla balaustra di un settore, cadrebbe immediatamente se dietro di esso non vi fossero delle persone capaci di dare dei contenuti umani a questi elementi. Il contenuto spesso è fornito proprio dall’aggregazione, dalla condivisione di un medesimo spazio in un determinato periodo con reiterazione nel tempo, chiaramente la ritualità e l’estetica prodotta esercitano un richiamo molto forte, quasi irresistibile per chi voglia soddisfare il suo senso di appartenenza. Il bisogno di trovare una via, di misurare sé stessi all’interno di un gruppo di altri simili, con motivazioni, comportamenti e costumi condivisi, è una necessità prioritaria dell’adolescente. Vivendo in vario modo quella realtà, il soggetto ultras, ricava un ruolo nella società stessa, distinguendosi da essa e rivendicando una posizione elitaria proprio per la radicalità delle sue posizioni. All’interno di queste Gemeinschaft per usare un termine tanto caro al sociologo tedesco Ferdinand Tonnies, all’interno di questa comunità appunto che si distingue dalla società (Gesellschaft), l’ultras trova quelle risposte che la società non ha saputo fornirgli. Anche in questo caso l’attrito tra le due sfere opposte è notevole, la moderna società infatti è organizzata in modo tecnico, persegue finalità solo apparentemente rivolte verso il bene comune, è di fatto un sistema di regole intente a rendere materialmente efficiente (spesso con scarsi risultati) l’organizzazione del lavoro subordinato senza preoccuparsi di saziare il bisogno valoriale che ogni individuo richiede. A questo scopo provvede invece la comunità, con un suo sistema di regole basate sullo scambio e sulla condivisione di valori. Nel suo percorso di ricerca, il ragazzo membro di un gruppo organizzato, segue un istinto innato, quello che lo porta appunto ad interagire con i suoi simili, con coloro i quali condivide logiche e soprattutto sentimenti spesso antagonisti con le norme dominanti proposte dalla società moderna e contemporanea. L’istinto dunque primeggia nelle scelte dell’uomo e senza un corretto scambio tra comunità e società, senza dei punti di riferimento forti, senza dei valori coerentemente rappresentati dalla società, gli istinti tendono a sfuggire al controllo dell’individuo disorientato, degenerando spesso in comportamenti eccessivi, violenti appunto. L’uso della violenza è proprio un fulgido esempio di mancanza di autocontrollo, mancanza da parte del singolo di gestire i propri impeti ma anche volontà di agire in modo estremo proprio per emergere all’interno della catena gerarchica del gruppo stesso. Sul tema della violenza ci si interroga e si dibatte da secoli, di sicuro essa è presente nell’ambiente calcistico dalla nascita di questa disciplina. Con alti e bassi, bene o male nel tempo i fenomeni di violenza hanno accompagnato le partite di calcio, avendo come terreno di scontro prediletto, l’esterno delle strutture adibite all’incontro agonistico. Nei paese dell’est come in parte del nord Europa, lo scontro tra fazioni opposte avviene in zone spesso lontane dallo stadio, a Belgrado la zona d’impatto è sempre stata la pineta vicina l’impianto, vicina ma comunque esterna, il terreno di scontro è un parco dunque, stesso discorso per i tifosi olandesi che da anni, anche prima dell’avvento dei tornelli e delle zone di massima sicurezza, si incontravano in enormi spazi disabitati in giornate addirittura differenti da quelle previste dal calendario calcistico. Gli esempi sono innumerevoli anche e soprattutto in quel paese che i media hanno definito capace di sconfiggere il mostro a tre teste che da quasi mezzo secolo cala al seguito dei club e della nazionale di calcio, portando con sé una scia di violenza e disordini. Come è chiaro, stiamo parlando dell’Inghilterra, e come è altrettanto chiaro, gli hooligans continuano ad esistere scontrandosi tra loro sempre al di fuori degli stadi. Ciò che accade lontano dalle telecamere, quello che non viene riportato sui giornali, non vuol dire che non esista. Non possiamo considerare reale solo quello che viene raccontato ed inesistente quello che non viene menzionato. L'approccio dei media in questo caso è tanto superficiale quanto inefficace, in certi casi paradossalmente controproducente, limitarsi ad esprimere disappunto senza proporre nulla non aiuta di certo ad arginare la violenza scriteriata. Allo stesso tempo gestire l’informazione in modo arbitrario, omettendo notizie quando contrarie all’idea preconcetta o non in linea con i risultati attesi e voluti dalle istituzioni, insistere su certe immagini accanendosi sul singolo che si rende responsabile di un atto violento, condannando in modo eccessivo privo di qualsiasi logica giuridica, accresce le divisioni accentuando sentimenti di odio e generando emulazione. I media dovrebbero comprendere il ruolo di responsabilità che ricoprono, cercando di lavorare nella direzione che porti verso la soluzione dei problemi e non verso l’amplificazione di essi. Liquidare il discorso parlando di teppismo fine a sé stesso non è un principio edificante, è invece necessario capire la provenienza di questi atteggiamenti rabbiosi cercando le sue origini proprio nella società. Un attivista politico che manifesta anche violentemente non è un teppista è un uomo che si vede danneggiato e che manifesta per difendere una categoria a suo parere ingiustamente oppressa, se l’agire al di fuori delle regole è chiaramente un reato, e pertanto perseguibile, è altrettanto vero che le motivazioni che lo spingono a muoversi in tal modo meritano un’analisi che miri ad evitare simili atteggiamenti. Questo può avvenire solo attraverso un lavoro coordinato tra istituzioni e le realtà antagoniste, spostando il piano di scontro su uno di incontro, sul dialogo che miri a risolvere il problema e non mirando a reprimerlo usando unicamente la forza. Nel caso degli ultras, è chiaro che non esiste una rivendicazione diretta ad esercitare diritti non riconosciuti o riconosciuti soltanto in via teorica, è infatti un fenomeno di ribellione dovuto all’anomia che la società ha creato. L’ultras che ricerca lo scontro con le altre fazioni, differenti solo per l’appartenenza ad un gruppo originario di un posto diverso, sta chiaramente affermando la sua incapacità di gestire i suoi istinti proprio perché abbandonato dalla società in cui vive. Tali comportamenti affermano chiaramente che i modelli proposti dalla società presentano delle falle a livello valoriale, non esiste quindi un modello comunitario che possa fornire contenuti validi in grado di aggregare e rendere organica la comunità stessa. Lo stato viene percepito come un’entità astratta, lontana e differente dal mondo che i soggetti in questione vivono quotidianamente. Se esiste una tale visione dello stato significa che i percorsi aggregativi proposti non sono sufficienti o sono del tutto inesistenti, è per questo che esiste una somiglianza tra organizzazioni politiche e movimento ultras, differiscono invece non tanto per l’origine quanto per i modi e per le capacità di perseguire gli scopi prefissati. L’assenza di valori assoluti, forti ed evocativi, produce anomia, il mancato riconoscimento del sistema normativo genera rabbia e la rabbia può sfogare nell’abbandono ai propri istinti, così possiamo trovare il ventenne che assalta una volante della polizia proprio perché reso rabbioso da una serie di ingiustizie sociali che percepisce e che interiorizza senza però comprenderne le motivazioni. L’ira degli ultras ha le stesse origini di quelle politiche, attivisti politici ed attivisti da stadio agiscono in modo diverso e con finalità differenti ma partono entrambe da una stesso embrione, generato appunto dall’assenza di norme e di valori condivisi e reputati validi. Un’ulteriore differenza è rappresentata dall’assenza di pragmatismo e di tutti i contenuti filosofici ed ideologici che le due forze paragonate sono in grado di elaborare. L’ultras vive in uno stato perennemente orizzontale, non esiste un percorso di crescita a livello sociale, non prevede di organizzarsi in modo sufficientemente articolato da proporsi come alternativa, conosce soltanto la fase aggregativa volta ad una condotta ribelle e non allineata. Il politico invece prevede di proporre dei principi alternativi a quelli dominanti e cerca in modo perpetuo di penetrare capillrmente all’interno dei tessuti sociali in modo da poter aumentare i consensi, facendo crescere il movimento di protesta e rendendolo abile a cambiare le carte in tavola, sostituendo appunto il modello attuale con il proprio. E’ forse per queste ragioni che i media hanno sempre considerato il fenomeno ultras come un’esibizione individuale di istinti selvaggi e primordiali. È probabilmente per l’incapacità di questi ragazzi di presentare dei contenuti validi a giustificare i propri atteggiamenti. In sostanza quello che ci preme chiarire, scongiurando quindi qualsiasi ipotesi che ci veda intellettualmente responsabili di fare apologia di reato, come di voler giustificare a prescindere, è che il fenomeno ultras è un fenomeno sociale, generato ed alimentato all’interno del sistema sociale, non è quindi un insieme di persone scollegate tra loro ed unite da un’insaziabile sete di violenza bestiale. Pensare che siano solo dei pazzi alieni vuol dire non avere nessun interesse a migliorare la situazione. In sostanza, non è affatto assurdo ritenere che la violenza legata al calcio, sia un fenomeno che ha le sue origini nella società e che l’ambiente calcistico fornisce un vettore dove esplodere, pensare di arginarla attraverso la repressione o con qualche titolo di condanna a quattro colonne è un' ingenua speranza. Per arginarla è necessario partire dalla sua origine e quindi dalla società stessa, o si forniscono valori o il fenomeno continuerà a ripetersi trovando sempre modi e luoghi differenti. 1. COSA ACCADE IN ITALIA E ALL’ESTERO • La normativa italiana Negli anni anche la normativa che regola gli accessi alle strutture ed agli impianti sportivi, ha subito delle modifiche importanti. Il DL del 28 febbrai 2003, n.28 convertito con legge 88/2003, ha fissato nell’art.1 quater l’obbliagatorietà per alcuni profili strutturali ed organizzativi con riferimento a quegli eventi sportivi appunto da svolgersi presso gli impianti con una capienza superiore alle 10.000 unità (7500 con l’entrata in vigore del DL nr. 8 dell’8 febbraio 2007 convertito nella legge nr. 41 del 4 aprile 2007): numerazione dei titoli di accesso, varchi allertati con metal detector ed attrezzati con strumenti elettronici per lettura ottica dei titoli di accesso, video sorveglianza, separazione fisica tra i settori. L’innovazione va vista nel fatto che per la prima volta la realizzazione sia delle misure organizzative sia di quelle strutturali, ricade sulle società sportive in accordo con l’ente proprietario degli impianti. E’ in questo contesto normativo che nasce la figura degli steward, ovvero degli addetti alla pubblica incolumità, soggetti attraverso i quali la società sportiva utilizzatrice dell’impianto demanda la responsabilità e gli adempimenti previsti per lo svolgimento dell’evento. I decreti ministeriali ed interministeriali del 6 giugno 2005 continueranno quindi il percorso legislativo del 2003 integrando il percorso iniziato già nel più lontano 96, dimostrando come l’esigenza di intervenire da parte delle istituzioni fosse necessaria gia negli anni novanta. In realtà gli atti di violenza negli stadi erano presenti da molto tempo, possiamo anzi dire che sono presenti sin dalla nascita del calcio giocato. L’avvento del football nel nostro paese ha immediatamente appassionato e coinvolto migliaia di persone, facendo breccia in tutte le classi sociali che alla fine dell’ottocento erano sicuramente ben delineate ma nonostante questo, tutte degnamente rappresentate nella filiera calcistica. Praticamente il calcio divenne immediatamente uno sport di massa, in tanti vi giocavano, dai bambini che razzolavano nei cortili di delle parrocchie come in ogni spazio decentemente piatto. Tra i più grandi, se non si era disposti a mettersi in maniche di camicia per rincorrere una palla, lo si era più facilmente a fare da spettatori per le partite giocate nei primi campionati regionali. Le energie che non venivano spese direttamente sul campo spesso trovavano sfogo sugli spalti, così ad accesi scambi di vedute tra opposte tifoserie, spesso seguivano veri e propri tafferugli. Come abbiamo chiaramente sostenuto sin dall’inizio di questo documento, l’universo del tifo appartiene alla stessa galassia sociale nella quale si muove, ne è parte e ne è conseguenza diretta, una derivazione nuda e cruda. E’ un vero e proprio spaccato della società, una sorta di sezione, in statistica sarebbe paragonata ad un campione. Non è un caso che le dinamiche dei disordini abbiano sempre seguito la metodologia più diffusa e largamente conosciuta dai cittadini in un determinato periodo temporale. Il 2 maggio del 1920, i tifosi ma sarebbe più corretto dire la popolazione viareggina, cercarono di vendicare la morte di un loro esponente, Augusto Morganti, usarono metodi chiaramente ereditati dalla vita trascorsa in trincea nella recente guerra del 15 18. Per fare giustizia vennero assaltate caserme dei carabinieri, saccheggiate le armerie e distribuiti fucili e baionette ai tifosi solidali con il compianto Morganti. Il passaggio da quelle giornate del primo dopoguerra a quelle della ex jugoslavia o per rimanere sul suolo italico agli assalti a colpi di torce e qualche molotov, seguite all 11 novembre del 2007 è piuttosto semplice. La presenza nel tessuto sociale da parte delle frange più estreme del tifo è totale. L’ultras è un prodotto della società. Non è un estraneo né un marziano caduto da una galassia lontana, è un soggetto che vive ed a volte in modo perfettamente integrato, nella società che noi tutti conosciamo. Criminalizzare l’ultras equivale quindi ad ammettere il fallimento di un sistema intero. Le generalizzazioni sono sempre sbagliate ed è proprio per questo motivo che ci battiamo contro la frettolosa e superficiale bollatura del fenomeno ultras come un’eccezione negativa della società contemporanea, come abbiamo cercato di esprimere nelle pagine precedenti, siamo convinti che tale tendenza non sia affatto un’eccezione ma una normale conseguenza di una società violenta, nei contenuti verbali, nell’assenza di cultura nella barbara decadenza della concezione della politica, ma soprattutto nel vuoto pneumatico ideologico e valoriale. Va però detto che il comportamento adottato dalle istituzioni preposte non è sempre stato passivamente concepito, nel momento in cui si è deciso di affrontare il problema anche e soprattutto per limitare le spese legate ad un dispiegamento di uomini e mezzi veramente impressionante, si è finalmente iniziato ad agire seguendo un principio differente. Si è infatti iniziato a trattare il fenomeno partendo da un’analisi della psicologia del soggetto in esame, analisi psicologica e sociologica. Il Dott. Roberto Massucci, vice questore della città di Roma e vice presidente operativo dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, ha da subito compreso come uno dei primi interventi da prendere fosse quello di eliminare o quantomeno limitare i possibili punti di tensione, tra questi sono stati riconosciuti proprio i reparti celere, in tenuta antisommossa. Non è una scelta scontata, tutt’altro, per un dirigente delle forze dell’ordine riconoscere tale aspetto è dimostrazione di buona volontà oltre che di buona fede. Un reparto è un reparto e lo spirito di corpo che nasce al suo interno si basa sugli stessi principi che rendono solidali tra loro proprio i sui diretti antagonisti. Questo fattore sommato alla rivalità che è oggettivamente presente, può alterare la percezione del reale da parte di entrambe le parti, al di là della missione e del percorso formativo seguito dai soggetti distinti. D’altronde non è certo la classica immagine distensiva quella di un uomo in divisa armato e bardato, immaginando ad esempio una famiglia che andando allo stadio è costretta ad uno strano slalom tra blindati e uomini travisati, tutto sommato ci fa pensare che forse questo provvedimento è arrivato anche con un po’ di ritardo. Il Ministero degli Interni sembra averlo compreso, ed ha quindi provveduto a sostituire il suo braccio operativo con una figura professionale retribuita direttamente dai club, lo Steward. Operativa solo a metà, questa nuova categoria è andata a sostituire gli organi di polizia in tutte quelle mansioni dirette a controllare e garantire un normale afflusso del pubblico all’interno degli impianti, la diminuzione delle tensioni effettivamente è rilevante, per lo meno in tutta quella zona che va dal primo filtraggio fino al definitivo posizionamento dei sostenitori all’interno dello stadio. Un’iniziativa pertinente, adeguata soprattutto in termini di sicurezza per la conoscenza dell’impianto che gli steward sono tenuti ad avere, per la pulizia delle vie di fuga e per la comunicazione tra pronto intervento e personale dello stadio. Le cose cambiano però se spostiamo la nostra attenzione sugli scontri tra tifoserie, questo intervento non si è dimostrato decisivo, infatti gli incidenti tra fazioni e tra di esse e forze dell’ordine, soprattutto per quel che riguarda i grandi club, sono sempre avvenuti fuori dagli stadi e la tendenza continua ad essere questa. Negli ultimi derby romani, tranne qualche scaramuccia nella tribuna Tevere, il grosso degli scontri, è avvenuto a centinaia di metri dalla cosiddetta area di massima sicurezza ed in alcuni casi a qualche chilometro. Fermo restando che il codice ultras tende a mantenere attiva la regola della non aggressione ai non ultras, i disordini provocati hanno comunque condizionato l’ordine della città. Quello che ci preme sottolineare ancora una volta è che il luogo di scontro è appunto esterno allo stadio e che quindi per quanto necessarie siano le iniziative adottate in misura di messa in sicurezza degli impianti, il problema violenza rimane irrisolto. 1. CONCLUSIONI Il tema della violenza legata alle partite di calcio mostra come le parti in causa sfuggano ad una disciplina condivisa, da un lato gli sforzi delle istituzione che agiscono all’interno di una normativa in evoluzione ma ancora incapaci di allontanarsi da quell’atmosfera di urgenza ed emergenza che caratterizza i suoi provvedimenti. Dall’altra le tifoserie organizzate ferme su atteggiamenti statici, in cui la immedesimazione con i valori del gruppo limita l’individuo impedendogli un percorso di crescita che porti entrambe verso il superamento di schemi troppo semplici. La dimensione orizzontale che caratterizza gli ultras ed i tifosi più in generale, è perfettamente in linea con il ruolo che dovrebbero avere, il contrasto sorge nel momento in cui si confondano degli aspetti importanti della vita di ognuno, a tal proposito sembra abbastanza azzeccato l’aforisma di W. Churcill: “gli italiani vanno alla guerra come ad una partita di calcio ed a una partita di calcio come alla guerra”. Senza affannarci troppo nel cercare interpretazioni che giustamente potrebbero ritenere offensiva la prima parte di tale frase, risulta pertinente il paragone con l’approccio dei tifosi, tutti e non solo quelli italiani, con le partite di calcio. La rivalità esce fuori dagli argini divenendo preponderante, spostando quindi il baricentro sull’essere “anti” anziché “pro”. Tra istituzioni e tifoserie, si inseriscono poi le società calcistiche, vere e proprie aziende finalizzate più alla realizzazione di un profitto che alla pratica di uno sport. Anche qui troviamo un rapporto tormentato e spesso non voluto sia dalle società stesse sia dai gruppi ultras. Le figure di facciata, dimostrano come i delicati rapporti con le tifoserie vengano trattati più come un problema da aggirare invece di investire umanamente ed economicamente in quel settore. La U.E.F.A. d’altronde si è pronunciata attraverso l’art. 35 del suo regolamento, istituendo l’obbligatorietà da parte dei club di definire una figura preposta alle relazioni con i propri tifosi, in modo tale da instaurare un dialogo duraturo e costruttivo. A nostro avviso questo potrebbe essere un elemento da tenere in considerazione per sviluppare un dialogo positivo. La Fondazione Gabriele Sandri, con questo documento ha voluto esprimere la sua opinione su un argomento che ritiene di sua pertinenza, in modo tale da rendere disponibile una interpretazione che approcci al problema da un punto di vista differente e che miri ad un superamento di schemi stantii ed improduttivi. Si propone quindi come interlocutore possibile, mettendo a disposizione di tutti la propria competenza ed i propri strumenti per conoscere al meglio le cause di un fenomeno sociale particolarmente attivo. Dott. Lorenzo Valentinotti