Quaderno n. 158

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QUADERNI
del
Consiglio Superiore della Magistratura
Anno 2012 - Numero 158
Riformare il giudice
disciplinare
dei magistrati?
Sala Conferenze del Consiglio Superiore
della Magistratura
Roma, 12 dicembre 2011
QUADERNI
del
Consiglio Superiore della Magistratura
Riformare il giudice
disciplinare
dei magistrati?
Sala Conferenze del Consiglio Superiore
della Magistratura
Roma, 12 dicembre 2011
QUADERNI DEL
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Anno 2012, Numero 158
Pubblicazione interna per l’Ordine giudiziario
a cura del Consiglio Superiore della Magistratura
INDICE GENERALE
PRESENTAZIONE
Paolo CORDER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Presidente della Sesta Commissione
9
Annibale MARINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Presidente emerito della Corte Costituzionale e Componente
del Consiglio superiore della magistratura
11
Vittorio BORRACCETTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Componente del Consiglio superiore della magistratura
13
RELAZIONI
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Michele VIETTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Vice Presidente del C.S.M.
19
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Pasquale de LISE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Presidente del Consiglio di Stato
25
La responsabilità disciplinare dei magistrati contabili
Luigi GIAMPAOLINO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Presidente della Corte dei Conti
33
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Valerio ONIDA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Presidente emerito della Corte Costituzionale
61
5
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Piercamillo DAVIGO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Consigliere della Corte di Cassazione
69
Il disciplinare tra corporazione ed istituzione
Aniello NAPPI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Componente del Consiglio superiore della magistratura
79
“Sei gradi di separazione”: ovvero come assicurare la terzietà della Sezione disciplinare del Consiglio superiore
della magistratura
Nicolò ZANON . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Componente del Consiglio superiore della magistratura
85
INTERVENTI
Per una riforma della sezione disciplinare del C.S.M.
Salvatore MAZZAMUTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 111
Sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia
L’azione disciplinare del Ministro della giustizia: una misura di salvaguardia del sistema e non una sconveniente ingerenza
Sergio DI AMATO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 115
Direttore Generale Magistrati del Ministero della Giustizia
La rilevanza disciplinare dell’errore del giudice nella
interpretazione ed applicazione della legge
Mario FANTACCHIOTTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 119
Presidente a riposo di sezione della Corte di Cassazione
Responsabilità disciplinare del magistrato ordinario: fondamento ed esercizio del potere disciplinare
Riccardo FUZIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 133
Componente del Consiglio superiore della magistratura
I principi portanti della potestà disciplinare in generale e
nelle carriere magistratuali in particolare
Vito TENORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 143
Consigliere della Corte dei Conti e professore stabile di diritto
del lavoro pubblico presso la Scuola Superiore della P.A.
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PRESENTAZIONE
Paolo CORDER
Presidente della Sesta Commissione
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 16 novembre 2011, ha deliberato, su proposta della Sesta Commissione, di
organizzare una giornata di studio sul tema “Riformare il giudice disciplinare per i magistrati?”.
Tale iniziativa va inserita nel quadro della approfondita riflessione aperta in Sesta Commissione intorno al disegno di legge costituzionale n. 4275, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione».
Tra i temi toccati dalla proposta di riforma, anche sulla scorta
degli esiti della seduta straordinaria del Plenum dedicata a “Comunicazioni del Vice Presidente in merito alla propria audizione presso le
Commissioni congiunte I e II della Camera dei Deputati, il giorno 13
giugno 2011 ore 15.30, sul disegno di legge costituzionale n. 4275, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione e conseguenti deliberazioni dell’Assemblea”, il tema del disciplinare per i magistrati è apparso meritevole di un immediato e attento esame.
Come è noto, per quanto riguarda le competenze attribuite al
C.S.M., il progetto di riforma costituzionale propone la modifica dell’attuale testo dell’art. 105 Cost., con l’introduzione, a seguito dell’elencazione delle funzioni amministrative della vita professionale dei
magistrati – da cui è stata esclusa la funzione disciplinare – del divieto di adottare atti politici e di assumersi funzioni diverse.
In tale quadro di sistemazione delle attribuzioni del Consiglio,
una significativa innovazione concerne l’introduzione della Corte di
disciplina della magistratura giudicante e requirente di cui al nuovo
art. 105 bis della Costituzione.
Essa ha la natura di organo a rilevanza costituzionale ed è formata da membri laici e membri togati secondo gli stessi criteri di ripartizione proporzionale ed i medesimi metodi di scelta utilizzati per la nomina dei componenti del C.S.M.
La relazione illustrativa spiega la ratio dell’introduzione della
Corte di disciplina facendo riferimento all’esigenza di escludere interferenze tra le funzioni amministrative e quelle disciplinari, evitando che
chi è chiamato a valutare, a vario titolo, le carriere dei magistrati (professionalità, conferimento di incarichi dirigenziali, incompatibilità non
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derivanti da illeciti disciplinari) possa giudicarne anche i profili disciplinari. Così da creare il rischio di una giustizia disciplinare troppo domestica e troppo sensibile alle altre vicende concernenti le carriere dei magistrati.
Come osservato nel parere dell’Ufficio Studi del C.S.M. n. 180 del
2011, il problema è quello di riuscire effettivamente, al di là della previsione generale del comma VIII dell’art.105 bis, a preservare l’autonomia ed indipendenza di tal organo di giurisdizione da forme di condizionamento con riferimento alla sanzione di condotte individuali,
sia sotto il profilo di indirizzo dei comportamenti collettivi. Inoltre,
non è del tutto chiaro se la Corte di disciplina debba esercitare la funzione disciplinare nei confronti della sola magistratura ordinaria, o se
essa riguardi anche le altre magistrature che esercitano in campi altrettanto significativi la funzione giurisdizionale.
È stato questo uno degli spunti che hanno condotto la Sesta Commissione, e in particolare il relatore Cons. Annibale Marini, e quindi
poi l’intero Consiglio, ad approntare una giornata di studi sul tema del
disciplinare guardato da una prospettiva di avvicinamento delle diverse giurisdizioni, nella consapevolezza che, secondo anche ricerche di
carattere europeo, la magistratura ordinaria costituisce la categoria
professionale italiana con il più rigoroso sistema disciplinare.
Ne è nata, dunque, la necessità di un confronto a tutto campo,
aperto ai rappresentanti delle varie giurisdizioni, con l’intervento di
componenti della Corte Costituzionale e dell’Accademia.
Da ultimo, va segnalato il decisivo e competente apporto in sede
di definizione e di organizzazione della giornata di studi, come pure
in sede di raccolta degli atti, offerto dai magistrati segretari dott.ssa
Maria Rosaria Guglielmi e dal dott. Giulio Adilardi, oltre che dai componenti della segreteria della Sesta Commissione.
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Annibale MARINI
Presidente emerito della Corte Costituzionale e Componente del Consiglio
superiore della magistratura
Uno dei nostri più intelligenti uomini politici ebbe a dire, nel
corso di un intervento al C.S.M., che i problemi della giustizia riguardano per l’ottanta per cento l’amministrazione della giustizia e per il
venti per cento le riforme.
Pur avendo scarsa simpatia per le percentuali (che quasi sempre
sono frutto di fantasia) confesso di condividere, e l’ho detto in altra occasione, la riflessione che precede anche perchè le riforme nel campo
della giustizia devono essere necessarie, meditate e condivise per evitare, come è già accaduto, (e mi riferisco anche, ma non solo, al processo penale) di dover poi riformare le riforme.
Ho fatto questa premessa, più lunga del necessario, per dire che in
quel venti per cento di riforme che (forse) si dovrebbero fare un posto
dovrebbe essere riservato all’organo della giustizia disciplinare.
E non va dunque dimenticato che l’astenersi dal riformare è preferibile sempre ad una cattiva riforma.
L’incontro di studio di cui si pubblicano gli atti mi sembra che,
pur nella diversità dei singoli interventi, tutti (se mi è consentita una
valutazione) di altissimo livello, abbia risposto affermativamente all’interrogativo posto nel titolo stesso dell’incontro.
Chi parla o scrive per ultimo corre il rischio di essere solo ripetitivo anche perché, come dicevo, il tema dell’incontro mi sembra dibattuto in modo esaustivo.
Ciò non toglie che i signori magistrati possano (e debbano) anche
dopo la pubblicazione degli atti dell’incontro di studio fornire il contributo non solo della loro cultura, ma soprattutto della loro esperienza, al problema se e in quali termini il divisato intervento riformatore
sia funzionale al miglioramento della giustizia disciplinare e della giustizia senza specificazioni.
Da parte mia posso solo dire per la personale esperienza di giudice disciplinare come, diversamente da quel che viene ripetuto, i magistrati applicano le leggi, ma non sono certo legibus soluti. Anche se mi
accorgo che le statistiche, quelle statistiche alle quali ho detto prima
di non credere, si sono prese una piccola rivincita sul mio scetticismo
di giurista ricordandomi, sul piano numerico, che i magistrati pagano
più di tutti gli altri pubblici dipendenti e meritano anche per questo il
rispetto della societas.
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Vittorio BORRACCETTI
Componente del Consiglio superiore della magistratura
1. Sono ricorrenti negli ultimi anni le affermazioni sulla necessità
di riformare la giustizia disciplinare dei magistrati, sul presupposto di
un carattere domestico del sistema vigente e del lassismo delle decisioni adottate dalla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della
Magistratura. In realtà l’analisi dei dati riguardanti i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati smentisce quelle valutazioni e
indica al contrario un atteggiamento nettamente più rigoroso rispetto
ai sistemi disciplinari riguardanti altre funzioni e professioni. Ciò è
ancora più vero dopo l’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007, che ha introdotto un codice disciplinare,
con la previsione tipizzata degli illeciti, in luogo di una generica e omnicomprensiva previsione fondata sulla lesione del prestigio dell’ordine giudiziario, propria della disciplina precedente. Non sono poche le
sentenze di condanna, arrivati in taluni casi, per fortuna pochi, alla
destituzione del magistrato. Per fortuna pochi si diceva, perché non
sarebbe certo un buon segno per un ordine che si compone di poco più
di 9000 persone, registrare casi frequenti di destituzione o anche solo
un numero rilevante di procedimenti disciplinari. Se così fosse sarebbe necessario non tanto ragionare di disciplinare quanto di come intervenire su reclutamento e formazione. In realtà un’osservazione obbiettiva e spassionata dei dati e delle stesse decisioni disciplinari consente di valutare il dato numerico dei procedimenti disciplinari conclusosi con condanna come proporzionato rispetto al numero dei magistrati. Ciò non significa che tutto vada bene nel sistema e che non vi
siano lacune da colmare e prassi da correggere. Va ricordato che parlare di disciplinare chiama in causa non solo l’attività della Sezione Disciplinare del Consiglio, ma anche l’attività della Procura Generale
della Corte di Cassazione, il pubblico ministero disciplinare, e del Ministro della Giustizia, a cui spetta un potere di impulso del procedimento. E non va dimenticato il ruolo dell’ispettorato del Ministero
della Giustizia, le cui ispezioni e inchieste possono evidenziare fatti di
rilievo disciplinare. Dopo quasi cinque anni di vigore della riforma,
l’attività di questi organi non appare ancora del tutto adeguata alle necessità di individuare e poi perseguire tempestivamente comportamenti integranti illeciti disciplinari che non siano quelli del ritardo nel
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deposito dei provvedimenti. Tale auspicato miglioramento appare urgente anche per la modifica, operata dalla citata riforma, dell’istituto
del trasferimento d’ufficio del magistrato per incompatibilità ambientale o funzionale (art. 2 della legge sulle guarentigie), ora limitato ai
soli casi di condotta incolpevole, che non consente al Consiglio di avviare la procedura né tanto meno di adottare il trasferimento laddove
il fatto denunciato sia astrattamente sussumibile in una fattispecie di
illecito disciplinare. È priva, dunque, di fondamento la tesi di una insoddisfacente amministrazione della giustizia disciplinare da parte del
Consiglio Superiore della Magistratura.
2. Suggestiva ma non condivisibile è la proposta di chi vorrebbe
sostituire al Consiglio una Corte di giustizia per i magistrati, composta di persone autorevoli ma scelte al di fuori dei magistrati. Un organo di tal genere è delineato nel disegno di legge di riforma costituzionale del sistema giudiziario presentato al Parlamento dal precedente
governo. Tra le molte critiche che si possono avanzare una riguarda
l’enfasi che viene posta, con la previsione in Costituzione di una Corte
disciplinare ad hoc, sulla responsabilità disciplinare dei Magistrati,
quasi si trattasse di soggetti potenzialmente pericolosi per la libertà e
i diritti dei cittadini. Un’altra riguarda la sua composizione che escluderebbe i magistrati. Orbene, vertendo la responsabilità disciplinare
prevalentemente sulla condotta professionale dei magistrati nell’esercizio delle funzioni, è importante che il giudice disciplinare sia, in
maggioranza almeno, composto da persone che svolgono la stessa funzione dell’incolpato e che ne conoscano quindi gli aspetti tecnici, organizzativi e di prassi. Non si vede dunque, perché, proprio per i magistrati ordinari si dovrebbe eliminare questa particolare caratteristica di ogni sistema disciplinare, sia di quelli che riguardano i soggetti
che esercitano funzioni pubbliche, sia di quelli che riguardano soggetti che esercitano professioni. Non deve sfuggire, a questo riguardo,
come l’organo disciplinare dei magistrati ordinari, a differenza di
quelli delle altre magistrature e di quello delle professioni, sia composto anche da non magistrati e come la sezione disciplinare sia presieduta non da un magistrato ma dal Vice Presidente del Consiglio, eletto, come gli altri componenti non magistrati, dal Parlamento in seduta comune. E ancora, come la funzione disciplinare svolta del Consiglio Superiore abbia le caratteristiche della giurisdizione, il che non
accade per i magistrati amministrativi e contabili.
3. Una riforma, invece, da non rifiutare a priori e da prendere in
considerazione è invece quella della separazione tra funzione discipli-
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nare e funzione di amministrazione, esercitate dal Consiglio. È per la
verità la stessa Costituzione a cumulare nella previsione dell’art. 105 le
funzioni di governo con quella disciplinare. E a ben riflettere la funzione disciplinare costituisce un aspetto della funzione di governo, autonomo, della magistratura attribuita al Consiglio Superiore, sicché
non è infondato ritenere che una netta separazione della funzione disciplinare da quella amministrativa, quale risulterebbe dalla creazione
di una Corte di giustizia disciplinare, finirebbe per indebolire il governo autonomo e di conseguenza l’autonomia dell’ordine giudiziario
e l’indipendenza dei magistrati. Diverso sarebbe se la funzione disciplinare rimanesse affidata al Consiglio, ma attribuita ad una sezione
composta da magistrati e componenti eletti dal Parlamento, nella proporzione di due terzi e un terzo, che non partecipino all’attività di amministrazione. A tal fine bisognerebbe aumentare i componenti del
Consiglio, comunque eletti dai magistrati e dal Parlamento, di un numero tale da consentire il buon funzionamento della sezione, per far
fronte per esempio alle incompatibilità legate alle vicende del procedimento e del giudizio. Una tale modifica avrebbe gli effetti positivi di
eliminare le ipotesi di possibile interferenza o sovrapposizione tra attività amministrativa e giurisdizione disciplinare e di consentire al
Consiglio come organo di amministrazione anche un ruolo di impulso dell’azione disciplinare. Si è accennato più sopra alla diversità della
funzione disciplinare dei magistrati ordinari rispetto a quella dei magistrati amministrativi e contabili. Quest’ultima è in tutte le sue fasi,
dalla contestazione al giudizio, attribuita all’organo di governo, il Consiglio di Presidenza, e si definisce non come giurisdizione ma come
procedimento amministrativo. In linea di principio, e come prospettiva, la proposta di costituire un organo disciplinare unico per magistrati ordinari, amministrativi e contabili, non è da rifiutare, a condizione che la composizione di tale organo assicuri comunque la maggioranza di magistrati. Certo, bisognerebbe superare le attuali profonde differenze dei sistemi, dalla previsione degli illeciti, alle caratteristiche e alla disciplina del procedimento. Il fatto è che tale proposta
acquisterebbe diverso significato e meriterebbe una convinta adesione
se essa fosse intesa come momento di un percorso verso l’unità della
giurisdizione, quanto meno nel senso di una unità di principi, di status, di ordinamento di tutte le magistrature professionali. E a ben
guardare essa dovrebbe essere la conseguenza non la premessa di tale
unità. Al di fuori di questa prospettiva la creazione di un solo organo
disciplinare per tutti i magistrati appare di difficile realizzazione.
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RELAZIONI
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Michele VIETTI
Vice Presidente del C.S.M.
Per affrontare il tema del giudizio disciplinare mi sembra doveroso anteporre una breve riflessione di carattere generale sul potere
giudiziario, come disegnato nella nostra Costituzione, utile a ricostruire il corretto inquadramento anche della relativa funzione disciplinare.
L’impostazione avanzata in Assemblea costituente da Piero Calamandrei, ed accolta nella Carta del ’48, prevede l’irresponsabilità (in
particolare, politica) della funzione giudiziaria, non solo giudicante,
ma anche requirente.
Un’irresponsabilità che, nella sua assolutezza, si configura come
pressoché unica nel panorama europeo e si giustifica proprio con l’esclusiva soggezione alla legge degli organi ad essa preposti.
Così come il giudice, a mente del capoverso dell’articolo 101 Cost.,
è “soggetto soltanto alla legge”, anche il pubblico ministero è strettamente vincolato nella sua attività di repressione dei reati, come pure
sancisce l’articolo 112 Cost. affermando che “il pubblico ministero ha
l’obbligo di esercitare l’azione penale”.
Il principio di legalità – cui giudici e pm sono entrambi sottoposti
nell’esercizio delle loro funzioni – è infatti incompatibile con valutazioni di opportunità, tipiche dell’amministrazione della cosa pubblica.
Ciò, tuttavia, non significa che i singoli magistrati siano assolutamente irresponsabili per le scelte che compiono nell’esercizio delle
proprie funzioni.
Questo profilo, invero, è oggetto del sindacato disciplinare effettuato dall’apposita sezione del Consiglio superiore della Magistratura.
Il controllo in sede disciplinare sulle modalità concrete di esercizio della funzione ha trovato conferma ed approfondimento con la recente riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006/2007 che manifesta l’intento di sottoporre ad una verifica, più stretta che non in passato, il modo in cui una funzione giudiziaria è in concreto esercitata,
facendone derivare ex post un’eventuale responsabilità giuridica del
magistrato; e questo, tra l’altro, nel quadro di una rinnovata concezione di tale responsabilità come strumento di garanzia diretta dell’interesse pubblico ad una giurisdizione efficiente e capace di esprimere
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adeguati livelli tecnico-professionali, più che di uno specifico interesse “autocorrettivo” dell’istituzione giudiziaria.
In questa prospettiva va sottolineata la reciproca interrelazione
che corre tra indipendenza della magistratura e sistema sanzionatorio
disciplinare.
Le fattispecie tipizzate dal decreto legislativo n. 109 del 2006 consentono, a contrario, di ricavare i titoli di legittimazione di una moderna magistratura, che fondano la giustificazione della sua autonomia ed indipendenza da ogni altro potere.
L’eccezione al principio democratico dell’investitura popolare trova
il suo fondamento in un rigoroso sistema di responsabilità che bilancia
commoda et incommoda e consente di inquadrare apparenti privilegi
attinenti allo status del magistrato come garanzie funzionali al corretto espletamento di una delicatissima attività, a condizione che questo
nesso funzionale sia rispettato e la qualità della prestazione assicurata.
Ecco allora il dovere di:
1. Rigorosa preparazione tecnico-giuridica, dunque un magistrato
immune da ignoranza o negligenza inescusabile, capace di motivare
congruamente senza contraddizioni logico-contenutistiche, consapevole dei propri limiti di intervento, attento a valori costituzionali come
la libertà personale, i diritti personali e patrimoniali, rispettoso delle
norme regolamentari e di organizzazione giudiziaria.
2. Imparzialità, dunque un magistrato immune da interferenze attive e passive, da incompatibilità, da frequentazioni e da ogni altro
comportamento tale da compromettere anche sotto il profilo dell’apparenza questo requisito, che rifugge dal perseguire fini estranei ai doveri ed alla funzione giudiziaria.
3. Correttezza, dunque un magistrato rispettoso del dovere di segretezza e di riservatezza, che evita incarichi extragiudiziali senza autorizzazione e attività incompatibili con le funzioni giudiziarie o che
rechino pregiudizio ai propri doveri.
4. Diligenza, dunque un magistrato che non si sottrae all’attività di
servizio, che non la compie con ritardo o la affida ad altri.
5. Riserbo, dunque un magistrato che rifugge da dichiarazioni o
interviste in violazione dei doveri di equilibrio e misura, specie se relative a soggetti coinvolti negli affari trattati, che evita manifestazioni
di consenso o dissenso su procedimenti in corso, che non partecipa ad
associazioni segrete o a partiti politici.
6. Equilibrio, dunque un magistrato che non fa un uso strumentale della sua qualità, idoneo a turbare l’esercizio delle funzioni costituzionalmente previste.
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Specularmente il catalogo disciplinare ci fornisce l’immagine di
una magistratura adeguata all’alta funzione di presidio della legalità
che, per poter dispensare in modo autorevole e credibile torti e ragioni cioè per essere ed essere percepita come super partes, è assistita
dalle guarentigie dell’autonomia e dell’indipendenza.
Ma autonomia ed indipendenza, prestigio e professionalità simul
stabunt simul cadent.
Solo una magistratura degna del suo ruolo può continuare a rivendicare la propria indipendenza da ogni altro potere. Perciò il sistema sanzionatorio disciplinare è un elemento di garanzia dell’indipendenza della giurisdizione perché tutela la sua credibilità e autorevolezza, condizioni del suo esercizio percepito come giusto.
Ma vale il reciproco: proprio perché la funzione di disciplina costituisce una delle forme più pervasive ed efficaci di condizionamento
dei singoli magistrati, sia con riferimento alla sanzione di condotte individuali, sia sotto il profilo di indirizzo dei comportamenti collettivi,
è particolarmente rilevante l’esigenza di autonomia ed indipendenza
dell’organo di giurisdizione da qualsiasi altro potere, al fine di assicurare una reale indipendenza alla magistratura stessa.
La riforma pare avere dato buona prova di sé: l’introduzione del
principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare da
parte del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, ferma restando la discrezionalità di agire del Ministro della giustizia, e la tipizzazione delle condotte disciplinarmente rilevanti hanno determinato non solo una migliore certezza del sistema, ma anche un incremento del numero di condanne a carico dei magistrati, tanto in termini assoluti quanto in proporzione rispetto alle assoluzioni. Per offrire un dato omogeneo di comparazione, è possibile rilevare che,
mentre nel quadriennio 2007/2010 risultano 116 condanne e 85 assoluzioni dibattimentali, nel quadriennio 1999/2002 ci sono state 88 condanne e 193 assoluzioni dibattimentali e nel quadriennio 2003/2006
117 condanne e 212 assoluzioni dibattimentali.
Accanto a tale dato in netta crescita, che dimostra un’evidente
maggiore attenzione ai fenomeni negativi, deve riscontrarsi un corrispondente aumento dei provvedimenti di non luogo a procedere a
causa della cessata appartenenza all’ordine giudiziario del magistrato
che, sottoposto al procedimento disciplinare, ha preferito collocarsi a
riposo.
Nel frattempo, la Corte costituzionale con la sentenza n. 262 del
2003, ha evidenziato l’esigenza di assicurare maggiori garanzie di imparzialità, affermando l’incompatibilità dei componenti della Sezione
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Disciplinare che si sono pronunciati sul merito dell’incolpazione a
partecipare al giudizio di rinvio conseguente all’annullamento della
decisione disposto dalla Corte di cassazione, mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge n. 195
del 1958 nella parte in cui non prevedevano l’elezione di un numero di
membri sufficiente a far fronte a tale incompatibilità.
Proprio prendendo atto di tali esigenze, il decreto organizzativo
della Sezione Disciplinare, adottato all’inizio della presente consiliatura, ha stabilito il mutamento del collegio, oltre che nella situazione prevista dalla sentenza della Corte costituzionale appena citata, anche laddove nel corso del medesimo procedimento sia stata
adottata una misura cautelare ovvero sia stata rigettata una richiesta di non luogo a procedere formulata dalla Procura Generale. Invero, pur considerando che la giurisprudenza delle Sezioni Unite
della Corte di cassazione ha escluso l’incompatibilità dei giudici
della decisione cautelare o sulla richiesta di non luogo a procedere
a partecipare alla decisione sul merito dell’incolpazione, si è voluto
ridurre il più possibile il rischio di un possibile pregiudizio all’immagine di imparzialità derivante dal cumulo di funzioni decisorie e
dalla suggestione a leggere la pronuncia finale come condizionata
da quelle interlocutorie.
È evidente, perciò, anche nell’effettività dell’applicazione del sistema il tentativo di coniugare rigore, assolutamente non paragonabile
con quello di altri ordini o categorie professionali, e garanzie difensive, e di dare vita ad un modello ben lontano da quello “paternalistico”
e di “giustizia domestica”, bensì attento alle aspettative dell’intera collettività.
Numerosi sono stati nel tempo i progetti di riforma che hanno interessato la Sezione disciplinare.
Tra quelli presentati in Parlamento merita attenzione particolare
il recente progetto di iniziativa governativa, presentato dagli onorevoli Berlusconi ed Alfano, che ha riguardato l’intero sistema giudiziario,
prefigurando lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura in Consiglio superiore della magistratura giudicante e Consiglio
superiore della magistratura requirente. In particolare, al sistema disciplinare è dedicato l’art. 105-bis. In questo articolo, la competenza
ad adottare i provvedimenti disciplinari relativi ai magistrati è attribuita ad una “Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente”, divisa in due sezioni, una per i giudici ed una per i pubblici ministeri, i cui componenti sono eletti per una metà dalla categoria
magistratuale di riferimento, al proprio interno, nell’ambito di una
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rosa di eleggibili individuata per sorteggio, e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune.
Più delicato è il discorso relativo all’istituzione ed alla composizione della Corte di disciplina.
Questo organismo, infatti, si presenta di difficile collocazione all’interno dell’architettura costituzionale, fondata sulla separazione dei
poteri e quindi su uno schema che incardina il Consiglio superiore nel
ruolo di rappresentanza e garanzia della giurisdizione, cui è connaturato ontologicamente anche l’esercizio dell’azione disciplinare. La sua
composizione, inoltre, per la presenza paritaria di laici e togati, e per
le funzioni di vertice attribuite ai membri eletti dal Parlamento, rischia di renderlo più permeabile ad esigenze esterne, anche in considerazione della possibilità di indirizzare, attraverso l’amministrazione
delle sanzioni, i comportamenti collettivi della magistratura.
Una soluzione che potrebbe venire incontro all’esigenza di garantire una netta distinzione tra l’esercizio delle funzioni disciplinari e l’esercizio delle altre funzioni di governo della magistratura, che oggi l’identità dei componenti il Consiglio e la Sezione non garantisce adeguatamente, potrebbe essere quella di prevedere l’elezione di una Sezione Disciplinare separata rispetto al Consiglio superiore, con una
precisa incompatibilità tra i componenti della prima e gli altri componenti dell’organo di autogoverno. Per questa via, anzi, si aprirebbe
uno spazio per tenere distinti i piani di giudizio della gestione amministrativa e del giudizio disciplinare, ed assegnare al Consiglio superiore, evitando incompatibilità anche solo di immagine, poteri di iniziativa disciplinare autonomi rispetto a quelli del Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, preservando l’autonomia e l’indipendenza dell’organo di giurisdizione da
ogni forma di condizionamento.
Resta tuttavia da segnalare la difficoltà di comprendere le ragioni
per le quali interventi così incisivi – che sottraggono all’organo di governo autonomo, costituzionalmente previsto a garanzia dell’indipendente ed imparziale esercizio della giurisdizione, lo svolgimento della
funzione disciplinare – dovrebbero essere adottati nei confronti della
sola magistratura ordinaria e non anche di quella amministrativa e
contabile.
Per queste magistrature, infatti, nulla si prevede, sebbene anch’esse abbiano un sistema disciplinare amministrato dal rispettivo organo
di autogoverno.
In particolare, il Presidente del Consiglio di Stato esercita l’azione
disciplinare, fa parte dell’organo che decide se archiviare o procedere
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ad istruttoria ed alla fine del procedimento assume la decisione finale. Allo stesso modo, relativamente ai magistrati contabili, il potere di
iniziativa disciplinare è riservato esclusivamente al Procuratore generale della Corte dei conti, mentre il Consiglio di presidenza delibera
sia sull’apertura del procedimento disciplinare sia sulla decisione finale.
In entrambi i casi i componenti del Consiglio di Presidenza partecipano anche alla decisione finale.
Né va sottaciuto che il procedimento disciplinare a carico dei magistrati amministrativi e contabili ha natura amministrativa e pertanto il provvedimento finale è impugnabile davanti al Tribunale amministrativo regionale.
Non mi scandalizzerebbe perciò, se veramente si volesse ricostruire dalle fondamenta l’assetto strutturale del sistema deontologico,
il riflettere sui pro e sui contro dell’istituzione di un giudice disciplinare comune a tutti i magistrati, appartengano o meno all’ordine giudiziario. In questa direzione, del resto, si era già mossa, almeno parzialmente, la Commissione Bicamerale istituita nel 1997, che aveva
previsto che l’organismo di giustizia disciplinare fosse comune alla
magistratura ordinaria ed a quella amministrativa e composto di sei
membri eletti dal C.S.M. (quattro togati e due laici) e tre dall’organo
di governo autonomo della magistratura amministrativa (due togati
ed un laico).
La problematica dell’odierno incontro è fortemente discussa,
anche all’interno del Consiglio superiore tanto che, già in sede di plenum al momento di deliberare l’organizzazione del convegno, si sono
manifestate opinioni e sensibilità diverse.
Credo, tuttavia, che questo incontro abbia incontestabilmente il
merito di costituire un momento di dialogo tra il Consiglio ed il suo
“intorno”, anzitutto le magistrature sorelle, affinché le soluzioni, quali
che siano, possano maturare all’esito del confronto, presupposto indispensabile per dare vita ad ogni riforma che si voglia efficace e durevole nel tempo.
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Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Pasquale de LISE
Presidente del Consiglio di Stato
Sommario: 1. Premessa. 2. La collocazione del giudice amministrativo nella Costituzione. 3. La riforma del giudice disciplinare. La previsione di un organismo unitario per la magistratura ordinaria ed amministrativa. 3.1. Le modalità di regolamentazione dell’organismo di
disciplina. 4. La disciplina sostanziale dell’illecito disciplinare: cenni.
5. Conclusioni.
1. Premessa
Sono grato al Presidente Vietti per avere promosso questo incontro e per avermi invitato a parteciparvi sì da potere esprimere, in qualità di Presidente del Consiglio di Stato, il mio punto di vista in relazione ad una questione di estremo interesse ed attualità per tutte le
magistrature, compresa quella amministrativa: la modifica del giudizio disciplinare.
Tengo a precisare che le opinioni che esporrò sono formulate a titolo personale e in quanto tali non impegnano l’organo di autogoverno della Magistratura amministrativa. Esse sostanzialmente coincidono con quelle che ho sostenuto, nel maggio scorso, in occasione dell’audizione presso le Commissioni riunite affari costituzionali e giustizia della Camera dei deputati, in relazione al disegno di legge costituzionale del Governo e ad altre proposte di legge collegate concernenti la riforma della giustizia.
2. La collocazione del giudice amministrativo nella Costituzione
La premessa necessaria dell’analisi è rappresentata dalla valutazione, in estrema sintesi, della collocazione del giudice amministrativo nel complessivo sistema di tutela giurisdizionale, quale configurato dalla Costituzione. È ormai definitivamente acquisito, soprattutto a
seguito di alcune pronunce della Corte costituzionale e in particolare
25
della sentenza n. 204 del 2004, che – entro il principio di unità della
giurisdizione inteso in senso non organico ma funzionale, che non
esclude ma implica la divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi ed autonomi – il giudice amministrativo è il giudice “ordinario”
delle situazioni soggettive attribuite alla sua cognizione. A tale riguardo, va rimarcato che la pluralità dei giudici – nell’omogeneità della
funzione giurisdizionale – costituisce un valore aggiunto, una ricchezza per il Paese e un vantaggio per il cittadino, perché, nella diversità
delle tecniche di tutela, la “specializzazione” del giudice amministrativo conduce ad un approfondimento del sindacato che giova al privato
ma anche all’amministrazione.
3. La riforma del giudice disciplinare. La previsione
di un organismo unitario per la magistratura ordinaria
ed amministrativa
Oggi il procedimento disciplinare è regolato in maniera diversa
per i magistrati ordinari e amministrativi: per i primi esso ha natura
giurisdizionale e si svolge, per espressa previsione costituzionale (art.
105), innanzi alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della
magistratura; per i magistrati amministrativi ha natura amministrativa e si svolge dinanzi all’organo di autogoverno.
In questa sede interessa rispondere alla domanda: riformare il giudice disciplinare?
Prima di provare a dare una risposta è importante porre in rilievo come, qualunque riforma si intenda adottare, occorra muovere dal
rapporto di stretta correlazione che esiste tra la garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato e la conformazione delle regole sulla responsabilità. In particolare, la prospettiva della irrogazione di una sanzione, potendo «condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida», impone, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza. n. 87 del 2009), «che
siano adottate tutte le misure volte ad evitare ogni indebito condizionamento».
Nel corso degli anni sono state avanzate varie proposte di riforma
del sistema vigente.
Il progetto di revisione della parte seconda della Costituzione predisposto dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali,
istituita con legge n. 1 del 1997 (cosiddetta Commissione D’Alema), at-
26
tribuiva ad un organismo unitario, la Corte di giustizia della magistratura, la competenza in materia di provvedimenti disciplinari nei
riguardi dei giudici ordinari e amministrativi e dei magistrati del pubblico ministero.
Il recente disegno di legge governativo di modifica costituzionale
– nel prevedere anch’esso l’istituzione di un apposito organo, denominato “Corte di disciplina” – ne limita la competenza ai procedimenti
disciplinari nei confronti dei magistrati ordinari.
La ratio, sottesa ai diversi interventi, è quella di evitare qualsiasi
commistione tra lo svolgimento delle funzioni amministrative inerenti allo status e alle carriere del personale di magistratura da un lato e
l’accertamento della responsabilità disciplinare, dall’altro.
La ragione giustificativa della ipotizzata riforma, che vale per
tutte le magistrature, unitamente alla valutazione della unitarietà
funzionale della giurisdizione, di cui si è detto, e alla esigenza comune di assicurare il valore costituzionale dell’autonomia e della indipendenza dovrebbero, a mio avviso, condurre alla istituzione di un
organo disciplinare con competenza generale per i componenti di
tutti gli ordini giudiziari. Del resto, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 87 del 2009, ha chiaramente precisato che l’attuale
differente configurazione del procedimento disciplinare per i magistrati ordinari e amministrativi costituisce il risultato di una «scelta
del legislatore» ma non è imposta dalla Costituzione e, in particolare,
dai principi fondamentali relativi all’assetto complessivo delle magistrature.
Dovrebbe, invece, rimanere ferma, perché risponde ai criteri generali di riparto della giurisdizione, l’attuale competenza del giudice
amministrativo in ordine all’impugnazione degli atti concernenti lo
status e la carriera dei magistrati. Questo, come è noto, è un tema
molto delicato, ma sento di potere affermare che il giudice amministrativo esercita il proprio sindacato – in conformità a quanto prescritto dall’art. 113 della Costituzione che stabilisce la giustiziabilità di
tutti i provvedimenti amministrativi – con rispetto istituzionale e
grande cautela.
3.1. Le modalità di regolamentazione dell’organismo di disciplina
Per le sue implicazioni sul vigente sistema delle garanzie previste
per i magistrati ordinari (artt. 105 e 107 Cost.), la riforma dovrebbe
trovare il proprio fondamento in una legge costituzionale con disposizioni attuative rimesse alla legislazione ordinaria.
27
Per la modifica del regime di responsabilità dei magistrati amministrativi sarebbe sufficiente la legge ordinaria. L’esigenza, tuttavia, di
unitarietà ed omogeneità del sistema giustifica anche per essi l’impiego dello strumento della legge costituzionale.
Questa dovrebbe riguardare la struttura essenziale della riforma
che, a mio avviso, comprende: l’istituzione del nuovo organo, la natura, la composizione e le competenze dello stesso, l’iniziativa disciplinare, la previsione del rispetto del principio del giusto processo nonché il regime delle impugnazioni.
Passo brevemente in rassegna gli aspetti di maggiore rilevanza.
Per quanto attiene alla natura dell’organo, è opportuno riconoscere ad esso carattere giurisdizionale (come è già previsto per i magistrati ordinari).
Forse il più delicato fra tutti è l’aspetto relativo alla composizione.
L’ampia varietà delle scelte organizzative rende opportuno chiarire, in
via preliminare, che, qualunque sia il modulo prescelto, devono essere rispettati i principi di indipendenza e di autonomia dell’organo volti
ad assicurare che i nominati siano, da un lato, estranei agli interessi
sottesi al procedimento disciplinare e, dall’altro, dotati della necessaria capacità e competenza tecnica.
La valorizzazione del primo aspetto mi induce ad essere contrario
alle soluzioni prospettate nelle diverse iniziative di modifica costituzionale, che – demandando la scelta dei componenti al Parlamento,
agli stessi magistrati o agli organi di autogoverno – comporterebbero
inevitabilmente condizionamenti politici o corporativi.
L’esigenza di garantire il secondo profilo sopra indicato impone di
evitare la previsione, anch’essa contenuta in una proposta di riforma,
che individua i soggetti eleggibili mediante “sorteggio” e cioè attraverso un metodo che, affidando la scelta alla sorte, prescinde del tutto
dalla considerazione dei necessari requisiti di competenza ed esperienza.
Allora una opzione organizzativa tale da rispondere agli indicati
principi potrebbe essere, a mio avviso, quella che prevede la presenza
di componenti “di diritto”, eventualmente individuati tra i presidenti
emeriti della Corte costituzionale e delle Magistrature superiori, e di
ulteriori componenti designati, nell’ambito di categorie predeterminate, dal Presidente della Repubblica.
In relazione alla iniziativa disciplinare, la stessa potrebbe essere
attribuita per i magistrati ordinari al Ministro della giustizia, al Procuratore generale della Cassazione e, innovando la normativa vigente,
allo stesso C.S.M., e per i magistrati amministrativi al Presidente del
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Consiglio dei Ministri, al Presidente del Consiglio di Stato nonché,
anche in questo caso modificando le regole attuali, al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
Per effetto della già indicata natura giurisdizionale dell’organo di
disciplina, al relativo procedimento si dovrebbero rendere applicabili
le regole che presiedono allo svolgimento del giusto processo (art. 111
Cost. e art. 6 Cedu), le quali sono suscettibili di specificazione con
legge ordinaria.
Rimane la questione, anch’essa molto delicata, relativa alla impugnazione delle decisioni adottate dal giudice disciplinare.
A tale riguardo, sono prospettabili due soluzioni.
Si potrebbe prevedere – secondo un prima opzione – che la legge
costituzionale di riforma sancisca espressamente la non impugnabilità delle decisioni assunte dall’organo di disciplina. Una volta ammessa, come si è detto, la natura giurisdizionale di tale organo, non risulta necessario, in assenza di un fondamento costituzionale del principio del doppio grado di giurisdizione (da ultimo, Corte cost. n. 274
del 2009), prevedere un mezzo di impugnazione delle relative decisioni. Tanto più che non appare opportuno che sia la Corte di Cassazione, ossia l’organo di vertice della sola magistratura ordinaria, a dovere decidere sulle impugnazioni dei provvedimenti adottati da un soggetto con potere disciplinare esteso a tutte le magistrature.
Se poi – questa è la seconda opzione – si volesse comunque ammettere l’impugnabilità delle decisioni dell’organo disciplinare, la
competenza potrebbe essere attribuita alle Sezioni unite della Corte di
cassazione, integrate con componenti delle altre magistrature.
Una siffatta soluzione si inquadra nel più ampio contesto dei rapporti tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, rapporti che nel
tempo si sono andati rafforzando: il confine che le separa è un confine aperto, in grado di consentire una sorta di osmosi che potrebbe
estendersi allo scambio tra giudici supremi, con reciproco arricchimento professionale. In questa ottica sarebbe ipotizzabile – ma questo
è un discorso diverso che non attiene alla responsabilità disciplinare –
l’istituzione, anche in vista di un più partecipato esercizio della funzione di regolazione della giurisdizione, di un Tribunale dei conflitti
con composizione paritaria e attribuzione delle funzioni di vertice al
Primo Presidente della Corte di Cassazione. Del resto, nel sistema
francese la risoluzione dei conflitti di giurisdizione è rimessa, da oltre
due secoli, al Tribunal des conflits, costituito paritariamente da magistrati del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione.
Una volta rispettate le indicate coordinate di rilevanza costituzio-
29
nale, ritengo che la relativa disciplina di attuazione possa essere definita con legge ordinaria, riconoscendo una riserva di competenza normativa secondaria all’organismo unitario.
La proposta di riforma, strutturata nei modi sin qui esposti, è, a
mio avviso, tale da assicurare un giusto equilibrio, nella ripartizione
dei rispettivi spazi di intervento, tra legge costituzionale e legge ordinaria. Non si potrebbe, pertanto, parlare, come è stato fatto per i disegni di legge costituzionale di riforma, di una “decostituzionalizzazione delle garanzie” con pregiudizio dell’autonomia e della indipendenza
della magistratura.
4. La disciplina sostanziale dell’illecito disciplinare: cenni
Se ci spostiamo dal piano processuale a quello sostanziale deve rilevarsi come la disciplina contenuta nel decreto legislativo 23 febbraio
2006, n. 109 trovi applicazione, per sua espressa previsione (art. 30),
ai soli magistrati ordinari.
Nel momento in cui si crea un nuovo organismo con competenza
disciplinare estesa a tutte le magistrature sarebbe necessario che per
la magistratura amministrativa, che oggi ne è priva, si provveda all’adozione di una specifica disciplina sostanziale dell’illecito che rispetti
il fondamentale canone della tipicità.
In questa prospettiva sarebbe opportuno – come ha recentemente
rilevato il Presidente della Repubblica, intervenendo alla cerimonia di
insediamento del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura – che, per tutte le magistrature, sia adottato, anche per assicurare un più puntuale svolgimento delle regole di condotta, un codice deontologico al fine di «affermare il necessario rigore nel costume
e nei comportamenti». In tale senso si muove anche la raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010, che ha invitato gli Stati membri a sancire i principi di deontologia giudiziaria in codici etici che “debbono ispirare pubblica fiducia nei giudici e nella magistratura”.
Prima di concludere non posso non fare un cenno alla questione
relativa alla responsabilità civile del magistrato. Pur operando secondo moduli differenti, è noto che la condotta che integra un illecito civile rileva quasi sempre anche sul piano disciplinare. La Corte di giustizia, con la sentenza del 24 novembre 2011 C-379/10, ha affermato
che è contraria alle regole europee la normativa attualmente vigente in
30
Italia nella parte in cui prevede sia la esclusione di responsabilità per
l’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero la valutazione
del fatto o delle prove sia la limitazione di responsabilità ai casi di
colpa grave, ritenendo non coincidente tale presupposto con quello
della “violazione manifesta” richiesto dalla giurisprudenza comunitaria. Si rende, pertanto, necessaria sul punto una riforma della legge n.
117 del 1988. Non condivido, invece, come ho già avuto modo di affermare nell’audizione (cui rinvio per ulteriori approfondimenti), la
proposta, contenuta nell’ultimo disegno di legge costituzionale del Governo di riforma della giustizia volta ad introdurre una disposizione
che sancisca la responsabilità diretta dei magistrati «al pari degli altri
funzionari e dipendenti dello Stato». L’ipotizzata assimilazione della responsabilità nell’esercizio della funzione giurisdizionale a quella ascrivibile ai funzionari e dipendenti dello Stato, oltre a determinare
un’impropria equiparazione quoad effectum di funzioni differenti ed
implicanti profili di responsabilità insuscettibili di omogenea considerazione, costituisce un innegabile pregiudizio per l’indipendenza e
l’autonomia dell’ordinamento giudiziario (come è stato espressamente affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 22 giugno 1992,
n. 289).
5. Conclusioni
Concludo rilevando che il prestigio di una Istituzione oggi non è
più correlato all’esercizio della funzione ma al modo con cui la si esercita. È pertanto necessario che si definisca un sistema di responsabilità disciplinare – comune per tutte le magistrature – quanto più possibile efficiente e garantista. Alla domanda che dà il titolo a questo incontro deve, pertanto, essere fornita, a mio avviso, una risposta positiva.
31
La responsabilità disciplinare dei magistrati contabili
Luigi GIAMPAOLINO
Presidente della Corte dei conti
Sommario: 1. La responsabilità disciplinare del magistrato contabile
in generale – 2. Il procedimento disciplinare per i magistrati contabili.
1. La responsabilità disciplinare del magistrato contabile in
generale
Così come i loro colleghi ordinari ed amministrativi, anche i magistrati contabili rispondono delle conseguenze dei propri comportamenti illeciti sul piano civile, penale, amministrativo e disciplinare.
Tutta la materia della responsabilità civile, penale ed amministrativa
non si discosta in nulla da quella per i magistrati ordinari, con piena
applicazione anche della L. 13 aprile 1988, n. 117 (anche con riguardo
ai consiglieri di nomina governativa).
Una significativa differenza si riscontra, invece, nella materia
della responsabilità disciplinare. Difatti ai magistrati contabili, per i
quali la materia disciplinare è lacunosamente oggi regolata dall’art.
10, co. 4° e 9° della L. 13 aprile 1988, n. 117 (e, sul piano procedurale, dal Regolamento di disciplina approvato dal Consiglio di Presidenza il 26 luglio 2000 n. 510/CP/2000, che, però, rappresenta una fonte
interna di discutibile valenza giuridica), in passato, in virtù del richiamo fatto dal cennato art. 10, co. 9°, L. n. 117 alla normativa disciplinare concernente i magistrati amministrativi (in particolare all’art. 32, L. 27 aprile 1982 n. 186), si estendeva, salvo diversa previsione fissata dalla L. n. 117 del 1988 e dalla L. n. 186 del 1982, la regolamentazione, sostanziale (le condotte illecite) e procedurali dell’iter disciplinare previsto per i magistrati ordinari (ergo il R.D.L.vo 31 maggio 1946 n. 511) in base al richiamo espresso contenuto nell’art. 32, L.
n. 186 cit. In sintesi, la L. n. 117 sui magistrati contabili richiamava la
L. n. 182 sui magistrati amministrativi che, a sua volta, richiamava il
R.D.L.vo 511 del 1946 sui magistrati ordinari. Oggi, invece, non trova
più applicazione il novellato regime disciplinare del D.L.vo 23 febbraio 2006 n. 109 e succ. mod. che, in base al relativo art. 30, opera te-
33
stualmente per i soli magistrati ordinari e non per quelli amministrativi e contabili.
Tale pregresso rinvio alla normativa concernente i magistrati ordinari non assumeva decisiva rilevanza in ordine agli aspetti procedurali, in quanto già compiutamente regolati, unitamente alle sanzioni
comminabili, dalla L. n. 117 del 1988 cit. e dal regolamento interno 26
luglio 2000 n. 510/CP/2000 soprarichiamato (che però rappresenta
una fonte interna di discutibile legittimità, a fronte del dettato costituzionale dell’art. 108 Cost., che impone una riserva di legge in materia di ordinamento magistratuale), quanto piuttosto per i profili sostanziali, ovvero quelli concernenti l’individuazione delle condotte
sanzionabili.
Tale “buco” normativo sui profili sostanziali originato dall’art. 30,
D.L.vo n. 109 del 2006, porta, attualmente, ad una difficile opera di reperimento delle fonti in materia di tipizzazione degli illeciti per i magistrati della Corte dei conti (al pari dei colleghi amministrativi) e ad
una incertezza della materia disciplinare, per i magistrati contabili,
per carenza di referenti normativi.
Quali fonti in materia, accanto alla minimale specifica regolamentazione contenuta nell’art. 10, co. 4° e 9° della L. n. 117 del 1988
(e della ivi richiamata L. n. 186 del 1982) e, quale fatale “normativa di
chiusura”, ai generali principi fissati dagli artt. 78-123 del D.P.R. 10
gennaio 1957 n. 3 e dalla L. 27 marzo 2001 n. 97 e dal D.L. 16 marzo
2004, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 maggio 2004, n.
1261, un referente, per così dire, “sostanziale” è rappresentato dal codice deontologico2 approvato dal Consiglio Direttivo della Associazio1
In base a tali leggi è oggi consentito ai magistrati, pubblici dipendenti, sospesi
dal servizio e poi prosciolti in sede penale, con formule più o meno ampie, di ottenere,
sulla base di certi presupposti, il ripristino del rapporto di impiego, nonché una piena
e satisfattiva reintegrazione nel rapporto di servizio.
2
Per un commento a tale codice, e sui restanti codici deontologici adottati dalle
altre magistrature v. i testi e le osservazioni pubblicate in Foro It., 1996, III, 38 con osservazioni di BARBAGALLO, I codici etici delle magistrature, secondo il quale “Tali regole, quindi, non sono regole giuridiche in senso proprio, in quanto indicano valori
privi di coercibilità, piuttosto che precetti coercibili. Al tempo stesso esse, però, non appaiono neppure regole propriamente morali, in quanto queste ultime si esauriscono
nella sfera dell’interiorità di ogni singolo soggetto. Si tratterebbe quindi, di regole esteriori, non giuridiche, caratterizzate dalla completa mancanza del carattere di coercibilità. Questo carattere di non coercibilità emerge anche da una delle finalità di queste
disposizioni. Una delle ragioni fondamentali, infatti, che pare segnare la nascita di questo tipo di regole, può individuarsi, come si è accennato, nell’avvertita insufficienza
delle norme giuridiche a regolare la nostra società”.
34
ne Magistrati della Corte dei conti nella riunione del 23 gennaio 2006
(vedilo in Appendice normativa dal volume FRESA, FANTACCHIOTTI, TENORE, VITELLO, con il coordinamento di TENORE, “La responsabilità disciplinare dei magistrati”, Giuffrè, 2010,) che non sembra però avere valenza giuridica3 e, sul piano “procedurale”, dal ricordato (forse non legittimo) Regolamento interno 26 luglio 2000 n.
510/CP/2000, che ha dettagliato e completato le (troppo) snelle previsioni dell’art. 10, co. 4° e 9°, L. n. 117 del 1988 e degli artt. 32-34, L. n.
186 del 1982.
La carenza più grave dell’attuale sistema è rappresentato, come
detto, da una assenza totale di tipizzazione delle condotte passibili
di sanzioni disciplinari per i magistrati contabili (al pari di quelli
amministrativi), stante la natura interna e non giuridica del codice
etico e della assenza di norme primarie sul basilare punto, salvo ritenere applicabili gli artt. 78-85 del D.P.R. n. 3 del 1957 relativi alle
condotte passibili di sanzioni per i pubblici dipendenti (non privatizzati), o ritenere operanti, non direttamente (stante il divieto dell’art. 30, D.L.vo n. 109 del 2006), ma analogicamente (sebbene nel diritto “punitivo” tale meccanismo si presta a censure), le nuove norme
sulle condotte sanzionabili per i magistrati ordinari (artt. 1-13,
D.L.vo n. 109 del 2006). Una terza soluzione, da ritenere preferibile
in punto di diritto, potrebbe rinvenirsi ritenendo che il richiamo
operato dall’art. 32 della L. n. 186 (a cui l’art. 10 della L. 117 del 1988
rinvia) alle “norme previste per i magistrati ordinari in materia di
sanzioni disciplinari e del relativo procedimento”, siano ancora oggi
quelle del R.D. 31 maggio 1946 n. 511 (ivi compreso il “generico” art.
184) che, sebbene non più operanti per i magistrati ordinari, conserverebbero una ultravigenza per i magistrati contabili e amministrativi.
Alla giurisprudenza l’arduo compito di dirimere la complessa questione, di cui dovrebbe farsi carico, con somma urgenza, ispirandosi
3
Si segnala che mentre il preambolo a tale Codice etico dei Magistrati amministrativi afferma testualmente la valenza non giuridica dello stesso, quello dei Magistrati
contabili nulla dice sul punto, ma la fonte del deliberato, meramente interna (una associazione di Magistrati contabili) esclude ex se la valenza giuridica di tale codice.
4
Si rammenta che secondo la poco tassativa formulazione dell’art. 18 del R.D.L.vo
n. 511 del 1946, si aveva illecito tutte le volte che “il magistrato manchi ai suoi doveri
o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e
della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”.
35
ai principi generali del diritto disciplinare4-bis, il legislatore primario, al
quale è devoluto dall’art. 108 della Costituzione il compito di garantire l’indipendenza della magistratura contabile (e amministrativa),
missione da ottemperare anche individuando tassative ipotesi di condotte disciplinarmente rilevanti dei magistrati speciali, la cui cristallizzazione non può certo essere demandata a regolamenti interni o al
Consiglio di Presidenza, in violazione della riserva di legge sancita dal
suddetto art. 108 Cost.: è consolidato nella giurisprudenza costituzionale il principio in virtù del quale esclusivamente l’indipendenza dei
magistrati ordinari è stabilita direttamente nella Carta fondamentale,
mentre quella dei giudici speciali è fissata con legge ordinaria (art.
108, co. 2°, Cost.)5.
L’auspicato intervento legislativo teso ad individuare gli illeciti
sanzionabili si palesa necessario in un momento storico in cui il profilo etico e comportamentale del magistrato contabile assume una accresciuta rilevanza alla luce della notevole espansione della Corte dei
conti6 a seguito del graduale ampliamento della sua giurisdizione su
danni erariali arrecati anche da soggetti privati e dell’ampliamento
delle gestioni pubbliche sottoposte a controllo (da ultimo v. l’art. 11
della legge Brunetta 4 marzo 2009 n. 15).
sui principi generali del diritto disciplinare, cfr. TENORE, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego, EpC Roma, 2007 e a Noviello-Tenore, La responsabilità ed il
procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002. Per un accenno alla responsabilità disciplinare dei magistrati contabili, tematica mai affrontata
a livello dottrinale, si segnala CASO, La magistratura contabile, in CARINCI-TENORE
(a cura di), Il pubblico impiego non privatizzato, Milano, 2007, vol. IV.
5
Tra le più recenti, cfr. Corte cost. 4 dicembre 2000 n. 542, cit.; Corte cost. 24 ottobre 2000 n. 433, in Cons. St., 2000, II, 1906. Come rettamente evidenziato da SALVATO (Osservazioni sul procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati amministrativi, in Giust. civ., 2002, 9, 2176), è evidentemente ammissibile che il valore dell’indipendenza sia tutelato mediante regole di contenuto differente. In questo senso è
significativo che il giudice delle leggi, con riguardo alla magistratura militare, per la
quale pure è stata realizzata un’omologazione assai marcata con la magistratura ordinaria, ha affermato che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura rappresenta una soluzione organizzativa specifica adottata per la magistratura ordinaria «che non trova e non deve necessariamente trovare riscontro nelle previsioni
delle leggi che regolano gli organi a cui sono attribuite funzioni disciplinari nei confronti degli appartenenti a ordini e collegi, e nemmeno nelle leggi che regolano i vari
consigli (o consigli di presidenza) a cui è demandato di svolgere, in forme giurisdizionali, giudizi disciplinari nei confronti dei magistrati appartenenti a giurisdizioni speciali» (Corte cost. 12 marzo 1998 n. 52).
6
Sulle funzioni della Corte dei conti alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, v. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni,
controlli, Milano, II ed., 2008 con vasti richiami dottrinali e giurisprudenziali.
4-bis
36
Altra problematica questione attiene alle sanzioni comminabili ai
magistrati contabili: a fronte del silenzio della L. n. 117 del 1988 e
della richiamata L. n. 186 del 1982 e della non applicabilità ex art. 30,
D.L.vo n. 109 del 2006 ai magistrati amministrativi e contabili delle
sanzioni previste per i magistrati ordinari dagli artt. 5 seg. D.L.vo n.
109 cit., non si rinvengono norme primarie che individuino le sanzioni disciplinari. A tale carenza sopperisce il regolamento interno del
Consiglio 26 luglio 2000 n. 510/CP/2000 che (nonostante possibile non
rispondenza alla riserva di legge sancita dall’art. 108 Cost.), all’art. 9,
individua cinque sanzioni: l’ammonimento, la censura, la perdita dell’anzianità, la rimozione e la destituzione dall’ufficio.
A prescindere dalla scarsa gradualità sanzionatoria7, difettando il
sistema di una sanzione intermedia tra la perdita di anzianità e la rimozione (quale potrebbe essere la sospensione dal servizio da tre mesi
a due anni come previsto dall’art. 5, D.L.vo n. 109 del 2006 per i magistrati ordinari), la normativa regolamentare lascia aperti vari problemi: a) la sua legittimità/idoneità, quale fonte meramente interna, a
fissare sanzioni che la riserva di legge dell’art. 108 Cost. devolve al legislatore primario; b) la mancanza di tipizzazione (ancorchè minimale o generica) delle condotte illecite sanzionabili con dette misure, con
conseguente impossibilità di punire in concreto fatti non previsti da
nessuna fonte; c) la mancata previsione della valutabilità in sede sanzionatoria di circostanze attenuanti, aggravanti, della recidiva, del
concorso di illeciti etc., istituti di regola censiti in ogni sistema disciplinare.
Quale soluzione al problema, o si ritiene che il datato rinvio operato dall’art. 32, L. n. 186 (richiamato dalla L. n. 117 del 1988) al
R.D.L.vo n. 511 del 1946 (e in particolare all’art. 19 seg.) sia un rinvio
fisso e non dinamico alle previgenti sanzioni e condotte previste per i
magistrati ordinario, oppure l’attuale sistema è privo di sanzioni essendo previste da fonte interna in spregio di riserva di legge ex art. 108
Cost.
Tali gravi carenze dovrebbero indurre il legislatore ad intervenire
con rapidità sul punto, in ciò compulsato dalla stessa Corte dei conti
per evitare una altrimenti inevitabile in lentezza dell’esercizio del potere disciplinare per carenza di referenti sostanziali e incertezze sulle
fonti procedurali.
Sul principio di gradualità sanzionatoria si rinvia a Tenore, La responsabilità disciplinare cit., 21.
7
37
Sul piano sistematico, va rimarcato che, secondo univoca giurisprudenza anche costituzionale, il procedimento punitivo interno ha,
per i magistrati amministrativi e contabili, natura amministrativa e
non giurisdizionale come per i magistrati ordinari8, e i provvedimenti
resi dal Consiglio di Presidenza9, in esito a procedimenti disciplinari a
carico di magistrati contabili (come gli analoghi provvedimenti resi
dal Consiglio di Presidenza della magistratura amministrativa), sono
atti amministrativi, non giurisdizionali: tra i molteplici e rilevanti corollari giuridici di tale opzione teorica (applicabilità della L. n. 241 del
1990, non sollevabilità di questioni di illegittimità costituzionale, non
8
Ex pluribus, Cass., Sez.un., 10 aprile 2002 n. 5126 (in Giust. civ., 2002, I, 2169,
con nota di Salvato), secondo cui i provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza della
Giustizia amministrativa, in esito a procedimento disciplinare a carico di magistrato
amministrativo, sono atti (non giurisdizionali ma) amministrativi, non impugnabili,
come tali, con ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione, considerato che il richiamo delle norme del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari, operato dall’art. 32 L. 27 aprile 1982 n. 186, non vale ad attribuire al predetto Consiglio di Presidenza natura di organo giurisdizionale (natura spettante, per converso,
alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura). Nè l’inesperibilità
del suddetto ricorso pone dubbi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3
Cost., trovando il diverso regime dei mezzi di impugnazione giustificazione nella differente natura degli organi che tali procedimenti svolgono, e all’art. 24 Cost., atteso che
la posizione dell’interessato è pur sempre tutelabile in sede giurisdizionale davanti al
giudice amministrativo. La sentenza n. 71 del 1995 del giudice della legittimità delle
leggi ha ravvisato in via generale l’equiparazione sotto ogni profilo delle varie magistrature ed ha negato che l’applicazione della normativa regolante i procedimenti disciplinari dei magistrati ordinari a quelli riguardanti i magistrati militari comporti violazione del divieto di istituzione di giudici speciali posto dal richiamato art. 102 Cost.
Vedi anche la giurisprudenza citata nella successiva nota 38.
In terminis anche Tar Lazio, Roma, Sez. I, 21 luglio 1998 n. 2277, in Foro amm.,
1999, 1310.
9
Sul Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa cfr. Chieppa, Ordinamento della giurisdizione amministrativa, in Enc. giur. Treccani, XXII, Roma 1990, 9;
Pinardi, «Autogoverno» ed indipendenza dei giudici speciali: riflessioni sulla composizione prevista per il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, in Giur.
Cost., 1996, 3307; Romeo, Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: organo indipendente o legibus solutus?, in Dir. proc. amm., 1990, 711; Levi Sandri, Sul
nuovo ordinamento della giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1983, 418;
Buricelli, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di Caringella e Protto, Milano
2001, 968; Pinardi, La nuova composizione del Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa alla luce delle modifiche introdotte dalla L. n. 205 del 2000, in Dir.
pubbl., 2001, 327; Abbruzzone, La L. 21 luglio 2000, n. 205 ed il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, in Foro amm., 2000, 4065. Utile è la lettura di D’Aloia, Autonomia e indipendenza delle magistrature speciali: riforme legislative e orientamenti della Corte costituzionale, in Giudici e giurisdizioni nella giurisprudenza della
Corte costituzionale, a cura di Pitruzzella e Tarchi, Torino, 1997.
38
trasponibilità di principi del c.p.p. o del c.p.c., possibile utilizzo anche
dei ricorsi amministrativi avverso il provvedimento sanzionatorio, natura non pubblica delle audizioni etc.), si segnala anche la non impugnabilità delle sanzioni con ricorso alle Sezioni unite della Corte di
cassazione, considerato che il richiamo delle norme del procedimento
disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari, operato (prima della
novella del 2006) dall’art. 32, L. 27 aprile 1982 n. 186, non vale ad attribuire al predetto Consiglio di Presidenza natura di organo giurisdizionale (natura spettante alla Sezione disciplinare del C.S.M.), e che,
inoltre, la non esperibilità del suddetto ricorso non implica lesione del
diritto di difesa dell’interessato (art. 24 Cost.), restando le sue posizioni tutelabili in sede giurisdizionale davanti al giudice amministrativo10.
La Corte di Cassazione11, anche prima della novella del 2006 al sistema disciplinare per i magistrati ordinari, aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32
della L. n. 186 del 1982 nella parte in cui non prevede – a differenza
che per la magistratura ordinaria, ai sensi dell’art. 17, L. n. 195 del
1958, e per quella militare, ai sensi dell’art. 1, n. 3 della L. n. 561 del
1988 (nella lettura offertane dalla Corte costituzionale con sentenza n.
71 del 1995) – che i provvedimenti disciplinari nei confronti di magistrati amministrativi siano impugnabili con ricorso alle Sezioni unite
della Corte di Cassazione, non essendo assimilabili, per garanzie di indipendenza e articolazione di carriera, i magistrati amministrativi a
quelli ordinari ed essendo diverse la struttura, le funzioni e l’articolazione del procedimento disciplinare davanti al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa rispetto a quello davanti al C.S.M. e
al Consiglio della magistratura militare.
10
Per una critica a tale strumento di tutela presso giudici che sono a loro volta amministrati – per quel che concerne la carriera e la potestà disciplinare – dallo stesso organo di autogoverno che ha inflitto la sanzione v. Pinardi, «Autogoverno» ed indipendenza dei giudici speciali: riflessioni sulla composizione prevista per il Consiglio di
presidenza della giustizia amministrativa, in Giur. Cost., 1996, 3323; Romeo, Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: organo indipendente o legibus solutus?, in Dir. proc. amm., 1990, 727. Tuttavia la Consulta ha ritenuto legittima la c.d.
«giurisdizione domestica» prevista per i magistrati della Corte dei conti (Corte cost., 11
giugno 1975 n. 135, in Foro it., 1976, I, 2157).
11
Cass., Sez. un., 20 aprile 2004 n. 7585, in Giust. civ., 2005, 4, I, 1059. In terminis Cass., Sez. un., 10 aprile 2002 n. 5126, in Giust. civ., 2002, I, 2169, con nota di Salvato; id., Sez. un., 20 settembre 2000 n. 1049, in Foro it., 2001, I, 2322; id., Sez. un., 1°
ottobre 1999 n. 710, in Foro it., 1999, I, 2809; id., 11 dicembre 1992 n. 871, in Foro it.,
1993, I, 2898 con nota di Caruso e in Cons. Stato, 1993, II, 727.
39
Tali conclusioni sono trasponibili de plano per le sanzioni riguardanti i magistrati della Corte dei conti.
Oggi, l’espressa inapplicabilità (art. 30, D.L.vo n. 109 del 2006) ai
magistrati amministrativi e contabili della novella del 2006 al sistema
disciplinare dei magistrati ordinari, conferma tale pacifico approdo
ostativo alla tutela innanzi alle Sezioni unite della Cassazione dei magistrati amministrativi e contabili, che devono rivolgersi alla giustizia
amministrativa (o proporre ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica) avverso sanzioni disciplinari ritenute illegittime.
La diversa natura ed il diverso regime disciplinare (ma analoghe
considerazioni valgono per altri profili giuridici e ordinamentali) tra
magistrati ordinari e contabili non deve, secondo taluni (cfr. TENORE, passim, nota cit.) destare dubbi di costituzionalità, in quanto la
asserita riconducibilità ad unità delle differenti figure magistratuali,
sotto il profilo dello status, è smentita dalla diversità delle discipline
per esse stabilite dalla Costituzione, la quale considera distintamente
la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali (artt. 102 e 103
Cost.), fissando per le medesime principi di contenuto differente, tra
l’altro, quanto all’organo di governo autonomo, che esclusivamente
per quella ordinaria è costituzionalizzato (art. 105 Cost.), ed alle garanzie di indipendenza, previste direttamente per i magistrati ordinari (art. 107 Cost.) ed affidate invece alla legge ordinaria per i magistrati
contabili (art. 108 Cost.).
La stessa Costituzione, dunque, esplicitamente stabilisce l’esistenza di differenti modi di esercizio del potere giurisdizionale, identificabili nella magistratura ordinaria e nelle altre magistrature, e, secondo
la consolidata giurisprudenza costituzionale, in coerenza logica con
queste differenze, la magistratura ordinaria e quella amministrativa (e
contabile) “conservano peculiarità di ordinamento quanto alla rispettiva organizzazione ed alle relative garanzie costituzionali”12.
Del resto la collocazione dell’art. 103 Cost., nello stesso titolo che
disciplina la magistratura ordinaria non implica l’estensione delle disposizioni che riguardano esclusivamente quest’ultima a tutte le
altre13, avendo più volte la Consulta ribadito che l’ordinamento vigente, costituendo corretto svolgimento dei principi costituzionali, “non
Cfr. Corte cost., 16 gennaio 1978 n. 1, in Giur. it., 1979, I, 1, 33; Corte cost., 4 dicembre 2000 n. 542, in Foro it., 2001, I, 1461; Corte cost. 21 dicembre 2001 n. 434.
13
Cfr. Corte cost., 21 gennaio 1967 n. 1, in Giur. Cost., 1967, 5, con nota di Chieppa, A proposito di indipendenza della Corte dei conti e del Consiglio di Stato.
12
40
contempla una piena uniformità di disciplina, quanto all’attribuzione
delle funzioni, quanto all’assetto strutturale degli uffici, tra i magistrati dell’ordine giudiziario e quelli del Consiglio di Stato, nonché
della Corte dei conti e dei tribunali militari”14.
In conclusione, la struttura giurisdizionale del procedimento disciplinare, ad avviso del condivisibile indirizzo della Consulta e della
Cassazione, non è imprescindibile rispetto allo scopo di garantire il valore dell’indipendenza e la funzione giudiziaria, oltre che il singolo
magistrato speciale, il cui diritto alla difesa è, a nostro avviso, pienamente tutelato anche in sede procedimentale, sia da leggi generali (L.
7 agosto 1990 n. 241) che dalle norme settoriali, purchè vengano definite preventivamente le condotte tipiche suscettibili di sanzioni: in
caso contrario, l’individuazione “creativa” di fattispecie sanzionabili
da parte del Consiglio di Presidenza, esporrebbe la sanzione inflitta a
censure in giudizio.
2. Il procedimento disciplinare per i magistrati contabili.
Ferma restando, sul piano sostanziale, la segnalata gravissima assenza attuale di norme che individuino le fattispecie sostanziali sanzionabili e la dubbia previsione, solo regolamentare, delle sanzioni
comminabili (senza però correlazione a condotte illecite tipiche o atipiche), sul piano procedimentale, l’iter si svolge innanzi al Consiglio di
Presidenza ed è disciplinato dal cennato regolamento interno del Consiglio 26 luglio 2000 n. 510/CP/200015, che, sebbene non risponda alla
riserva di legge sancita dall’art. 108 Cost. per le materie di ordinamento magistratuale, ha dettagliato e completato le snelle previsioni
dell’art. 10, co. 4° e 9°, L. n. 117 del 1988 e degli artt. 32-34, L. n. 186
del 1982. Trattasi di normativa minima e in alcuni punti lacunosa (es.
rapporti tra illecito disciplinare ed illecito penale; compiuta regola14
Corte cost., 16 gennaio 1978 n. 1, cit. La specialità della giurisdizione implica,
infatti, la specialità del giudice anche sotto il profilo organizzativo ed ordinamentale,
in quanto dalla Costituzione è ricavabile una equivalenza giurisdizione speciale=magistrato connotato da una propria peculiare organizzazione distinta e diversa rispetto a
quello ordinario: sul punto: Corte cost., 21 dicembre 2001 n. 434, cit.; Corte cost., 30
gennaio 2002 n. 10, cit.; Corte cost., 23 aprile 1998 n. 144, in Giur. Cost., 1998, 1127;
Corte cost., 12 marzo 1998 n. 52, ivi, 620, con nota di Lolli, La Corte costituzionale ed
il Consiglio della magistratura militare: nessuno è «perfetto».
15
Tale regolamento è comunque molto più puntuale e dettagliato di quello adottato dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa.
41
mentazione dei termini infraprocedimentali e finali), che richiederebbe una riscrittura da parte del legislatore essendo venuti meno anche
i basilari referenti procedimentali mutuati dal previgente R.D. 31 maggio 1946 n. 511 (concernente i magistrati ordinari) dopo la novella
della L. n. 109 del 2006, testualmente inapplicabile alle magistrature
speciali (art. 30).
L’art. 10, co. 4°, L. n. 117 del 1988 affida al Consiglio di Presidenza il compito di decidere in ordine alle questioni disciplinari. La composizione del Consiglio di Presidenza è mutata dopo la riforma apportata dall’art. 11, co. 7°, della legge Brunetta 4 marzo 2009 n. 1516,
che ha apportato una diversa composizione tra la rappresentanza dei
magistrati (in numero di 4 elettivi in luogo dei pregressi 10, più il Presidente, il Presidente aggiunto ed il Procuratore generale) e quella dei
componenti «laici» (in numero di 4), rafforzando in astratto la garanzia dell’indipendenza-terzietà dei giudici disciplinari interni, ma originando problemi di possibili utilizzi strumentali o politici della leva disciplinare, che solo la sensibilità e reale indipendenza di un più congruo numero dei componenti togati potrà attenuare. Tale art. 11, L. n.
15, nel rafforzare il ruolo del Presidente della Corte dei conti, ha ribadito la promozione dell’azione disciplinare da parte del Procuratore
generale e la relativa procedura.
L’attuale regolamentazione si articola in due fasi: la prima, propulsiva, di competenza del Procuratore generale, la seconda, istruttoria e decisoria, del Consiglio di Presidenza.
16
In base all’art. 11, co. 8°, L. n. 15 del 2009 “Il Consiglio di presidenza della Corte
dei conti, quale organo di amministrazione del personale di magistratura, esercita le
funzioni ad esso espressamente attribuite da norme di legge. È composto dal Presidente della Corte, che lo presiede, dal Presidente aggiunto, dal Procuratore generale, da
quattro rappresentanti del Parlamento eletti ai sensi dell’art. 7, co. 1°, lettera d), della
L. 27 aprile 1982, n. 186, e successive modificazioni, e dell’art. 18, co. 3°, della L. 21 luglio 2000, n. 205, e da quattro magistrati eletti da tutti i magistrati della Corte. Alle sedute del Consiglio, tranne quelle in sede disciplinare, possono partecipare il Segretario
generale della Corte ed il magistrato addetto alla presidenza con funzioni di capo di gabinetto. Qualora, per specifiche questioni, uno dei due sia designato relatore, lo stesso
ha diritto di voto per espressa delega del Presidente della Corte. Ferme restando la promozione dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale e la relativa procedura, il Presidente della Corte ha le funzioni di iniziativa nel sottoporre al Consiglio di
presidenza gli affari da trattare e può disporre che le questioni siano previamente
istruite dalle commissioni ovvero sottoposte direttamente al plenum. Il Consiglio di
presidenza, su proposta del Presidente della Corte, adotta idonei indicatori e strumenti di monitoraggio per misurare i livelli delle prestazioni lavorative rese dai magistrati.
Il Presidente e i componenti del Consiglio di presidenza rispondono, per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni, soltanto nei casi di dolo o colpa grave”.
42
Il procedimento disciplinare è promosso dal Procuratore generale della Corte dei conti (figura non prevista nell’analogo procedimento per i magistrati amministrativi), ma con prerogative diverse da
quelle del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione17, ed è
disciplinato dagli artt. 32, 33, co. 2° e 3°, e 34 della L. 27 aprile 1982,
n. 186, che regolano l’iter disciplinare innanzi al giudice amministrativo, richiamati dall’art. 10, co. 9°, L. n. 117 del 1988. L’art. 11, L. n.
15 del 2009 ha ribadito la promozione dell’azione disciplinare da
parte del Procuratore generale e la relativa procedura. La laconicità
della normativa primaria è stata completata dal regolamento di disciplina deliberato dal Consiglio di Presidenza il 26 luglio 2000 n.
510/CP/2000.
Tale normativa interna stabilisce (art. 4) che, prima di intraprendere l’azione disciplinare, il Procuratore generale svolge i necessari accertamenti sui fatti o atti venuti a sua conoscenza. La fonte di conoscenza di possibili illeciti, in considerazione del silenzio normativo e
regolamentare sul punto, può essere, a nostro avviso, la più varia: trasmissione di segnalazioni di rinvio a giudizio da parte della Procura
penale ex art. 129 disp. att. c.p.p., acquisizione di sentenze penali relative a magistrati in servizio (l’art. 7, co. 2°, lett. a della recente legge
Brunetta 4 marzo 2009 n. 15 ha previsto la trasmissione anche telematica di tali sentenze da parte delle Cancellerie alle amministrazioni
di appartenenza), relazioni ispettive negative sulla cattiva gestione di
uffici, esposti dettagliati18 di avvocati, di cittadini o anonimi (il divieto
17
Secondo Tar Lazio, Roma, Sez. I, 21 luglio 1998 n. 2277 (in Foro amm., 1999,
1310), non può essere operata una equiparazione tra le attribuzioni spettanti al Procuratore generale presso la Corte dei conti, in base alle disposizione contenute nell’art.
10, co. 9°, L. 13 aprile 1988, n. 117 che prevede un rinvio espresso a quanto sancito
nell’art. 32, L. 27 aprile 1982, n. 186, e quelle riconosciute in capo al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione in materia di procedimento disciplinare per i magistrati ordinari: al primo organo, pertanto, non spetteranno lo stesso ruolo e gli stessi poteri conferiti in capo al secondo in materia disciplinare. Alla luce di tale considerazione consegue che non può essere riconosciuta, in capo al Procuratore generale
una posizione giuridica autonoma e differenziata nell’interesse della legge e, quindi,
un diritto–dovere di agire al di fuori del procedimento disciplinare, né, infine, può riconoscersi l’attribuzione al Consiglio di presidenza della potestà regolamentare esecutiva del ruolo e dei poteri extra procedimentali di detta autorità, essendo le competenze attribuite espressamente dall’art. 10, co. 4° e 9°, all’interno del procedimento disciplinare.
18
Sulla distinzione tra esposti generici ed esposti dettagliati ai fini di una tempestiva e doverosa attivazione del procedimento disciplinare v. Cons. St., Sez. IV, 26 maggio 2006 n. 3161, in www.giustizia–amministrativa.it.
43
di tener conto di questi ultimi vale solo per il P.M. penale), notizie
giornalistiche etc.
Il regolamento n. 510/CP/2000 aggiunge (art. 4, co. 3° e 4°) che a
seguito di detti accertamenti (per i quali nulla si dice in ordine ai poteri inquisitori esercitabili) il Procuratore generale, se ritiene che non
sussistano elementi rilevanti ai fini disciplinari, lo dichiara con proprio provvedimento motivato, mentre qualora ritenga sussistenti i presupposti per l’addebito disciplinare, chiede formalmente al Consiglio
di Presidenza l’apertura del relativo procedimento e, contestualmente,
trasmette ad esso gli atti e i documenti pervenuti o acquisiti. Di detta
richiesta il P.G. dà, contemporaneamente, all’interessato formale e
motivata comunicazione che determina, a tutti gli effetti, l’inizio del
procedimento disciplinare (art. 4, co. 5°), ma che, con iter in verità
non troppo coerente, non rappresenta ancora la formale contestazione degli addebiti all’incolpato, la quale compete, in base al successivo
art. 5, co. 4°, reg. n. 510/CP/2000, al Consiglio di Presidenza.
Va rimarcato che, pur in assenza di espressa previsione nella L. n.
117 del 1988, l’art. 4, co. 6° del regol. n. 510/CP/2000 fissa un termine
prescrizionale di un anno (come previsto anche dall’art. 15, D.L.vo n.
109 del 2006 per i magistrati ordinari, ma non per i magistrati amministrativi) entro cui il procedimento può essere promosso, decorrente
dal giorno in cui il Procuratore generale ha avuto notizia dei fatti oggetto dell’addebito disciplinare. Ovviamente, a fronte del principio generale di tempestività dell’azione disciplinare, tale conoscenza da cui
far decorrere il dies a quo prescrizionale va intesa come conoscenza
“piena”19, ovvero acquisita dopo un minimale riscontro sui fatti, so-
19
Sulla relatività (ragionevole elasticità) nell’interpretare il concetto di immediatezza v. la giurisprudenza citata da Noviello–Tenore, La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002, 186 ss. È noto che
nell’impiego privato la magistratura si è spesso soffermata sul principio di immediatezza della contestazione ex art. 7, L. 20 maggio 1970 n. 300, chiarendo che tale requisito va inteso in senso relativo, dovendosi valutare la buona fede del datore ex art. 1175
e 1375 cod. civ. e, dunque, l’eventuale complessità delle indagini necessarie per l’accertamento dell’illecito, e aggiungendo che il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo
alla difesa effettiva del lavoratore precludendogli una adeguata difesa: cfr., tra le tante,
Cass., Sez. lav., 20 giugno 2006 n. 14115, in Giust. civ. Mass., 2006, 6; id., Sez. lav., 19
agosto 2004 n. 16291, ivi, 2004, 7-8; Cass., Sez. lav., 17 giugno 2002 n. 8730; id., Sez.
lav., 23 novembre 1991, n. 12617, in Not. giur.lav., 1992, 244; Cass., Sez. lav., 21 aprile
2001 n. 5947, in www.giust. it, n. 5, 2001; id., 22 aprile 2000 n. 5308, in CED Cassazione, RV 535980; id., n. 11095 del 1997, ivi. Tale tesi, come già evidenziato, è recepita nell’impiego pubblico privatizzato, da Cons. St., Sez. IV, 1 marzo 2001 n. 1132, in Cons.
44
vente laconici o generici, segnalati anche se tale conoscenza piena non
richiede che i fatti stessi per essere oggetto di addebito debbano essere già provati, e cioè già dimostrati nella loro veridicità. In generale,
infatti, è proprio il procedimento disciplinare il luogo nel quale – attraverso l’espletamento dell’istruttoria prima sommaria e poi formale
– deve innanzi tutto accertarsi la effettiva sussistenza delle condotte o
dei fatti materiali addebitati al magistrato come illeciti.
Oltre al cennato termine prescrizionale, il suddetto regolamento
n. 510/CP/2000 fissa alcuni termini decadenziali infraprocedimentali,
espressamente auto-qualificati come perentori, e, come tali, da osservare a pena di invalidazione della sanzione tardivamente inflitta: si
tratta di termini, di seguito precisati, tesi al rispetto del generale principio di tempestività dell’azione disciplinare. Alla luce della inequivoca natura amministrativa del procedimento punitivo in esame, appare
non in linea la previsione regolamentare (art. 16) che statuisce che
“Tutti i termini previsti dal presente Regolamento sono sospesi nel periodo 1° agosto-15 settembre di ciascun anno”: come è noto a tutti, tali
sospensione feriale dei termini prevista dall’art. 1, L. 7 ottobre 1969 n.
742 trova testuale applicazione in sede processuale e non già in sede
procedimentale.
L’iter disciplinare previsto da tali disposizioni legislative soprattutto regolamentari è analogo (ma non identico) a quello previsto per
i magistrati amministrativi; viene, inoltre, eliminata qualsiasi differenza tra le varie categorie di magistrati contabili, abrogando le disposizioni che prevedevano per i referendari ed i primi referendari la
sottoponibilità ai procedimenti disciplinari previsti dagli artt. 62 e seg.
del R.D. n. 1364 del 1933 (c.d. commissioni di disciplina).
Alle adunanze del Consiglio di Presidenza aventi ad oggetto questioni disciplinari partecipano tutti i componenti in carica a meno che
non vi sia giustificato impedimento per causa di forza maggiore (art.
2 regol. 26 luglio 2000 n. 510/CP/2000) non partecipa il segretario generale ed il procuratore generale è chiamato a svolgervi, anche per
St., 2001, I, 519. La valutazione del giudice di merito, secondo la predetta Cassazione,
è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi
logici.
Che la nozione di “notizia del fatto che forma oggetto dell’addebito” deve essere
intesa come conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi – nel profilo oggettivo –
dell’illecito, con la conseguenza che non è idonea a far decorrere il termine annuale
l’acquisizione di dati insufficienti per una esauriente formulazione dell’incolpazione v.,
ad es., Cass., Sez. un., n. 7577 del 1995.
45
mezzo dei suoi sostituti, le funzioni inerenti alla promozione dell’azione disciplinare e le relative richieste (art. 2, regol. cit.). In base al
predetto art. 11, co. 7°, L. n. 15 del 2009, alle sedute del Consiglio,
tranne quelle in sede disciplinare, possono partecipare il Segretario
generale della Corte ed il magistrato addetto alla presidenza con funzioni di capo di gabinetto. Il Consiglio adotta le decisioni di sua competenza con la partecipazione di tutti i suoi componenti in carica,
esclusi sia quelli ricusati o astenuti oppure impediti per causa di forza
maggiore sia il Procuratore generale ed il regolamento n. 510/CP/2000
stabilisce che per l’astensione e la ricusazione dei componenti del Consiglio di Presidenza in sede disciplinare si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale. Sulle dichiarazioni
di astensione e di ricusazione decide il Consiglio, senza la partecipazione del componente il quale intende astenersi ovvero ricusato e la
deliberazione che non accoglie la dichiarazione di ricusazione può essere impugnata unitamente al provvedimento finale, come avvenuto in
qualche precedente giurisprudenziale20.
A seguito della richiesta del Procuratore generale, l’art. 5 del reg.
prevede che il Consiglio di Presidenza, nella prima seduta – e, comunque, non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta di apertura
del procedimento disciplinare (termine verosimilmente perentorio
alla luce della formulazione testuale) – affida ad una Commissione
(composta da tre membri del Consiglio dei quali uno, con funzioni di
Presidente, scelto tra quelli designati dal Parlamento) l’incarico di pro20
L’inosservanza delle norme del c.p.p. sulla ricusazione, la cui istanza era stata
dichiarata tardiva dal Consiglio di Presidenza, aveva portato all’annullamento di una
sanzione inflitta ad un magistrato contabile, con sentenza del TAR Puglia, Bari, Sez. I,
21 marzo 2006 n. 927 (in www.giustizia–amministrativa.it), ma la decisione è stata
riformata da Cons. St., Sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5469, ivi, che ha osservato “Nel merito va anzitutto confermata l’applicabilità al procedimento “de quo” dell’art. 41 c.p.p.
e ciò in ragione dell’esplicito rinvio operato dall’art. 4, co. 2°, del regolamento consiliare di disciplina 25 ottobre 1988. Parimenti non sussistono dubbi che la fattispecie in
esame, costituita da un’istanza di ricusazione dichiarata tardiva, integri un’inosservanza del termine e come tale soggetta alla sede della verifica preliminare di cui al co.
1° del citato art. 41 (verifica la cui natura è espressamente indicata dal verbale di riferimento); il co. 3° dell’articolo prevede poi la fase decisione nel merito dell’istanza che
abbia superato il vaglio preliminare. La necessità che quest’ultimo accertamento avvenga “senza ritardo”, come recita la norma in applicazione, e nel contempo la presenza di una successiva fase successiva sul merito dell’istanza permettono al Collegio
di confermare l’orientamento già a suo tempo espresso (Cons. di Stato, Sez. IV, 15 maggio 2000, n. 2766) che ammette la partecipazione dei magistrati ricusati alla fase di delibazione preliminare dell’istanza. Le indicate ragioni di celerità, connesse anche all’esigenza di evitare istanze a scopo meramente dilatorio e nel contempo l’incontestato
46
cedere agli accertamenti preliminari da svolgersi nel più breve tempo
e, comunque, nel termine perentorio di trenta giorni. Tali accertamenti, anche ispettivi, hanno natura amministrativa e, pertanto, l’organo procedente non è un collegio perfetto che deve presenziare a tutti
gli incombenti istruttori svolti21. La Commissione riferisce al Consiglio
nella prima adunanza dopo il termine di 30 giorni suddetto. La giurisprudenza ha rimarcato la pienezza dei poteri istruttori della Commissione alla quale non è affatto preclusa la prospettazione di specifiche fattispecie di addebito da sottoporre alle valutazioni del Consiglio
di Presidenza, e la legittimità della successiva presenza dei suoi membri in sede deliberativa22.
permanere della garanzia nella fase di decisione della misura disciplinare, permettono
quindi di non fare applicazione, nella fase preliminare di cui all’art. 41 c.p.p., né del
principio dell’art. 37, co. 2°, del c.p.p., né, in particolare, dell’analoga norma regolamentare che vieta la partecipazione dei componenti del Consiglio di presidenza oggetto dell’istanza di ricusazione. Osta peraltro all’interpretazione accolta dal TAR il rilievo che la presentazione di istanze di ricusazione che determinasse, sin dalla fase del
loro esame preliminare, un obbligo di astensione dei componenti elettivi ricusati, potrebbe produrre la paralisi funzionale dell’organo disciplinare ad iniziativa dell’incolpato, potendo il Consiglio deliberare solo con la presenza di almeno 9 dei 17 componenti (art. 12, co. 1°, L. n. 186/82, richiamato dall’art. 10 L. n. 113/1988). L’interpretazione qui preferita, pertanto, corrisponde al principio di funzionalità procedimentale
senza nel contempo determinare alcun sacrificio di sfere di garanzie dell’incolpato interessato dall’iter disciplinare”.
21
La tesi è condivisa da TAR Puglia, Bari, Sez. I, 21 marzo 2006 n. 927 (in
www.giustizia–amministrativa.it), secondo cui la commissione istruttoria non ha natura giurisdizionale (come del resto nemmeno il Consiglio di Presidenza in sede disciplinare, attesa la pacifica impugnabilità dei suoi atti dinanzi al G.A.: cfr. Cass., SS.UU.,
11 dicembre 1992, n. 871 e Cons. Stato, Sez. IV, 24 dicembre 1999, n. 1946) e quindi
non può considerarsi collegio perfetto, risultando quindi valide le relative attività
anche se compiute con la presenza di due soli dei tre componenti (né alcuna indicazione in diverso senso potendo ritrarsi dal regolamento di disciplina).
22
Secondo Tar Lazio, Roma, Sez. I, 2005 n. 1439, in www.giustizia–amministrativa.it, “non sussiste una limitazione del potere propositivo della Commissione per gli
accertamenti istruttori analoga a quella vigente per la fase istruttoria penale, in quanto la sua funzione è quella di “organo referente” del Consiglio medesimo; non è ipotizzabile, nel predetto sistema voluto dal legislatore, una situazione di incompatibilità o
di conflitto conseguenti alla duplicità di ruolo e di partecipazione, proprio per il fatto
che le Commissioni non sono soggetti distinti dal Consiglio, ma sono sue dirette emanazioni ed hanno la precipua funzione di porre il Consesso in grado di decidere ad
istruttoria compiuta… La relazione della Commissione per le indagini preliminari è
chiaramente diretta, nel sistema, a portare a conoscenza del Consiglio ogni elemento
utile per decidere se proseguire o meno nell’azione disciplinare; il contenuto della relazione medesima non può ritenersi limitato o vincolato, ma ha la massima ampiezza
e discrezionalità sia pure necessariamente finalizzata al supporto funzionale del Consiglio e non, quindi, ad anticiparne la deliberazione o ad indirizzarla”.
47
Il Consiglio, con motivato provvedimento, può deliberare l’archiviazione del procedimento, ovvero la formale contestazione dell’addebito al magistrato, con contestuale invito a presentare, entro il termine
perentorio di 30 giorni, le proprie giustificazioni: pertanto, in perfetta
sintonia con i principi generali sui procedimenti disciplinari, l’iter punitivo per i magistrati contabili prevede doverosamente, a pena di invalidità della sanzione, la comunicazione-contestazione degli addebiti
(che si aggiunge e completa quella già effettuata dal Procuratore generale all’esito della propria preliminare verifica), la cui corretta e motivata formulazione ricalcherà le consolidate regole sancite dalla giurisprudenza, sia per i magistrati ordinari, che per i pubblici dipendenti in
generale (indefettibilità a pena di nullità; tempestività; specificità con
puntuale indicazione dei fatti contestati; immodificabilità; contestazione della eventuale recidiva23). Tale contestazione risulterà, in ossequio a
noti e generali principi in materia, immodificabile e la sanzione eventualmente inflitta potrà riguardare solo e soltanto i fatti contestati a
pena di invalidità: fatti ulteriori e diversi emersi in sede istruttoria dovranno necessariamente essere oggetto di nuova, distinta e tempestiva
contestazione, che originerà un nuovo procedimento disciplinare.
A tale fase propulsiva, segue quella istruttoria: in base all’art. 6 del
regolamento n. 510/CP/2000, pervenute le giustificazioni dell’incolpato, il Consiglio di Presidenza le esamina nella prima seduta e, se ritiene di non archiviare, delibera l’istruttoria affidandola alla medesima
Commissione di cui all’art. 5, dandone contestuale comunicazione all’interessato24.
In ossequio al principio di tempestività, l’istruttoria deve essere
espletata entro il successivo termine perentorio di novanta giorni, con
Per le modalità della contestazione degli addebiti si rinvia a Noviello–Tenore, La
responsabilità ed il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002, 190) con vasti richiami dottrinali e giurisprudenziali. Per le identiche tematiche per le libere professioni (notai, avvocati etc.) v. Tenore, Celeste, La responsabilità disciplinare del notaio ed il relativo procedimento, Milano, 2008, 171 ss. Per una
fattispecie in cui la magistratura ha ritenuto ben formulata la contestazione degli addebiti fatta ad un magistrato contabile v. Tar Lazio, Roma, Sez. I, 2005 n. 1439, in
www.giustizia–amministrativa.it.
24
Ha chiarito la giurisprudenza (Tar Lazio, Roma, Sez. I, 2005 n. 1439, in
www.giustizia–amministrativa.it) che “sia la Commissione per gli accertamenti preliminari, sia quella per gli accertamenti istruttori sono composte da membri del Consiglio (un componente laico con funzioni di presidente più due componenti togati) che
partecipano anche alle successive determinazioni dell’organo collegiale nel cui ambito
sono sicuramente legittimati a sostenere, anche oralmente, i convincimenti maturati in
Commissione”.
23
48
apposita relazione nonché deposito dei relativi atti presso l’Ufficio
Studi del Consiglio; detto Ufficio è tenuto a darne immediata comunicazione all’incolpato. Tale previsione ci sembra inopportuna, coinvolgendo nell’iter punitivo, sebbene per una fase istruttoria endoprocedimentale, un ufficio interno della Corte dei conti, l’Ufficio studi, composto da soggetti estranei ai componenti del Consiglio di Presidenza,
organo titolare in via esclusiva della potestà disciplinare. Tuttavia il discutibile ruolo di referente amministrativo del Consiglio di Presidenza assunto da tale distinto ufficio è testualmente previsto, in via generale, per tutto l’iter disciplinare, dall’art. 17 del regolamento.
Assai opportunamente l’art. 6, co. 3° del regolamento n.
510/CP/2000 indica i classici mezzi istruttori proponibili (in aggiunta,
ovviamente, alle acquisizioni documentali da altre PA, da altre magistrature o da privati), prevedendo che nel corso dell’istruttoria la Commissione possa sentire testimoni e periti nonché l’incolpato, il quale
ha facoltà di farsi assistere da altro magistrato.
Terza tappa dell’iter punitivo è rappresentata dalla fase decisoria:
in base all’art. 7 del regolamento n. 510/CP/2000, espletata l’istruttoria,
il Consiglio di Presidenza, se ritiene che non sussistono i presupposti
per l’irrogazione di sanzione disciplinare, delibera con provvedimento
motivato di prosciogliere l’incolpato, mentre il Presidente della Corte
dei conti, se il Consiglio non ritiene di deliberare il proscioglimento,
fissa la data della trattazione orale con decreto da notificarsi all’incolpato – a cura (ancora una volta inopportunamente) dell’Ufficio Studi
e documentazione del Consiglio – almeno quaranta giorni prima di
essa ma non oltre un anno dall’inizio del procedimento disciplinare,
pena l’estinzione di quest’ultimo sempre che l’incolpato vi consenta.
La norma, che ricalca analoga previsione sancita per i magistrati ordinari25, valorizza evidentemente il diritto del magistrato ad ottenere
una assoluzione piena, nel merito, in sede disciplinare, evitando la facile, ma non appagante, scappatoia procedurale decadenziale/prescrizionale, a tutela imperitura della propria immagine, lesa dal semplice
fatto di essere stato sottoposto ad un procedimento sanzionatorio interno, nel quale l’interessato è giustamente libero di “urlare” e provare la propria innocenza nella udienza collegiale, che si svolge tuttavia
a porte chiuse (art. 7, co. 5°, reg. cit.), a differenza di quella prescritta
per i magistrati ordinari e in sintonia con quella stabilita per i magi-
L’art. 15 co. 7°, L. n. 109 del 2006 prevede che “Se i termini non sono osservati,
il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato vi consenta”.
25
49
strati amministrativi: trattasi, per tali “porte chiuse”, di uno dei tanti
corollari della natura procedimentale e non processuale dell’iter punitivo delle magistrature speciali.
Sino all’udienza di trattazione, l’incolpato ha facoltà di prendere
visione degli atti e chiederne copia all’Ufficio Studi e documentazione
del Consiglio e può depositare difese o memorie non oltre 10 giorni
prima della trattazione (art. 7, co. 4°, reg. n. 510/CP/2000).
Nella seduta fissata per la trattazione orale, che ha luogo a porte
chiuse, il Presidente della Commissione istruttoria svolge la relazione;
l’incolpato ha facoltà di farsi assistere da altro magistrato e ha, per ultimo, la parola. Di recente si è prospettata da parte della magistratura
di merito la possibile non conformità alla Costituzione degli artt. 34,
co. 2° della L. 27 aprile 1982 n. 186 e 10, co. 9° della L. 13 aprile 1988,
n. 117 nella parte in cui vietano a un Magistrato contabile o amministrativo sottoposto a procedimento disciplinare di nominare quale difensore di fiducia un avvocato del libero Foro26, facoltà oggi testualmente prevista per i magistrati ordinari dall’art. 22, co. 2°, D.L.vo n.
109 del 2006 (e in passato statuita dalla Consulta) stante la natura giurisdizionale del loro iter punitivo interno.
La questione è stata ritenuta fondata dalla Consulta con la recente sentenza 27 marzo 2009 n. 8727, nonostante che la precedente decisione 19 maggio 2008 n. 182 della Corte costituzionale28, in analoga
26
TAR Piemonte, Sez. I, ordinanza 30 luglio 2008 n. 57, in www.giustizia–amministrativa.it secondo cui è rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. relativa all’art. 34 co. 2° L. 27 aprile 1982 n. 186, nonché all’art. 20 co. 9° L. 13 aprile 1988 n. 117,
nella parte in cui dispongono che un magistrato amministrativo o contabile fatto oggetto di un procedimento disciplinare possa farsi assistere da altro magistrato e non
anche da un avvocato del libero Foro, per contrasto con gli artt. 3, 24, 101 e 108 Cost.,
in ragione del fatto che vi è una stretta correlazione tra l’indipendenza del magistrato
sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto più adatto, sicché limitare quest’ultima facoltà significa, in definitiva, menomare
in parte anche il valore dell’indipendenza.
27
Corte cost., 27 marzo 2009 n. 87, in www.cortecostituzionale.it.
28
Corte cost., 19 maggio 2008 n. 182, in www.cortecostituzionale.it e in www.lexitalia.it. Ha aggiuntola Consulta che “il diritto di difesa non ha una applicazione piena,
nell’ambito dei procedimenti amministrativi. Donde consegue che non possa considerarsi manifestamente irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra ad un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta
(tutela dell’ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.
Pertanto, la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare
quale difensore un avvocato, «anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità
prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia» (sentenza n. 356 del 1995),
non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la
50
fattispecie riguardante la mancata possibilità per il personale di polizia di valersi di un avvocato in sede disciplinare, avesse ritenuto non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, co. 2°, del
D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale
dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia – Sezione staccata di Catania, in quanto la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa (come quello concernente i magistrati contabili) e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).
La Corte costituzionale, con sentenza 27 marzo 2009 n. 87 ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, co. 2°, della
L. 27 aprile 1982, n. 186 e 10, co. 9°, della L. 13 aprile 1988, n. 117,
nella parte in cui escludono che il magistrato amministrativo o contabile, sottoposto a procedimento disciplinare, possa farsi assistere da
un avvocato. Ha ritenuto la Corte che in base all’art. 108 Cost. la garanzia dell’indipendenza del magistrato rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una
sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida. È necessario, dunque, che siano
adottate tutte le misure volte a evitare ogni indebito condizionamento. Tra queste misure rientrano quelle dirette ad assicurare un’efficace
difesa29.
stessa norma consente all’inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le
proprie ragioni”. Neppure risulta violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di
trattamento della categoria dei dipendenti dell’amministrazione di pubblica sicurezza
rispetto alle tre categorie evocate in comparazione (magistrati ordinari, per i quali
prima la Consulta ed oggi l’art. 14, co. 4°, D.L.vo 109 del 2006 hanno riconosciuto il diritto a valersi di un collega o di un avvocato del libero foro) in quanto l’esercizio della
funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, in rispondenza a
scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio (sentenza n. 145 del 1976).
29
Ha soggiunto la sentenza n. 87 del 2009 che “È in questa prospettiva che la Corte
ha affermato che «vi è una stretta correlazione tra l’indipendenza del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto
più adatto, sicché limitare quest’ultima facoltà significa in definitiva menomare in
parte anche il valore dell’indipendenza»: ciò ha indotto la Corte a dichiarare l’illegitti-
51
Si segnala tuttavia che per i magistrati del complesso Tar/Consiglio di Stato, l’art. 43, co. 3°, del regolamento n. 13229 del 2004, deliberato dal Consiglio di Presidenza, aveva già previsto, prima dell’intervento della Consulta, la difesa del magistrato amministrativo incolpato da parte di un avvocato del libero foro: la fonte regolamentare interna aveva cioè ampliato la originaria previsione dell’art. 33, L. n. 186
del 1982 che limitava invece, prima dell’intervento additivo della Consulta n. 87 del 2009, la difesa al solo magistrato “collega” dell’inquisito, escludendo la facoltà di valersi di avvocato del libero foro. Dopo
tale sentenza del giudice delle leggi del 2009, appare indefettibile una
rettifica del regolamento n. 510/CP/2000, il Consiglio di Presidenza, al
mità costituzionale della previsione che escludeva la possibilità, per il magistrato ordinario sottoposto a procedimento disciplinare, di farsi assistere da un avvocato (sentenza n. 497 del 2000). La correlazione indicata prescinde dalla natura giurisdizionale
o amministrativa del procedimento disciplinare, che dipende dai caratteri che il legislatore ha scelto di attribuire al procedimento stesso e agli organi in esso coinvolti. Il
procedimento disciplinare relativo ai magistrati ordinari ha natura giurisdizionale e si
svolge dinanzi alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con
quanto ne consegue in ordine al regime delle impugnazioni. Quello relativo ai magistrati amministrativi ha natura di procedimento amministrativo e si svolge dinanzi al
Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa o al Consiglio di presidenza della
Corte dei conti. Questa diversa configurazione del procedimento dipende da una scelta del legislatore, che ben può articolare diversamente l’ordinamento delle singole giurisdizioni, a patto che siano rispettati i principi costituzionali comuni. Indipendentemente dalla natura che la legge attribuisce al procedimento e all’autorità disciplinare,
dalla garanzia costituzionale di indipendenza deriva una particolarità di questo procedimento, quando esso riguardi un magistrato, in quanto per quest’ultimo, a differenza
di quanto accade per altre categorie di personale pubblico (sentenza n. 182 del 2008),
la Costituzione impone che sia assicurata, anche in sede disciplinare, la massima
espansione del diritto di difesa. Le disposizioni impugnate, consentendo al magistrato
incolpato di farsi assistere solo da un altro magistrato, limitano irragionevolmente
questo diritto. La possibilità di farsi assistere da un magistrato, dismessa la sua «originaria caratterizzazione corporativa», è ancora giustificabile in quanto il magistrato è
«ritenuto in possesso dell’idoneità tecnica per assumere una siffatta difesa» (sentenza
n. 497 del 2000). Ma il divieto di farsi assistere da un avvocato, che è la figura alla quale
l’ordinamento riconosce in primo luogo questa funzione, è manifestamente irragionevole. In conclusione, l’esigenza di indipendenza impone, già nel procedimento disciplinare, che al magistrato sia riconosciuto il diritto di scegliere il difensore ed esclude
la legittimità di disposizioni che lo limitino. Questa esigenza – come notato – prescinde dal dato oggettivo, relativo alla natura dell’organo e del procedimento disciplinare,
e dipende dal dato soggettivo, relativo alla titolarità della funzione giurisdizionale. Di
conseguenza, ferma restando la legittimità della previsione che consente ai magistrati
amministrativi di farsi assistere nel procedimento disciplinare da un altro magistrato,
va dichiarata l’illegittimità della disposizione che impedisce loro di avvalersi, nella stessa sede, dell’opera di un avvocato”.
52
pari di quanto fatto dall’omologo Consiglio dei magistrati amministrativi, ammettendo tale possibilità, al fine di un più ampio rispetto
del diritto alla difesa anche in sede procedimentale e non solo processuale.
All’esito dell’istruttoria, il Consiglio di Presidenza assume le proprie decisioni con motivata deliberazione adottata in camera di consiglio, che ha inizio subito dopo la trattazione orale (art. 8, regol. n.
510/CP/2000 cit.). Se non è raggiunta la prova sufficiente della colpevolezza del magistrato, ma risulta che egli ha perduto nella opinione
pubblica la stima, la fiducia e la considerazione richieste dalla sua
funzione, può essere deliberata la sua motivata dispensa dall’ufficio ai
sensi dell’art. 35 del R.D.L.vo 31 maggio 1946, n. 511. Tale previsione
regolamentare origina seri dubbi in ordine alla sua attuale vigenza,
stante l’abrogazione del regime disciplinare delineato per i magistrati
ordinari dal D.L.vo n. 511 del 1946 e la sua sostituzione con il procedimento previsto dalla L. n. 109 del 2006, testualmente inapplicabile
ai magistrati amministrativi e contabili. Per cui il richiamo regolamentare e da ritenere tacitamente abrogato, salvo ritenere che il rinvio al R.D.L.vo n. 511 non sia da intendere quale rinvio fisso e non dinamico: alla giurisprudenza la soluzione dell’arduo problema!
L’art. 8, co. 3° del regolamento n. 510 stabilisce infine che la deliberazione sanzionatoria venga notificata all’incolpato a cura dell’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio, declassato a… notificatore
di provvedimenti altrui.
Il regolamento n. 510, all’art. 9, co. 2° e 3°, stabilisce che l’ammonimento e la censura sono eseguite dal Presidente della Corte dei conti,
con le modalità previste dagli artt. 20 e 21 del R.D.L.vo n. 511 del 1946
(ormai abrogato ma forse ultravigente se il richiamo fosse qualificato
come fisso e non come dinamico), mentre ai fini dell’esecuzione delle
deliberazioni concernenti la perdita dell’anzianità o la rimozione o la
destituzione del magistrato, copia della stessa è trasmessa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per la conseguente proposta del provvedimento di competenza del Presidente della Repubblica.
I provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza in esito a procedimento disciplinare sono atti amministrativi e non giurisdizionali,
con conseguente applicazione di tutte le regole e i principi sanciti dalla
L. 7 agosto 1990 n. 241 come novellata dalle L. n. 15 ed 80 del 200530.
30
Tra i vari contributi sulla novellata L. 7 agosto 1990 n. 241, ci sia consentito il
richiamo a Tenore, Incidenza della nuova L. n. 241 del 1990 sulle pubbliche amministrazioni, Padova, 2006, con vasti richiami dottrinali e giurisprudenziali.
53
Alla luce di tale inequivoca natura amministrativa del procedimento punitivo interno, appare decisamente erronea la previsione regolamentare (art. 16) che statuisce che “Tutti i termini previsti dal presente Regolamento sono sospesi nel periodo 1° agosto-15 settembre di
ciascun anno”: come è noto a tutti, tali sospensione feriale dei termini prevista dall’art. 1, L. 7 ottobre 1969 n. 742 trova testuale applicazione in sede processuale e non già in sede procedimentale, come confermato anche dalla giurisprudenza31. Le (irrilevanti) ragioni extragiuridiche della previsione sono evidenti: non turbare... le ferie dei magistrati componenti del Consiglio di Presidenza con “onerose” riunioni
estive: la norma si presta a possibili censure in giudizio e a possibili rischi, in caso di sua illegittima osservanza, di sforamento dei termini
perentori sanciti dal regolamento.
Tra i corollari di tale natura provvedimentale, segnaliamo che le
sanzioni non sono impugnabili con ricorso alle Sezioni unite della
Corte di Cassazione, considerato che il richiamo delle norme del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari, operato
dall’art. 32, L. 27 aprile 1982 n. 186, non vale ad attribuire al predetto
consiglio di presidenza natura di organo giurisdizionale (natura spettante alla Sezione disciplinare del C.S.M.), e che, inoltre, la non esperibilità del suddetto ricorso non implica lesione del diritto di difesa
dell’interessato (art. 24 Cost.), restando le sue posizioni tutelabili in
sede giurisdizionale davanti al giudice amministrativo, o, a nostro avviso, con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica a fronte
di provvedimento amministrativo definitivo.
Uno strumento difensivo ulteriore riconosciuto al magistrato condannato dall’art. 15 del regolamento n. 510 è dato dalla “Revisione”: in
ogni tempo può essere richiesta dall’interessato o, se questi sia deceduto, da un suo erede o prossimo congiunto, il quale ne abbia interesse anche soltanto morale, la revisione del procedimento disciplinare se
siano sopravvenuti fatti nuovi o nuovi elementi di prova ovvero se risulti che la decisione fu determinata da errore di fatto o da falsità. All’uopo viene nominata apposita Commissione, in seno al Consiglio,
composta come previsto dall’art. 5, co. 2° e si applicano, inoltre, in
quanto compatibili, gli artt. 629 e ss. del codice di procedura penale.
31
La natura amministrativa del procedimento disciplinare nei confronti di un farmacista rende non applicabile la sospensione feriale dei termini prevista dalla L. 7 ottobre 1969 n. 742: Cass., Sez. III, 29 maggio 2003 n. 8625, in Ragiusan, 2004, 237. In
terminis su procedimento disciplinare nel pubblico impiego Tar Lazio, Roma, Sez. I,
10 aprile 1996 n. 581, in TAR, 1996, I.
54
Assai più puntualmente di quanto previsto dal regolamento interno concernente i magistrati amministrativi, il regolamento 26 luglio
2000 n. 510/CP/2000 del Consiglio di Presidenza, disciplina vari profili ulteriori dell’iter punitivo interno e istituti connessi: ci si riferisce al
rapporto tra azione penale e procedimento disciplinare ed alla sospensione cautelare.
In merito ai rapporti penale/disciplinare, l’art. 10 del regolamento
stabilisce che “Qualora per lo stesso fatto addebitato all’incolpato sia
stato iniziato procedimento penale, il procedimento disciplinare è sospeso ed i termini per esso previsti riprendono a decorrere dal giorno
in cui è pronunziata la sentenza definitiva. Trova applicazione l’art.
653 del codice di procedura penale”. Il sistema recepisce dunque la regola della c.d. pregiudiziale penale (confermata anche per i magistrati ordinari dall’art. 15, co. 8°, L. n. 109 del 2006) rispetto al procedimento disciplinare, sancendo un effetto sospensivo sul procedimento
disciplinare e sui relativi termini derivante dall’esercizio dell’azione
penale (ergo dalla richiesta di rinvio a giudizio) sino all’esito del giudicato penale, che contraddice il principio generale di autonomia dell’azione disciplinare da quella penale e rappresenta una ennesima applicazione (riscontrabile in altri regimi disciplinari, ma in corso di superamento) del “mito” della pregiudiziale penale, regola in astratto
condivisibile (per prevenire contrasti decisionali e per consentire all’organo disciplinare di giovarsi delle approfondite istruttorie penali),
ma poco utile in un Paese, come l’Italia, in cui il giudicato penale sopravviene dopo molti anni, con conseguenti intollerabili ritardi dell’azione disciplinare, che deve invece essere tempestiva per non perdere
di reale efficacia, soprattutto a fronte di fatti storici di plastica ed incontrovertibile evidenza (e valenza disciplinare) già prima del procedimento penale.
Resta ovviamente ferma, dopo il giudicato penale, la autonoma rivalutazione dei fatti ivi acclarati nella successiva sede disciplinare. Derivando dal penale, ex art. 653 c.p.p., solo un vincolo in ordine alla sussistenza del fatto storico, alla sua valenza penale ed alla ascrivibilità
del fatto al condannato, ma la valenza disciplinare va stabilita dal Consiglio di Presidenza (sebbene sul punto manchino, come detto, le
norme, primarie o secondarie, sancenti le condotte di valenza disciplinare).
Ovviamente tale effetto preclusivo scatta solo in caso di identità
dei fatti vagliati in sede penale e disciplinare, per cui nel caso in cui si
proceda a carico di un magistrato per una pluralità di fatti, non sussiste l’obbligo della sospensione del procedimento disciplinare per tutti
55
gli addebiti contestati, ma solo dell’addebito correlato (nel senso di
identità del fatto contestato) al procedimento penale32.
A prescindere dalla specifica normativa settoriale prevista per i
magistrati contabili, il sistema disciplinare nel pubblico impiego, proprio per i ritardi del “pregiudiziale” procedimento penale e per l’autonoma valenza degli illeciti disciplinari, si sta evolvendo verso l’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, come statuito
dalla recente legge “Brunetta” 4 marzo 2009 n. 15, che, all’art. 7, co.
2°, lett. b), ha codificato il superamento della “pregiudiziale penale” ad
opera degli imminenti decreti delegati, consentendo agli uffici disciplinari di perseguire i fatti di propria competenza senza dover attendere l’esito del procedimento penale e, dunque, senza subire pluriennali effetti sospensivi sull’iter punitivo intrapreso. È auspicabile che
ciò avvenga, attraverso idoneo intervento normativo, anche nel procedimento disciplinare per i magistrati, nell’interesse sia del magistrato
incolpato, sia dell’ordine di appartenenza, che deve con immediatezza
far chiarezza in sede disciplinare sui fatti, evitando una pluriennale
permanenza in servizio, in attesa del formale giudicato penale, di un
soggetto che potrebbe discreditare o offuscare l’immagine della magistratura.
Il regolamento 26 luglio 2000 n. 510/CP/2000 del Consiglio di Presidenza, agli artt. 12 e 13, disciplina poi l’istituto, non disciplinare ma
cautelare, della sospensione cautelare33, distinguendo, come in altri ordinamenti, la sospensione cautelare dal servizio del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare dalla sospensione del magistrato
Cfr. in relazione al sistema abrogato per i magistrati ordinari Cass., Sez. un., 27
settembre 2006 n. 20888, che ha dichiarato manifestamente la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 29 del R.D.L.vo n. 511 del 1946, con riferimento agli artt. 3 e 24
Cost., nella parte in cui non prevede in questi casi, appunto, la sospensione relativamente anche ai fatti contestati in via disciplinare diversi da quelli per cui vi sia pregiudizialità penale.
33
Sulla sospensione cautelare nel pubblico impiego in generale v. Tenore, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego, Roma Epc, 2007, 59 ss.; Tenore, Incidenza della
tornata contrattuale 2002-2005 sulla sospensione cautelare del pubblico dipendente, in
AA.VV., Il sistema disciplinare nel lavoro pubblico, Formez, Roma, 2004, 139 ss.; Tenore, La sospensione cautelare del lavoratore nel pubblico impiego privatizzato dopo
il contratto collettivo nazionale di lavoro comparto ministeri 2002-2005, in Giust. civ.,
2004, 1, 21; Noviello-Tenore, La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002, 357 ss.; Nobile, La sospensione cautelare dal
servizio del pubblico dipendente. Note minime sull’istituto e spunti per una riflessone
in margine alla sentenza della Corte costituzionale 2 maggio 2002 n. 145, in www.giust.
it, n. 5, 2003.
32
56
sottoposto a procedimento penale. Nella prima ipotesi, il regolamento
sancisce una sospensione facoltativa (e, come tale, motivata ex art. 3,
L. n. 241 del 1990), stabilendo che all’inizio o nel corso del procedimento disciplinare il Consiglio di Presidenza può, sentito l’incolpato,
disporne la sospensione provvisoria dalle funzioni e dallo stipendio
con attribuzione, eventuale e non obbligatoria34, di assegno alimentare. In caso di urgenza, il provvedimento di sospensione può essere immediatamente adottato anche senza aver sentito l’interessato, ma l’audizione avrà luogo nella prima seduta successiva. È sempre consentito al Consiglio di revocare o modificare, a domanda o anche d’ufficio,
sia il provvedimento di sospensione sia quello che attribuisce l’assegno
alimentare35.
Il successivo art. 13 (Sospensione del magistrato sottoposto a procedimento penale) prevede una prima ipotesi di sospensione obbligatoria statuendo che il magistrato sottoposto a procedimento penale
(ergo a seguito di richiesta di rinvio a giudizio) è sospeso di diritto
dalle funzioni e dallo stipendio e collocato fuori del ruolo organico
della magistratura dal giorno in cui è posto agli arresti domiciliari, ovvero in stato di custodia cautelare o di custodia in luogo di cura. In
sintesi, le misure restrittive della libertà del magistrato contabile impongono la misura cautelare, il cui provvedimento, in punto di (sufficiente) motivazione, si limiterà a menzionare l’intervenuta misura restrittiva intervenuta in sede penale.
Il successivo co. 2° dell’art. 13, prevede invece la sospensione facoltativa, stabilendo che il magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo può essere provvisoriamente e in via cautelare sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. La misura, da motivaPer una ampia rassegna di giurisprudenza sulla sospensione cautelare v. Apicella,
Curcuruto, Sordi, Tenore, Il pubblico impiego privatizzato nella giurisprudenza, Milano, 2005, 336 ss.
Sulla sospensione cautelare nell’impiego privato v. Mammone, Sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a processo penale e diritto alla retribuzione (nota a
Cass., Sez. lav., 26 marzo 1998 n. 3209), in Riv.it. dir.lav., 1999, n. 1, II, 130; Papaleoni,
Il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, Napoli, 1996, 245; Papaleoni, Ratio della sospensione cautelare, in Giust. civ., 1987, I, 2030; Montuschi, Commento all’art. 7, in Statuto dei diritti dei lavoratori (a cura di Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli), II ed., Bologna-Roma, 1979, 57 ss.
34
La discrezionalità nell’erogare l’assegno alimentare rappresenta un unicum nei
vari sistemi disciplinari nel pubblico impiego.
35
La previsione che consente di sospendere l’erogazione del solo assegno alimentare al magistrato sospeso rappresenta un unicum nel panorama dei regimi disciplinari nella P.A. e nei sistemi delle libere professioni, di dubbia legittimità.
57
re in modo idoneo (con riferimento alla tutela dell’immagine della
Corte, o della integrità dei riscontri istruttori, o del timore di contaminazioni probatorie etc.), può riguardare esclusivamente delitti non
colposi (ergo non contravvenzioni, né delitti colposi), probabilmente
anche nella forma tentata. Detta sospensione è soggetta al termine di
durata massima quinquennale di cui al co. 2° dell’art. 9 della L. 14 gennaio 1990 n. 19.
Sia per la sospensione obbligatoria che per quella facoltativa, è
previsto (art. 13, co. 3°, reg. cit.) che al magistrato, ovvero alla moglie
nonché ai figli minorenni di lui, possa essere concesso un assegno alimentare non eccedente i due terzi dello stipendio e delle altre competenze di carattere continuativo: la discrezionalità nell’erogare l’assegno alimentare rappresenta un unicum, di dubbia legittimità, nei vari
sistemi disciplinari nel pubblico impiego. In caso di controversie, l’impugnativa di tali misure cautelari avverrà innanzi al giudice amministrativo.
Per concludere sul tema, va fatto cenno alla tematica dell’accesso
agli atti del procedimento disciplinare, in perfetta sintonia con il disposto della L. 7 agosto 1990 n. 241 e della giurisprudenza in materia,
l’art. 7, co. 3° del regolamento n. 510/CP/2000, sancisce il diritto del
magistrato contabile incolpato “di prendere visione degli atti e chiederne copia all’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio”.
Palese appare l’interesse, personale, concreto e attuale, ad accedere al proprio fascicolo disciplinare (riconosciuto testualmente sia dall’art. 34 della L. n. 186 del 1982 richiamata dalla L. n. 117 del 1988,
che dal regolamento n. 510 cit.), ma non è da escludere, ai sensi della
L. n. 241 del 1990, la possibilità di accedere anche ad atti del procedimento relativo ad un terzo da parte di un collega o di un avvocato o di
un cittadino, non già per mera curiosità36 o per aver inoltrato l’esposto
alla base dell’iniziativa punitiva interna, ma per esigenze, da comprovare, di tutela giurisdizionale: promuovere azioni civili o penali avver36
V. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 1° giugno 2004, n. 5163 (in Foro amm.-TAR, 2004,
1693) secondo cui il dipendente pubblico sottoposto a procedimento disciplinare in
corso che abbia interesse, per esigenze difensive, ad accedere ai documenti inerenti al
distinto procedimento disciplinare celebratosi a carico di un terzo ha titolo all’ostensione documentale richiesta, senza che l’amministrazione possa opporgli generiche
esigenze di riservatezza.
È correttamente motivato il diniego di accesso che dia conto della carenza di un
interesse concreto e attuale alla conoscenza degli atti di cui viene chiesta l’ostensione,
evidenziata dall’Amministrazione nel provvedimento impugnato, laddove si evidenzia
che gli atti richiesti non sono minimamente influenti sul procedimento disciplinare a
58
so il magistrato incolpato, trarre argomenti probatori (es. da ispezioni o da testimonianze rese) per giudizi disciplinari analoghi pendenti
etc. Tale approdo interpretativo, già propugnato dalla dottrina37, è
stato confermato dal Consiglio di Stato in adunanza plenaria38, secondo cui la qualità di autore di un esposto al quale abbia fatto seguito un
procedimento disciplinare è circostanza idonea, ma unitamente ad
altri elementi (l’aver proposto parallela azione civile nei confronti del
carico dell’istante e che l’intera istanza non risulta motivata a garantirle il diritto alla
difesa ma piuttosto a soddisfare una mera curiosità: TAR Lombardia, Milano, Sez. III,
21 marzo 2006, n. 657, in Foro amm.-TAR, 2006, 3, 893.
L’autore di un esposto, in seguito al quale è stato dato avvio ad un procedimento
disciplinare a carico di un libero professionista, non è titolare di un interesse personale e concreto all’accesso ai relativi atti, poiché non è parte di detto procedimento, il
quale riguarda l’Amministrazione, l’incolpato e chi svolge l’attività accusatoria: TAR
Marche, Ancona, 30 marzo 2005, n. 274, in Foro amm.-TAR, 2005, 3, 698.
37
Noviello-Tenore, La responsabilità ed il procedimento disciplinare nel pubblico
impiego privatizzato, Milano, 2002, 483 ss.; Tenore, L’incidenza della nuova L. n. 241
del 1990 sulle pubbliche amministrazioni, Padova, 2006, 250.
38
Cons. St., ad. plen., 20 aprile 2006, n. 7 (in Corriere del merito, 2006, 6, 815, con
nota di Maddalena e in Guida al diritto, 2006, 20, 106, con nota di Forlenza), che aggiunge che a nulla varrebbe affermare in senso contrario la circostanza che l’autore
dell’esposto è rimasto estraneo al procedimento disciplinare che ne è seguito (tale avversa tesi era stata in passato propugnata da Cons. St., Sez. IV, 8 luglio 2003 n. 4049,
in www.giustizia–amministrativa.it.; TAR Lazio, Sez. III, 3 aprile 2002, n. 2720 secondo cui in linea generale, nei riguardi dei documenti del procedimento disciplinare a carico di altri soggetti il terzo che richieda di accedervi è privo di quella “situazione giuridicamente rilevante” prescritta ai fini dell’esercizio del relativo diritto dall’art. 22 co.
1°, L. 7 agosto 1990 n. 241, poiché egli, ancorché autore di esposto, non è parte del predetto procedimento che si svolge tra l’amministrazione, l’incolpato ed il “P.M. o altra
figura similare).
In altra sentenza è stato affermato che il cliente di un avvocato, che ha presentato un esposto al Consiglio dell’ordine rappresentando alcune irregolarità e violazione
di obblighi professionali che sarebbero stati commessi dal legale nella cura di una pratica, ha diritto ad accedere agli atti del procedimento disciplinare avviato a seguito dell’esposto, non sussistendo ragioni di riservatezza del professionista, in quanto si tratta
di accedere non a dati sensibili ma ad atti aventi stretto riferimento ai rapporti contrattuali intercorrenti con il cliente: Cons. St., Sez. IV, 5 dicembre 2006, n. 7111, in
Foro amm.-CDS, 2006, 12, 3290.
Altra pronuncia ha statuito che in materia di procedimento disciplinare a carico
di avvocati e procuratori, non sussiste violazione del dovere di riservatezza qualora sia
consentito l’accesso a documenti del procedimento disciplinare; infatti, il diritto di accesso ai documenti di procedimenti amministrativi, anche se disciplinari, previsto
dagli artt. 21 ss. della L. n. 241 del 1990, compete a chiunque abbia un concreto e apprezzabile interesse personale a prenderne visione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto
che tale interesse era stato correttamente riconosciuto al denunziante, un avvocato nei
cui confronti la collega incolpata aveva adoperato espressioni oltraggiose ed espresso
giudizi negativi): Cass., Sez. un., 25 maggio 2001, n. 218, in Giust. civ. Mass., 2001, 907.
59
terzo sottoposto a procedimento), a radicare nell’autore medesimo la
titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi dell’art. 22 L. n. 241 del 1990, legittima all’accesso nei confronti degli atti
del procedimento disciplinare (coinvolgente terzi) che da quell’esposto
ha tratto origine.
Va da ultimo ricordato che anche ai magistrati contabili si applica il D.L. 16 marzo 2004, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla L.
11 maggio 2004, n. 126 che consente ai magistrati, pubblici dipendenti, sospesi dal servizio e poi prosciolti in sede penale, con formule più
o meno ampie, di ottenere, sulla base di certi presupposti, il ripristino
del rapporto di impiego, nonché una piena e satisfattiva reintegrazione nel rapporto di servizio.
60
Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Valerio ONIDA
Presidente emerito della Corte Costituzionale
Ringrazio il presidente Vietti e il Consiglio Superiore per l’invito a
parlare a questo seminario. Mi pare una iniziativa oggettivamente
molto utile, indice del fatto che i problemi della disciplina dei magistrati hanno acquistato e stanno acquistando una rilevanza ordinamentale molto maggiore di quella che hanno avuto nel passato. Non
so se ciò sia un dato solo positivo, anzi forse è anche un segnale in
qualche modo preoccupante, ma non c’è dubbio che questa rilevanza
emerge da molti fatti e ci impone una riflessione.
Come è noto, la questione della disciplina dei magistrati, soprattutto di quelli ordinari, ha una lunga e tormentata storia. È stato giustamente osservato come il potere disciplinare che si esercita nei confronti dei magistrati abbia un carattere in qualche modo ambivalente
o ibrido, se non addirittura ambiguo, perché si discosta necessariamente dall’antica impostazione secondo cui il potere disciplinare è
un’espressione del potere organizzativo insito nella gerarchia amministrativa. Nelle amministrazioni c’è una gerarchia e c’è un potere di organizzazione: la potestà disciplinare è al servizio di questo. Mi pare di
poter dire che, almeno per quanto riguarda i magistrati, ma forse più
ampiamente, assistiamo oggi ad un tendenziale mutamento, in parte
tacito, in parte dovuto a interventi legislativi e giurisprudenziali: al
passaggio cioè da una concezione della responsabilità disciplinare
come riflesso della struttura gerarchica dell’amministrazione (c’è una
gerarchia, ci sono dei capi, i capi danno ordini e se non vengono obbediti possono sanzionare i loro sottoposti) ad una visione nella quale
la responsabilità disciplinare non è più, essenzialmente, strumento di
garanzia del potere gerarchico, ma è strumento di garanzia di interessi generali, quelli al buon andamento della funzione pubblica esercitata. Questo passaggio investe il sistema e la logica della responsabilità disciplinare dei pubblici funzionari in generale, in una visone in
cui interesse preminente è il buon andamento dell’amministrazione.
Ma per quanto riguarda i magistrati questa linea di tendenza non può
che essere pienamente operante. Il motivo è ovvio: i magistrati godono di uno status particolare, non sono inseriti in un sistema propriamente gerarchico, sono inamovibili e tra loro si distinguono “soltanto
61
per diversità di funzioni”, secondo l’art. 107 della Costituzione. Se
quindi il potere disciplinare fosse soltanto il riflesso dell’esistenza di
poteri gerarchici si dovrebbe quasi dire che esso in fondo non si giustifica, come accade là dove i giudici sono onorari e godono di inamovibilità. Nel sistema americano i giudici, nominati a vita, possono
essere revocati solo per indegnità e cioè se viene meno il “good behaviour”: salvo discutere che cosa significhi questa “buona condotta”:
ma non c’è propriamente un procedimento disciplinare, perché essi
non appartengono a una struttura amministrativa. Da noi è diverso
perché tutti i magistrati, salvo quelli onorari, appartengono ad un
corpo. Di qui anche il problema di garantire ai magistrati non solo la
loro indipendenza esterna, rispetto ad altri poteri, ma anche quella interna, nell’ambito della struttura di cui fanno parte.
L’indipendenza, come soggezione solo alla legge, che fa di ogni
giudice il soggetto di un “potere diffuso”, riguarda tuttavia solo il momento dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Fuori di quel momento il giudice è parte di una struttura e ha dei doveri di servizio del
cui adempimento risponde anche disciplinarmente. Ma, appunto, non
sono tanto doveri di obbedienza ad un’autorità gerarchica, quanto doveri di adempimento della funzione pubblica o del servizio pubblico
della giustizia, che possono comportare peraltro anche l’ottemperanza alle legittime disposizioni di chi ha responsabilità dell’ufficio.
La linea di tendenza che si è osservata porta necessariamente
nella direzione di una oggettivizzazione della responsabilità disciplinare, delle sue cause e dei meccanismi attraverso cui essa si fa valere.
Come osservava in una nota relazione del 1982 Gustavo Zagrebelsky
(La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Prospettive
di riforma, in Giur. Cost. 1982, I, 780 ss.), il magistrato in quanto tale
non risponde a qualcuno, ma caso mai di qualcosa. La responsabilità
disciplinare in questo caso non è conseguenza di una mancata obbedienza ai “superiori”, ma applicazione di sanzioni per fatti e condotte
illecite, cioè che l’ordinamento configura come non consentite. A parte
il carattere delle sanzioni, che sono sanzioni di status e non pene, la
responsabilità disciplinare, almeno nel caso dei magistrati, si avvicina
alla responsabilità penale. Al giudizio disciplinare si applicano i principi dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 della CEDU, cioè il diritto ad avere
un tribunale indipendente e imparziale che giudica sull’accusa mossa
nei confronti della persona. Infatti il giudizio disciplinare da noi si
configura, come è noto, come procedimento giurisdizionale, con la
conseguente applicazione di istituti e categorie penalistiche e processual-penalistiche.
62
Quanto agli aspetti sostanziali, una evoluzione nel senso della tendenziale assimilazione dell’illecito disciplinare ad un illecito di natura
più simile a quello penale è visibile nella giurisprudenza della Corte
costituzionale, ancor prima che il legislatore intervenisse, come di recente ha fatto con la riforma della materia. Se nella sentenza n. 100
del 1981, sulla non incostituzionalità della mancata tipizzazione dell’illecito disciplinare, la Corte affermava che si trattava di un potere
amministrativo dello Stato e non di una funzione di giustizia, e quindi non si applicava l’articolo 25 della Costituzione, in altre sentenze
più recenti la medesima Corte ha fatto affermazioni diverse. Ad esempio, nella sentenza n. 497 del 2000, sulla incostituzionalità del divieto
per l’incolpato di farsi assistere da un avvocato, la Corte ha detto chiaramente che la responsabilità disciplinare non riguarda solo l’ordine
giudiziario come corporazione professionale, ma riguarda la generalità dei soggetti ed è addirittura presidio dei diritti dei cittadini. È evidente dunque la tendenza alla “oggettivizzazione”: la responsabilità
disciplinare non è più un istituto interno ad una struttura amministrativa, ma è un problema di ordinamento generale; si tratta di garantire degli standard di condotta che l’ordinamento generale esige.
L’evoluzione legislativa recente, con la riforma dell’ordinamento
giudiziario contenuta nel decreto legislativo n. 109 del 2006 e poi con
la “riforma della riforma” attuata con la legge n. 269 del 2006, va decisamente in questo senso, perché ha investito tutti i punti che in precedenza inducevano la dottrina a scorgere qualche contraddizione fra
la logica della responsabilità disciplinare dei magistrati e il modo in
cui essa era regolata. La legge ha anzitutto introdotto la tipizzazione
degli illeciti, che da sempre veniva indicata come necessaria per questa ragione. È vero che sui limiti della tipizzazione si discute, perché
il decreto n. 109 aveva introdotto una serie di clausole generali, una
sorta di “valvole di sicurezza”, che poi la legge n 269 ha in parte soppresso. Sul tema della tipizzazione non mi posso qui soffermare oltre,
ma credo che si dovrà tornare a riflettervi, soprattutto verificando
come di fatto funzionano le cose: la prassi applicativa, in questo
campo, avrà grande importanza. Per esempio, come si traduce l’obbligo di riservatezza per i giudici? La legge cerca di dire qualcosa, ma
non riesce a dire tutto. In questo caso conterà molto la giurisprudenza disciplinare, e conteranno i codici deontologici se verranno introdotti.
Vanno nella stessa direzione l’obbligatorietà dell’azione disciplinare e l’introduzione della prescrizione, che ha fatto venir meno l’imprescrittibilità dell’azione disciplinare. Ancora, nel procedimento si è
63
introdotta la pubblicità dell’udienza, e si è prevista l’applicazione delle
norme del codice di procedura penale sulla fase istruttoria e su quella
dibattimentale; si è sancito il pieno diritto di difesa, con la possibilità
di avvalersi anche della difesa tecnica. L’assimilazione al processo penale è evidente, ed è il frutto non di una scelta casuale, bensì dell’affermarsi della tendenza che accennavo all’inizio.
Tutto questo comporta più garanzie per i magistrati incolpati: il
processo penale è per eccellenza un luogo ove operano le garanzie per
l’accusato. L’oggettivizzazione però comporta anche il fatto che la responsabilità disciplinare non venga più fatta valere, per così dire, a discrezione né dell’organo che esercita l’azione disciplinare (l’obbligatorietà ha questo senso), né dell’organo di vertice della magistratura, che
valuta se e come applicare le sanzioni. Se una funzione è oggettiva,
cioè se gli interessi in gioco sono interessi generali, occorre anche l’effettiva applicazione, in modo eguale per tutti, delle norme che impongono doveri e degli standard di condotta considerati doverosi, la cui
violazione comporta responsabilità disciplinare. Non c’è (più) discrezionalità, se non la discrezionalità nel commisurare la sanzione inflitta, tipica anche del giudice penale. È in gioco infatti l’interesse generale al buon andamento del servizio giustizia, non solo un interesse
“interno” all’apparato giudiziario in quanto tale.
Insomma l’indipendenza, che giustamente ha condotto a trasformare i lineamenti della responsabilità disciplinare per garantire appunto lo status del magistrato, non può valere a coprire la violazione
dei doveri di status. Vi sono, infatti, dei doveri di status del magistrato. Questi, per dirla con un’espressione sintetica, non è solo con la
propria coscienza; lo è nel momento in cui interpreta e giudica – jus
dicit – ma non quando, più in generale, presta la propria opera, perché fa parte di una struttura chiamata ad assicurare il servizio giustizia. Qui si si radicano anche doveri di status estranei al momento del
giudicare.
Infatti quali sono le condotte illecite che possono dar luogo alla responsabilità disciplinare? Vi sono due categorie di condotte. Una
prima può configurarsi nei termini di una “colpa professionale”: si
tratta della violazione degli standard minimi richiesti in modo indiscusso a un professionista del diritto come è l’operatore giudiziario.
L’altra categoria riguarda la violazione dei doveri di status, di per sé
estranei al contenuto della funzione giudiziaria in senso proprio, ma
la cui osservanza è condizione perché il servizio giustizia sia svolto in
modo conforme all’interesse generale, nei modi stabiliti e in tempi ragionevoli.
64
La colpa professionale in realtà fa capo più che altro alla responsabilità civile. Infatti, come è noto, la legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati ha cercato di identificare, direi in
modo sostanzialmente corretto, i limiti della colpa professionale addebitabile al magistrato, il quale, quando esercita la sua professione di
giudicante, si trova in posizione di soggezione solo alla legge. Ciò comporta che ci può essere colpa professionale, ma solo in casi evidenti e
indiscutibili di violazione della legge. Si può affermare allora che il
magistrato ha violato uno standard minimo della professione. La situazione è diversa da quella di un medico. Certo anche in quel caso c’è
una libertà di scelta dei mezzi da parte del professionista, però alla
fine, siccome lo scopo è curare il malato, se questi è stato curato male,
subendone un danno alla salute, si può dire che il medico ha sbagliato professionalmente. Per il magistrato, che egli abbia “giudicato
male” in violazione degli standard della professione si può dire solo in
quei casi evidenti che la legge indica come casi di dolo, colpa grave,
negligenza inescusabile e simili: mentre ogni altro esito dell’attività interpretativa e di valutazione dei fatti e delle prove non può dar luogo
a responsabilità disciplinare.
Più importante è portare l’attenzione sulla responsabilità disciplinare come strumento per sanzionare la violazione dei doveri di status:
imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio,
come li elenca l’articolo 1 del decreto legislativo n. 26 del 2006. Sappiamo tutti che un giudice può adottare decisioni assolutamente giuste, corrette, conformi alla legge, che resisteranno al vaglio della Cassazione, ma egualmente può venir meno a questi doveri. In questi casi
egli non compromette l’esercizio della funzione giudiziaria per il
modo in cui giudica, che può essere irreprensibile, ma compromette il
servizio giustizia in quanto tale, perché ad esempio pregiudica l’immagine di imparzialità o l’efficienza del servizio.
Questo è forse il tema centrale della responsabilità disciplinare,
più che quello della colpa professionale. È evidente peraltro che il magistrato può essere condizionato nell’esercizio della funzione giurisdizionale anche dall’attivazione degli strumenti della responsabilità disciplinare per violazione dei doveri di status, e dunque debbono valere in pieno le esigenze di garanzia dell’indipendenza: la tipizzazione
degli illeciti, le garanzie procedimentali, la pubblicità dell’udienza.
Resta il problema di chi giudica il magistrato in sede disciplinare:
è il tema centrale del seminario odierno. Il C.S.M. garantisce l’indipendenza esterna, verso gli altri poteri. Ma il fatto che la sezione disciplinare sia composta da membri dello stesso organo che ammini-
65
stra il personale dell’ordine giudiziario, eletto in maggioranza dagli
stessi magistrati, indubbiamente pone qualche problema, se guardiamo le cose nella prospettiva per cui non è in gioco l’interesse dell’apparato giudiziario, ma l’interesse generale del servizio giustizia. L’organo disciplinare dovrebbe garantire imparzialità e tutela dell’interesse generale. Non è solo la parziale identità fra componenti della sezione disciplinare e componenti dell’organo di amministrazione del personale giudiziario a porre problemi (identità che sarebbe normale e fisiologica in un’ottica di potestà disciplinare esercitata nell’interesse
della struttura amministrativa, ma non lo è nell’ottica diversa qui accennata): è soprattutto il carattere rappresentativo del C.S.M., per la
presenza prevalente della componente magistrati e di membri eletti da
questi, per le note influenze delle appartenenze correntizie dei magistrati medesimi, per la brevità del mandato quadriennale della sezione disciplinare coincidente con quello del C.S.M.. Da un giudice disciplinare ci si dovrebbe attendere una minore dipendenza rispetto alla
base che lo elegge, una maggiore stabilità e un maggiore distacco rispetto agli organi di amministrazione dello stesso personale.
Da questo punto di vista l’idea che anche in questo seminario è
stata prospettata, di giungere alla istituzione di una corte disciplinare
staccata dal C.S.M., e con una composizione più mista, si presenta a
mio avviso opportuna.
A questo punto si pone il problema delle altre magistrature. È un
caso in qualche modo singolare quello dell’Italia, in cui abbiamo magistrati che appartengono a corpi diversi; per la magistratura ordinaria abbiamo un sistema disciplinare ormai evoluto e completo, con un
procedimento ritenuto di natura pienamente giurisdizionale; per la
magistratura militare abbiamo un Consiglio Superiore che esercita
anche funzioni disciplinari e un rinvio implicito, per il resto, alla disciplina dei magistrati ordinari, tant’è che la Corte costituzionale ha
salvato questo “giudice speciale” sostenendo che si tratta solo della
estensione ai magistrati militari della disciplina prevista per i magistrati ordinari (sentenza n. 71 del 1995); per le magistrature amministrativa e contabile vi è un sistema completamente diverso, con organi di autogoverno operanti in plenum e senza sezioni disciplinari, e
procedimenti disciplinari cui si attribuisce natura amministrativa e
non giurisdizionale.
La Corte costituzionale finora su questo punto non è intervenuta,
e anzi ha ribadito che nel caso dei magistrati amministrativi si tratta
di procedimento amministrativo e non giurisdizionale, pur affermando che, trattandosi di magistrati, deve valere un pieno diritto di difesa
66
e quindi, per esempio, la possibilità per l’incolpato di farsi difendere
da avvocati del libero foro. Quello che soprattutto colpisce è però la
differenza di disciplina sostanziale. Da un lato, per i magistrati ordinari, abbiamo una tipizzazione attenta, e sia pure discussa, degli illeciti; dall’altro per i magistrati amministrativi e contabili nessuna tipizzazione. Da un lato abbiamo ormai una legge che disciplina dettagliatamente la materia, dall’altro quella che a me pare una violazione
della riserva di legge di cui all’art. 108 della Costituzione, perché tutto
o molto è affidato a regolamenti che non sono atti normativi dell’ordinamento generale ma regolamenti “interni”. Ora, poiché si tratta in
tutti casi di magistrati, non ritengo vi siano tra magistrati ordinari,
amministrativi e contabili delle differenze di status tali da giustificare
una disparità così netta, e addirittura una natura diversa del rispettivo procedimento disciplinare.
Se accettiamo la visione della responsabilità disciplinare come
strumento di garanzia di interessi generali, questo dovrebbe valere per
tutti i magistrati e non soltanto per i magistrati ordinari. Quindi unica
disciplina e unica giurisdizione. Ovviamente questo richiede una riforma costituzionale. A me pare che l’idea di una corte disciplinare unica,
a composizione mista, vada nella direzione giusta, della realizzazione
più netta del valore dell’unità della giurisdizione, che la Costituzione
del 1948 ha affermato ma poi ha contemporaneamente contraddetto.
Il tema ci porterebbe lontano, così come ci porterebbe lontano l’esame
di altri singoli aspetti, ad esempio del problema delle impugnazioni
delle pronunce disciplinari. Se vi fosse un unico giudice, perché mai le
sue pronunce dovrebbero essere impugnabili da una parte davanti alla
Corte di cassazione, dall’altra davanti al Consiglio di Stato?
Consentitemi infine un ultimo accenno a un tema che mi sta a
cuore in quanto chiamato di recente ad occuparmi della Scuola superiore della magistratura. Vorrei richiamare qui un’affermazione di Gustavo Zagrebelsky, nella già citata relazione del 1982: egli notava che,
in una funzione che è fortemente personalizzata come la funzione giudiziaria, “l’attenzione agli uomini ed alla loro formazione culturale e
civile è decisiva” (La responsabilità del magistrato, cit., 895). Questa decisività emerge anche in materia di controllo disciplinare. È qui che si
radica l’idea della insufficienza di un controllo puramente burocratico
o puramente corporativo. Anche i controlli disciplinari che gli organismi degli Ordini professionali esercitano sui rispettivi professionisti
appaiono spesso da questo punto di vista insoddisfacenti. Se un controllo di tipo burocratico-gerarchico evoca la gerarchia, che in magistratura non c’è, un controllo di tipo corporativo richiama la centralità
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degli interessi degli appartenenti alla corporazione, non necessariamente coincidenti se non addirittura contrastanti con l’interesse generale. Una vera responsabilità disciplinare, conforme alla prospettiva
qui sostenuta, si afferma solo se il controllo non è né burocratico né
corporativo, ma è un controllo, per usare un termine generico, “sociale”, in cui la prospettiva della categoria è immessa in una prospettiva
più ampia dell’interesse generale, degli interessi dei cittadini e degli
utenti della giustizia.
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Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?
Piercamillo DAVIGO
Consigliere della Corte di Cassazione
Desidero soffermare la mia attenzione su un punto che è stato in
parte trattato adesso dal professor Onida ma che prima era stato
messo in secondo piano rispetto ad argomenti senz’altro molto importanti come il diritto disciplinare sostanziale, l’aspetto procedimentale e l’assetto istituzionale del giudice disciplinare.
Ritengo che, per discutere di come eventualmente riformare il giudice disciplinare, ci si debba prima di tutto chiedere che cosa ci si attende dal procedimento disciplinare ed a quali funzioni si ritiene che
esso debba adempiere. Dai discorsi che sono stati fatti questa mattina
ne sono state ipotizzate almeno tre: la funzione di giustizia, recisamente esclusa dal presidente della Corte dei conti e invece richiamata
in qualche modo, sia pure non esclusivamente, dal professor Onida; la
funzione di governo del personale della magistratura; oppure la funzione di difesa, riorganizzazione e rafforzamento della istituzione giudiziaria; forse ci si attende un po’ di tutto questo messo insieme.
Il problema che è che a seconda di dove spostiamo l’accento ne derivano delle conseguenze importanti anzitutto in tema di esercizio dell’azione disciplinare.
Sono perplesso sulla obbligatorietà dell’azione disciplinare perché ritengo che sia da valutare seriamente sotto il profilo della legittimità costituzionale. La Costituzione della Repubblica conferisce al
Ministro della giustizia l’azione disciplinare facoltativa (art. 107
comma 2 Cost.: “Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”). In regime di azione disciplinare obbligatoria il
procuratore generale, se ravvisa la fondatezza della notizia di un illecito disciplinare, ha l’obbligo di esercitare l’azione. Ma così l’azione
disciplinare facoltativa del ministro, che evidentemente è una funzione politica, può essere sostanzialmente azzerata dall’obbligo del procuratore generale di procedere perché la facoltà di iniziativa del ministro finirebbe per corrispondere alla iniziativa di qualunque soggetto che faccia un esposto al procuratore generale. Se l’esposto è fondato, il procuratore generale ha l’obbligo di procedere. A meno che non
si ritenga che, in virtù dell’articolo 17 del decreto legislativo sul procedimento disciplinare, il ministro abbia la facoltà di esercitare anche
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azioni infondate, ma mi sembrerebbe una soluzione davvero irragionevole.
L’azione disciplinare obbligatoria avrebbe perciò dovuto essere inserita con una modifica costituzionale perché implica togliere la principale attribuzione del ministro rispetto al personale di magistratura.
È vero che esiste anche il concerto del ministro sul conferimento di uffici direttivi, ma tolto ogni potere disciplinare resta poca cosa dei poteri del ministro di giustizia, il quale è l’unico ministro, oltre al Presidente del Consiglio, menzionato dalla Costituzione, che però lo menziona solo per dire che conta poco, conta meno degli altri ministri perché non è realmente a capo di un dicastero, è a capo dei servizi inerenti l’amministrazione della giustizia. L’unica pregnante attribuzione
che il ministro ha rispetto al personale di magistratura, ripeto, a parte
il concerto, è l’esercizio dell’azione disciplinare.
Poi ci sono questioni di opportunità connesse all’esercizio dell’azione disciplinare obbligatoria, conseguente alla tipizzazione degli illeciti: prima di tutto l’obbligo di rapporto, la cui violazione è sanzionata disciplinarmente e che è estesa non solo ai capi degli uffici, ma
anche ai presidenti di sezione e ai presidenti di collegio. Ciò può avvelenare la vita negli uffici giudiziari perché l’obbligo del rapporto non
significa che il presidente del collegio ha accertato un illecito disciplinare e lo deve rapportare, ma che tale obbligo scatta anche in presenza della sola ipotesi astratta che quella condotta possa costituire un illecito disciplinare. Soprattutto coloro che non sono particolarmente
coraggiosi, di fronte alla prospettiva di finire a loro volta sotto procedimento disciplinare per non avere rapportato, rapportano tutto.
La seconda conseguenza è la crescita del numero dei procedimenti disciplinari.
Ringrazio il Procuratore generale, il Procuratore generale aggiunto e l’Avvocato generale della corte di cassazione con delega ai disciplinari. per avermi consentito l’accesso ai dati, che sono impressionanti.
Sarebbe interessante sapere – purtroppo sono aggregati e non si sa
– quanti procedimenti predisciplinari sono relativi a rapporti provenienti dai presidenti di collegio, di sezione o dai capi degli uffici.
Comunque vi è stato un forte aumento delle notizie di illecito disciplinare e di conseguenza delle azioni disciplinari esercitate. Lo ha
sottolineato stamattina anche il presidente Vietti.
I dati vanno considerati alla luce del numero di magistrati ordinari realmente il servizio che sono circa 9000.
La procura generale presso la corte suprema di cassazione ha
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aperto nell’anno 2010 ben 1382 procedimenti (su 9000 magistrati);
nei primi 11 mesi del 2011 ne sono stati aperti 1622. Di questi ultimi
ne erano stati archiviati 763, 47 sono stati riuniti e ne risultano pendenti 774.
A me sembrano numeri impressionanti: l’attività principale dei magistrati ordinari diventa preoccuparsi perché possono essere, una volta
ogni cinque anni, sottoposti quanto meno a un procedimento predisciplinare, ricevere una richiesta di informazioni o di chiarimenti.
Se da questi numeri passiamo a quelli (per fortuna non così impressionanti determinati dalla prudenza con cui la procura generale
esercita le sue funzioni delle azioni disciplinari promosse, nell’anno
2010 sono state esercitate 157 azioni disciplinari di cui 101 dal procuratore generale, 54 dal ministro, 2 da entrambi, con quindi una lieve
sovrapposizione. Nei primi 11 mesi di quest’anno sono state promosse 127 azioni di cui 88 da parte del procuratore generale e 39 da parte
del ministro. Sembra esservi una lieve flessione, ma credo sia fisiologica perché qualche anno sono di più e qualche anno sono di meno,
ma comunque sono numeri impressionanti.
Oltre tutto ciò si cala in una realtà nella quale le sanzioni inflitte
ai magistrati italiani erano decisamente più numerose di quelle inflitte a magistrati di altri Stati.
Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia e il consiglio d’Europa che mette a confronto 47
Stati membri, l’Italia sia nel rapporto del 2008 sia nel rapporto del
2010 è al secondo posto dopo la Russia che non so se sia un esempio
da seguire.
Il rapporto CEPEJ 2008 segnalava 7,5 sanzioni inflitte per anno
ogni 1000 magistrati in Italia, contro 0,5 della Francia: 15 volte di più.
Ora il dato è equivoco perché si potrebbe dire: “certo siete i magistrati più cattivi d’Europa, vi puniscono di più”. Tutto può essere. Però
quando mi confronto con colleghi stranieri non ho affatto la sensazione che i magistrati italiani siano i più cattivi d’Europa né dal punto di
vista della correttezza e della professionalità né meno che mai dal
punto di vista del carico di lavoro smaltito.
Il giudice disciplinare è un giudice estremamente severo.
Lo ha già richiamato il presidente di Vietti: il numero delle sentenze di merito dibattimentali di condanna supera di molto il numero
delle assoluzioni, il che, per esempio, non è vero per il giudice penale.
È vero che nel procedimento penale, nonostante il richiamo che
ne viene fatto nel procedimento disciplinare, valgono una serie di meccanismi di inutilizzabilità di prove che nel procedimento disciplinare
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di fatto non operano. In proposito è sufficiente ricordare la giurisprudenza delle sezioni unite civili della corte suprema di cassazione in
tema di intercettazioni telefoniche per far risaltare la differenza enorme. Quante volte si vede dichiarare la inutilizzabilità delle intercettazioni per le più varie ragioni, anche perché relative a reati per cui non
potevano essere disposte. Invece nel procedimento disciplinare vengono utilizzate, a mio avviso senza nessun fondamento normativo, ma la
giurisprudenza, sia quella della sezione disciplinare sia delle sezioni
unite civili della >Corte di cassazione è consolidata.
Ma il dato più impressionante è che un terzo delle sentenze di non
luogo a procedere sono pronunziate per cessata appartenenza all’ordine disciplinare ciò vuol dire che molti magistrati sottoposti a procedimento disciplinare si dimettono, il che significa che il giudice disciplinare è un giudice temuto. Ciò cancella questa favola che viene raccontata di una giustizia domestica, comprensiva, morbida. Non lo è
affatto.
Qualche problema si pone per un numero così elevato di procedimenti disciplinari.
Tuttavia se la funzione del procedimento disciplinare, è funzione
di giustizia, si potrebbe dire che questo è un costo inerente a tale funzione, come l’azione penale obbligatoria, non ci si può fare niente.
Se invece si ritiene che il procedimento disciplinare serve per
rafforzare l’istituzione, per difenderla dai comportamenti devianti, per
stigmatizzarli all’interno dell’istituzione, allora le cose cambiano.
Prima di tutto perché comunque un numero così alto di procedimenti sia predisciplinari che disciplinari implica che un rilevante numero di magistrati deve dedicare notevoli energie a presentare giustificazioni, a difendersi.
Nella mia esperienza di difensore, il magistrato sottoposto a tali
procedimenti perde di serenità, perché comincia ad angosciarsi (poi
angoscia anche il difensore perché telefona sempre e questo è comprensibile).
L’istituzione viene così sottoposta a stress, sia per i conflitti interni fra il presidente del collegio che ha fatto rapporto ed il magistrato
segnalato, il quale dovrà scrivere relazioni; quantomeno i due cominciano a salutarsi malvolentieri, cominciano a collaborare meno linearmente di quanto ci si dovrebbe attendere.
C’è poi un altro aspetto: un’incidenza del disciplinare così ampia
non può che ridurre l’area delle valutazioni di professionalità e l’area
di discrezionalità del Consiglio nella selezione dei capi degli uffici.
Immagino queste varie aree come cerchi concentrici: il cerchio
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più stretto che è quello della responsabilità penale, un cerchio più
ampio è quello della responsabilità disciplinare e un cerchio più
ampio ancora è quello dei comportamenti che portano a valutazioni
negative per la progressione in carriera o per il conferimento di un incarico direttivo o semidirettivo. Ma al momento in cui circa un quinto dei magistrati finisce sotto procedimento disciplinare, allora l’area
delle valutazioni negative si restringe drasticamente, finisce per coincidere con la sanzione disciplinare. E questo non vale soltanto per le
sanzioni molto gravi ma anche per le sanzioni minori, perché poi se
non ne tiene conto il Consiglio superiore, le valuterà il giudice amministrativo. Infatti fra un candidato che ha riportato una sanzione disciplinare e uno che non l’ha riportata, se chi che non l’ha riportata
viene pretermesso nel conferimento di una funzione direttiva ed impugna davanti al giudice amministrativo, si vedrà riconoscere ragionevolmente il posto che gli hanno negato.
C’è un aspetto che è alla base della dilatazione dei procedimenti
disciplinari ed è la idea, che trovo sbagliata e pericolosa, di spostare
l’attenzione dagli atti alle persone.
Quando andavo a catechismo mi avevano insegnato che la validità
del sacramento non dipende dal fatto che il ministro sia degno, ma
dall’osservanza delle norme liturgiche con l’intenzione di Santa Romana Chiesa. Se ricorrono questi due requisiti, se il sacerdote ha detto
messa secondo il messale romano con l’intenzione di Santa Romana
Chiesa, la comunione vale anche se il prete ha la fidanzata. Quindi non
è necessario investigare sul fatto se il sacerdote ha la fidanzata, ma
solo verificare se ha osservato le norme liturgiche.
Vedo invece da molto tempo una linea di tendenza che non riguarda solo il disciplinare, ma anche, per esempio, l’estensione delle
incompatibilità (cui pure la Corte costituzionale ha inizialmente contribuito). L’estensione delle incompatibilità significa non avere alcuna
fiducia nella motivazione. Mi sarò pure già pronunciato, ma ti ho
scritto perché e quella motivazione è censurabile in cassazione. Allora
perché non devo pronunciarmi più? Lo vedo persino in cassazione:
ogni tanto arriva qualche avvocato che, dimentico della funzione nomofilattica della corte di cassazione, rivolge una istanza di astensione
ai componenti del collegio giudicante della corte di cassazione dicendo: vi siete già pronunciati su questione analoga. È certezza del diritto, è nomofilachia, se si sono già pronunciati.
Allo stesso modo il fatto che, anziché ricorrere alle impugnazioni
censurando gli atti, ci si rivolga al titolare dell’azione disciplinare censurando le persone è un segno di questa tendenza, di cui il caso più
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eclatante la polemica sulla cosiddetta politicizzazione della magistratura.
Questa polemica è entrata nella testa della gente. Mi capita di parlare con persone assolutamente perbene che, avendo magari una
causa civile per finita locazione, mi chiedono: ma di che orientamento politico è il giudice? Di solito dico: ma che te ne importa? Se ti devi
far operare ti chiedi per che partito vota il chirurgo? Pensi che ti faccia morire se non voti per il suo partito? Ma sei scemo? Come puoi
pensare questa cosa di un giudice? Quello che tu rappresenti è un
abuso in atti d’ufficio, è un delitto e in genere i magistrati non sono delinquenti. Ce n’è qualcuno, ma mediamente sono persone perbene.
Quanto al problema se il giudice disciplinare debba essere parte o
no dell’organo di autogoverno, rilevo che il fatto che la Sezione disciplinare sia un’articolazione del Consiglio Superiore, contribuisce a
creare sovrapposizioni.
Prima di tutto viene in rilievo il problema dell’articolo 2 della
legge sulle guarentigie e dei suoi rapporti con il procedimento disciplinare. Ho provato a difendere qualcuno in procedimenti di trasferimento d’ufficio per articolo 2 ed è un’impresa disperata: il Consiglio
Superiore continua a mantenere un orientamento che tra l’altro è in
contrasto con ciò che lo stesso Consiglio Superiore sostiene nei ricorsi (che peraltro spesso perde) davanti ai giudici amministrativi.
La questione è che se non è più possibile il trasferimento per fatto
“anche incolpevole” (e quindi è possibile solo per fatto incolpevole),
vuol dire che almeno per i casi in cui è stata esercitata l’azione disciplinare, il procedimento di cui all’articolo 2 della legge sulle guarentigie non si può avviare. Invece frequentemente un magistrato viene sottoposto a procedimento disciplinare e ad un procedimento per articolo 2. Come si può difendere se non dicendo: non ho fatto niente? Gli
si dice: appunto ti trasferiamo perché non sei colpevole.
Credo si debba sospendere il procedimento di cui all’articolo 2
fino alla definizione del procedimento disciplinare. Se residueranno
profili di incompatibilità, allora si fara luogo al procedimento ex articolo 2, ma portare avanti in simultanea i due procedimenti significa
mettere l’incolpato in una situazione di grave difficoltà sia nel procedimento disciplinare che in quello di cui all’articolo 2.
Un altro problema è rappresentato dall’orientamento della Sezione disciplinare, di cui sono stato di recente vittima come difensore, di
scegliere direttamente la sede a cui trasferire il magistrato in sede cautelare anziché rimettere l’individuazione della sede alla Commissione
competente del consiglio. La Sezione disciplinare probabilmente nel
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momento in cui è in camera di consiglio non ha una completa visione
di tutti gli aspetti del trasferimento. Faccio riferimento a un caso,
senza citare le persone. Un magistrato che ho difeso è stato trasferito
a una sede giudiziaria – tra l’altro aveva già chiesto il trasferimento ad
altra diversa sede – e nella stessa sede di destinazione è stato trasferito un altro magistrato di cui il primo magistrato aveva convalidato
l’arresto. Adesso convalidante e convalidato si troveranno nella stessa
sede e magari nello stesso collegio. Sono convinto che se fosse stata rimessa la scelta della sede alla competente commissione questo non sarebbe accaduto perché la Commissione avrebbe avuto la visione completa del problema. …
Michele VIETTI, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura - No.
Piercamillo DAVIGO, Consigliere della Corte di Cassazione - Neanche
in questo caso? Allora sono un’ottimista inguaribile.
Michele VIETTI, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura - Le Sezioni Unite però ci hanno dato ragione.
Piercamillo DAVIGO, Consigliere della Corte di Cassazione - Rispetto
al magistrato che ho difeso vedremo, perché impugnerà domani. Il
punto è però che bisognerebbe avere la visione complessiva di chi c’è
in quella sede.
Altra questione riguarda la valutazione dei presupposti dei provvedimenti cautelari.
Mi preoccupa la giurisprudenza sia della Sezione disciplinare che
delle Sezioni Unite della corte di cassazione sulla valutazione del
fumus, quando si è in presenza di un illecito disciplinare conseguente
a delitto.
Trovo che questo sia un vulnus all’indipendenza del magistrato
perché nel procedimento penale per adottare una misura cautelare
sono necessari gravi indizi di colpevolezza che sono molto di più dall’accertamento del fumus commissi delicti, sufficiente soltanto per i
provvedimenti cautelari reali.
Quanto alla collocazione ordinamentale del giudice disciplinare:
può essere che sia necessario riformarla, ma ciò che non mi piace dei
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progetti di riforma è l’idea alla base di essi e cioè che la giustizia disciplinare attuale sia blanda (e credo di avere dimostrato che non è affatto così citando i dati).
Inoltre, è già stato detto ampiamente, è che molto dipende da
come sarà composto il giudice disciplinare perché il suo giudizio va a
incidere direttamente sull’indipendenza dei magistrati.
Infine vi è l’opinione, non dichiarata ma sottesa ai progetti di
riforma ed intuibile, che sia risolvibile in questo modo la tensione tra
i poteri dello Stato.
La tensione che c’è tra i poteri dello Stato deriva da due fattori che
sono probabilmente ineliminabili e con cui dobbiamo abituarci a convivere.
Il primo è insito nella divisione dei poteri. Se si voleva che i poteri dello Stato andassero sempre d’accordo, andava benissimo il monarca assoluto il quale, salvo casi di schizofrenia, era sempre d’accordo con se medesimo. Al momento in cui li si è divisi, si è accettato che
possano anche non avere la stessa visione delle cose.
Il secondo è che la magistratura viene accusata, a mio avviso ingiustamente, di debordare dalle sue tradizionali funzioni.
In tutto il mondo occidentale c’è un massiccio trasferimento di decisioni dal potere esecutivo e in parte dal potere legislativo al giudiziario. Questo deriva da due cause diverse; la prima è che gli individui
tendono a voler essere tutelati come tali e non più come membri di
un’aggregazione, sicché la mediazione politico-sindacale non funziona più come prima. Alcuni anni fa il presidente delle Ferrovie dello
Stato, quando erano ancora un’entità unitaria, mi disse che le Ferrovie, che avevano 120.000 dipendenti, aveva un ufficio legale che aveva
60.000 cause, quasi tutte con i dipendenti. Questo vuol dire che la direzione del personale gestiva metà del personale delle ferrovie e l’altra
metà la gestivano i giudici del lavoro.
La seconda causa deriva dal fatto che ci sono due modi per cercare di governare le cose umane: il primo è l’ordine che parte dall’alto e
viene demoltiplicato fino a risolvere il caso singolo: è il sistema tradizionale della gerarchia, il secondo è raccogliere le istanze dalla base,
filtrarle e cercare di condurle a unità. Il primo è anche il sistema dell’economia di piano, il secondo è il sistema del libero mercato oltre che
il sistema della giurisdizione. Se poteva funzionare il primo sistema,
stavano in piedi i paesi dell’Est europeo i quali si sono accartocciati su
se stessi perché non erano in grado di governare la complessità. Il sistema della selezione delle domande fino a ricondurle a razionalità è
molto più farraginoso e complicato, ma è l’unico abbastanza elastico
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da poter far fronte alla complessità del mondo in cui viviamo. Certo ci
sono contrasti, ci sono difficoltà, però è l’unico metodo che può funzionare e quindi probabilmente con queste tensioni dovremmo abituarci a convivere, anziché cercare di spegnerle.
Voglio concludere citando una frase di Lord Bingham, Lord chief
justice della Camera dei Lord britannica. Era accaduto (perché anche
in Gran Bretagna ci sono i contrasti tra esecutivo e giudiziario) che il
governo inglese aveva criticato duramente un giudice che aveva assolto un imputato accusato di terrorismo dicendo che metteva in pericolo la sicurezza del paese e altre cose di questo genere. Lord Bingham
ha così commentato:
“…Alcuni rappresentanti della stampa, dotati del dono della sobrietà, hanno parlato di guerra aperta tra governo e potere giudiziario.
Questa, secondo me, non è un’analisi precisa. Ma è vero che esiste un’inevitabile e, a mio parere, assolutamente giusta tensione tra i due. Esistono al mondo paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il
favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere…”
(Stralcio dal testo della conferenza dal titolo “The Rule of Law” Centre for Public Law, tenuta a Londra, 16 novembre 2006 da Lord Bingham, attuale Presidente del British Institute of International and
Comparative Law).
Grazie.
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Il disciplinare tra corporazione ed istituzione
Aniello NAPPI
Componente del Consiglio superiore della magistratura
1. Grazie, Presidente. Proverò a superare i sensi di colpa che quale
giudice disciplinare mi sono stati provocati dall’intervento di Piercamillo Davigo e vorrei raccogliere invece una suggestione che mi è venuta dall’intervento del professor Onida.
Il professor Onida ha prospettato un’alternativa nella sistemazione del potere disciplinare: organizzazione gerarchica o corporazione,
che poi ha superato per quanto riguarda i magistrati.
Ora, escluso che il sistema disciplinare dei magistrati possa essere
ricollegato a una organizzazione gerarchica della istituzione, io credo
che il sistema disciplinare dei magistrati debba essere in qualche misura assimilato a quello dei professionisti. Con tutti i limiti di questa assimilazione, perché è ovvio ed è indiscusso che il sistema disciplinare degli
ordini professionali ha un’origine medioevale; ed era previsto anche in
funzione di garanzia di un monopolio castale (ereditarietà delle professioni), ormai non riproponibile in società che si dicono aperte.
Oggi questo sistema disciplinare per gli ordini professionali ha
una funzione soprattutto “pretoria”, perché gli illeciti professionali
sono per lo più definiti in termini di generica contrarietà «alla dignità
ed al decoro professionale», presupponendo così il riferimento a una
coscienza collettiva del minimo di eticità richiesto da uno specifico
ceto professionale. E la mancanza di tipicità dell’illecito è ritenuta
compatibile con l’art. 25 Cost., trattandosi di responsabilità non penale (Cass., sez. III, 4 dicembre 2002, n. 17202, m. 558963, per i notai).
La tipizzazione degli illeciti disciplinari introdotta nel 2006 per i
magistrati non esclude questa esigenza; la riduce certamente, ma non
la esclude. Faccio due rapidissimi esempi.
Ha una specifica funzione professionale il riferimento alla scorrettezza. Come si fa a definire cos’è scorretto deontologicamente per
un magistrato, se non assumendo un punto di vista anche interno all’esercizio della funzione giurisdizionale?
E ancora più emblematicamente, cosa significa «ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di un altro magistrato»? È sufficiente – e questo è un problema che si è posto in sede disciplinare – è sufficiente che un magistrato ceda a un collega informazioni su una
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causa di cui si sta occupando; o è necessario che manifesti esplicitamente il suo desiderio per un certo risultato? La decisione su questi limiti della fattispecie illecita non può che essere affidata al comune
sentire del ceto professionale ed è una scelta che comporta un orientamento di costume che ha implicazioni notevolissime.
Comunque per la magistratura è costituzionalmente riconosciuta
dall’art. 105 Cost. l’esigenza di una tutela dell’indipendenza anche
nella materia disciplinare, esplicitamente attribuita al C.S.M..
Occorre piuttosto verificare fino a qual punto l’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura possa essere salvaguardata senza
rinunciare a scongiurare il rischio di una giustizia ecces-sivamente domestica, incline a indulgenze corporative.
Io non amo le analisi sociologiche e psicologiche, quindi mi affido per questo alla competenza di Piercamillo Davigo, però dico che
comunque c’è questo rischio. C’è il rischio di un’indulgenza corporativa. Mi astengo dal dire se sono convinto che ci sia questa indulgenza,
se ci sia stata più in passato o se ce ne sia di meno ora; però questo rischio c’è. E in questa prospettiva è certamente utile la sollecitazione
che viene da questo seminario a immaginare un livello superiore di genere professionale, includendo nell’organo di giustizia disciplinare
anche magistrati di altra esperienza.
Il progetto di unificare in un unico organo la giustizia disciplinare di tutte le magistrature risponde certamente all’esigenza ragionevole di cercare un punto di equilibrio più soddisfacente tra indipendenza e anticorporativismo.
Ciò nondimeno va detto anche che questa esigenza di alzare il livello del ceto professionale, estenderlo per ridurre le spinte corporative, contraddice, per esempio, la proposta della Commissione bicamerale, e le proposte ancora in discussione, di separare il giudice disciplinare del giudicante dal giudice disciplinare del requirente, perché
farebbe del requirente una corporazione sempre più esclusiva, sempre
più ristretta, dall’orizzonte sempre più angusto rispetto a quello che
accadrebbe in un sistema che includa piuttosto che separare.
D’altra parte questa esigenza di inclusione io la vedrei anche nei
confronti del ceto professionale degli avvocati, perché sono convinto
che l’indipendenza della magistratura non si gioca solo sulle garanzie
formali ma anche su una legittimazione sostanziale, che può venire
solo da un’identità di cultura e di formazione col ceto forense. Certo
questo non può portare alla creazione di un unico organo di giustizia
disciplinare, ma quello che è importante è la creazione di una cultura
comune mediante una più estesa assimilazione; e come vedremo gli
spazi per questo già si profilano all’orizzonte.
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2. In realtà per quanto riguarda il Consiglio Superiore della magistratura ordinaria si sono poste ancora una volta due problematiche
opposte:
a) quella della conformità a Costituzione dell’affidamento di tale
competenza alla Sezione disciplinare anziché all’intero Consiglio;
b) quella della opportunità che la competenza disciplinare venga
esercitata dallo stesso organo o comunque dagli stessi componenti del
C.S.M. cui sono affidate anche le competenze amministrative di autogoverno della magistratura.
A) Il primo problema, com’è noto, è stato superato con la considerazione che la sezione disciplinare è un’articolazione del C.S.M.,
perché, come rilevò la Corte costituzionale, «in base agli art. 104 e 105
non è possibile affermare, ma è anzi da escludere, che la Costituzione
abbia voluto che tutte le competenze elencate nell’art. 105 siano esercitate dal Consiglio nel suo plenum. È perciò legittimo che con la legge
ordinaria siano poste norme attinenti all’organizzazione del Consiglio
superiore della magistratura, come quelle relative alla istituzione di
una apposita sezione disciplinare» (C. cost., n. 12/1971).
B) L’esigenza di una separazione tra organi di autogoverno professionale e organi di giustizia disciplinare, evocata anche dal presidente Vietti e da altri, è stata riconosciuta di recente dal d.l. n.
138/2011, il cui art. 3, comma 5 lettera f), stabilisce che «gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l’istituzione di organi a livello territoriale, diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali
sono specificamente affidate l’istruzione e la decisione delle questioni
disciplinari e di un organo nazionale di disciplina»; e aggiunge che «la
carica di consigliere dell’Ordine territoriale o di consigliere nazionale
è incompatibile con quella di membro dei consigli di disciplina na-zionali e territoriali».
Questa esigenza, che in dottrina è stata in qualche misura riconosciuta anche con riferimento alla magistratura1, presupporrebbe peraltro una riforma dell’art. 105 Cost.; ed è comunque disattesa nella
gran parte degli altri paesi europei, in quanto solo in cinque paesi la
giustizia disciplinare è affidata a organi esterni ai Consigli (Belgio, Polonia, Slovenia, Grecia e Islanda). Gli altri la affidano sempre allo stesso organo o a una sua sezione, come in Italia.
1
G. Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento, in
Giur. cost, 1982, pt. 1, p. 780 e s., L. Salvato, Consiglio superiore della magistratura e
sezione disciplinare: le relazioni pericolose, in Giust. civ, 2001, p. 1841.
81
Nondimeno è appunto in questo senso che s’era mossa la Commissione bicamerale per la riforma costituzionale, che aveva appunto
previsto l’istituzione di una Corte di giustizia unica per la magistratura ordinaria e per quelle amministrativa e contabile.
3. Occorre dunque considerare innanzitutto qual è il sistema disciplinare vigente in Italia per le magistrature amministrativa e contabile.
Come è stato già chiarito, per quanto riguarda i magistrati del
Consiglio di Stato e dei T.A.R., l’art. 33 della legge n. 186/1982 prevede che «il procedimento disciplinare è promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri o dal presidente del Consiglio di Stato»; e la relativa decisione è adottata dal Consiglio di presidenza, di cui fa parte
lo stesso Presidente del Consiglio di Stato, anche quando abbia egli
stesso esercitato l’azione disciplinare.
Quanto ai magistrati della Corte dei conti, l’art. 10 della legge n.
117 del 1988 prevede che le decisioni disciplinari sono adottate dal
Consiglio di presidenza su iniziativa del Procuratore generale presso
la Corte.
Il testo originario dell’art. 32 della legge n. 186/1982, richiamato
anche per la Corte dei conti, prevedeva l’applicabilità ai magistrati amministrativi delle sanzioni disciplinari comminate dall’art. 19 del
r.d.lgs. n. 511/1946 per i magistrati ordinari. Ma il d.lgs. n. 109/2006,
che ha ridisegnato il sistema disciplinare della magistratura ordinaria,
ha previsto sia l’abrogazione del citato art. 19 (art. 31) sia l’espressa
inapplicabilità delle nuove norme ai magistrati amministrativi e contabili (art. 30).
Sicché manca allo stato una norma primaria che definisca le sanzioni disciplinari applicabili ai magistrati amministrativi e contabili2.
Il che pone problemi complessi, se si tiene conto di quanto diceva il
professor Onida con riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo,
che tende ad assicurare la garanzia dell’articolo 25 a tutti gli illeciti punitivi. Ormai c’è un superamento della categoria dell’illecito penale
come illecito maggiormente garantito e si va verso una categoria più
generica di illecito a sanzione punitiva.
D’altro canto è indiscussa la natura amministrativa, e non giuri2
AA.VV. La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali: magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, onorari, avvocati dello Stato, a cura di V. Tenore, Giuffrè 2010.
82
sdizionale, del procedimento disciplinare a carico dei magistrati sia
amministrativi sia contabili, tanto che le decisioni di en-trambi i Consigli di presidenza sono impugnabili solo dinanzi al giudice amministrativo (Cass., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5126, m. 553638, Cass., sez.
un., 20 aprile 2004, n. 7585, m. 572208). E la relativa questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata manifestamente infondata
sia dalla Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 settembre 2000, n.
1049, m. 540595) sia dalla Corte costituzionale (C. cost., n. 145/1976),
anche con riferimento alla composizione degli organi disciplinari (C.
cost., n. 377/1998, C. cost., n. 161/1999).
Solo di recente la Corte costituzionale, modificando un suo precedente orientamento (C. cost., n. 182/2008), ha riconosciuto ai magistrati sia amministrativi sia contabili la facoltà di farsi assistere anche
da un avvocato nel procedimento disciplinare, nel presupposto che
sussista «una stretta correlazione tra l’indipendenza del magistrato
sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto più adatto, sicché limitare quest’ultima facoltà significa in definitiva menomare in parte anche il valore dell’indipendenza» (C. cost., n. 87/2009).
Riguardata dunque nella prospettiva dei magistrati amministrativi e contabili, l’istituzione di un unico giudice disciplinare per tutti i
magistrati rappresenterebbe certamente un passo innanzi, quantomeno per la giurisdizionalizzazione del procedimento.
Considerata in una prospettiva sistematica, tuttavia, una simile
riforma non potrebbe non fondarsi su una piena assimilazione tra le
garanzie riconosciute a tutti i magistrati. Mentre la Costituzione vigente, com’è noto, attribuisce rango costituzionale solo alle garanzie
dettate per la magistratura ordinaria, posto che l’art. 108 Cost. rimette alla legislazione ordinaria le garanzie di indipendenza dei giudici
speciali. E la Corte costituzionale non solo ha dichiarato legittime le
norme che prevedono la nomina governativa di taluni magistrati amministrativi (C. cost., n. 177/1973), ma esclude anche che l’art. 107
comma 3 Cost. (per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per
diversità di funzioni), sia applicabile ai giudici speciali (C. cost., n.
434/2001), nel presupposto che per i giudici speciali il principio dell’indipendenza degli organi giurisdizionali trovi fondamento solo nell’art. 101, comma secondo, Cost. in connessione con l’art. 108 Cost. (C.
cost., n. 433/2000).
La garanzia per i magistrati ordinari è dunque molto più forte di
quella dei magistrati amministrativi e contabili. Sicché, se i problemi
che si pongono per un sistema di disciplina dei magistrati sono sia
83
quello di una responsabilità di ceto, e quindi di una funzione pretoria
nella definizione degli illeciti, sia quella di una garanzia dell’indipendenza, io credo che l’unificazione dell’organo di giustizia disciplinare
non possa prescindere da una previa assimilazione delle garanzie costituzionali. Altrimenti, per il tramite dei magistrati amministrativi
non garantiti costituzionalmente che venissero a giudicare disciplinarmente i magistrati ordinari, si finirebbe per intaccare le garanzie
costituzionali della magistratura ordinaria.
Anche a questo proposito del resto ci sono vari corporativismi che
si accavallano. La proposta di integrare le sezioni unite della Corte di
cassazione con magistrati amministrativi io la vedo positivamente; ma
in generale, non solo per la responsabilità disciplinare. E anche qui ci
sarebbe l’esigenza di ridisegnare l’intero sistema giurisdizionale, assimilando tutte le magistrature e facendole crescere allo stesso livello di
indipendenza.
Del resto il progetto di riforma costituzionale formulato dalla
Commissione bilaterale nella XIII legislatura, che prevedeva appunto
l’istituzione di un’unica Corte di giustizia disciplinare, estendeva a
tutti i magistrati, anche amministrativi e contabili, le garanzie costituzionali previste oggi per la magistratura ordinaria.
In una sentenza costituzionale, redatta da uno dei più raffinati
giuristi italiani, è scritto: «se è vero che l’indipendenza è, nella materia in esame, forma mentale, costume, coscienza di un’entità professionale, non è men vero che, in mancanza di adegua-te, sostanziali garanzie, essa, come è stato rilevato, degrada a velleitaria aspirazione»
(C. cost., n. 266/1988, redatta da Renato Dell’Andro).
È vero che un Don Abbondio non sarà mai un Fra Cristoforo, ma
senza le garanzie formali gli daremmo anche l’alibi per non esserlo.
84
“Sei gradi di separazione”: ovvero come assicurare la terzietà della
Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura*
Nicolò ZANON
Componente del Consiglio superiore della magistratura
SOMMARIO: 1. Le ragioni della crucialità della responsabilità disciplinare – 2. La separazione della sezione disciplinare dal resto delle attività de C.S.M. e la questione della fonte idonea a realizzarla – 3. Le proposte di revisione costituzionale in tema di separazione – 4. Le premesse
teoriche della separazione: la creazione con legge ordinaria della sezione
disciplinare come sezione autonoma, la sezione come “giudice” e il procedimento disciplinare come procedimento giurisdizionale – 5. L’esperienza pratica: la mancata separazione tra attività disciplinare e attività
amministrativa in seno al C.S.M. e le sue conseguenze – 6. I rimedi: la
separazione” funzionale” tra attività amministrativa di prima commissione e attività della sezione disciplinare – 7. Altri rimedi: la Costituzione non impedisce al legislatore ordinario di introdurre incompatibilità
“interne” al C.S.M.
*Non essendo riuscito a rispettare i tempi per partecipare agli scritti in onore curati dagli allievi, l’A. intende dedicare questo saggio al Prof. Valerio Onida.
1. Una delle ragioni per cui una forte attenzione (non solo dottrinale, ma anche mass-mediatica e comunque dell’opinione pubblica interessata) è concentrata sulla giustizia disciplinare relativa ai magistrati – ci si riferisce per il momento ai magistrati ordinari, ma il ragionamento potrebbe essere generalizzato – consiste nel fatto che, nell’ordinamento giudiziario italiano, sull’aspetto disciplinare si concentrano anche valutazioni che in un sistema ben funzionante dovrebbero essere riservate ad altri momenti, in particolare alle valutazioni di
professionalità1. Ma proprio perché le valutazioni di professionalità
1
Per una discussione critica sull’efficacia del nuovo sistema di valutazione di professionalità cfr. G. DI FEDERICO, Organico, reclutamento, valutazioni della professionalità, carriera, tramutamenti e attribuzione delle funzioni giudiziarie, trattamento economico, in Ordinamento giudiziario, a cura di G. Di Federico, seconda edizione, Padova
2012, pp. 265 ss.; S. SICARDI, Formazione, promozioni e controlli dopo le riforme dell’ordinamento giudiziario del 2005/2007, in Magistratura e democrazia italiana: problemi e
prospettive, a cura di S. Sicardi, Napoli 2010, pp. 195 ss.
85
introdotte dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 non
hanno ancora raggiunto quel grado di profondità (e forse di serietà)
cui il legislatore mirava, il giudizio disciplinare continua ad essere uno
dei pochi momenti in cui il magistrato vede realmente sottoposta ad
esame la sua attività professionale. In prospettiva, naturalmente, ci si
augura che la situazione cambi, e che il Consiglio Superiore della Magistratura riesca ad applicare fino in fondo la riforma del 2006, affinché possa affermarsi l’idea che il magistrato è, anche e soprattutto,
sottoposto ad una valutazione di “responsabilità professionale” che
non ha alcun significato disciplinare2. Ma allo stato attuale, la situazione è questa, aggravata altresì dalla ben nota ineffettualità dell’altra
forma di responsabilità che teoricamente l’ordinamento prevede per i
magistrati, cioè quella civile, determinata dalle scelte contenute nella
legge n. 117 del 1988 e dall’applicazione giurisprudenziale che ne è
conseguita3.
Carenze relative alle valutazioni di professionalità, da una parte,
mancato funzionamento della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, dall’altra: mentre la magistratura, anche in Italia, fa ormai
parte a pieno titolo del sistema di governance, come accade in tutti i sistemi democratico-pluralisti dell’occidente, e il suo essere potere a
tutto tondo, accanto agli altri poteri, è caratteristica evidente del funzionamento reale della forma di governo4, scarseggiano gli strumenti
per far valere la responsabilità connessa all’esercizio di tale potere.
Molto congiura, insomma, nel fare del giudizio disciplinare l’unico momento cruciale nel quale il magistrato viene chiamato a rispon2
Osserva che ad un sistema di valutazioni di professionalità del tutto insoddisfacente è corrisposto in Italia un ricorso abnorme al sistema disciplinare E. BRUTI LIBERATI, Scuola della magistratura in Francia e in Italia, in Magistratura e Consiglio superiore in Francia e in Italia, a cura di A.A. Cervati e M. Volpi, Torino 2010, p. 152.
3
Per un esame critico della legge n. 117 del 1988, alla luce delle note sentenze
della Corte di giustizia, cfr. F. BIONDI, Dalla Corte di giustizia un “brutto” colpo per la responsabilità civile dei magistrati, in Quad. cost., 2006, pp. 839 ss.; A. D’ALOIA, La responsabilità del giudice alla luce della giurisprudenza comunitaria, in Problemi attuali
della giustizia in Italia, a cura di A. Pace, S. Bartole, R. Romboli, Napoli 2010; S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in La responsabilità dei magistrati, a cura di M. Volpi, Napoli 2009, pp. 191 ss..
4
Nella letteratura italiana, in ambito politologico,il riferimento va soprattutto agli
studi di Carlo Guarnieri. V. tra gli altri, Giustizia e politica. I nodi della seconda repubblica, Bologna 2003: C. GUARNIERI – P. PEDERZOLI, La democrazia giudiziaria, Bologna,
1997 In ambito costituzionalistico, maggiormente incline a valutare con favore l’aumento di peso del potere giudiziario, un’analisi in. A. DI GIOVINE – A. MASTROMARINO, Il
potere giudiziario nella democrazia costituzionale, in Magistratura, giurisdizione ed equilibri costituzionali, a cura di R. Toniatti e M. Magrassi, Padova 2011, pp. 17 ss.
86
dere del modo in cui esercita le sue funzioni (se l’illecito è funzionale)
o del suo comportamento extrafunzionale.
2. Nel dibattito pubblico, la questione della responsabilità disciplinare viene spesso ridotta alla necessità di una giustizia disciplinare
più severa, sul presupposto che essa sia troppo blanda in quanto assicurata dal C.S.M. nell’attuale composizione. L’attenzione si sposta allora, più direttamente, sulla composizione stessa dell’organo disciplinare che – in seno al C.S.M. – assicura il giudizio, sul presupposto che
una composizione che veda in maggioranza i magistrati (come ora accade, sulla base dei rapporti previsti in seno al C.S.M. tra laici e togati) comporti inevitabilmente una giustizia “domestica”, dove gli eletti
giudicano i propri elettori, come tale tendenzialmente “perdonista”. In
questo modo, anche la questione della responsabilità disciplinare finisce per essere assorbita, per dir così, dalle note discussioni intorno alle
diverse ipotesi di riforma, con revisione costituzionale, del Consiglio
Superiore della Magistratura e in particolare della sua composizione.
Occorre tuttavia distinguere i vari problemi.
Quanto alla serietà del giudizio disciplinare relativo ai magistrati
ordinari, va riconosciuto – dati alla mano – che la giustizia disciplinare da essi subita, allo stato attuale, non è poi così blanda5: dovendosi
anzi convenire con coloro che sottolineano come, rispetto ad altre
forme di giustizia domestica, essa è relativamente più seria6.
Quanto alla composizione dell’organo disciplinare, è opportuno
sottolineare che non risulterebbe del tutto realistico immaginare un
giudizio disciplinare nel quale i magistrati – sia pur temporaneamen5
Sono da consultare in materia, innanzitutto, i dati contenuti nell’intervento del
Procuratore Generale della Corte suprema di Cassazione, Vitaliano Esposito, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012. Negli anni tra il 2005 e il 2011 il numero di magistrati oggetto, ogni anno, di procedimento disciplinare si colloca in media intorno
alle centocinquanta unità (considerato che i magistrati professionali in servizio in Italia sono circa novemila). Valgono inoltre i dati statistici desumibili dalla sezione disciplinare del C.S.M.: negli anni tra il 2008 e il 2010, in media per ciascun anno, tra le pronunce emesse dalla sezione le sentenze di condanna ad una sanzione disciplinare sono
poco meno di un terzo del totale (33 su 114 nel 2008, 47 su 147 nel 2009, 50 su 190 nel
2010). Un riassunto statistico anche in M. VIETTI, La fatica dei giusti, Milano 2011, pp.
46 ss., il quale mette in luce come tra le pronunce “non di condanna” vanno in realtà
considerate quelle di non luogo a procedere per cessata appartenenza all’ordine giudiziario: quando l’esito sfavorevole per l’incolpato appare certo e pesante, il magistrato
preferisce rassegnare spontaneamente le dimissioni, anziché aspettare l’esito del procedimento.
6
Cfr. il giudizio di M. VIETTI, La fatica dei giusti, cit., p. 48.
87
te fuori ruolo, come sono i componenti togati del C.S.M. – non siano
presenti, in prevalenza numerica o meno. È infatti difficile esercitare
funzioni disciplinari sui magistrati senza avere alcuna idea, ed esperienza pratica, di come si svolga il lavoro negli uffici giudiziari. Lo
deve riconoscere anche chi non ritenga (come chi scrive) che la giustizia disciplinare relativa ai magistrati ordinari, così come è disciplinata dalla stessa Costituzione, costituisca una mera forma “corporativa” di giustizia tra pari, nella quale si faccia valere solo una responsabilità verso l’ordine di appartenenza, trattandosi al contrario di far
valere una responsabilità verso l’ordinamento complessivamente inteso e verso i destinatari del servizio giustizia, come indica soprattutto la titolarità dell’azione disciplinare in capo al Ministro della Giustizia7.
Naturalmente, riconoscere l’importante ruolo fornito dai componenti togati non vuol dire che l’unica sensibilità idonea a garantire un
buon giudice disciplinare sia quella di costoro: il componente laico,
avvocato o docente universitario, porta nella sezione disciplinare una
sensibilità diversa, più vicina a quella degli utenti della giustizia intesa come servizio, e tale sensibilità è preziosa proprio in quanto può
correggere le tendenze corporative dei componenti togati e scoraggiare la poco commendevole volontà di proteggere gli appartenenti alle
“correnti” amiche (ma anche quella di punire gli “avversari”...). Qui si
pone semmai, in primo luogo, una questione di proporzioni numeriche tra laici e togati: ma questo è, appunto, un noto tema per le esercitazioni di revisione costituzionale prima ricordate. E, in secondo
luogo, può porsi la questione relativa a “chi” nomina i componenti,
nulla escludendo, quanto agli stessi togati, che essi possano essere nominati ab externo (dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica8),
e non eletti dai magistrati, per eliminare il tradizionale difetto di un
7
Sul punto si veda soprattutto F. BIONDI, La responsabilità del magistrato. Saggio
di diritto costituzionale, Milano 2007, pp. 245 ss. Cfr. anche D. CAVALLINI, Gli illeciti disciplinari dei magistrati prima e dopo la riforma del 2006, Padova 2011, pp. 84 ss.
8
Cfr. ad esempio, in L. VIOLANTE, Magistrati, Napoli 2009, p. 175, la proposta di
una Corte disciplinare composta per un terzo da magistrati provenienti dalle rispettive magistrature, per un terzo da personalità elette dal parlamento tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati con una significativa anzianità; e per un terzo da
membri scelti dal Capo dello Stato tra coloro che abbiano rivestito particolari responsabilità istituzionali. Un panorama di proposte di riforma, anche in specifico rapporto
alla composizione della sezione disciplinare del C.S.M., in M. LUCIANI, Le proposte di
riforma del Consiglio superiore della magistratura in Italia, in Magistratura e Consiglio
superiore in Francia e in Italia, cit., p. 113 e s.
88
organo nel quale gli eletti giudicano i propri elettori (nulla altresì
escludendo che possano essere nominati, sempre da organi o soggetti
estranei alla magistratura, magistrati a riposo, non più in atto colleghi
dei giudicati).
Se fin qui si tratta, insomma, dei tradizionali oggetti del dibattito
pubblico, buoni per le prossime (?) riforme costituzionali, si vorrebbe
in questo scritto attirare l’attenzione su altri aspetti, forse ancora più
urgenti e importanti.
Il primo problema della sezione disciplinare del C.S.M., oggi, non
sembra tanto il rapporto numerico tra laici e togati, né il “perdonismo”: il primo problema è quello di immaginare interventi idonei ad
assicurare alcuni elementari pre-requisiti di imparzialità e terzietà
dell’organo disciplinare, che l’attuale assetto delle articolazioni interne del Consiglio Superiore della Magistratura impedisce in radice.
Come si dirà meglio, infatti, l’assetto organizzativo attuale obbliga il
C.S.M. a esibire una sostanziale coincidenza “personale” tra coloro
che volgono funzioni disciplinari e coloro che attendono alle funzioni
amministrative proprie delle diverse commissioni del Consiglio.
Si tratta, come si avrà occasione di vedere, di un assetto che è
fonte non solo di difficoltà teoriche, ma anche e soprattutto di inconvenienti pratici, che richiederebbero un pronto intervento.
Proprio della praticabilità di un intervento siffatto si proverà qui
a ragionare, sotto un profilo specifico, cioè con un’attenzione particolare alla fonte idonea a realizzarlo. Si vuol qui sostenere la seguente
tesi: limitando l’attenzione alla sola magistratura ordinaria, l’evoluzione dell’ordinamento (comprensivo delle norme costituzionali, legislative ordinarie e di regolamento interno del C.S.M., e della loro interpretazione-applicazione giurisprudenziale) parrebbe indicare che ad
una effettiva “separazione” dell’attività della sezione disciplinare dal
C.S.M., inteso come organo di amministrazione della giurisdizione,
possa provvedere il legislatore ordinario, e non sia viceversa indispensabile ricorrere ad una revisione della Costituzione.
Beninteso, la revisione costituzionale sarebbe la strada maestra:
ma essendo essa per varie ragioni difficilmente percorribile, è necessario verificare la praticabilità della via più semplice e immediata,
quella della fonte primaria, pur senza nascondere le difficoltà e gli
ostacoli che praticamente questa opzione incontrerebbe.
3. L’eventualità che l’organo disciplinare venga separato dall’organo che, dal punto di vista “amministrativo”, assicura il governo autonomo della magistratura costituisce un altro luogo classico della ri-
89
flessione riformatrice in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati e, più in generale, in tema di interventi normativi sul Consiglio
Superiore della Magistratura. Non sono state infrequenti, nel passato
più o meno recente, proposte nelle quali si ragiona dell’introduzione
in Costituzione di una “Corte di disciplina” ovvero di un’”Alta Corte di
giustizia”, che dovrebbe tra l’altro occuparsi non solo degli illeciti imputabili ai magistrati ordinari, ma – previa una non facile omogeneizzazione delle regole disciplinari sostanziali – anche di quelli relativi alle magistrature speciali, quella amministrativa e quella contabile. Prescindendosi qui dai problemi che si incontrano laddove si voglia ragionare in generale, cioè di una riforma del sistema disciplinare che superi le peculiarità delle diverse magistrature, e le accomuni
tutte all’interno di un unico sistema, è da notare che, molto spesso,
quelle proposte sono appunto caratterizzate soprattutto dalla finalità
di separare l’organo che si occupa degli illeciti disciplinari dall’organo che invece governa gli aspetti amministrativi della carriera del magistrato9.
In questa direzione aveva ad esempio disposto il progetto della
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nella
XIII legislatura (la cd. Bicamerale D’Alema): una Corte di giustizia
della magistratura, competente sia per i magistrati ordinari che quelli
amministrativi, sarebbe stata formata da nove membri, eletti tra i propri componenti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria e
amministrativa (entrambi riformati, e con il secondo Consiglio anche
“costituzionalizzato”), e avrebbe avuto altresì la competenza a giudicare in unico grado contro i provvedimenti amministrativi assunti dai
due Consigli citati. Proprio e anche per questo, si stabiliva che i componenti della Corte di giustizia non avrebbero potuto partecipare alle
attività dei rispettivi Consigli di provenienza. A commento di questa
previsione, si era osservato che la separazione delle funzioni di alta
amministrazione da quelle tipicamente disciplinari, e dunque di giudizio, avrebbe consentito di superare una situazione in cui gli stessi
9
Anche se non mancano altre finalità rilevanti, quale quella di accomunare non
solo tutte le magistrature, ma anche tutte le categorie professionali di giuristi, intorno
alle medesime regole e procedure disciplinari: cfr. il progetto di revisione costituzionale elaborato dal Centro Marongiu dell’Unione delle Camere Penali, che prevede la
creazione di un’Alta Corte disciplinare competente non solo sugli illeciti dei magistrati ma altresì, in secondo grado, sugli illeciti degli avvocati. Cfr. il progetto (in data 30
giugno 2008) sul sito delle Camere penali www.camerepenali.it, sotto la voce “Centro
studi giuridici e sociali Aldo Marongiu”.
90
magistrati, incaricati di giudicare i propri colleghi, dovevano poi pronunciarsi su trasferimenti e promozioni di questi ultimi10.
Anche il disegno di legge costituzionale 7 aprile 2011 n. 4275, presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi e dal Ministro della Giustizia Alfano prevedeva l’istituzione di una distinta
Corte di disciplina, composta di una sezione per i giudici e di una per
i pubblici ministeri, i cui membri avrebbero dovuto essere eletti per
metà dal Parlamento in seduta comune e per metà, rispettivamente,
da tutti i giudici e da tutti i pubblici ministeri (previo sorteggio degli
eleggibili).
Come si vede da questa sintetica panoramica11, la questione della
separazione dell’organo disciplinare da quello di governo autonomo
viene tradizionalmente affrontata sulla base di un presupposto dato
per scontato: la separazione può avvenire solo attraverso una revisione costituzionale.
In realtà, in alcune ipotesi riformatrici, la scelta in favore della revisione costituzionale non dipende tanto o soltanto dalla consapevole
assunzione di questo presupposto, quanto dalla volontà di ottenere obbiettivi che si affiancano a quello della distinzione della funzione e dell’organo disciplinare rispetto all’organo e ai compiti amministrativi:
ad esempio, la sanzione solenne della separazione delle carriere tra
giudici e pubblici ministeri, oppure la creazione di una Corte disciplinare in grado di occuparsi sia della magistratura ordinaria che di quelle speciali.
La tesi che si vuol qui sostenere è, invece, che se si limita l’ambito
d’intervento alla magistratura ordinaria, e se si mettono da parte altri
10
M. D’ALEMA, La grande occasione. L’Italia verso le riforme, Milano 1997, p. 55. Sul
punto v., in dottrina, L. CHIEFFI, La magistratura. Origine del modello costituzionale e
prospettive di riforma, Napoli 1998, p. 205; sull’attività della bicamerale in tema di magistratura e ordinamento giudiziario, in generale, R. ROMBOLI, La Giustizia, in La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. I progetti, i lavori, i testi approvati, a
cura di P. Costanzo, G.F. Ferrari, G.G. Floridia, R. Romboli, S. Sicardi, Padova, 1998,
pp. 339 ss.
11
Altre proposte di revisione costituzionale che hanno previsto l’istituzione di una
Corte di giustizia disciplinare o di un’Alta Corte di Giustizia, variamente composta, ma
separata dal C.S.M., sono ad esempio quelle dell’on. Pecorella, 4 agosto 2008, A.C. n.
1598, del sen. Boschetto, 27 ottobre 2008, A.S. n. 1158, dei senn. Valentino e Mugnai,
9 luglio 2008, A.S. n. 891, del sen. Caruso, 1 agosto 2008, A.S. n. 990. La proposta dell’on. Pisicchio, 7 maggio 2008, A.C. n. 862 prevede invece che i provvedimenti disciplinari nei confronti degli appartenenti ad ogni magistratura spettino alla Corte costituzionale (proposta che avrebbe, a tacer d’altro, l’effetto di cambiare radicalmente la natura stessa della Corte).
91
obbiettivi (come il riconoscimento in Costituzione della separazione
dell’ufficio del pubblico ministero dall’ordine dei giudici), il risultato
della separazione della sezione disciplinare del C.S.M. dal Consiglio,
inteso come organo di amministrazione, è perseguibile con legge ordinaria.
4. Nel suo impianto ispiratore, la Costituzione vigente, apparentemente, non ha voluto la separazione. L’art. 105 cost. affida genericamente ma indistintamente al C.S.M. sia competenze di carattere amministrativo (assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni),
sia competenze di carattere disciplinare (i “provvedimenti disciplinari”, appunto). Per parte sua, l’art. 4 della legge (ordinaria) n.195 del
1958 ha concretamente attribuito questa funzione ad una sezione
dello stesso Consiglio. Questo è un aspetto, e un passaggio, per nulla
secondario dell’intera questione, la cui crucialità non sfuggì agli osservatori più attenti (né allo stesso C.S.M.), che iniziarono da subito
ad interrogarsi sulla legittimità dell’attribuzione, con fonte ordinaria,
ad una sezione del C.S.M., a composizione ristretta, di ciò che la Costituzione parrebbe attribuire al Consiglio nel suo complesso. Proprio
la sezione disciplinare del Consiglio sollevò – dopo aver in varie occasioni respinto le eccezioni d’incostituzionalità sollevate sul punto dalle
parti dei giudizi disciplinari12 – la questione di costituzionalità, che
diede modo alla Corte costituzionale di intervenire. Come è noto, la
sentenza n. 12 del 1971 della Corte salvò la previsione legislativa13, con
una pronuncia della quale giova ricordare alcuni passaggi essenziali
(utili anche per i ragionamenti che più avanti si faranno in tema di
modalità per una futura, eventuale, effettiva separazione della sezione
disciplinare dall’organo). La Corte costituzionale stabilì innanzitutto
che gli artt. 104 e 105 cost. in realtà affidano al legislatore ordinario
un ampio potere di organizzazione, aggiunse che nessun precetto costituzionale vieta l’organizzazione del Consiglio superiore in sezioni, e
concluse che nel determinare la struttura di queste deve essere rispettata l’autonomia del Consiglio stesso, autonomia che incontra peraltro
12
I precedenti giurisprudenziali e dottrinali sono analizzati con dovizia di particolari da F. COLITTO, Il Consiglio Superiore della Magistratura. I primi tre quadrienni,
Campobasso 1972, p. 1042 e ss. Questo manuale, scritto da un componente laico, è
fonte di informazioni e di notazioni utilissime sui primi dodici anni di funzionamento
del C.S.M.
13
In Giur. cost., 1971, pp. 83 ss. ed ivi notizie sul dibattito dottrinale sulla questione.
92
un limite nelle linee fondamentali secondo le quali, ai sensi dell’art.
104 cost., risulta strutturato il consesso. In sostanza, affermò la Corte,
il legislatore ordinario non potrebbe istituire sezioni deliberanti nelle
quali non siano presenti, nelle proporzioni delineate dalla Costituzione, componenti eletti dal Parlamento o componenti appartenenti ad
una delle categorie di magistrati che concorrono alla formazione plenaria del Consiglio: ma, era questa la conseguenza, può legittimamente istituirle rispettando quelle proporzioni.
È utile mostrare come, nella giurisprudenza costituzionale, l’”autonomizzazione organizzativa” (se così si può definirla) della sezione
disciplinare dal plenum del C.S.M. si è in progresso di tempo accompagnata a una sua sostanziale “autonomizzazione concettuale” da
quello, anche quanto alla sua specifica natura giuridica. Il percorso
non è certo lineare, ma qualche aspetto è ormai ben chiaro. Da una
parte, la sezione disciplinare è stata definita «giudice», ma «ai limitati
fini» della proposizione della questione di legittimità costituzionale
(cfr. ancora C. Cost., sentenza 12 del 197114). Dall’altra, è stata ammessa la legittimazione della stessa sezione disciplinare al promuovimento del conflitto fra poteri, ma (in tal caso) non in quanto la sezione sia
un «giudice», essendo piuttosto stati ammessi questi conflitti in quanto proposti da un «organo interno» al C.S.M., capace di impegnare definitivamente quest’ultimo in relazione ad una attribuzione costituzionale (cfr. C. Cost., ordinanza 530 del 200015 e sentenza 270 del 200216).
Ciò non ha però impedito alla giurisprudenza costituzionale di
stabilire che la sezione disciplinare deve possedere quei caratteri di
imparzialità richiesti dall’art. 111 Cost. in ogni tipo di processo. E,
pertanto, nel caso concreto, poiché il principio di imparzialità non
consente che il giudice sia chiamato a pronunciarsi due volte sul medesimo oggetto, è stata dichiarata, con una sentenza additiva di principio, l’incostituzionalità dell’art. 4 della l. n. 195 del 1958, nella parte
in cui non prevede l’elezione da parte del C.S.M. di un numero di supplenti sufficiente a sostituire completamente i componenti della sezione, nel caso in cui la Corte di Cassazione annulli con rinvio la sentenza della sezione disciplinare (cfr. C. Cost., sentenza 262 del 200317).
Cfr, G. ZAGREBELSKY, La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura come giudice a quo: possibili implicazioni, in Giur. cost., 1971, pp. 89 ss.
15
In Giur. cost., 2000, pp. 4161 ss.
16
In Giur. cost., 2002, pp. 1961 ss.
17
In Giur. cost., 2003, pp. 2145 ss., con nota di F. RIGANO, Il seguito regolamentare
di una sentenza additiva a contenuto generico, pp. 2154 ss.
14
93
Ed è importante ricordare che, in attesa (o in supplenza?) di un intervento del legislatore ordinario che dia seguito a questa decisione, il
C.S.M. ha autonomamente modificato l’art. 3 bis del proprio Regolamento interno, prevedendo che si eleggano sei componenti effettivi e
dieci componenti supplenti della Sezione disciplinare.
A questa “giurisdizionalizzazione” della natura giuridica della sezione disciplinare si è anche accompagnata una progressiva “giurisdizionalizzazione” dello stesso procedimento disciplinare.
Per lungo tempo, il procedimento disciplinare ha risentito dell’ambiguità del modello di ordine giudiziario accolto nel nostro ordinamento: in quanto dipendenti pubblici, i magistrati avrebbero dovuto essere sottoposti ad un procedimento disciplinare di natura amministrativa, tutto interno all’apparato statale; ma in quanto organi con
garanzia costituzionale d’indipendenza sia verso l’esterno, sia soprattutto, in questo caso, verso l’interno, avrebbe invece dovuto essere loro
garantito un procedimento tale da tutelare in primo luogo questa loro
posizione. La tensione tra l’assimilazione dei magistrati agli altri dipendenti pubblici, da una parte, e la ricerca di una loro diversa qualità, dall’altra, hanno fatto sì che anche il procedimento disciplinare rimanesse «in un limbo non ben definito»18.
Ma, da ultimo, la l. 150 del 2005 ha modificato profondamente
anche il procedimento disciplinare, avvicinandolo sempre più al processo penale. È l’indipendenza del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare a richiedere, infatti, l’introduzione di una serie di
garanzie analoghe a quelle che tutelano l’imputato nel processo penale.
In sintesi, la «giurisdizionalizzazione» del procedimento costituisce il risultato di un percorso che ha visto puntuali interventi normativi, decisioni della Corte costituzionale e della giurisprudenza disciplinare19. Si ricordano, in particolare:
a) gli interventi volti ad introdurre termini certi entro i quali l’azione deve essere esercitata e il procedimento si deve concludere, in
modo da evitare che la minaccia dell’azione disciplinare possa essere
usata per esercitare pressioni a tempo indeterminato, che sia compromessa un’efficace difesa del magistrato, o che quest’ultimo sia lasciato in un lungo stato di incertezza (cfr. l. 3 gennaio 1981, n. 1, e successivamente, C. Cost., sentenze 579 del 1990 e 196 del 1992);
G. SILVESTRI, La difesa del magistrato nel procedimento disciplinare tra garanzia
oggettiva e tutela corporativa, in Giur. cost., 1994, p. 1838
19
Cfr. in generale N. ZANON – F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, terza ediz, Bologna 2011, pp. 220 ss.
18
94
b) l’introduzione, pur con alcune deroghe, del principio della pubblicità delle udienze, prima sancito dalla stessa sezione disciplinare
del C.S.M. (cfr. sentenza 6 luglio 1985), e poi introdotto con l’art. 1
della l. 74 del 1990;
c) la piena garanzia del diritto di difesa del magistrato, attuata
grazie alla possibilità data al magistrato, oltre che di difendersi da
solo, di farsi assistere da un altro magistrato (nominato dal C.S.M.,
qualora nessuno accetti volontariamente l’incarico, secondo quanto
disposto dalla Corte costituzionale nella sentenza 440 del 1994), o di
nominare un avvocato (grazie all’addizione introdotta dalla sentenza
della Corte costituzionale 497 del 2000).
Per parte loro, la l. 150 del 2005 e il d.lgs. 109 del 2006 (artt. 14-25)
hanno realizzato un intervento complessivo che ridisciplina ex novo
la struttura del procedimento. In sintesi e in generale, oltre a confermare i risultati già raggiunti in tema di prescrizione e decadenza dell’azione, di difesa dell’incolpato e di pubblicità delle udienze, la novità più rilevante consiste, come noto, nel rinvio alle norme contenute nel codice di procedura penale attualmente vigente (e non più a
quello del 1930).
In definitiva, si può ben sostenere che, attualmente, è palese l’irriducibilità del tipo di funzioni svolte dalla sezione disciplinare rispetto
all’insieme delle altre funzioni svolte dal C.S.M., che restano saldamente ancorate al paradigma dell’attività “amministrativa”.
5. La progressiva “autonomizzazione” concettuale e procedimentale della sezione disciplinare rispetto al C.S.M. come organo amministrativo, di cui s’è parlato, deve però confrontarsi con la realtà pratica della quotidiana attività consiliare, nella quale l’accennata “commistione” personale e funzionale regna sovrana.
Non è raro che, in plenum, in sede di valutazione di professionalità o in sede di nomina a uffici direttivi o semi-direttivi, emerga, nella
discussione, l’esistenza di sentenze disciplinari a carico dei magistrati
sotto esame, irrogate (questo è un punto importante) dalla sezione disciplinare in carica, formata perciò da coloro che sono anche componenti a pieno titolo del plenum. Addirittura è talvolta accaduto che, in
plenum, il relatore della sentenza disciplinare sia intervenuto nella discussione per meglio spiegare, a suo dire, come “utilizzare” il provvedimento nelle valutazioni di carattere amministrativo che vedevano
impegnato il Consiglio. Questo evidente vulnus a qualunque esigenza
di separatezza e terzietà (sia della sezione disciplinare, sia dello stesso
plenum come organo di amministrazione della giurisdizione) si pre-
95
senta come una delle dimostrazioni più lampanti della necessità di intervenire con provvedimenti opportuni.
La questione conosce vari aspetti preoccupanti, oltre a quello appena accennato del plenum nel quale siedono componenti della disciplinare20. Tra questi, è di rilievo la contemporanea partecipazione dei
componenti del Consiglio (che nessuna norma scritta impedisce) sia
alla prima commissione consiliare referente-competente in materia di
esposti nei confronti di magistrati e sulle questioni relative alla loro incompatibilità ambientale e funzionale, cui può porsi rimedio attraverso il procedimento amministrativo di trasferimento d’ufficio – sia alla
sezione disciplinare, quali membri effettivi o supplenti. Ben può quindi accadere che di una medesima questione relativa al medesimo soggetto un consigliere ovvero più consiglieri prendano conoscenza
prima nell’una e poi nell’altra veste: e ciò può essere intuitivamente
fonte di problemi, e di evidenti forme di “pre-giudizio”. Non v’è dubbio che si tratta di situazioni alle quali può porsi rimedio con decisioni individuali di astensione (in particolare, astensione dal far parte del
collegio disciplinare se sui medesimi fatti oggetto del giudizio si abbia
già avuto modo di assumere determinazioni in sede di prima commissione ed, eventualmente, di plenum). Ma si tratterà sempre di rimedi parziali, episodici, affidati appunto alla sensibilità individuale e
non imposti da alcuna norma. Inoltre, ovviamente, problemi di compatibilità ben possono interessare la contemporanea partecipazione
alla sezione disciplinare e ad altre commissioni consiliari, diverse
dalla prima.
Sul punto, la giurisprudenza esistente, sia della sezione disciplinare, sia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non aiuta per
nulla.
In un caso, fu eccepita dinnanzi alle Sezioni Unite, in sede d’impugnazione della sentenza disciplinare, la violazione dell’art. 111
cost., sotto il profilo del mancato rispetto del principio della terzietà
e dell’imparzialità del giudice, giacché tutti i componenti della sezio20
A qualche riflessione induce la peculiare posizione del Procuratore generale
presso la Corte di Cassazione, componente di diritto del C.S.M, membro del cruciale
Comitato di presidenza dello stesso Consiglio, e allo stesso tempo titolare per legge del
potere di avviare l’azione disciplinare. Egli non è formalmente componente delle dieci
Commissioni “amministrative” del C.S.M., ma può partecipare alle loro sedute, senza
diritto di voto. È d’altra parte a pieno titolo componente del plenum. Quale componente del Comitato di presidenza e dello stesso plenum ha un ruolo di osservatore privilegiato di ogni vicenda che possa avere rilievo disciplinare.
96
ne disciplinare avevano fatto parte del plenum che aveva già disposto,
a carico del ricorrente, il trasferimento d’ufficio per incompatibilità
ambientale. Ma la risposta delle Sezioni Unite fu tranchant. Il procedimento finalizzato al trasferimento d’ufficio ha natura amministrativa, mentre quello disciplinare è giurisdizionale, la composizione della
sezione disciplinare del C.S.M. è stabilita secondo criteri predeterminati, direttamente fissati dalla legge, e il cumulo di funzioni amministrative e giurisdizionali è previsto dalla stessa Costituzione (art. 105):
tutto ciò, secondo il Supremo Collegio, porta ad escludere l’irregolarità o l’illegittimità della composizione della sezione disciplinare, e
quindi delle sue decisioni, qualora alcuni o tutti i suoi componenti abbiano partecipato al plenum del C.S.M., competente a decidere sulla
proposta di trasferimento d’ufficio. Inoltre, proseguivano le Sezioni
Unite, facendosi applicazione dei principi che regolano le situazioni
d’incapacità e incompatibilità nel procedimento civile e in quello penale, ai fini dell’imparzialità e terzietà del giudice, situazioni del genere sarebbero ravvisabili non con riferimento a procedimenti di natura diversa, bensì solo con riferimento a gradi diversi dello stesso
giudizio21.
Con gli stessi argomenti, vengono rigettate, sia dalla sezione disciplinare sia dalle Sezioni Unite, le istanze di ricusazione dei componenti della sezione che, in qualità di componenti della prima commissione o del plenum, avevano avuto modo di manifestare il proprio convincimento sui fatti oggetto del giudizio disciplinare22. Anche in tal
caso, i procedimenti disciplinari erano stati preceduti, a carico del medesimo magistrato – talvolta, si osservi, per gli stessi identici fatti – da
procedimenti amministrativi di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale istruiti in prima commissione referente e poi decisi
dal plenum del C.S.M.
Si tratta di una giurisprudenza che maschera dietro argomenti
Cass. Sez. Un., sent. n. 16264 del 2002.
Le istanze erano presentate con riferimento all’art. 36, comma 1, lettera c) e all’art. 37, comma 1, lettera a) c.p.p., secondo i quali può essere ricusato dalle parti il giudice che non abbia ottemperato all’obbligo di astenersi laddove abbia manifestato il
suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizi delle funzioni giudiziarie.
Di fronte alle Sezioni Unte i motivi di ricorso vwngono seccamente respinti: cfr. Cass.
Sez. Un. sent. n. 1994 del 2003 e n. 27172 del 2006; la sezione disciplinare del C.S.M.
si adegua a questa giurisprudenza, ad esempio, nelle ordinanze n. 63 del 2008 e n. 6 del
2009. Sul punto v.M. FRESA, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al
C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, in M.FANTACCHIOTTI, M. FRESA, V. TENORE, S.
VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano 2010, p. 392.
21
22
97
teorico-generali poco convincenti una scelta che è praticamente necessitata, poiché l’accoglimento delle istanze di ricusazione finirebbe per
comportare problemi organizzativi difficilmente risolvibili all’interno
del C.S.M., trattandosi, in sostanza, per evitare forme di pre-giudizio,
di dover comporre collegi distinti con un numero scarso di consiglieri a disposizione.
Ma come negare che il problema esista, soprattutto laddove plenum e sezione disciplinare, pur nell’ambito di procedure diverse, si occupino, in relazione allo stesso magistrato, degli stessi fatti? Con simili
premesse, anche alla luce della giurisprudenza europea, si può davvero considerare un “giusto processo” quello di fronte alla sezione disciplinare?23
Ben vero che tra il procedimento per incompatibilità ambientale o
funzionale, da una parte, e quello disciplinare, dall’altra, vi è non solo
(e non tanto) una differenza di “etichetta” – l’uno di carattere amministrativo, l’altro giurisdizionale – quanto piuttosto una differenza di
oggetto: trattandosi, nel procedimento disciplinare, di verificare la
sussistenza di un illecito disciplinare tipico, mentre nel caso dell’art. 2
della legge delle guarentigie, di ricercare le circostanze che impediscano al magistrato, “senza colpa” (espressione che dovrebbe indicare
l’assenza di una responsabilità disciplinare), di esercitare, nella sede
occupata, le proprie funzioni con indipendenza e imparzialità. Ma
quando i fatti e le circostanze esaminati, a carico dello stesso magistrato, siano in parte o in tutto gli stessi, oltre ad apparire una finzione l’appello alle diverse “etichette” dei procedimenti, risulta molto difficile sostenere che, con riferimento ai componenti della sezione disciplinare, non sia applicabile l’obbligo di astensione ex artt. 36 e 37
c.p.p. Il procedimento mentale attraverso il quale si considerano i fatti
“incolpevoli” nella procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale o funzionale è esattamente lo stesso procedimento che viene
condotto laddove si tratti di decidere la sussistenza o meno dell’illecito. Del resto, il componente del C.S.M. che in prima commissione o in
plenum si esprima sui fatti “incolpevoli” è in effetti costretto prendere
posizione, sia pur implicitamente, anche sull’insussistenza, in essi, di
aspetti disciplinarmente rilevanti: giacché questo è un passaggio cruRiferimenti alla giurisprudenza della Corte EDU in tema di imparzialità del giudice in N. ZANON – F. BIONDI, op. cit., pp. 124 ss.; M. CHIAVARIO, Art. 6, in S. BARTOLE, B.
CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova 2001, pp. 183 ss.
23
98
ciale, come si dirà subito, per affermarla competenza della prima
commissione referente.
6. Uno dei sintomi più indicativi delle difficoltà e del disagio derivanti dalla mancanza di separazione “soggettiva” (il distacco della sezione disciplinare dal resto delle articolazioni organizzative del
C.S.M.) può individuarsi nei tentativi di perseguire una distinzione
“funzionale” più netta, che approfondisca le distanze tra le vicende disciplinari e quelle amministrative maggiormente a rischio di intersezione dannosa con le prime. Il problema riguarda in particolare proprio la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale, di cui si occupa la prima commissione referente. Significativa, sul punto, è una recente delibera assunta dal C.S.M.
(in data 15 febbraio 2012, su proposta della prima commissione) che
cerca, per quanto possibile, di porre le premesse per evitare le commistioni ricordate.
Ponendosi dal punto di vista delle competenze e dell’attività della
prima commissione del C.S.M., la delibera in questione affronta alcuni aspetti del rapporto intercorrente tra i presupposti che legittimano
il ricorso al trasferimento d’ufficio, disposto dal C.S.M. in via amministrativa ex art. 2 della legge delle guarentigie (come modificato nel
2006), e quelli che invece danno fondamento alle attribuzioni di carattere disciplinare spettanti, in primo luogo, ai titolari dell’azione disciplinare (Ministro della Giustizia e Procuratore Generale presso la
Corte di Cassazione), e poi alla sezione disciplinare dello stesso C.S.M.
È evidente l’obbiettivo di impedire lo stesso teorico verificarsi di
situazioni di potenziale pregiudizio. Ricollegandosi alla precedente
Risoluzione consiliare del 6 dicembre 200624, la delibera ricorda che il
presupposto del trasferimento d’ufficio ex art. 2 l. g. ricorre quando la
situazione comportante l’impossibilità di svolgere le funzioni giudiziarie con piena indipendenza e imparzialità non risulti sussumibile in
alcuna delle fattispecie disciplinari delineate dal decreto legislativo n.
109 del 2006 (oppure non sia riconducibile a comportamenti del magistrato, situazione che per definizione non pone problemi di rapporto con la procedura disciplinare).
La delibera afferma con chiarezza che se tale sussumibilità invece
24
“Problematiche relative alla nuova formulazione dell’art. 2 Legge Guarentigie. Interpretazione del nuovo testo dell’art. 2 L.G. come modificato dal D. L.vo n. 109/2006”.
Tale circolare è consultabile sul sito internet del C.S.M. www.cosmag.it.
99
risulti, la prima commissione deve arrestare la propria attività e trasmettere gli atti ai titolari dell’azione disciplinare, ai quali spetta in via
esclusiva l’apprezzamento del rilievo disciplinare della situazione in
esame25.
Ma, come si comprende, il nodo della questione consiste nello stabilire quale e quanto spazio di accertamento istruttorio possegga la
prima commissione in ordine ai fatti giunti al suo esame, senza violare le attribuzioni che spettano ai titolari dell’azione disciplinare, ma
appunto allo scopo di verificare i presupposti per l’attivazione della
propria competenza.
È l’aspetto sul quale si richiamava poco sopra l’attenzione: per
quanto si voglia distinguere funzioni e compiti, non è possibile evitare che i componenti della commissione compiano in questa fase valutazioni di ordine disciplinare. Certo, la delibera afferma con prudenza
che non può spettare alla commissione un pieno e approfondito esame
circa la configurabilità, nei comportamenti presi in esame, di illeciti
disciplinari tipizzati nel d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109. Chiarisce che
ad essa spetta invece il compito, più limitato, di delibare preliminarmente se i comportamenti alla sua attenzione risultino astrattamente
sussumibili in alcuna delle fattispecie disciplinari tipiche delineate dal
d. lgs. n. 109 del 2006. Aggiunge che l’attività istruttoria necessaria a
tale preliminare delibazione deve essere necessariamente congrua e
proporzionata a questo limitato scopo, e non estendersi oltre. E conclude che se, all’esito di un accertamento contenuto nei termini affermati, un’astratta sussumibilità dei fatti al suo esame in una fattispecie
disciplinare tipica non risulti prima facie inverosimile, la commissione dovrebbe arrestare il proprio esame e trasmettere gli atti ai titolari
dell’azione disciplinare. Simmetricamente, se tale astratta sussumibilità risulti invece prima facie non sostenibile, la commissione potrebbe proseguire i propri accertamenti istruttori.
Come si vede, le cautele sono molte. E non sarebbe del resto possibile stabilire diversamente, poiché la commissione deve poter deci25
Cfr. anche quanto disposto, in via generale, dall’art. 27 del Regolamento Interno del C.S.M.: al comma 1 si prevede che “se dall’attività istruttoria compiuta dalle
Commissioni nell’ambito delle rispettive attribuzioni risultino fatti suscettibili di valutazione in sede disciplinare, la Commissione competente trasmette gli atti al Vice Presidente per l’inoltro ai titolari dell’azione disciplinare”. Il comma 3, altrettanto istruttivamente, stabilisce che “la comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare non implica alcuna valutazione da parte del Consiglio sulle responsabilità disciplinari che
possano eventualmente risultare”.
100
dere circa la sussistenza della propria competenza. Comprendere se
questo modo di procedere riesca ad evitare ogni pregiudizio, tuttavia,
è altra questione. Se la delibazione preliminare conclude nel senso che
non è inverosimile un’astratta sussumibilità dei fatti esaminati in una
fattispecie disciplinare tipica, in quale condizione si troverà il componente della sezione disciplinare, che sia per avventura anche componente della prima commissione, se la questione giunge al suo giudizio? E se, invece, la commissione ritenga implausibile ogni rilievo disciplinare, prosegua dunque i suoi lavori, e proponga alla fine un’archiviazione per insussistenza dei presupposti per il trasferimento d’ufficio, che il plenum approva, in quale condizione si troveranno i componenti della sezione disciplinare (tutti!), se i titolari dell’azione –
come possono fare – avviino invece la procedura ed essa giunga al loro
giudizio?
La delibera, in ogni caso, prova a cesellare i confini funzionali rispettivi tra procedura disciplinare e amministrativa. Anche con riferimento al caso in cui la delibazione concluda per la non sussumibilità
dei fatti in alcun illecito tipico e consenta il proseguimento dell’istruttoria, la delibera precisa infatti che se, in qualunque momento, la
commissione abbia notizia della pendenza di un procedimento disciplinare per quei medesimi fatti, essa deve ugualmente arrestare la propria attività e archiviare la pratica, salva la necessità – da valutarsi
caso per caso – di compiere accertamenti indifferibili e urgenti, sempre ai fini delle valutazioni ex art. 2 l.g.. Ciò in virtù della considerazione che, per definizione, fatti suscettibili di essere fonte di responsabilità disciplinare – non più in astratto, ma proprio nella valutazione in concreto degli organi a ciò competenti – non possono essere “incolpevoli” ai sensi della nuova versione dell’art. 2 L.G. e pertanto non
integrano una competenza della commissione26.
La delibera si preoccupa anche di definire cosa si intenda con l’espressione “pendenza del procedimento disciplinare”. Più che la separazione “funzionale” tra le attività di natura disciplinare e quelle “amministrative”, in funzione di evitare il formarsi di un pregiudizio in
capo ai componenti della commissione, essa persegue qui un distinto
obbiettivo: alla definizione del concetto di pendenza si deve giungere
Come si nota, in tal caso si ha una seconda e diversa ipotesi di arresto dei lavori della prima commissione: non più sulla base dell’autonomo apprezzamento circa la
astratta sussumibilità dei fatti al suo esame in una fattispecie disciplinare, ma sulla
base di un’attività dovuta ai titolari dell’azione disciplinare.
26
101
considerando la necessità di evitare, per quanto possibile, sovrapposizioni istruttorie che potrebbero essere assai dannose, soprattutto per la
procedura disciplinare. L’obbiettivo è soprattutto di evitare sovrapposizioni di accertamenti e audizioni, e di impedire che un’istruttoria in
prima commissione abbia l’effetto di interferire con strategie d’indagine disciplinare, o addirittura di violare le garanzie sia di riservatezza
che di contraddittorio, presenti nel procedimento disciplinare ma non
allo stesso modo assicurate in quello amministrativo ex art. 2 l.g.
Per questa ragione, la delibera considera che pendenza del procedimento disciplinare si abbia allorquando – ai sensi dell’art. 14,
commi 2 e 3, del d. lgs. n. 109 del 2006 – il Ministro della Giustizia fa
richiesta d’indagine al Procuratore Generale presso la Cassazione,
dando comunicazione al C.S.M. con indicazione sommaria dei fatti
per i quali si procede, ovvero, analogamente, quando è il Procuratore
Generale ad assumere l’iniziativa, dandone notizia al C.S.M. e al Ministro, sempre con indicazione sommaria dei fatti per i quali si procede27.
Il quadro fin qui disegnato vale per l’ipotesi in cui fra i fatti suscettibili di essere sussunti in una fattispecie disciplinare tipica e quelli da valutarsi ai fini del trasferimento d’ufficio vi siano coincidenza e
sovrapponibilità totali, di modo che l’esame in sede disciplinare esaurisca, senza residui, ogni elemento della situazione. Ma spesso la realtà
delle cose non consente distinzioni così nette. E proprio con riferimento alle “zone grigie”, cioè a casi nei quali si manifesti l’esistenza di
parti o aspetti della situazione palesemente non rilevanti ai fini disciplinari, ma invece di interesse ai fini della valutazione ex art. 2 l. g., la
delibera affronta la questione se abbia la prima commissione un autonomo – e parallelo a quello dei titolari dell’azione disciplinare – potere d’accertamento istruttorio: questione che ovviamente riporta in
prima linea le potenziali sovrapposizioni e, di nuovo, il rischio del pregiudizio.
27
Ad altri fini, diversi da quelli che la delibera in esame prende in considerazione,
laddove ad esempio si tratti di valutare se la pendenza del procedimento disciplinare
sia o meno preclusiva all’assunzione di determinati compiti da parte di magistrati, il
C.S.M. ha assunto una diversa nozione di “pendenza”, molto più oggettiva e “garantista”, facendo riferimento al momento in cui, al termine delle indagini, non ritenendo
di dover chiedere la declaratoria di non luogo a procedere, il Procuratore Generale formula l’incolpazione e chiede al Presidente della Sezione disciplinare la fissazione dell’udienza di discussione orale (un momento in cui vi è cioè stata una prima attenta valutazione del fumus in ordine all’illecito disciplinare).
102
Pur ritenendo che molto dipenda dal grado di connessione, o invece di separatezza, degli elementi di fatto in questione, la delibera
assume anche qui un atteggiamento di prudenza: osservando che l’inevitabile favor per il procedimento disciplinare consiglia in linea di
principio alla prima commissione un certo self-restraint, dovuto non
solo alla già ricordata opportunità di evitare sovrapposizioni di accertamenti e audizioni, ma anche e soprattutto alla necessità che pare
sempre prevalente, ovvero quella di non interferire con strategie d’indagine disciplinare e di non violare le garanzie di riservatezza e di
contraddittorio tipiche del procedimento disciplinare. Ma aggiunge
che quando la connessione non sia di carattere pregiudiziale – nel
senso che l’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del trasferimento
amministrativo d’ufficio non presuppongano l’accertamento dei fatti
rilevanti a fini disciplinari – la prima commissione può proseguire
nella propria istruttoria e il Consiglio potrà deliberare a norma dell’art. 2 l.g.
Come si vede, la delibera tenta un’actio finium regundorum indispensabile e meritoria, che tuttavia può affrontare il problema fin qui
descritto in termini solo funzionali e non invece strutturali, e che probabilmente non è perciò sufficiente, non risolvendo affatto la questione di fondo, anche perché la separazione “funzionale”, ammesso e non
concesso che sia sempre rispettato l’auto-limite che la prima commissione si è così imposta, varrebbe appunto solo per le ipotesi in cui fra
i fatti suscettibili di essere sussunti in una fattispecie disciplinare tipica e quelli da valutarsi ai fini del trasferimento d’ufficio vi sia totale
coincidenza.
Ma anche per quelli per i quali la totale coincidenza sussista, il
pregiudizio non viene affatto eliminato: anzi, come si è visto, proprio
per affermare la propria competenza, i componenti della prima commissione devono escludere, sia pur a seguito di una preliminare delibazione, condotta “in astratto”, la sussistenza dell’illecito disciplinare,
visto che – per potersi dar luogo ad una procedura amministrativa di
trasferimento d’ufficio – i fatti devono essere per legge ritenuti “incolpevoli”! Ma se così è, come già prima si è detto, non è facile negare la
sussistenza dei presupposti per un obbligo d’astensione ex artt. 36 e 37
c.p.p. ci sono tutti.
Infine, non può comunque trascurarsi che la delibera descritta affronta solo uno dei molteplici aspetti negativi – quello della sovrapposizione fra attività di prima commissione e sezione disciplinare – che
la mancata separazione tra attività disciplinare e attività amministrativa del C.S.M. comporta.
103
7. Si tratta quindi di provare a ragionare su rimedi più radicali e
risolutivi. Come si è già visto, è chiaro che la strada maestra consisterebbe nell’approvazione di una legge di revisione costituzionale che
stabilisca la separazione, funzionale e organizzativa, della giustizia disciplinare dal resto delle funzioni amministrative che riguardano la
magistratura. In tal senso vanno le già citate proposte di creazione di
un’Alta Corte disciplinare, quale organo autonomo, che potrebbe occuparsi non solo degli illeciti disciplinari della magistratura ordinaria,
ma anche di quelle delle magistrature speciali.
È noto, tuttavia, che, per molte ragioni che qui non possono essere approfondite, le revisioni costituzionali non solo non costituiscono
un percorso agevole (e ciò è in fondo giustificato proprio dalla stessa
rigidità della Costituzione), ma sovente costituiscono un percorso impossibile, per motivi politici e di contesto complessivo. Il giurista è
perciò spesso condotto a chiedersi se a un risultato simile a quello che
si vorrebbe ottenere con una revisione costituzionale non si possa
giungere con una legge ordinaria. Ed è appunto questa la tesi che,
come già anticipato, si vuol qui sostenere, sulla base anche dei dati e
delle premesse in tema di “autonomizzazione” concettuale e procedimentale della giustizia disciplinare, prima illustrati.
È necessaria certo la consapevolezza che, se si rinuncia alla revisione costituzionale, si rinuncia a un intervento che possa ricomprendere complessivamente, sotto un’unica disciplina, la giustizia disciplinare relativa a tutte le magistrature, ordinaria e speciali: ma non è da
trascurare, nell’ottica dei “piccoli passi”, che una riforma incisiva sulla
sezione disciplinare del C.S.M., con legge ordinaria e nella direzione
qui prefigurata, potrebbe avere effetti di trascinamento anche sul regime disciplinare delle altre magistrature, che pure è organizzato solo
dalla fonte primaria28.
Quali sarebbero dunque i margini e i confini di un intervento con
legge ordinaria, ispirato alla necessità di introdurre qualche grado di
separatezza tra attività disciplinare e attività amministrativa del
C.S.M.? Si può partire da un primo dato: la legge n. 195 del 1958 (art.
4) “isola” la sezione disciplinare rispetto a tutte le altre articolazioni
organizzative del C.S.M. (le commissioni), prevedendone esplicitaCfr. V. TENORE, Il procedimento disciplinare per i magistrati amministrativi, contabili, militari, onorari e per gli avvocati dello Stato, in in M.FANTACCHIOTTI, M. FRESA, V.
TENORE, S. VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, cit., pp.
573 ss.
28
104
mente la composizione, e stabilendo che tale composizione dipenda,
all’inizio della consiliatura, da un’elezione consiliare diretta, a scrutinio segreto e a maggioranza dei due terzi dei componenti. Questo non
è previsto per le articolazioni del C.S.M. che si occupano di amministrazione della giurisdizione, cioè per le dieci commissioni consiliari.
Esse sono create successivamente, su proposta del comitato di presidenza (art. 3 l. n. 195 del 1958 e art. 30 del regolamento interno del
C.S.M.). Il dato deve essere sottolineato: mentre la composizione della
sezione disciplinare è soggetta ad una scelta nella quale la legge attribuisce peso decisivo alla volontà della maggioranza qualificata dei
consiglieri, la composizione delle dieci commissioni è in sostanza rimessa alla volontà del comitato di presidenza (che, nella prassi, cercherà di soddisfare le preferenze informalmente e individualmente
espresse dai vari consiglieri).
Si tratta di un aspetto importante, che depone nel senso della differenza, anche “di legittimazione”, tra sezione disciplinare e commissioni.
Si potrebbe provare ad approfondire tale dato, e ad utilizzarlo
nella direzione della separazione? La risposta deve essere articolata.
Come è chiaro, non sarebbe possibile, con legge ordinaria, “staccare”
la sezione disciplinare dal C.S.M. e farne un organo (di rilievo costituzionale!) autonomo, perché questo è impedito dagli artt. 104 e 105
cost..
Tuttavia, con la sola legge ordinaria, si potrebbero prevedere diversi gradi di separazione “soggettiva” tra sezione disciplinare e attività amministrative del C.S.M.
Attraverso una modifica all’art. 4 della legge n. 195 del 1958, si potrebbe innanzitutto stabilire che i componenti della sezione disciplinare non partecipino alle altre attività del Consiglio Superiore della
Magistratura. Più precisamente, tenendo presente che, in base alla
legge, le dieci commissioni “amministrative” del Consiglio hanno
compiti “referenti” e solo il plenum consiliare è l’organo deliberante, si
dovrebbe prevedere che i componenti della sezione disciplinare o non
partecipano a nessuna delle altre attività delle dieci commissioni consiliari, e quindi nemmeno alle riunioni di plenum, ovvero non partecipano solo a quelle attività di commissione che il legislatore identifichi,
nella sua discrezionalità, come potenzialmente lesive della necessaria
separatezza e terzietà della sezione disciplinare. Se il divieto di partecipazione fosse parziale, ne conseguirebbe che il plenum del Consiglio
sarebbe a composizione variabile a seconda delle questioni da affrontare, nel senso che i componenti della sezione disciplinare potrebbero
105
prendere parte solo alle discussioni e alle delibere consiliari su questioni che abbiano concorso a istruire, partecipando all’attività della
commissione “amministrativa” competente, e comunque alle discussioni e alle delibere istruite dalle commissioni per le quali il divieto
non sia previsto.
Ora, la Corte costituzionale, nella ricordata sentenza n. 12 del
1971 precisò che dagli artt. 104 e 105 “non è data in alcun modo la
possibilità di dedurre che la Costituzione abbia voluto che tutte le
competenze elencate nell’art. 105 siano esercitate dal Consiglio nel suo
plenum”. L’affermazione, nell’economia di quella pronuncia, allude
alla possibilità che articolazioni consiliari parziali abbiano poteri deliberanti, efficaci verso l’esterno, e da questo punto di vista essa si attaglia alle specifiche esigenze della sezione disciplinare, mentre sarebbe difficile immaginare di farla valere per altro genere di articolazioni
interne consiliari29. Ma per quanto qui soprattutto interessa, si tratterebbe di estrarre da quella ratio decidendi l’idea che non tutte le competenze elencate nell’art. 105 cost. siano da esercitarsi dal plenum consiliare nella sua integralità numerica.
Non si nasconde che la soluzione presenta varie difficoltà, alcune
di natura teorica ed altre di ordine pratico-organizzativo. Quanto alle
prime, si può osservare che la Costituzione, saggiamente, non precostituisce un numero di componenti il plenum, ma assicura solo la proporzione reciproca di laici e togati, nonché la presenza dei membri di
diritto. Non è allora una questione di numero, ma piuttosto di status:
dovendosi accettare l’idea, apparentemente singolare, che alcuni componenti il C.S.M. non possano mai – ovvero non possano sempre –
prendere parte al plenum (ovvero non lo possano fare pleno iure), cioè
al momento in cui solennemente e formalmente il Consiglio delibera.
Questa è obbiettivamente un problema, alla luce dell’attuale impianto
costituzionale: ma la consapevolezza di esso dovrebbe indurre non già
ad abbandonare tout-court l’idea dell’utilizzabilità della legge ordinaria ai fini qui perseguiti, quanto piuttosto a orientarsi verso opzioni
parziali di incompatibilità fra sezione disciplinare e attività di com29
È noto che, oltre alle sezione disciplinare, l’unica altra articolazione consiliare
che ha autonomo rilievo e proiezione esterni è la quinta commissione, competente per
il conferimento degli incarichi direttivi, che, dopo aver approvato le proprie proposte,
le porta al concerto con il Ministro della giustizia prima di sottoporle alla delibera del
plenum del C.S.M.: cfr. art. 11 l. n. 195 del 1958. In argomento G. DI FEDERICO, Il Consiglio Superiore della Magistratura: composizione, funzioni, iter e forma delle decisioni,
in Ordinamento giudiziario, a cura di G. Di Federico, cit., p. 193.
106
missione, con conseguente esclusione solo parziale dalla partecipazione al plenum.
Detto altrimenti: si tratterebbe di partire dall’idea che non necessariamente tutti i componenti del C.S.M. sono “abilitati” a svolgere indifferentemente tutte le funzioni che al C.S.M. sono attribuite. Se la
condizione giuridica attuale è nel senso di una sostanziale “intercambiabilità” (ed ecletticità) dei componenti del C.S.M. – temperata dai
soli limiti pratici alle loro possibilità di lavoro30 – ciò non sembra costituzionalmente imposto: e, al contrario, la legge ordinaria ben potrebbe introdurre delle incompatibilità “interne”, tra le diverse funzioni consiliari, e in special modo tra quelle funzioni – disciplinari (e
quindi pressoché giurisdizionali), da una parte, e amministrative, dall’altra – che in seno al Consiglio paiono più distanti.
In definitiva, si tratterebbe, rispetto alla ratio decidendi della sentenza del 1971, di fare un passo in più, e di affermare che dagli artt.
104 e 105 cost. non è data la possibilità di dedurre che al legislatore
ordinario sia impossibile prevedere che alcuni componenti dei C.S.M.,
laici e togati, siano destinati ad alcune funzioni e non ad altre, tra
quelle attribuite al Consiglio nel suo complesso. Da tale nuova affermazione, seguendo i ragionamenti prima condotti circa l’irriducibilità
tra funzioni disciplinari e funzioni amministrative del C.S.M., si tratterebbe infine di giungere a prevedere, con legge ordinaria, forme di
incompatibilità interne, coerenti all’idea di separare strutturalmente le
funzioni della sezione disciplinare da tutte quelle di natura amministrativa, o da alcune di esse.
Quanto alle difficoltà pratico-organizzativo, esse sono a loro volta
insidiose, giacché si porrebbe, in particolare, il problema relativo al
numero dei componenti, laici e togati, da distribuire nelle varie commissioni e da ammettere al plenum. A questo proposito non si può
non ricordare che, oltre ai sei componenti effettivi, il regolamento interno prevede ormai che siano ben dieci i componenti supplenti della
sezione disciplinare, in ossequio a quanto disposto dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 262 del 2003. E alla luce di ciò, parrebbe
francamente difficile sostenere la praticabilità dell’introduzione di
una rigida incompatibilità che li riguardi tutti: dovendosi semmai riAttualmente, ogni componente del C.S.M. è assegnato a due o tre (o al massimo
quattro, ma sono eccezioni) commissioni diverse, su proposta del Comitato di presidenza. È previsto che ogni commissione muti ogni anno almeno un terzo dei suoi componenti.
30
107
piegare prudentemente su una preclusione che riguardi i soli membri
effettivi.
D’altra parte, se le illustrate difficoltà, teoriche e pratiche, dovessero essere ritenute insormontabili, e si volesse ugualmente ipotizzare
un intervento minimale, si potrebbe stabilire semplicemente, con
legge ordinaria, che i membri effettivi della disciplinare non possono
far parte della prima commissione referente, ed eventualmente che
essi non votano in plenum sulle proposte di prima commissione, o almeno su quelle in materia di incompatibilità ambientale o funzionale.
Questo limitatissimo intervento avrebbe quanto meno il pregio di impedire le più evidenti lesioni alla terzietà della sezione disciplinare.
Solo per scrupolo ci si potrebbe infine porre, risolvendola positivamente, la questione in certo modo opposta a quella finora affrontata, che riguarda i rapporti tra legge ordinaria e la fonte a questa sovraordinata (la Costituzione): ci si potrebbe, cioè, chiedere se la legge
ordinaria possa a tal punto entrare nell’autonomia organizzativa del
C.S.M. – e della correlata fonte subordinata alla legge ordinaria, cioè
il regolamento interno – stabilendo che alcuni componenti, eletti alla
disciplinare, incontrino limiti quanto alla partecipazione all’attività
delle dieci commissioni “amministrative”, o a qualcuna soltanto tra
queste, con le correlate conseguenze quanto alla loro partecipazione al
plenum. Risposta positiva sulla quale non dovrebbero sussistere
dubbi, sia per la riserva di legge che anche l’art. 105 cost. ribadisce, sia
perché all’intervento della fonte primaria non parrebbe opponibile
nessuna riserva di auto-organizzazione del C.S.M., circa la decisione
sulle compatibilità/incompatibilità interne, trattandosi qui di inverare
principi di rango costituzionale che hanno direttamente a che fare con
terzietà e imparzialità del giudice disciplinare.
108
INTERVENTI
Per una riforma della sezione disciplinare del C.S.M.
Salvatore MAZZAMUTO
Sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia
Vorrei ringraziare innanzitutto l’amico Vietti per avermi invitato
oggi qui. E inutile dire che un tema come quello della giustizia disciplinare richiede approfondimenti e consensi molto ampi. Molti di noi
hanno provato in passato a dire qualcosa sul punto, ma tutto ciò non
si è mai tradotto in iniziative parlamentari rilevanti se si eccettua la
riforma costituzionale presentata sotto il Governo Berlusconi. Quindi
i lavori di questo seminario saranno sicuramente per noi, per il Governo anzitutto, motivo di riflessione e di stimolo.
Una cosa voglio dire in premessa: tra l’essere e l’apparire, in materia di imparzialità e di terzietà ossia di principi fondamentali della giurisdizione, non vi può essere distanza. Non bisogna soltanto essere imparziali e terzi ma bisogna apparire tali. Purtroppo la Sezione disciplinare non appare come un organo terzo e imparziale per la semplice ragione che è intrinsecamente collegata alla struttura complessiva del
C.S.M. e questo in qualche misura ne offusca l’indipendenza, l’imparzialità, la terzietà quanto meno sul piano dell’immagine. Che poi nei
fatti tutto questo non si traduca in comportamenti censurabili è importante, ma non è dirimente. Quindi rimane il problema di ricercare
una via attraverso la quale consentire a quell’organo di svolgere in
piena serenità, agli occhi degli utenti di quella particolare giustizia, il
proprio compito. Che questo debba significare necessariamente un’unica giurisdizione disciplinare per tutte le magistrature, io francamente avrei dei dubbi. In passato ho suggerito qualche accorgimento, a Costituzione invariata, per consentire al C.S.M. sin da subito senza attese
messianiche di attuare i principi del giusto processo e di terzietà e imparzialità del giudice disciplinare. Vorrei quindi riprendere le cose da
me gà dette in passato e riproporle come tema di dibattito.
La situazione di frequente incompatibilità, inoppugnabile quanto
pervicacemente ignorata – in cui versano i componenti del collegio
chiamati sovente a pronunciarsi sugli stessi fatti in sede amministrativa quali membri delle commissioni e del plenum del C.S.M. – esige a
mio avviso un intervento urgente ad hoc e cioè una riforma della Sezione disciplinare che, anche nell’interesse degli stessi magistrati,
111
rafforzi le garanzie di un giusto processo disciplinare, fermo restando
che un diverso e più incisivo assetto potrà essere adottato soltanto in
sede di riforma costituzionale nel rispetto comunque dei principi di
garanzia che si vogliono sin d’ora introdurre.
Appare in verità possibile – in conformità del resto con gli indirizzi della Corte costituzionale – dare attuazione ai principi del giusto
processo ed eliminare in radice le situazioni di incompatibilità assicurando la terzietà ed imparzialità del giudice disciplinare – senza violare il dettato costituzionale circa le prerogative del C.S.M. – qualora:
a) si aumenti con legge ordinaria il numero di consiglieri in modo
da destinarne alcuni alla funzione giudicante in sede disciplinare;
b) si vieti a tali consiglieri la partecipazione alle deliberazioni amministrative circa i medesimi fatti (trasferimenti e promozioni) e li si
escluda dalle commissioni competenti al riguardo.
La Corte costituzionale ha non da ora affermato in materia due
principi.
Il primo principio è che la disciplina costituzionale consente al legislatore ordinario un’ampia discrezionalità in ordine alla “disciplina
delle funzioni e dell’organizzazione interna del Consiglio”. Sulla scorta di
tale principio la Corte costituzionale ha ritenuto, in particolare, che legittimamente la legge 195 del 1958 abbia previsto che il C.S.M. “il potere disciplinare, debba esercitarlo, anzichè in sede plenaria, in una composizione più ristretta costitutiva della Sezione disciplinare” (cfr. Corte
cost. 2 febbraio 1971, n. 12 e Corte cost.12 marzo 1998, n. 52).
Il secondo principio è che il procedimento giurisdizionale di fronte alla Sezione disciplinare presenta carattere di “peculiarità e atipicità”, e ciò perche “sussiste un interesse costituzionalmente protetto a
che il procedimento stesso, comunque configurato dal legislatore ordinario, si svolga in modo tale da non ostacolare l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio superiore”, nella prospettiva teleologica della “garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura” (Corte
cost. 22 luglio 2003, n. 262).
Tutto ciò peraltro non ha impedito alla Corte costituzionale, in ragione della natura “giurisdizionale” del procedimento disciplinare, di
farsi carico dei principi costituzionali in materia di giurisdizione, specialmente alla luce dei principi di imparzialità del giudice e del “giusto processo”, come sanzionati dall’art. 24 e dal novellato art. 111 cost.
112
La Corte costituzionale ha poi così statuito:
“È costituzionalmente illegittimo l’art. 4 1. 24 marzo 1958 n. 195,
nel testo modificato dall’art. 2 1. 28 marzo 2002 n. 44, nella parte in cui
non prevede l’elezione da parte del Consiglio superiore della magistratura di ulteriori membri supplenti della sezione disciplinare. Premesso che
sussiste un interesse costituzionalmente protetto a che il procedimento
disciplinare nei confronti dei magistrati, il cui svolgimento in forme giurisdizionali è affidato alla sezione disciplinare del Consiglio superiore
della magistratura, che costituisce emanazione del medesimo Consiglio,
si svolga in modo tale da non ostacolare l’indefettibilità e la continuità
della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al
Consiglio superiore e che detto interesse deve essere posto a raffronto con
il principio di imparzialità e terzietà della giurisdizione, espresso dagli
artt. 24 e 111 cost., le norme denunciate violano gli artt. 3, 24 e 111 cost.,
sotto il profilo dell’imparzialità della giurisdizione, poichè non prevedono una soluzione organizzativa che impedisca, nelle ipotesi di annullamento con rinvio di una decisione della sezione disciplinare da parte
delle sezioni unite della Cassazione, che lo stesso collegio giudicante si
pronunci due volte sulla medesima “res iudicanda”; soluzione che deve
essere individuata nella elezione, da parte del Consiglio superiore della
magistratura, in aggiunta ai membri supplenti della sezione disciplinare
già previsti, di ulteriori componenti, in modo da consentire la costituzione, per numero e categoria di appartenenza, di un collegio giudicante
diverso da quello che abbia pronunciato una decisione successivamente
annullata con rinvio dalle sezioni unite della Cassazione.” (Corte cost.,
22 luglio 2003, n. 262 cit.).
La Corte di Cassazione, qualche mese prima della citata sentenza
del giudice costituzionale, ebbe modo a sua volta di affermare:
“È manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
cost., sotto il profilo della necessaria terzietà ed imparzialità dell’organo
giudicante, la q.l.c. delle norme disciplinanti la sezione disciplinare del
Consiglio superiore della magistratura, nella parte in cui prevedono una
parziale coincidenza della sua composizione con quella del plenum del
Csm, competente a decidere sulla richiesta di trasferimento d’ufficio per
incompatibilità ambientale dello stesso magistrato incolpato, ai sensi
dell’art. 2 r.d.lg. 31 maggio 1946 n. 511; e ciò, stante la differente natura
dei due procedimenti (amministrativa quella del trasferimento per incompatibilità ambientale; giurisdizionale quella del procedimento disciplinare) e la diversità dell’oggetto e delle finalità di essi, anche quando i
113
fatti che li abbiano generati siano gli stessi. Essendo pertanto escluso in
radice il problema dell’incompatibilità, neppure v’è spazio per una interpretazione adeguatrice delle disposizioni di legge vigenti, il ricorso ad
essa essendo consentito solo quando la norma offra più possibilità interpretative, l’una conforme e l’altra difforme rispetto ai principi della
Costituzione.” (Cassazione civile, sez. un., 11 febbraio 2003, n. 1994).
Ebbene, nonostante la sopravvenuta (e già ricordata) sentenza
della Corte costituzionale, le SS. UU. della Cassazione hanno consolidato il suddetto orientamento (da ult. ad es. Cass. civ. sez. un., 20 dicembre 2006, n. 27172), senza in alcun modo farsi carico del rilievo
dei principi stabiliti dal nuovo art. 111 cost., per come anche esplicitati dalla Corte costituzionale.
Non può cosi non rilevarsi come il “diritto vivente” appaia decisamente in contrasto con il necessario bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
E difatti:
a) da un lato, non vi è dubbio che la sovrapposizione di ruoli in
capo ad un medesimo componente del C.S.M. tra funzione giurisdizionale della Sezione disciplinare e le altre funzioni amministrative
delle Commissioni e del Plenum costituisce un serio vulnus all’imparzialità del giudice disciplinare, poichè vengono in gioco, pur a fini diversi, l’accertamento e la valutazione di “medesimi” fatti;
b) d’altro lato, la eventuale (se non costituzionalmente doverosa)
configurazione legislativa di un regime di incompatibilità non sembra
in alcun modo pregiudicare quell’interesse costituzionalmente rilevante che la Corte costituzionale pone a fondamento degli aspetti di
specialità del procedimento disciplinare rispetto ai principi della comune funzione giurisdizionale, ed in particolare, ovviamente, ai principi dell’imparzialità del giudice e del giusto processo.
Il vero è che si manifesta del tutto “formalistico”, il distinguo che
le SS. UU. prospettano tra la natura “giurisdizionale” della funzione
disciplinare e la natura “amministrativa” delle altre funzioni, dato che
ciò che assume rilievo è piuttosto il contenuto “sostanziale” delle rispettive attività e del loro effettivo sovrapporsi rispetto alla garanzia
dell’imparzialità del giudice disciplinare. Tanto più se si considera che
la disciplina della ricusazione nel vigente ordinamento processuale si
riferisce proprio ai casi in cui un magistrato abbia espresso propri
convincimenti al di fuori dell’esercizio della funzione giudiziaria (art.
36 n. 1 lett. c) c.p.p.).
114
L’azione disciplinare del Ministro della giustizia: una misura di
salvaguardia del sistema e non una sconveniente ingerenza
Sergio DI AMATO
Direttore Generale Magistrati del Ministero della Giustizia
Nel mio intervento, che è a titolo personale, vorrei accennare ad
alcune questioni interpretative che, a mio avviso, incidono sulla tenuta del sistema esistente.
I relatori hanno evidenziato con chiarezza gli aspetti critici dell’attuale assetto della Sezione disciplinare; io vorrei fermare l’attenzione sul principale correttivo messo in campo dal Costituente e cioè
l’attribuzione al Ministro della giustizia della facoltà di promuovere
l’azione disciplinare. Il senso di questa attribuzione sta proprio nell’intento di evitare separatezza ed autoreferenzialità della magistratura nella materia disciplinare. L’azione del Ministro rappresenta, quindi, una misura di salvaguardia del sistema. Se si accetta questa idea,
si deve accettare anche che il sistema viene compromesso da interpretazioni della legge che in qualche modo tendono a limitare l’iniziativa
disciplinare del Ministro. Se si accetta questa idea si deve ritenere che
i poteri del Ministro nella materia disciplinare, lungi dal porsi in conflitto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura,
sono, al contrario, funzionali a bilanciare e, quindi, a rendere possibile l’attuazione di tali principi anche nel giudizio disciplinare, prevenendo il rischio di una deriva corporativa e domestica. Nella stessa
prospettiva va vista la possibilità che il Ministro impugni con ricorso
in cassazione le decisioni della Sezione disciplinare.
Al riguardo mi sembra emblematica l’esperienza di quest’ultimo
anno: le Sezioni unite sono finora intervenute complessivamente 47
volte nella materia disciplinare e solo in 11 casi hanno accolto il ricorso. Ebbene, 10 di questi 11 ricorsi accolti erano del Ministro della
giustizia1. In particolare, tra l’altro, grazie ai ricorsi del Ministro, le Sezioni unite hanno potuto colmare quel solco che, in materia di ritardi
Il dato finale del 2011, sulla base di quanto risulta da Italgiureweb.it, è il seguente: le Sezioni unite hanno esaminato 55 ricorsi, dei quali 13 proposti dal Ministro
della Giustizia e 42 dai magistrati incolpati; sono stati accolti 16 ricorsi, dei quali 12
proposti dal Ministro.
1
115
nel deposito dei provvedimenti, esisteva tra le pronunce disciplinari e
la sensibilità sociale.
In questa prospettiva le soluzioni interpretative che limitano il
ruolo del Ministro nella materia disciplinare corrono il rischio di dare
fiato alle tesi di coloro che, a mio avviso ingiustamente, lamentano la
separatezza e l’autoreferenzialità dell’attuale giudice disciplinare.
In particolare, sono tre le questioni che voglio sottoporre alla vostra attenzione. La prima concerne l’archiviazione diretta del Procuratore generale non seguita da richiesta degli atti e formulazione dell’incolpazione da parte del Ministro. Secondo una recente decisione
delle Sezioni unite (n. 14664/2011) – per intenderci quell’unica sentenza che, finora, nel 2011 ha accolto il ricorso di un incolpato – ciò
determinerebbe una preclusione per l’autonomo promovimento dell’azione da parte del Ministro in assenza di un quid novi. La previsione
della possibilità che il Ministro formuli l’incolpazione e richieda la fissazione dell’udienza rappresenta, tuttavia, un’anomalia del sistema
poichè comporta un passaggio diretto dalla fase predisciplinare alla
fase dibattimentale, senza tenere conto dell’interesse dello stesso incolpato ad esercitare le proprie difese già nella fase delle indagini ed
evitare il dibattimento, possibilità che gli è garantita nel caso di autonoma azione del Ministro. Già questa sola considerazione dovrebbe
far riflettere sulla necessità di considerare come assolutamente eccezionale una richiesta di fissazione d’udienza.
Nei fatti, poi, il P.G. archivia annualmente innumerevoli esposti
(quest’anno 1500-1600) e la brevità del termine (10 giorni) per l’eventuale richiesta degli atti difficilmente consente agli uffici del Ministero, a loro volta impegnati ogni anno nell’esame di 2.000-3.000 esposti,
una verifica anche solo sommaria della congruità interna della motivazione delle archiviazioni. Né si può pensare, per ampliare il termine, ad una generalizzata e strumentale richiesta degli atti, che, invece,
è giustificata solo quando il provvedimento di archiviazione manca di
congruenza interna. Quindi, tranne rare eccezioni, il Ministro si trova
nell’impossibilità pratica di valutare tempestivamente l’opportunità di
richiedere gli atti.
Ma, al di là di questa impossibilità pratica, i termini in questione
disciplinano soltanto le modalità con cui il Ministro può inserirsi nell’alveo degli accertamenti predisciplinari promossi dal P.G., ma nulla
dicono sulla pretesa preclusione di autonomi accertamenti predisciplinari. Il solo effetto riconducibile alla mancata richiesta degli atti e
di fissazione di udienza da parte del Ministro è l’acquisto di efficacia
dell’archiviazione del P.G., che resta comunque un provvedimento di
116
natura amministrativa e revocabile ad opera dello stesso P.G. Proprio
per questo, in passato, la Sezione disciplinare non aveva escluso che il
Ministro potesse iniziare l’azione entro l’anno dalla conoscenza circostanziata del fatto, prescindendo dall’esercizio dei poteri previsti in
caso di archiviazione del P.G.
Il secondo possibile vulnus della funzione di bilanciamento attribuibile all’azione disciplinare del Ministro si può individuare nella tesi
(per ora priva di riscontri giurisprudenziali) secondo cui il Ministro
potrebbe impugnare le decisioni della Sezione disciplinare soltanto se
ha promosso l’azione disciplinare. La tesi si fonda principalmente
sulla disposizione (art. 19, 3° comma, del d. lg. n. 109/2006) secondo
cui «i provvedimenti adottati dalla sezione disciplinare sono comunicati al Ministro della giustizia nell’ipotesi in cui egli abbia promosso
l’azione disciplinare, ovvero richiesto l’integrazione o la modificazione della contestazione, con invio di copia integrale, anche ai fini della
decorrenza dei termini per la proposizione del ricorso alle sezioni
unite della Corte di cassazione».
La tesi, molto diffusa in dottrina, non sembra tuttavia, condivisibile. Prima della riforma, la giurisprudenza di legittimità non solo
aveva affermato più volte che il Ministro è parte necessaria del giudizio di cassazione, ma aveva anche specificamente stabilito che il disposto dell’art. 60 del d.p.r. n. 916/1958 doveva essere interpretato,
sulla base del chiaro tenore testuale, nel senso che il Ministro era direttamente legittimato a proporre ricorso, anche quando l’azione disciplinare era stata esercitata unicamente dal P.G. Analogamente chiaro è il tenore dell’art. 24 del d. lg. n. 109/2006, che prevede una generale legittimazione ad impugnare del Ministro. Neppure si può ipotizzare una carenza di interesse collegabile all’inerzia del Ministro davanti all’azione promossa dal P.G. Tale comportamento, infatti, può
trovare giustificazione semplicemente nel già avvenuto corretto ed
esaustivo promovimento dell’azione.
Tanto meno si può ipotizzare una estraneità del Ministro rispetto
all’azione disciplinare promossa dal P.G. L’azione disciplinare, infatti,
indipendentemente da chi la promuova, mantiene una doppia titolarità, autonoma e disgiunta.
Il Ministro, quindi, resta contitolare dell’azione anche quando la
stessa è promossa dal P.G. Una diversa opinione porterebbe a ritenere
che l’esaustivo esercizio dell’azione disciplinare da parte del P.G. “brucerebbe” l’azione del Ministro, che, per evitare tale conseguenza, sarebbe costretto a replicare l’azione disciplinare, con l’incongruo risultato di una duplicazione dell’unica azione e di una richiesta di indagi-
117
ni che in realtà sono già in corso. D’altro canto il senso della disposizione che prevede la comunicazione della sentenza al Ministro va ricavato dalla considerazione che la disciplina dei termini e della loro
decorrenza, dettata dall’art. 585 c.p.p., in caso di deposito della decisione nei termini di legge (nella specie di trenta giorni, ai sensi dell’art.
19, 2° comma, del d. lg. n. 109/2006), non prevede alcun obbligo di comunicazione della sentenza, con la conseguenza che il termine per impugnare decorre dalla scadenza del termine per il deposito. Orbene, in
tale contesto, la disposizione sembra avere la funzione di prevedere in
ogni caso, e perciò anche quando la decisione è depositata nei termini di legge, la comunicazione al Ministro, che non ha preso parte al
giudizio di merito, pur avendo promosso, integrato o modificato l’azione e che, pertanto, a differenza dell’incolpato e del P.G., non conosce il momento della pronunzia del dispositivo, dal quale inizia a decorrere il termine per il deposito della sentenza. In questo contesto si
può dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in
cui non prevede la comunicazione al Ministro dei provvedimenti resi
su iniziativa esclusiva del P.G. Nei fatti, il problema è in parte superato dalla prassi della Sezione disciplinare di comunicare al Ministro
tutte le proprie decisioni. Resta il problema, anche sotto il profilo della
legittimità costituzionale, di individuare il momento dal quale fare decorrere il termine per impugnare.
L’ultima questione, infine, si pone sempre nel caso di azione promossa dal P.G., quando questi all’esito delle indagini richiede la declaratoria di non luogo a procedere. In questo caso, non solo non è previsto che al Ministro vengano comunicate la richiesta del P.G. e l’eventuale conforme ordinanza di non luogo a procedere emessa dalla
Sezione (ancorché, si deve ribadire, la Sezione disciplinare ha adottato la prassi di comunicare al Ministro tutti i suoi provvedimenti), ma
neppure è previsto un regime di impugnazione. Ciò comporta il dubbio che il Ministro, in ipotesi rimasto inerte per avere ritenuto adeguata l’azione disciplinare promossa dal P.G., debba subire, senza possibilità di autonome iniziative, le conclusioni del P.G. che siano state
condivise dalla Sezione disciplinare. Poichè, tuttavia, il Ministro resta
contitolare dell’azione disciplinare anche quando questa è esercitata
dal P.G. e poiché l’ordinanza di non luogo a procedere ha contenuto
decisorio, forse non si può escludere che il Ministro abbia la possibilità di esperire il ricorso straordinario ex art. 111 Cost.
118
La rilevanza disciplinare dell’errore del giudice nella interpretazione ed applicazione della legge.
Mario FANTACCHIOTTI
Presidente a riposo di sezione della Corte di Cassazione
La giurisprudenza formatasi sotto il vigore dell’art. 18 del r.d.l. 31
maggio 1946 n. 511 non ha mai dubitato della illiceità disciplinare
delle violazioni di legge intenzionale da parte del giudice.
I dubbi erano sorti nei casi in cui l’errore si qualificava in relazione ad una diversa, più o meno consolidata, lettura della norma perché
dovuto ad una più o meno plausibile interpretazione della stessa che,
inconsapevolmente o meno, si discosti dalla sua tradizionale lettura o
dalla sua lettera.
Il principio di indipendenza del giudice nella attività di interpretazione della legge e di valutazione delle prove si era opposto per
molti anni alla possibilità di una iniziativa disciplinare nei confronti
del magistrato autore di una decisione considerata errata o manifestamente errata ed i dubbi nascevano dall’idea che questa possibilità
di censura fosse incompatibile con il principio dell’art. 101 comma
secondo della Costituzione per il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Tale originario, ormai remotissimo, orientamento era stato, però,
superato negli ultimi decenni da una nuovo indirizzo giurisprudenziale che, senza negare il principio di incensurabilità delle decisioni
(e delle attività giurisdizionali) del giudice, aveva affermato come
tale principio, direttamente connesso a quello della indipendenza del
giudice, non potesse essere assoluto dovendo essere coordinato con
il principio costituzionale di responsabilità dei publici funzionari e
dei dipendenti (art. 28 della Costituzione) e, perciò, cedere di fronte
ai casi estremi di decisioni palesemente ed incontestabilmente abnormi o arbitrarie perché frutto di macroscopico errore di diritto o
di fatto.
Superato, soprattutto, dopo, e per effetto, della legge 13 aprile
1988 n. 117, il dibattito sulla compatibilità, in linea di principio delle
varie forme di responsabilità del magistrato nell’esercizio delle sue
funzioni con il principio di indipendenza, il problema si era incentrato non più sulla astratta compatibilità dei principi di indipendenza ed
imparzialità con la possibilità di responsabilità disciplinare e civile del
119
giudice, ma sulla esigenza che l’una (la responsabilità disciplinare)
fosse contenuta nei limiti della attività di controllo della diligenza e
professionalità del giudice, e l’altra (la responsabilità civile) fosse caratterizzata da una serie di misure e cautele dirette a salvaguardare
l’indipendenza del magistrato nonché l’autonomia e la pienezza della
funzione giudiziaria.
La giurisprudenza più recente si era, così, in molti casi rifugiata,
per quanto attiene alla responsabilità disciplinare, nell’apprezzamento della condotta del giudice considerando decisivo non tanto il giudizio sulla scelta interpretativa del magistrato ma quello sull’impegno
speso dal magistrato nella verifica di quella scelta e, così, considerando suscettibili di rilievo disciplinare atti e provvedimenti resi nell’esercizio della funzione giurisdizionale solo quando, violando i doveri
fondamentali di autonomia, terzietà, correttezza ed equilibrio ai quali,
in ogni momento, la condotta del magistrato deve uniformarsi, tali atti
o provvedimenti fossero rivelatori di scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza.
La censura disciplinare, in tal modo, investiva non il provvedimento quale risultato dell’attività interpretativa ed intellettiva, ma il
comportamento del giudice la cui inescusabile trascuratezza e superficialità espande il rischio dell’errore giudiziario oltre i limiti del tollerabile1.
Con l’entrata in vigore del DLT 23 febbraio 2006 la grave violazione di legge è specifico illecito disciplinare (previsto dall’art. 2, comma
primo, lett. g) della legge di riforma) altri illeciti per violazione delle
1
Sez. U, Sentenza n. 11276 del 10/11/1998 “In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, per il principio di indipendenza della magistratura non sono sindacabili gli atti posti in essere dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, non potendosi ravvisare alcun illecito nella violazione di legge inerente alla inesattezza tecnico-giuridica dei provvedimenti emessi. Tuttavia sussiste la responsabilità disciplinare del magistrato, in relazione al provvedimento reso, quando la violazione di legge
è idonea ad evidenziare un comportamento connotato da scarso impegno e insufficiente ponderazione o da approssimazione e limitata diligenza, ovvero quando il suddetto provvedimento sia il risultato di un comportamento del tutto arbitrario, in
quanto determinato da dolo o colpa grave, giacché in tali ipotesi, il comportamento
stesso è suscettibile di incidere negativamente sul prestigio dell’ordine giudiziario
(nel caso di specie la S.C. ha confermato la pronunzia della sezione disciplinare del
C.S.M. che aveva accertato la sussistenza dell’illecito disciplinare di un giudice delle
indagini preliminari che aveva adottato il rito abbreviato in materia non consentita
dalla legge, in aperta e cosciente violazione di una pronunzia di illegittimità costituzionale)”.
120
norme processuali e di diritto sostanziale sono previsti, dalle lettere h,
l, m) ff) gg)2.
Tutti possono essere ricondotti alla violazione dello specifico dovere di diligenza del magistrato.
Mi occuperò, qui, solo di due figure di illecito, quelle degli a) Art.
2 comma 1 lett. g) la grave violazione di legge determinata da ignoranza
o negligenza inescusabile; b) Art. 2 comma 1 lett. h) il travisamento dei
fatti determinato da negligenza inescusabile.
Consideriamo dunque le disposizioni dell’Art. 2 comma 1 lett. g
(cioè, la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile) e lettera h (cioè il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile.)
L’elemento materiale dei due illeciti è costituito da un atto o condotta giurisdizionale commesso con grave violazione di legge prodotta da negligenza o ignoranza inescusabile ovvero con “travisamento”
del fatto.
Nelle due norme, dunque, è chiarito espressamente come non
basti la violazione di legge o il travisamento del fatto, occorre che l’una
e l’altro siano inescusabili.
I paletti in tal modo segnati riproducono i criteri già affermati
dalla giurisprudenza anteriore alla riforma e spiegano la ragione per
la quale alle due norme non si applichi la disposizione generale del secondo comma dell’art. 2 (l’attività di interpretazione di norme di diritto e quelle di valutazione del fatto e della prova non danno luogo a
responsabilità disciplinare).
Si è voluto, infatti, riaffermare che l’immunità prevista dalla disposizione del secondo comma dell’art. 2 non si estende agli atti o
comportamenti commessi con grave ed inescusabile violazione di
legge o travisamento del fatto solo perché il presupposto delle due fat-
2
- art. 2 comma 1 lett. l) l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti,
quando la motivazione è richiesta dalla legge.
- art. 2 comma 1 lett. m) l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali.
- art. 2 comma 1 lett. ff) l’adozione di provvedimenti non previsti dalle norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza;
- art. 2 comma 1 lett. gg) l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà
personale fuori dei casi consentiti dalla legge, determinata da negligenza grave ed inescusabile.
121
tispecie (gravità ed inescusabilità) sta a monte della questione attinente alla censurabilità della interpretazione della legge.
In altri termini il principio di non censurabilità della attività del
giudice, ove si sia in presenza di grave violazione di legge, non può valere ove l’errore sia inescusabile così come, ed analogamente, anche il
travisamento del fatto, che dipende da errato o omesso apprezzamento della prova non può essere giustificato dal principio di incensurabilità della attività del giudice di valutazione delle prove se inescusabile.
Modificando la prospettiva sembra, dunque, possibile dire che il
principio generale recepito dalla legge di riforma è questo: l’errore
del giudice nella interpretazione ed applicazione della legge non
è censurabile salvo che non sia grave e dovuto a negligenza o
ignoranza inescusabile ed analogamente il travisamento del fatto
assume rilievo disciplinare solo se dovuto a negligenza inescusabile.
Ma proprio i requisiti (o, più propriamente, gli elementi) della gravità della violazione e della inescusabilità della colpa consentono al giudice della deontologia quei sufficienti spazi di discrezionalità che evitano una rigida applicazione della sanzione in ogni caso di violazione di
legge recuperando il delicato confine con il principio di incensurabilità
della attività di interpretazione della norma (e di ricostruzione del fatto)3.
La prima giurisprudenza della Sezione disciplinare del Consiglio
Superiore della Magistratura ha continuato, conseguentemente, a ser3
Nella sentenza del 18 gennaio 2008 n. 3 (procedimenti riuniti n. 94/2007 R.G. e
n. 10/97 R.O.) la sezione disciplinare del C.S.M. ha ritenuto lesiva della disposizione
dell’art. 2 lett. g) la condotta del p.m. che, in un caso ritenuto particolarmente grave
per la pericolosità degli indagati, ha omesso di richiedere tempestivamente al g.i.p. la
convalida del provvedimento di fermo emesso nei loro confronti.
In altri termini si è ritenuto non scusabile la violazione della norma del codice di
procedura penale che gli imponeva di valutare tempestivamente la opportunità, se non
la necessità, della convalida e delle conseguenti iniziative (richiesta di convalida al gip)
Da segnalare, per un caso di asserita scusabilità dell’errore, la sentenza della sezione disciplinare n 71/2009 (RG n. 131 del 2009); in questa sentenza l’assoluzione dei
magistrati (p.m. e g.i.p.), incolpati di avere rispettivamente richiesto e emesso provvedimento di custodia in carcere sulla base di una disposizione di legge dichiarata costituzionalmente illegittima, è fatta dipendere dalla considerazione che vi erano comunque i presupposti della misura se solo il gip si fosse avvalso del potere di convalida sulla
base di diversa qualificazione del fatto e che l’errore doveva presumersi dovuto alla difficile situazione di lavoro indotta, per il pm dal carico di lavoro di quel giorno e, per il
gip, dal numero dei procedimenti urgentissimi che, nello stesso arco di tempo, erano
stati richiesti al giudice.
122
virsi, talvolta semplificandoli, dei percorsi motivazionali utilizzati nel
passato per la pronuncia sulle imputazioni legate alle macroscopiche
violazioni di legge o alla abnormità dei provvedimenti commessi dal
magistrato con i propri atti o le proprie attività giurisdizionali; tenendo ben presente solo che il nuovo codice disciplinare non richiede più,
per la rilevanza disciplinare del fatto, la lesione del prestigio dell’ordine giudiziario ma con la tendenza ad ampliare le ipotesi di errore disciplinarmente censurabili.
Si è, così, ravvisata, per esempio, la violazione di legge disciplinarmente rilevante sotto il profilo degli illeciti previsti dalle lettere g)
Il ricorso del Ministro avverso questa sentenza è stato respinto dalle Sezioni Unite
della Corte di cassazione
Si trascrivono di seguito le massime estratte dalla predetta sentenza:
a) Non configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, per aver adottato un provvedimento in casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbia leso diritti personali, o, in modo rilevante, diritti patrimoniali, la
condotta del giudice per le indagini preliminari che consista nell’emissione di un provvedimento impositivo di una misura cautelare custodiale sulla base di una disposizione di legge dichiarata costituzionalmente illegittima, quando comunque sussistano elementi idonei a determinare la custodia cautelare attraverso il richiamo ad una norma
penale diversa da quella applicata, e l’imputato sia poi condannato sulla base dei medesimi elementi ad una pena non suscettibile di sospensione condizionale, poiché l’errore di qualificazione giuridica della fattispecie penalmente rilevante non lede in concreto alcun diritto alla libertà personale.
b) Non configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, la condotta del sostituto procuratore della Repubblica che consista nel richiedere l’emissione di un provvedimento impositivo di una misura cautelare custodiale sulla base di una disposizione di legge dichiarata costituzionalmente illegittima, quando sussistano elementi idonei a determinare la custodia cautelare attraverso il richiamo ad una norma penale diversa da quella applicata, l’imputato sia poi condannato sulla base dei medesimi elementi ad una pena non suscettibile di sospensione condizionale, e risulti inoltre una situazione lavorativa caratterizzata dalla concomitanza di impegni particolarmente gravosi e dalla necessità di provvedere in termini molto ristretti, poiché le indicate circostanze rendono l’errore di diritto non inescusabile.
c) Non configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, la condotta del giudice per le indagini preliminari che consista nell’emettere un provvedimento impositivo di una misura cautelare custodiale sulla base di una disposizione di legge dichiarata costituzionalmente illegittima, quando sussistano elementi idonei a determinare la
custodia cautelare attraverso il richiamo ad una norma penale diversa da quella applicata, l’imputato sia poi condannato sulla base dei medesimi elementi ad una pena non
suscettibile di sospensione condizionale, e risulti inoltre una situazione lavorativa caratterizzata dalla concomitanza di impegni particolarmente gravosi e dalla necessità di
provvedere in termini molto ristretti, poiché le indicate circostanze rendono l’errore di
diritto non inescusabile.
123
ed h) anche in ipotesi di provvedimenti con motivazione che, ancorché sovrabbondante, perché formata con la integrale riproduzione di
relazioni, verbali di interrogatorio, articoli di stampa etc, si riveli sostanzialmente incomprensibile a causa della totale assenza di analisi
critica delle fonti di prova riprodotte4, di provvedimenti “eccedenti i limiti della proporzionalità rispetto al fine” perché produttivi di effetti
giuridici eccessivamente lesivi degli altrui diritti o addirittura vietati
(nella specie, sequestro di atti di un procedimento pendente presso
altro ufficio giudiziario con conseguente stasi di questo procedimento)5 o contenente inutili riferimenti a soggetti estranei al procedimento e perciò lesiva del loro diritto alla privaci (nella precedente giurisprudenza considerati lesivi del dovere di riserbo).
La più recente giurisprudenza della sezione disciplinare (ci si riferisce alle decisioni degli ultimi due anni) allarga, però, in qualche
sentenza, il criterio di valutazione della scusabilità dell’errore, negando la possibilità di ricondurre nell’ambito della scusabilità ipotesi di
errore che nel passato sono state confinate nel campo della incensurabilità.
Sez disc., Ord., 4 febbraio 2009 n. 11, procedimenti riuniti RGN 15/2008 –
154/2009 – 155/2009.
5
Sez. disc., Ord., 4 febbraio 2009 n. 11 citata, in cui si è ritenuto che il sequestro
giudiziario degli atti di un procedimento pendente presso altro ufficio giudiziario avesse superato i limiti della necessità e della proporzionalità del mezzo rispetto al fine a
causa della stasi delle attività processuale che quel sequestro ha provocato per il procedimento sequestrato per un fine che si sarebbe potuto conseguire semplicemente acquisendo le fotocopie degli atti necessari alla Autorità giudiziaria che ha proceduto al
sequestro.
Per la verità, non è chiara la qualificazione giuridica di quest’ultimo fatto; nella
ordinanza citata sembra che si sia ritenuto possibile ricondurre il fatto alla fattispecie
della lett. d).
Nella motivazione della predetta ordinanza si afferma “ la grave negligenza non
appare allo stato degli atti scusabile. Certo, è del tutto pacifico che il giudizio disciplinare non è la sede della disamina processuale di un provvedimento giudiziario, ma la
garanzia dell’art. 101 Cost. non significa che il magistrato non può essere giudicato per
violazioni deontologiche connesse all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Omissis
Del resto – contrariamente alla tesi difensiva, secondo la quale l’unica ipotesi che
legittimerebbe il sindacato giurisdizionale sarebbe quella del provvedimento abnorme,
inteso come atto che sotto nessun profilo può essere considerato espressivo del potere
giurisdizionale del quale il magistrato è investito – ai fini della sussistenza della responsabilità disciplinare a carico di magistrati che sia riferibile ad addebiti riconducibili alla loro attività giurisdizionale non si valuta la correttezza in sé dell’adozione di
determinati provvedimenti redatti dagli incolpati (perquisizioni e sequestri contem4
124
Ci si riferisce, in particolare, ai criteri di valutazione della rilevanza disciplinare della interpretazione di legge in contrasto con orientamenti giurisprudenziali consolidati della Corte di Cassazione che, nel
passato sono stati ritenuti del tutto legittimi e che, in qualche sentenza, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura,
tanto nelle ultime sentenze disciplinari in relazione ad episodi governati dall’art. 18 del RDL n. 551 vigente il nuovo codice disciplinare
quanto in quelle successive alla riforma, tende a “criminalizzare” se
non risulti che il dissenso è frutto di motivato apprezzamento del giudice.
In tal senso è particolarmente indicativa la sentenza della sezione
disciplinare n. 122 del 2009 se, prescindendosi dalla massima (che non
riesce a rendere il vero significato della pronuncia), si considera che in
essa il giudice della deontologia ha affermato come l’attività incensurabile di interpretazione della norma “non si possa identificare in ogni
possibile percorso mentale del giudice” dovendosi invece intendere, per
risultare tale da dare vita al legittimo esercizio di una interpretazione
“conforme ai protocolli della professione magistratuale”, con una attività
“leggibile, dentro il singolo processo, come frutto di una scelta interpretativa autentica, opinabile in quanto tale, ma attendibile anche in quanto vada oltre la mera ripetitività assertiva di una opzione già non condi-
plati dal codice di rito), bensì la condotta complessiva dei magistrati medesimi, cioè il
loro impegno intellettuale e morale congiuntamente alla loro dedizione alla funzione
requirente svolta, che deve essere sempre esercitata rispettando i doveri d’ufficio e,
quindi, nel rispetto dei diritti degli indagati ed anche dei terzi estranei alle indagini.
L’insindacabilità in ambito disciplinare dei provvedimenti giurisdizionali e delle interpretazioni adottate esclude, infatti, che la loro inesattezza tecnico-giuridica possa di
per sé sola configurare l’illecito disciplinare del magistrato, ma non quando essa –
come nel caso di specie – sia la conseguenza di grave negligenza e di mancanza di ponderazione degli effetti del provvedimento, estranei alle logiche ed alle finalità della giurisdizione (e cioè il blocco della giurisdizione stessa) e sia viceversa indice di un comportamento del tutto arbitrario nella tecnica redazionale del provvedimento, con grave
rischio di compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario”.
“In altri termini, il concetto di provvedimento abnorme, sotto il profilo non processuale ma deontologico e disciplinare, viene in rilievo, non solo quando esso si pone
del tutto al di fuori di ogni schema giuridico e processuale (da ultimo, Sez. disc. 19 dicembre 2008 n. 139), ma anche quando sia stato emesso sulla base di un errore macroscopico o – come appare nel caso di specie – di gravissima ed inescusabile negligenza, ipotesi in cui viene ad assumere rilevanza disciplinare, appunto, non già il risultato dell’attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante
posto in essere dal magistrato nella sua funzione istituzionale (da ultimo, Cass., sez.
un., del 26 settembre 2008, n. 24220, in motivazione, www.plurisonline.it).
125
visa”6; ciò in quanto “qualunque interpretazione da chiunque provenga
può essere disattesa, purché, soprattutto quando si tratta della interpretazione della Corte Suprema, o del giudice delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della funzione nomofilattica o di quella di sistemazione costituzionale. Il magistrato che dissente, pertanto, ha
l’obbligo, anzitutto deontologico, di esprimere consapevolezza della opinione che non condivide e dunque delle ragioni per le quali ritiene comunque di andare in avviso contrario.
Questo percorso evolutivo (o involutivo, a seconda del punto
di vista) della sezione disciplinare adesso evidenziato è, a mio avviso da porre in relazione ad una più rigida istanza sociale del livello di qualità del servizio richiesto al giudice in parte indotta
anche dagli orientamenti della giurisprudenza della CEDU e Comunitaria sulla responsabilità dello Stato per gli errori del giudice.
Le sentenze che soprattutto rivelano questo processo evolutivo
sono quelle n. 21 del 2008 e n. 122 del 2009.
Nella prima, che, appunto, attiene ad un fatto verificatosi prima
ella entrata in vigore della legge di riforma (si tratta del noto caso
Izzo), la sanzione disciplinare è stata giustificata ponendo una più rigorosa esigenza del dovere di attenzione del giudice nella valutazione
6
Si tratta di sentenza emessa nei confronti di un PM cui era stato addebitato l’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lett. g) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 per avere iniziato, dopo il rigetto dell’istanza di proroga delle indagini preliminari a carico di magistrati di ufficio di procura in distretto vicino, e la conseguente archiviazione, iniziato, per i medesimi fatti, procedimento penale a carico di
ignoti per la medesima vicenda in tal modo eludendo, per un verso, il provvedimento
del gip che aveva negato la proroga delle indagini preliminari (e, conseguentemente, le
disposizioni sulla loro durata) e, per altro verso, utilizzando la disposizione dell’art. 11
c.p.p. per indagare su fatti che le normali regole sulla competenza avrebbero assegnato ad altro ufficio senza la formale assunzione da parte di un magistrato della qualità
di persona indagata.
L’incolpato si era giustificato sostenendo che la deroga della competenza imposta
dall’art. 11 c.p.p. si estende ai procedimenti connessi e si conserva anche dopo l’archiviazione del procedimento a carico del magistrato che ha determinato lo spostamento
di competenza e allegando che tale interpretazione della norma, ancorché non condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, non poteva essere censurata in
sede disciplinare.
La sentenza disciplinare è stata cassata avendo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ritenuto che si trattava di interpretazione plausibile.
126
degli elementi di fatto, in altri termini, delle prove dei presupposti del
provvedimento di concessione della semilibertà ad un detenuto (appunto Izzo) che, nel regime di semilibertà, ha poi commesso degli
omicidi. L’illecito disciplinare si è fatto, così, dipendere dall’errore di
avere valorizzato, nella sentenza, solo gli elementi che sostenevano il
provvedimento di concessione della semilibertà senza verificare questi elementi alla stregua degli altri, quali l’efferatezza dei reati per i
quali il detenuto era stato in precedenza condannato ed alcune indicazioni contrarie che, a parere del giudice disciplinare, avrebbero potuto e dovuto essere tratte da episodi verificatisi durante la detenzione e dalle valutazioni di questi episodi contenuti in relazioni e provvedimenti emessi durante la detenzione nell’istituto di reclusione di
provenienza.
Dopo avere dato atto del rischio che di per se comporta, per la collettività, la legislazione c.d. premiale, nella sentenza si evidenzia, in
particolare, che “se al legislatore è consentita nell’esercizio di una sovranità che trova il suo limite nella sola Costituzione, la cosiddetta
scommessa sul futuro del condannato, persona che deve scontare una
pena per la accertata pericolosità delittuosa, ad alcun giudice è, invece,
consentita analoga scommessa.
“La prognosi del giudice è tecnica, mai politica. Il suo scenario è professionale, cosicché non gli è permesso di fare a meno delle tecniche e
delle cautele che, nella gestione di un diritto delicato quale quello alla rieducazione, sovrintendono anche alla sicurezza sociale, in via di principio assicurata dalla durata della sofferenza inflitta con la detenzione.
Pena che, dunque, resta tale anche nel tempo in cui è attenuata in permesso o in semilibertà del condannato.
Al giudice è richiesta una valutazione ontologicamente a rischio, la
cui legittimità e correttezza, giuridica e deontologica, è affidata, anzitutto, al rispetto di tutti i protocolli del suo agire. Dunque, anche ed anzitutto all’esame compiuto di tutte le circostanze emergenti dagli atti, le
quali possono strutturare l’equilibrio tra i diritti che si è detto”.
In altri termini, in questa sentenza si esalta l’alta delicatezza
ed importanza della funzione del giudice per spiegare e giustificare, in sede disciplinare, il potere ed il dovere del giudice di
estendere la sua indagine sulla condotta del magistrato ad un approfondito controllo anche alla stregua delle peculiari ed eccezionali caratteristiche della funzione.
Non si esce, quindi, fuori dalla tradizionale prospettiva di valutazione della censurabilità delle attività di interpretazione/ applicazione
della legge e di lettura delle prove alla stregua del dovere di diligenza
127
e nell’ottica del controllo del comportamento speso dal magistrato
piuttosto che dei risultati della sua interpretazione, ma si spinge questo dovere oltre i limiti tradizionali della grave negligenza per ricondurre entro i predetti confini ogni forma di incuria o caduta di professionalità incompatibile con la importanza della funzione; in altri
termini, per abbassare il livello di tollerabilità dell’errore alzando quello della censurabilità.
Il punto che deve essere qui segnalato, e sul quale si suggerisce
una attenta riflessione, è che nella predetta sentenza del giudice disciplinare l’addebito si risolve in quello di omessa considerazione, nella
motivazione della sentenza pronunciata dagli incolpati, e, perciò, nell’iter logico della decisione che la motivazione rivela, di elementi di
fatto che avrebbero potuto assumere, secondo il giudice disciplinare,
un ruolo decisivo sulla decisione.
Il che sollecita una domanda: con una diversa motivazione rivelatrice della formale attenzione sugli elementi dimenticati, che espressamente dichiarasse la scarsa rilevanza dei predetti elementi, la censura disciplinare sarebbe stata possibile?
Quale sorte avrebbe avuto il giudizio disciplinare se gli incolpati si
fossero limitati a dedurre che gli elementi trascurati nella motivazione erano stati in realtà esaminati e considerati di scarso peso così riconoscendo solo di avere omesso di indicarli in motivazione per rispettare una esigenza di sintesi?
Deve essere segnalato, comunque, che il ricorso avverso la sentenza è stato respinto dalla Corte di Cassazione con una motivazione che
sostanzialmente ribadisce la censurabilità della negligenza che si rivela nella omessa considerazione di elementi decisivi7.
7
Si tratta della sentenza del 17 febbraio 2009 n. 3759 Nella predetta sentenza la
Corte di Cassazione, senza entrare nel merito degli apprezzamenti della sezione disciplinare, si è limitata a ribadire che l’indipendenza del giudice nella valutazione
delle prove, in funzione dell’accertamento del fatto, e nella interpretazione ed applicazione della norma giuridica non esclude la censurabilità della sua condotta in sede
disciplinare perché il principio di legalità, che dev’essere rigorosamente osservato nell’esercizio di ogni pubblica funzione e, in particolare, di quella giudiziaria, non può in
alcun caso tollerare deroghe, le quali gravemente comprometterebbero la credibilità
delle istituzioni al cospetto dei cittadini e irrimediabilmente pregiudicherebbero lo
stesso utile perseguimento dei suoi fini e perché quale che sia l’intento (anche il più
disinteressato) che, nel relativo esercizio, animi chi è preposto ad una pubblica funzione, le regole fissate nella Carta costituzionale e nelle altre leggi dello Stato a tute-
128
Nella stessa linea si colloca la sentenza n. 122 in cui non si nega al
giudice il potere di discostarsi, nella interpretazione della legge, dagli
orientamenti della giurisprudenza, anche di legittimità, ma si riafferma la necessità che la diversa interpretazione sia giustificata da una
motivazione non solo plausibile ma anche consapevole dei diversi
orientamenti e che di questi diversi orientamenti si dia carico specifico (“qualunque interpretazione da chiunque provenga può essere disattesa, purché, e soprattutto quando si tratta della interpretazione della
Corte Suprema, o del giudice delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della funzione nomofilattica o di quella di sistemazione costituzionale. Il magistrato che dissente pertanto ha l’obbligo, anzitutto deontologico, di esprimere consapevolezza della opinione che non
condivide e dunque delle ragioni per le quali ritiene comunque di andare in avviso contrario”).
L’annullamento nel successivo giudizio di legittimità di quest’ultima sentenza dimostra come la Corte di Cassazione stenti ad accettare
questa nuova prospettiva, ribadendo il principio che esclude la responsabilità disciplinare in tutti i casi di motivazione plausibile, ancorchè incurante del precedente contrario.
Questa nuova ed ancora incerta frontiera della responsabilità disciplinare per gli errori del giudice nella interpretazione ed applicazione della legge o anche per l’omessa o errata valutazione delle prove
sembra per un verso discostarsi dai più rigidi e garantisti criteri che la
giurisprudenza della Corte di Cassazione e di merito applicano in
tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice per i danni pro-
la dei cittadini e di interessi fondamentali non possono – per nessuna ragione – essere violate.
Ciò comporta, secondo la Corte di Cassazione, la necessità che, al di là della sfera
di operatività delle impugnazioni, vi sia uno spazio di controllo dell’operato del magistrato e tale controllo si estenda anche alla verifica della osservanza, da parte dello
stesso, dei fondamentali principi di correttezza, diligenza e equilibrio ai quali in ogni
momento egli deve ispirarsi e dell’obbligo di mantenere dignità e compostezza, cosi
come dell’obbligo della sollecitudine e dell’impegno professionale richiesto dall’affare
trattato.
Con l’ulteriore conseguenza che, se l’inesattezza tecnico-giuridica dei provvedimenti adottati dal giudice non può di per sé costituire illecito disciplinare, tuttavia –
nella valutazione, non dell’atto, bensì del comportamento del magistrato stesso – una
tale inesattezza può essere idonea a evidenziare scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, il che può essere sindacato nella sede disciplinare
in quanto suscettibile di negativo riflesso sul piano del prestigio.
129
dotti dall’errore del giudice e per altro verso avvicinarsi agli orientamenti della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) che, per i diritti garantiti dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma nel 1950 (in particolare per il diritto alla vita, ma il
principio potrà essere verosimilmente esteso anche ad altri diritti fondamentali), pone un generale dovere degli Stati di assicurarne con
tutti i mezzi, ed anche sul piano c.d. procedimentale, la tutela non solo
perseguendo penalmente l’autore della grave violazione ma anche,
“nei casi in cui sia messo in causa il comportamento di agenti o autorità dello Stato “ provvedendo a che questi “rispondano per le morti
sopravvenute per loro responsabilità” se non necessariamente in sede
penale, quando il fatto non è doloso, quanto meno in sede civile e/o disciplinare.
In questo senso si potrebbe citare, con riferimento ad un caso di
morte per malasanità, la sentenza Calvelli e Ciglio pronunciata dalla
Corte dei diritti umani il 17 gennaio 2002.
Ma nel medesimo senso particolare rilevanza assume proprio la
sentenza Maiorana (legata agli omicidi commessi da Izzo durante il
periodo di semilibertà) in cui la Corte dei diritti umani ha addebitato
allo Stato italiano di avere violato l’art. 2 della Convenzione, per i profili che attengono ad collaterale dovere di prevenzione e repressione
dei fatti lesivi o potenzialmente lesivi del diritto alla vita (c.d. aspetto
procedurale), a causa della manifesta insufficienza dell’azione disciplinare condotta contro i magistrati del tribunale di sorveglianza che
hanno concesso la semilibertà solo su alcuni profili della negligenza e
non su altri.
Conclusioni
Quanto fino ad ora esposto rivela come, per i profili inerenti al
controllo della professionalità, l’assetto normativo della responsabilità
disciplinare dei magistrati ordinari, possa oggi considerarsi compiuto
ed aderente allo spessore del rapporto del giudice con la società civile
richiesto dalle moderne istanze.
Certo sono ancora necessari degli aggiustamenti delle tipologie di
illecito ma il passo è compiuto e non credo davvero che si possa oggi
addebitare al legislatore quei vuoti normativi che sono invece rileva-
130
bili per i magistrati amministrativi e contabili8, ancora oggi privi di un
codice disciplinare esaustivo 9.
Rimane, pertanto, solo un punto che tormenta i sogni del mondo
politico: quello del carattere domestico del giudice deontologico.
Stranamente il problema non è avvertito per il giudice disciplinare dei magistrati amministrativi, per quello delle professioni, a cominciare dagli avvocati, per quello dei notai, per quello dei medici.
Ma è ormai chiaro che alle origini della sensibilità che negli ultimi anni ha alimentato le azioni del legislatore vi è la ricerca non di soluzioni migliori ed equilibrate ma quella del ridimensionamento dei
rapporti tra potere politico e quello della giustizia ordinaria.
Ad un esame oggettivo del problema può riconoscersi che il carattere relativamente “domestico” del giudice disciplinare potrebbe sembrare in contrasto con l’esigenza di garanzia della terzietà e di indipendenza dello stesso dai condizionamenti culturali e di “colleganza”.
Ma il problema dovrebbe essere allora comune in tutti i casi ed
anche, quindi, per le altre categorie10.
Senza dire che proprio per i magistrati ordinari la composizione
della sezione disciplinare non è affatto interamente domestica se è
8
Sulla responsabilità disciplinare dei magistrati amministrativi e contabili v. TENORE, Il procedimento disciplinare per i magistrati amministrativi, contabili, militari,
onorari e per gli avvocati dello Stato, p. 573 e ss., in FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010.
9
Il legislatore della riforma, escludendo l’applicazione delle nuove norme agli illeciti disciplinari delle magistrature amministrative e contabili ha creato una vera e
propria frattura perché mentre per un verso ha innescato, per la magistratura ordinaria, una evoluzione dell’assetto normativo che, sia pure con qualche riserva, può considerarsi positiva, ha, per altro verso, bloccato e reso addirittura problematica, se non
oscura, la disciplina del procedimento disciplinare per le magistrature amministrative
e contabili .
È legittimo il sospetto che questo sia in definitiva gradito agli interessati, di certo
è inopportuno e, temo, potrebbe rivelarsi dannoso proprio per le predette magistrature.
Forse una svolta potrà vedesi se dovesse affermarsi in campo politico la proposta
di un giudice deontologico comune a tutte le magistrature
Questa scelta comporterebbe, infatti, una unificazione normativa
Ma forse i tempi non sono maturi per l’attuazione di questa scelta.
Di certo l’assurdo sarebbe quello della creazione, solo per la magistratura ordinaria, di un giudice esterno al C.S.M. di nomina politica.
10
Sulla responsabilità disciplinare degli avvocati e di altri professionisti v. DANOVI, Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato, Milano, 2005; sulla responsabilità degli ingegneri v. MODONESI, Il procedimento disciplinare avanti ai consigli degli ordini degli ingegneri e degli architetti, in Rass.forense, 1998, 333 ed IBBA,
La categoria «professionale intellettuale», in IBBA LATELLA PIRAS DE ANGELIS
MACRÌ, Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 123 ss..
131
vero che la sezione disciplinare è presieduta dal Vice presidente del
Consiglio ed è anche composta dai cc.dd. laici, ossia componenti del
Consiglio di nomina politica.
È, poi, forse vero che nel passato ormai non più recente la sezione disciplinare del C.S.M. ha usato criteri lassisti che molto hanno
contribuito a diffondere tra i magistrati una errata visione dell’impegno da loro dovuto nell’esercizio della loro delicata funzione.
Ma da almeno venti anni la situazione si è radicalmente capovolta.
Le iniziative disciplinari si sono moltiplicate, il rigore della sezione disciplinare non è più seriamente discutibile, talvolta è anche eccessivo.
A meno che non si chieda la testa di ogni magistrato che sbaglia
in una prospettiva punitiva ed intimidatoria.
Con questo non si vuole dire che le sanzioni in concreto applicate
dalla sezione disciplinare sono state sempre adeguate alla gravità dei
fatti disciplinarmente illeciti; ancora si registrano sentenza che potrebbero apparire miti per la modesta entità delle sanzioni.
Ma qui il discorso si fa complesso.
La maggior parte dei procedimenti disciplinari è per il ritardo
nella adozione dei provvedimenti dovuti (normalmente il deposito
della motivazione delle sentenze, delle ordinanze o dei decreti) perché
in atto, proprio grazie al codice disciplinare del 2006, i ritardi nel deposito dei provvedimenti sono sistematicamente perseguiti; anche se
spesso sanzionati con la censura.
Spesso, ma non sempre, perché la sanzione è stata, in molti casi,
anche recentissimi, quella della perdita della anzianità o della rimozione.
Ma non sono mancati procedimenti per violazione di legge, travisamento del fatto, radicale assenza di motivazione (alla quale viene
equiparata la motivazione apparente).
Procedimenti disciplinari, dunque, che impegnano il giudice disciplinare nella verifica della professionalità in senso ampio (perché
estesa anche al controllo della diligenza) del magistrato.
In questi procedimenti, come in quelli per il ritardo nel compimento delle attività dovute, vi è la necessità di un giudice dotato di una
sufficiente conoscenza dei meccanismi di funzionamento interno
degli uffici giudiziari.
Il rischio è, altrimenti, quello di addossare sul magistrato la responsabilità di errori, ritardi, disguidi che sono, soprattutto, se non
esclusivamente, imputabili alle carenze strutturali ed organizzative
degli uffici.
132
Responsabilità disciplinare del magistrato ordinario: fondamento ed esercizio del potere disciplinare
Riccardo FUZIO
Componente del Consiglio superiore della magistratura
1. Premessa
La condizione di soggezione che normalmente caratterizza il rapporto giuridico del singolo con la istituzione, dalla quale dipende o
alla quale appartiene, comporta ed implica un potere disciplinare attribuito alla istituzione (dalla legge o dal regolamento negoziale, in
caso di soggetto privato) quale strumento per il mantenimento dell’ordine al suo interno e, soprattutto, per garantire il perseguimento degli
scopi istituzionali. Un potere, quindi, di supremazia che autorizza ad
imporre regole di comportamento finalizzate alla attuazione del fine
dell’istituzione cui quel potere inerisce; ciò spiega perché l’esercizio
dell’iniziativa disciplinare per le condotte rilevanti sia configurata,
normalmente, come discrezionale e l’attività disciplinare punitiva sia
affidata agli stessi organi della istituzione piuttosto che ad organi ad
essa estranei (cd. giustizia domestica o giustizia dei propri pari).
Una riflessione sul sistema disciplinare della magistratura deve
tener conto che, secondo la nostra Costituzione, a livello costituzionale sussiste solo la previsione della titolarità in capo al “Ministro della
Giustizia della facoltà di promuovere l’azione disciplinare” (art. 107)
nei confronti dei magistrati ordinari1, mentre per le altre magistrature
sono stabilite con legge ordinaria le disposizioni che assicurano la loro
indipendenza.
Nel contempo, la Costituzione – a tutela dell’indipendenza della
magistratura ordinaria – istituisce il Consiglio superiore della magistratura cui è affidata l’amministrazione della giurisdizione ordinaria;
al Consiglio assegna anche il compito di emettere provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati ordinari. La legge istitutiva del
C.S.M. prevede una apposita sezione disciplinare, quale organo giuriParte della dottrina aveva affermato che la previsione dell’art. 107 cost. non può
far “ dedurre dal precetto costituzionale un monopolio dell’impulso all’azione disciplinare a favore del ministro” ZANON, (in BIAVATI – GUARNERI – ORLANDO), La giustizia civile e penale in Italia, Bologna, 2008, 91.
1
133
sdizionale, ed introduce nell’ordinamento giudiziario una doppia titolarità della azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari individuando nel Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte
di Cassazione il co-titolare della iniziativa disciplinare.
Alla stessa Procura Generale della Corte di Cassazione è attribuita l’istruttoria disciplinare sia nella fase delle indagini sia nella fase dibattimentale.
La differenza ordinamentale, tra la magistratura ordinaria e le
altre magistrature, è espressamente sancita, in tema di responsabilità
disciplinare, nell’art. 30 del d.lgs n. 109 del 2006 (recante la nuova disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
e della procedura) che testualmente afferma che il presente decreto –
così come tutto il nuovo ordinamento giudiziario – non si applica ai
magistrati amministrativi e contabili2.
La fondamentale e peculiare posizione della magistratura nel nostro sistema costituzionale impone – come ripetutamente sottolineato
dalla giurisprudenza della corte costituzionale – un obbligo di responsabilità da parte di chi esercita la funzione giurisdizionale.
Le prerogative e le garanzie, assicurate dalla Costituzione all’esercizio della giurisdizione, rendono insita e necessaria la responsabilità
degli appartenenti all’ordine giudiziario per le condotte, funzionali o
extrafunzionali, idonee a ledere la loro autonomia, indipendenza e imparzialità ed a minare la stessa credibilità della funzione e dell’intera
magistratura. Il corretto esercizio della funzione costituisce l’interesse
primario da assicurare nell’interesse dello Stato e dei cittadini. La disciplina dei magistrati assume così, a differenza di quella degli altri
pubblici dipendenti, rilevanza esterna al ristretto ambito dell’ordine
giudiziario, superando la stretta visione corporativa di giurisdizione
domestica, e proiettandosi verso la sanzionabilità dei comportamenti
lesivi delle esigenze di organizzazione e corretto funzionamento del
servizio giudiziario che costituisce uno dei fondamentali settori della
vita di un Paese democratico.
Significativo è il monito della Corte costituzionale che, pronunciandosi in tema di estensione della garanzia di difesa dell’incolpato
con l’assistenza di un avvocato del libero foro, ha evidenziato che la
previsione è posta a tutela non solo del singolo magistrato ma della generalità dei cittadini, per evitare che la responsabilità disciplinare di2
La responsabilità disciplinare dei giudici di pace ha una diversa disciplina sia sul
piano sostanziale sia su quello processuale. La responsabilità disciplinare del giudice
di pace ha natura non giurisdizionale ma amministrativa.
134
venti essa stessa “strumento per reprimere convincimenti sgraditi o
per condizionare l’esercizio indipendente delle funzioni giudiziarie
(Corte cost. n. 497 del 20003).
In questa ottica, è stato correttamente osservato4 che a) la responsabilità disciplinare è il punto di confluenza tra il principio democratico e quello dell’indipendenza del giudice e della magistratura; b) la
responsabilità e professionalità costituiscono forme di legittimazione
democratica dell’attività giurisdizionale perché il cittadino non può
scegliersi il giudice e, quindi, ha diritto di avere un giudice preparato
ed imparziale qualunque esso sia.
Il potere disciplinare è volto a garantire il regolare svolgimento
della istituzione e della funzione giudiziaria.
La responsabilità non è più verso l’ordine giudiziario (vedi l’art. 18
L.G. che prevedeva la responsabilità per la “compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario”), bensì è posta a tutela della credibilità
del magistrato e del prestigio dell’istituzione giudiziaria” (come si
esprimeva l’art. 1, 2 comma, d.lgs. n. 109/2006 poi abrogato), proprio
per evidenziare, in consonanza con importanti sentenze della Corte
costituzionale (Corte cost. n. 100/1981 e Corte cost. n. 497/2000) il carattere non corporativo ma pubblicistico del diritto disciplinare della
magistratura5.
2. La doppia titolarità e la obbligatorietà dell’azione disciplinare
del P.G.
È noto che la doppia titolarità del potere disciplinare6 è stata introdotta solo successivamente all’approvazione della Costituzione, con
la legge istitutiva del C.S.M..
La titolarità del Ministro ha rango costituzionale e si giustifica, essenzialmente, con il riconoscimento dei suoi poteri in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art.
110 Cost.).
Foro it., 2001, I, 183 con oss. di. S. PANIZZA.
R. ROMBOLI, La nuova disciplina ed il ruolo del giudice oggi, Foro it., 2006, V, 52.
5
In tal senso, vedi anche la modifica dell’interesse tutelato, introdotta dalla nuova
formulazione dell’art. 2 della Legge delle guarentigie, e che prevede l’istituto dell’incompatibilità ambientale non più a tutela...ma …
6
R. FUZIO, L’azione disciplinare obbligatoria del Procuratore Generale, Cass.
Pen., 2008, 4854.
3
4
135
Già in assemblea costituente venne direttamente affrontato il
tema della co-titolarità. Prevalse la tesi di usare una formula che non
costituzionalizzasse né la esclusiva titolarità del Ministro né la natura
meramente facoltativa dell’azione disciplinare. La Costituzione ha
solo costituzionalizzato l’iniziativa del Ministro senza escludere – a livello di legislazione ordinaria – l’assegnazione della titolarità dell’azione ad altri organi.
La successiva legge istitutiva del C.S.M. ha attributo al Procuratore Generale la “facoltà” di esercizio dell’azione disciplinare. L’innovazione è stata valutata, nei suoi profili di costituzionalità, dalle sezioni Unite della Cassazione7 e dalla Sezione disciplinare del C.S.M.
che hanno concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione.
La facoltatività dell’azione del P.G. fu giustificata dalla funzione di
sostituzione dell’inerzia del Ministro, mentre opinioni di dissenso furono espresse dai sostenitori dell’obbligatorietà del potere del P.G. in
ragione del suo ruolo imparziale. I fautori dell’obbligatorietà ritenevano che se la facoltatività dell’azione del Ministro trovava giustificazione nel suo ruolo e nella sua responsabilità “politica”, altrettanto non
doveva riconoscersi al PG, non fosse altro per la sua totale irresponsabilità (come vertice della magistratura inquirente) tanto più in un sistema di non tipizzazione degli illeciti.
Altri sostennero, invece, che il riconoscimento di una diversa natura (facoltativa – obbligatoria dell’azione) avrebbe espropriato il Ministro della sua facoltà, che sarebbe rimasta assorbita e cancellata dall’esercizio obbligatorio dell’azione del P.G.; la stessa responsabilità politica del Ministro, con i connessi poteri di “controllo esterno” sull’attività della magistratura, avrebbe perso ogni peso e rilevanza8.
Si tratta di un tema estremamente controverso ed ancora attuale.
Non a caso la previsione dell’obbligatorietà dell’azione del Procuratore Generale, già sostenuta in alcuni progetti di revisione della Carta
costituzionale (Bicamerale), induce, tuttora, alcuni a proporre la sottrazione della funzione disciplinare alla Sezione disciplinare in favore
di un nuovo istituendo organo, così da assicurare un “controllo” sui
Cass. 6 novembre 1975, Foro it., 1976, 598.
Riprende questa critica posizione, da ultimo, F. AULETTA, Azione e giudizio disciplinare dopo le riforme dell’ordinamento giudiziario, Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2009,
3, secondo cui, il potere di azione in capo al Ministro sarebbe svilito dalla nuova previsione della obbligatorietà dell’azione disciplinare del P.G., per effetto della tipizzazione degli illeciti e dalla titolarità esclusiva del P.G. nel potere di azione.
7
8
136
magistrati “esterno” al C.S.M. ed alla categoria. Tema questo che costituisce una delle ragioni per le quali la Sesta Commissione del
C.S.M. ha ritenuto di aprire un dibattito ed una riflessione estesa
anche alla altre magistrature, ritenendo giusto che esso avvenga all’interno della sede istituzionale e senza preventive prese di posizione originate da pregiudiziali e strumentali opzioni politiche.
È, come si vede, questione non puramente teorica e che ha già
posto, in precedenza, problemi di coordinamento tra i distinti ed autonomi poteri riconosciuti ai due diversi organi, in ordine: 1) al dies a
quo del termine annuale di decadenza per il promovimento dell’azione; 2) ai criteri ai quali, in un unico regime di facoltatività dell’azione,
deve essere ricondotto l’esercizio del potere disciplinare.
Sul primo punto, nonostante alcune voci contrarie, la giurisprudenza si è attestata sulla computabilità disgiunta del termine annuale9.
I rapporti tra Ministro, Procuratore Generale, C.S.M. e Sezione
Disciplinare sono stati, indubbiamente, incisi dalla nuova disciplina
introdotta nel settore in esame dalle ultime riforme dell’ordinamento
giudiziario.
La posizione del P.G., nel procedimento disciplinare, ha da sempre posto problemi di sistema in quanto il P.G. è anche componente di
diritto del C.S.M.. Se è vero che la Sezione disciplinare è diversa dall’organo cui compete l’amministrazione della giurisdizione, è pur vero
che la Sezione è parte integrante del C.S.M. e che alla sua costituzione partecipa, con il proprio voto, il P.G.. Non solo ma il P.G., in quanto componente di diritto, partecipa alle sedute dell’organo che ha il dovere di segnalare agli organi titolari dell’azione disciplinare i fatti ed i
comportamenti di possibile rilevanza disciplinare; anzi il C.S.M. ha,
oggi, l’obbligo espresso di comunicare al Ministro ed al P.G. ogni fatto
rilevante sotto il profilo disciplinare (art. 14, 4 comma, del d.lgs. n.
109/2006).
Dovere che esce ancor più rafforzato di significatività per effetto
della modifica della disposizione che regola l’istituto della incompatibilità ambientale e/o di funzioni (art. 2 l. guarentigie), limitandone la
sua applicazione alle sole ipotesi di cause indipendenti da colpa del
magistrato.
Ulteriore problematicità deriva anche dalla previsione di poteri di
richiesta di trasferimento di ufficio “cautelare”, in capo ad entrambi i
9
Corte cost. n. 196 del 1992; Cass. n. 1418 del 2004 e, da ultimo, VEDI SENTENZA CASTELLANO.
137
titolari dell’azione disciplinare, e dalla consequenziale attribuzione
della relativa procedura alla competenza della Sezione Disciplinare,
con la partecipazione del Procuratore Generale. Di certo, le innovative previsioni (artt. 13 e 22 d.lgs. n. 109/2006) in tema di cautelare disciplinare ampliano i profili di responsabilità politica dell’azione del
Ministro10.
3. L’azione disciplinare del Procuratore Generale
La Procura generale esce “rafforzata” sul piano della responsabilità, che su di essa grava, nella titolarità e gestione dell’azione disciplinare obbligatoria. L’obbligatorietà dell’azione colloca la Procura Generale in posizione di maggiore rilevanza nella dialettica giurisdizionale in materia disciplinare non solo nei confronti dei cittadini, dei
magistrati, del Ministro della Giustizia (che rimane co-titolare dell’azione ma con ampliamento dei suoi poteri11), ma anche della Sezione
disciplinare del C.S.M. e della Corte di Cassazione (sezioni unite) che
è il giudice finale dell’impugnazione.
È appunto sulla posizione della Procura generale della Cassazione
che, in particolare, intendo soffermarmi in questa sede per il ruolo che
essa è venuta ad assumere nel nuovo assetto ordinamentale e che può
(o dovrebbe secondo altri) divenire ancor più pregnante nella prospettiva di “ vertice” dell’ufficio del Pubblico Ministero.
Si pensi, ad esempio, al contenuto dell’art. 6 del d.lgs. n. 106 del
2006 che lo rende destinatario della relazione annuale dei procuratori
distrettuali sul corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, sul rispetto delle norme sul giusto processo e sul puntuale esercizio dei poteri di direzione, controllo ed organizzazione degli uffici di procura12.
Qui ed oggi non intendiamo affrontare il ruolo del Pubblico Ministero nell’attuale assetto costituzionale ed ordinamentale, ma è certo
che prima di addentrarsi in ulteriori prospettive di riforma, anche costituzionali, è bene riflettere e conoscere i delicati meccanismi che sotSul punto vedi R. FUZIO, op. cit. 4857.
Tra le varie norme poste a garanzia del potere di azione del ministro, vi è l’art.
19, 3 comma, che regola le forme di impugnazione del ministro avverso le sentenze
della sezione disciplinare.
12
Com’è noto il Procuratore Generale attuale, V. Esposito, ha più volte insistito per
rafforzare questa previsione attraverso un potenziamento dei “nuovi poteri” che discenderebbero dalla norma. Si è anche prospettato l’interrogativo se il contenuto delle
relazioni può costituire oggetto di approfondimento per possibili azioni disciplinari.
10
11
138
tendono il sistema disciplinare appena nato dalla doppia riforma dell’ordinamento giudiziario Castelli / Mastella.
È indubbio che la sostituzione della discrezionalità dell’azione disciplinare con la sua obbligatorietà comporta una forte esposizione
dell’Ufficio del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Il
suo assetto interno è poco conosciuto e studiato nonostante che, a seguito della nuova disciplina, l’Ufficio ha assunto un effettivo ruolo propulsivo nella determinazione delle fattispecie di rilevanza disciplinare.
Ciò si ricollega non solo alla previsione della obbligatorietà del suo intervento, con l’iniziale attenta opera di interpretazione e definizione
della nuove fattispecie tipizzate di illecito disciplinare, ma anche alla
necessità di ampliare la propria attività nella fase precedente l’esercizio dell’azione disciplinare. Una volta depositata in Procura Generale
con qualunque mezzo (esposto orale o scritto, informativa dei dirigenti degli uffici giudiziari, delibera del C.S.M., etc.) una notizia di
fatto o condotta del magistrato di possibile rilevanza disciplinare, si
avvia l’attività del cd. “ pre – disciplinare” rimane esterna e sconosciuta al circuito giurisdizionale della Sezione disciplinare del C.S.M. e
delle sezioni unite della Corte di cassazione.
L’organizzazione del Servizio disciplinare della Procura Generale
è mutata profondamente, proprio per la necessità di svolgere più incisivi e penetranti accertamenti pre-disciplinari che si spingono sino all’esecuzione di sommarie indagini preliminari svolte in loco presso
gli uffici giudiziari e/o all’effettuazione di ogni attività per la quale non
sia richiesta la comunicazione all’incolpato o l’avviso al difensore
quali l’acquisizione di atti, l’esame di persone informate dei fatti etc.
(art. 15, 5 comma, d.lgs n. 109/2006).
Solo all’esito di questa attività – che non deve superare l’anno dalla
notizia circostanziata del fatto – la Procura Generale può, oltre che
esercitare l’azione disciplinare, provvedere ad emettere decreto di
archiviazione per irrilevanza disciplinare del fatto ovvero per la sua
scarsa rilevanza (art. 16, 5 comma bis, d.lgs n. 109/2006).
A distanza di quasi 5 anni dall’entrata in vigore del nuovo sistema
disciplinare ed al di là delle statistiche sulla qualità e quantità delle
azioni disciplinari,13 va posta grande attenzione sulla indicata attività
predisciplinare.
13
Il numero delle azioni promosse è aumentato. Per una indagine statistica si rinvia
ai dati contenuti nell’ultima relazione del Procuratore Generale della Corte di Cassazione resi pubblici nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011.
139
Negli ultimi due anni il numero delle notizie giunte alla Procura
generale della Corte di Cassazione, alla data odierna (3 dicembre
2011) sono i seguenti:
Anno
Sopravvenuti
Definiti
Pendenti
2010
1382
1347
522
2011
(al 12 dicembre)
1658
853
(di cui 780 archiviati)
850
Alla stessa data le azioni disciplinari promosse sono state n. 157
nel 2010 e n. 127 nel 2011.
Un sereno confronto sul rapporto tra decreto di archiviazione ed
esercizio dell’azione disciplinare del Ministro e del Procuratore generale, può rendere possibile una utile riflessione sugli effetti della tipizzazione degli illeciti disciplinari che, a nostro giudizio, indubbiamente comporta, per il Ministro, una riduzione dello spazio per valutazioni di puro carattere deontologico o di opportunità politica, e per il Procuratore generale, la necessità di valutazioni e motivazioni più approfondite anche a tutela della parità di trattamento tra tutti i magistrati14.
4. L’unità della giurisdizione e l’omogeneità della responsabilità
dei magistrati: ordinari e speciali
Il Consiglio ha voluto, oggi, con questa iniziativa iniziare una riflessione che tenti di riavviare un percorso di maggiore omogeneizzazione degli assetti professionali ed ordinamentali delle diverse magistrature del sistema giudiziario italiano. L’approccio comparato, cui il
Consiglio superiore italiano è particolarmente attento, ci rivela una visione più unitaria15. Le modifiche dell’ordinamento giudiziario italia-
L’analisi della “ giurisprudenza” dei titolari dell’azione disciplinare si rivelerebbe sicuramente proficua sotto vari profili.
15
L’attività internazionale svolta dal C.S.M. con i lavori della sesta e nona commissione, nel settore ordinamentale ed in quello della formazione, consente di ritrovare oggi nel panorama internazionale una tendenziale linea di omogeneità negli assetti
delle diverse magistrature esistenti negli altri Paesi.
14
140
no, invece, mantengono o meglio si muovono in controtendenza rispetto alle iniziative dei primi anni novanta, che erano orientate a dare
maggiore uniformità alle diverse magistrature.
Oltre alla espressa previsione del citato art. 30 del d.lgs. n.
109/2006, infatti, analoga disposizione è contenuta anche nelle diverse norme in tema di valutazione di professionalità, temporaneità degli
uffici direttivi, organizzazione degli uffici, formazione e scuola della
magistratura, collocamento fuori ruolo ed incarichi extragiudiziari.
Quanto questa diversità sia corrispondente agli assetti costituzionali
delle diverse magistrature in Italia è un tema che varrebbe la pena approfondire.
La Corte costituzionale ha più volte affermato che l’indipendenza
dei magistrati, all’interno dei rispettivi ordinamenti, costituisce punto
fermo ed essenziale per tutte le magistrature, anche se è rimessa al legislatore le forme attraverso le quali assicurare l’effettività di tale garanzia.
Al di là del sistema dell’unità della giurisdizione, crediamo che
debba prendersi atto della diversità degli assetti costituzionali delle
magistrature (solo per la magistratura ordinaria il costituente ha ritenuto di prevedere, a livello costituzionale e con le garanzie corrispondenti a tale livello, l’istituzione di un consiglio superiore), delle diversità di funzioni, giurisdizionali e non, assegnate alle “altre” magistrature e dei differenti percorsi e modalità di accesso; nonché dell’esistenza di insormontabili differenze e difficoltà all’anelito “sindacale”
della magistratura ordinaria alla effettiva parità tra tutte le magistrature.
Certo è auspicabile trovare uno spazio comune magari solo a livello tendenziale e per alcune materie. Una tale prospettiva, però, parrebbe utile che venisse allargata ai profili deontologici di tutti i protagonisti del sistema giudiziario.
141
I principi portanti della potestà disciplinare in generale e nelle
carriere magistratuali in particolare1.
Vito TENORE
Consigliere della Corte dei Conti e professore stabile di diritto del lavoro
pubblico presso la Scuola Superiore della P.A.
Sommario: 1. Fondamento e finalità del potere disciplinare in generale (nell’impiego pubblico, nell’impiego privato, nelle libere professioni) e nei confronti dei magistrati in particolare. – 2. La diversa natura giuridica (amministrativa, giurisdizionale, contrattuale) dei molteplici procedimenti disciplinari presenti nell’ordinamento e i suoi riflessi applicativi. – 3. I principi portanti del procedimento disciplinare: a) obbligatorietà dell’azione disciplinare e della segnalazione disciplinare; b) proporzionalità sanzionatoria e divieto di automatismi punitivi; c) parità di trattamento; d) tempestività. – 4. I principi portanti
del procedimento disciplinare: e) tassatività delle sanzioni e (tendenziale) tipicità degli illeciti; f) gradualità sanzionatoria; g) contraddittorio procedimentale; h) trasparenza del procedimento; i) terzietà dell’organo titolare della potestà disciplinare; k) potestà disciplinare
verso ex appartenenti alla p.a. ed alla magistratura in particolare; l) la
corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti sanzionati nel
provvedimento punitivo finale; m) autonomia dell’illecito disciplinare
da altri illeciti.
1. Fondamento e finalità del potere disciplinare in generale
(nell’impiego pubblico, nell’impiego privato, nelle libere
professioni) e nei confronti dei magistrati in particolare
Da qualche tempo si sta iniziando a parlare, anche in contesti
scientifici, quali il Convegno organizzato l’8 aprile 2010 presso la
Lo studio, con alcuni adattamenti, riprende e sviluppa i concetti espressi da TENORE nel Capitolo I del volume FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con
il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, che rappresenta l’unico studio sistematico sui sistemi disciplinari nelle varie magistrature, compresa quella onoraria (e nell’Avvocatura dello
Stato).
1
143
Corte di Cassazione2 ed il convegno tenuto l’11 dicembre 2011 presso
il Consiglio Superiore della Magistratura su impulso del prof. Annibale Marini (e da cui nascono questi atti), di possibili modifiche ai sistemi disciplinari delle carriere magistratuali e della possibile creazione di un unitario organo (giurisdizionale o amministrativo, v.
infra) competente ad infliggere sanzioni nei confronti di qualsiasi
magistrato.
Tuttavia qualsiasi riforma, costituzionale e/o legislativa, dell’attuale regolamentazione dei differenziati sistemi disciplinari delle varie
carriere magistratuali (magistratura ordinaria, amministrativa, contabile, militare, onoraria, tributaria ed Avvocatura dello Stato) presuppone, da un lato, la reale volontà politica e delle singole magistrature
(e su quest’ultima nutriamo seri dubbi alla luce di inesprimibili ragioni di “gelosie” di palazzo) di portare avanti tale rilevante modifica ordinamentale “accentratrice” e, dall’altro, sul piano tecnico, la doverosa approfondita conoscenza della complessa materia disciplinare, partendo non solo dai singoli differenziati regimi che attualmente regolano (con gravissime lacune3) le distinte carriere magistratuali, ma, soprattutto, dai principi generali che connotano ontologicamente la responsabilità ed il procedimento disciplinare nei vari micro-ordinamenti (non solo magistratuali).
Non agevole sarà poi la individuazione di criteri di scelta dei
2
Il convegno dell’8 aprile 2010 presso la Corte di Cassazione è stato occasionato
dalla presentazione del cennato volume FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, ed ha avuto come relatori per ciascuna magistratura, dopo il saluto del Ministro Angelino Alfano e del Primo Presidente della Corte di
Cassazione dr. Vincenzo Carbone, il Pres. Gianfranco Ciani (sui magistrati ordinari), il
Pres. Mario Ristuccia (sui magistrati contabili), l’Avvocato Generale Ignazio Caramazza (sugli Avvocati dello Stato), il Pres.Antonio Intelisano (sui magistrati militari), il
Cons. Vito Poli (sui magistrati amministrativi), il dr.Pietro Brovarone (sui magistrati
onorari). Non sono editi gli atti del convegno, ma la registrazione fonica è rinvenibile
in http://www.radioradicale.it/scheda/300739/la-responsabilita-disciplinare-nelle-carrieremagistratuali.
3
Il riferimento è alle gravissime lacune procedimentali e soprattutto sostanziali
(mancata individuazione con legge delle condotte punibili) che connotano i regimi disciplinari dei magistrati amministrativi e contabili, ai quali non è più applicabile, in via
residuale, la normativa disciplinare dei magistrati ordinari, espressamente non trasponibile ex art. 30, d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109. Sul tema TENORE, Il procedimento disciplinare per i magistrati amministrativi, contabili, militari, onorari e per gli avvocati dello Stato, in FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali cit., 573
ss. e 593 ss.
144
componenti dell’ipotizzato organo disciplinare unitario: oltre alla
indefettibile presenza di magistrati espressivi delle varie magistrature (e di Avvocati dello Stato, ove si volesse estendere la competenza dell’organo anche ai “cugini” difensori erariali), potrebbe ipotizzarsi la designazione da parte del Presidente della Repubblica di
esperti di comprovata competenza e indipendenza, anche in quiescenza. Da escludere la nomina di esperti nominati dalle assemblee
legislative, sovente meno indipendenti di quelli di nomina Presidenziale.
Parimenti problematica (anche sul piano degli equilibri intermagistratuali) sarà l’individuazione del giudice chiamato a vagliare la legittimità delle sanzioni inflitte dall’ipotizzato organismo unitario disciplinare per tutte le magistrature: toccando la sanzione posizioni
soggettive sia di diritto che di interesse del magistrato punito, riterremmo devoluta al legislatore la scelta di attribuire “per materia” al
giudice ordinario (come per le libere professioni o per l’impiego pubblico privatizzato) o al giudice amministrativo (come per le carriere
pubbliche non privatizzate) il peculiare contenzioso disciplinare. Parrebbe forse preferibile la scelta di un giudice esperto in questioni procedurali-amministrative e lavoristiche in quanto, come si ribadirà a
breve, in sede disciplinare non si tratta di “processare” un magistrato,
ma di valutare violazioni comportamentali rispetto a regole interne:
pertanto la più equilibrata scelta giustiziale per vagliare le sanzioni inflitte potrebbe essere quella del giudice ordinario del lavoro (magari
d’appello, con solo doppio grado di giudizio per esigenze di opportuna celerità) o del giudice amministrativo, entrambi avvezzi a giudizi
su sanzioni di natura disciplinare.
Infine, per una corretta impostazione della ipotizzata riforma
unitaria in materia, il predetto preliminare studio sui principi generali del diritto disciplinare è indefettibile anche al fine di evitare un
approccio dogmatico a questa delicata modifica ordinamentale sulla
disciplina magistratuale esclusivamente secondo inopportuni schemi “pan-penalistici” o “pan-civilisti” (cari ad alcuni studiosi di matrice magistratuale ordinaria), in luogo di una più opportuna impostazione della (auspicata) riforma in chiave “lavoristica” ed “amministrativistica”. Trattasi, difatti, di tematica attinente non al “processo”, ma alla gestione amministrativa-lavoristica del personale magistratuale (nei suoi momenti patologici), notoriamente non toccato
dalla privatizzazione del rapporto di lavoro con la P.A. e, dunque,
dalla recente rilevante riforma del sistema disciplinare del personale privatizzato apportata dal d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150 (c.d. de-
145
creto Brunetta)4, che ha introdotto alcuni innovativi principi che potrebbero essere opportunamente estesi, in sede di futura riforma,
alle carriere magistratuali (il riferimento è al superamento della c.d.
“pregiudiziale penale” rispetto all’azione disciplinare, felicemente introdotta per il personale della P.A. depubblicizzato)5.
Difatti, la potestà disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.) nei confronti dei magistrati ordinari, del Consiglio della Magistratura militare (C.M.M.) per i magistrati militari,
dei Consigli di Presidenza per i magistrati amministrativi e contabili, del Consiglio degli Avvocati e dei Procuratori di Stato (C.A.P.S.)
per gli Avvocati dello Stato, al pari dell’omologo potere riconosciuto alla pubblica amministrazione nei confronti dei restanti dipendenti (civili e militari, privatizzati o meno), al potere riconosciuto al
datore privato nei confronti dei propri lavoratori ed al potere punitivo attribuito agli ordini professionali nei confronti dei propri
iscritti, rappresenta un mezzo di imparziale autoregolamentazione
interna delle condotte patologiche che si realizzano nel “micro-ordinamento” di appartenenza del lavoratore (o del professionista),
ostative al corretto raggiungimento dei fini istituzionali, attraverso
un rapido ed efficace strumento punitivo, volto a prevenire, dissuadere e, nel contempo, sanzionare, dall’interno, violazioni di regole
che sono i pilastri dello status del magistrato, del lavoratore (o del
professionista).
In altre parole, l’appartenenza all’ordine giudiziario, ad una pubblica amministrazione, ad una azienda privata o ad un ordine professionale, comporta l’osservanza di regole, di rango legislativo, regolamentare o contrattuale, la cui violazione, ferme restando le eventuali
concorrenti responsabilità “generali” (civile, penale, amministrativo-
Su tale riforma del sistema disciplinare ci sia consentito il richiamo a TENORE,
Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano,
2010.
5
Come è noto, il ritardo nell’azione disciplinare, che deve essere tempestiva, è
molto spesso improvvidamente causato dalla attesa del giudicato penale (che spesso
si traduce poi in una….prescrizione) qualora il fatto assuma valenza sia disciplinare che penale. La recente riforma Brunetta (art. 55-ter, d.lgs. n.165 del 2001 introdotto dall’art. 69 del d.lgs. n. 150 del 2009) ha opportunamente limitato tale pregiudiziale penale in ossequio alla autonomia tra i due illeciti (penale e disciplinare), lasciandola in vita per i soli casi di fatti di difficile accertamento con i più limitati poteri istruttori disciplinari rispetto ai più pregnanti poteri del giudice penale: nei restanti casi l’azione disciplinare prosegue in parallelo al procedimento penale senza
interferenze.
4
146
contabile6), origina reazioni interne, espressive della potestà disciplinare che fa capo agli organi datoriali o, comunque, di vertice del
micro-ordinamento di appartenenza, o a specifici organismi creati ad
hoc (sezione disciplinare del C.S.M., Consigli di Presidenza, uffici disciplinari, consigli degli ordini etc.).
Queste regole non rappresentano un mero “galateo” del buon magistrato, lavoratore o professionista, ma sono norme, riconducibili al
principio del rispetto del “comportamento idoneo al fine istituzionale”,
la cui inosservanza assume giuridica rilevanza sotto il profilo puntivodisciplinare.
La violazione delle norme di condotta non interessa però esclusivamente l’ordine di appartenenza, e la relativa responsabilità non costituisce uno strumento di garanzia del mantenimento dello status quo
al suo interno, ma le regole disciplinari sono preordinate alla tutela
dell’ordinamento giuridico generale in considerazione della rilevanza
esterna, per la collettività, dei compiti assolti dall’amministrazione e
dai suoi dipendenti, e dai magistrati in particolare: il bene affidato alla
cura della sezione disciplinare del C.S.M. o ai Consigli di Presidenza
non riguarda il solo ordine giudiziario, quale «corporazione», ma la
generalità dei cittadini, lo Stato-comunità.
Tale potere, nell’impiego presso la p.a.7, viene fondato sul principio di buon andamento della amministrazione (art.97 cost.) e sul conseguenziale rapporto di supremazia speciale del datore pubblico ed è
qualificato come classico potere pubblicistico, con connotazione for6
Sulle restanti responsabilità del magistrato (civile, penale, amministrativo-contabile) v. TENORE, Rapporto tra illecito penale, illecito civile ed illecito amministrativocontabile del magistrato, in FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il
coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali,
cit., 431 ss.
7
Tra i più significativi contributi monografici sulla materia disciplinare “privatizzata” v. TENORE, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano, 2010; TENORE, PALAMARA, BURATTI, Le cinque responsabilità del
pubblico dipendente, Milano, 2009; TENORE, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego, Roma Epc libri, 2007; NOVIELLO-TENORE, La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002; MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, art. 2106, in SCHLESINGER (a cura di), Il codice
civile. Commentario, Milano, 2002. Più di recente v. AA.VV. (a cura di VIGEZZI), Le sanzioni disciplinari, Milano, 2003; AA.VV., Il sistema disciplinare nel lavoro pubblico, Formez, Roma, 2004; AA.VV. (a cura di CATELANI), Il codice di comportamento dei dipendenti della p.a., Milano, 2005; DI PAOLA, Il potere disciplinare nel lavoro privato e nel
pubblico impiego privatizzato, Milano, 2006. Per una vasta rassegna di giurisprudenza
in materia disciplinare e sul pubblico impiego in generale v. APICELLA, CURCURUTO,
SORDI, TENORE, Il pubblico impiego privatizzato nella giurisprudenza, Milano, 2005.
147
temente autoritaria ed influenzata dal diritto penale. Tali caratteristiche, non estensibili al personale magistratuale (sottoposto solo alla
legge e non ad un “datore”) e attenuatesi dopo la c.d. privatizzazione
del rapporto di lavoro con la p.a.8, conservano la loro attualità per il
personale militare e delle forze di polizia9, operante in strutture ancora oggi ontologicamente e necessariamente gerarchizzate.
Nel lavoro privato (ed oggi nell’impiego pubblico privatizzato), invece, il potere disciplinare trova la sua giustificazione nella relazione
di subordinazione che lega il prestatore di lavoro al datore di lavoro, e
rivendica comunque un suo peculiare spazio nell’ambito della paritetica dialettica contrattuale, quale tipico strumento organizzativo dell’imprenditore10.
A livello manualistico v. FALCONE, Commento agli artt. 54-56, d.lgs. n. 165 del
2001, in AMOROSO, DI CERBO, FIORILLO, MARESCA, Il diritto del lavoro, III, Il lavoro pubblico, Milano, 2006; MAINARDI, La responsabilità e il potere disciplinare, in
CARINCI, ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004.
Assai utile è la lettura di LANDI, voce Disciplina, in Enc.diritto, Roma.
8
Sul tema, tra i molteplici contributi, v. TENORE (a cura di), Il manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma Epc libri, 2011.
9
Sulla disciplina, di stato e di corpo, nel peculiare ordinamento militare cfr. POLI,
TENORE (a cura di), L’ordinamento militare, Milano, 2006, 620 ss.; POLI-TENORE, I
procedimenti amministrativi tipici ed il diritto di accesso nelle forze armate, Milano,
2003, 238 ss. Per la disciplina del personale della Polizia di Stato v. SGALLA, BELLA,
BELLA, Manuale di disciplina per il personale della Polizia di Stato, Roma, 2001; TENORE, FRISCIOTTI, SCAFFA, La responsabilità ed il procedimento disciplinare nelle
forze armate e di Polizia, Roma, 2010.
10
Sul potere disciplinare nell’impiego privato v. tra i tanti contributi, prescindendo da articoli e note a sentenza, si segnalano: GRANDI, Il procedimento disciplinare in
sede aziendale e in sede sindacale, in Le sanzioni disciplinari nella contrattazione collettiva, Milano, 1966; ZANGARI, Potere disciplinare e licenziamento, Milano, 1971; SPAGNUOLO VIGORITA, Il potere disciplinare dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto
dei lavoratori, in I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori,
Milano, 1972; SPAGNUOLO VIGORITA, Le sanzioni disciplinari, in L’applicazione dello statuto dei lavoratori. Tendenze ed orientamenti (a cura di PERA), Milano, 1973; MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, 1973; MONTUSCHI, sub art. 7, in
GHEZZI, MANCINI, MONTUSCHI, ROMAGNOLI, Lo statuto dei diritti dei lavoratori, in Comm.
Scialoja-Branca, Bologna-Rimini, 1979; BORTONE, sub art. 7, in Lo statuto dei lavoratori, Commentario (diretto da GIUGNI), Milano, 1979; FILODORO-MIRANDA, L’arbitrato e le
sanzioni disciplinari in materia di lavoro, Milano, 1979; MONTUSCHI, La giustificazione
del potere disciplinare nel rapporto di lavoro, in AA.VV., Le pene private (a cura di BUSNELLI e SCALFI), Milano, 1985; VARDARO-GAETA, Sanzioni disciplinari I. Rapporto di lavoro privato, in Enc. giur., vol. XXXI, Roma, 1992; PAPALEONI, Il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, Napoli, 1996; AMBROSIO-FERRARA, Il licenziamento disciplinare tra pubblico e privato, Napoli, 1998; INCANTALUPO, Le sanzioni disciplinari, Milano, 1999.
148
Peraltro appare preferibile valorizzare la genesi comune del potere disciplinare nell’impiego pubblico (privatizzato) e privato, considerandolo come l’indispensabile potere punitivo dell’organizzatore, ovvero di chi, avendo il compito di organizzare il lavoro altrui per il perseguimento di un interesse pubblico o privato, deve avere anche gli strumenti per rendere effettivo ed efficace il suo potere direttivo e, quindi,
deve poter punire chi infrange regole connesse appunto all’esecuzione
della prestazione lavorativa, venendosi così a trovare in una naturale
posizione di supremazia giuridica: il potere disciplinare, per i requisiti sostanziali, per le singolari modalità di esercizio e per le pene (conservative ed espulsive) nelle quali si manifesta, conserva dei connotati
innegabilmente autoritari, attribuendo nell’ambito del rapporto lavorativo una posizione in concreto di supremazia privata, incompatibile, in linea di principio, con la parità e l’uguaglianza delle parti.
Nelle libere professioni, infine, la fissazione di regole legislative e
deontologiche (che completano e dettagliano precetti legislativi) e la
previsione di una potestà sanzionatoria interna nei confronti degli appartenenti, sono un mezzo imparziale di autoregolamentazione dell’ordinamento professionale attraverso un rapido ed efficace strumento punitivo a garanzia del mantenimento di uno standard di qualità
minimo nell’esercizio della professione, nonché della credibilità e affidabilità sociale nella categoria e nelle funzioni della stessa: i sistemi
disciplinari interni tutelano dunque il decoro ed il prestigio della classe professionale, e le aspettative di quanti si affidano a professionisti
per l’esatto adempimento della loro volontà11. In un momento storico
Gli studi sui sistemi disciplinari nelle libere TENORE, MAZZOLI, Codice deontologico e sistema disciplinare nelle professioni tecniche: ingegneri, architetti, geologi, geometri, Roma Epc libri, 2011 con vasta bibliografia; TENORE, CELESTE, La responsabilità disciplinare del notaio ed il relativo procedimento, Milano, 2008; SANTARCANGELO, Il procedimento disciplinare a carico dei notai, Milano, 2007; TRAPANI, L’apparato
sanzionatorio nel novellato disciplinare notarile tra conferme e novità, in Riv.Notariato,
2007, f. 3; BRIENZA, Il nuovo procedimento disciplinare: problemi vecchi e nuovi, in Federnotizie, 2007, n.16, 1; sulla responsabilità disciplinare degli avvocati e di altri professionisti v. DANOVI, Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato, Milano, 2005; MODONESI, Il procedimento disciplinare avanti ai consigli degli ordini degli
ingegneri e degli architetti, in Rass.forense, 1998, 333; DANOVI, Corso di ordinamento forense e deontologia, Milano, 1995, 248 ss.; DANOVI, Codice delle professioni intellettuali, Milano, 1989; DE VECCHI-FRIGENI-PAJARDI-VERNA, Deontologia e legislazione
professionale dei dottori commercialisti, dei ragionieri, e dei periti commerciali, Milano,
1987; CELONA, Disciplina e deontologia degli agenti di cambio, Milano, 1987; IBBA, La
categoria «professionale intellettuale», in IBBA LATELLA PIRAS DE ANGELIS MACRÌ, Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 123 ss.
11
149
caratterizzato da scomposti impeti legislativi tesi alla liberalizzazione
di vasti settori dell’economia ed al connesso ridimensionamento delle
libere professioni, la credibilità e l’affidabilità di queste ultime, che
passa anche attraverso la rigorosa azione autocorrettiva disciplinare,
rappresenta un basilare presupposto per difendere l’importante ragion
d’essere delle libere professioni12.
Venendo, da ultimo, al sistema della responsabilità disciplinare
dei magistrati, ivi compresi gli uditori giudiziari13, da sempre istituto
centrale per misurare il livello di responsabilità e di indipendenza
degli stessi14, esso trae il proprio fondamento, come detto, non già in
una “supremazia speciale” della p.a. nei confronti dei propri dipendenti, ma in valori e finalità ancor più rilevanti rispetto ad altre categorie di lavoratori o di professionisti: controllare il corretto esercizio
12
Sulle finalità di interesse generale, che devono essere perseguite dagli ordini
professionali e sono a base del loro riconoscimento da parte del legislatore, cfr., in particolare, ZANOBINI, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Trattato dir.
amm. diretto da Orlando, vol. II, parte III, Milano, 1935, 383 ss.; CATELANI, Gli ordini ed
i collegi professionali nel diritto pubblico, Milano, 1976, 21 ss. e 87 ss., il quale, in particolare, fa riferimento all’art. 41, comma 2, Cost. Più in generale, sui fini pubblicistici
degli enti professionali, si vedano: LEGA, voce Ordinamento professionale, in NNDI, vol.
XII, Torino, 1965, 9 ss.; LEGA, La libera professione, Milano, 1950, 4 ss.; PISCIONE, voce
Professioni (disciplina delle), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1040 ss. L’interesse generale opera, pertanto, come limite alla garanzia costituzionale del diritto al lavoro intellettuale, sulla quale si vedano: CATELANI, Gli ordini, cit., 9 ss.; VIRGA, Libertà
giuridica e diritti fondamentali, Milano, 1947, 143 ss.; PERA, voce Professione (libertà di),
in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1033 ss.; MANCINI, Principi fondamentali, in
Comm. Cost. diretto da Branca, Bologna-Roma, 1982, 982 ss.
13
L’ordinamento disciplinare dei magistrati ha carattere unitario ed è irrilevante
la circostanza che l’incolpato rivesta lo status di uditore senza funzioni al momento in
cui è commessa l’infrazione, come si evince dalla previsione di illeciti per fatti che sono
estranei all’espletamento di funzioni giudiziarie; ne consegue che la sanzione applicabile agli uditori è identica a quella prevista per i magistrati con funzioni e può essere
scontata anche dopo che sia cessato il tirocinio. È invece necessario, per esercitare il
potere disciplinare ed individuare la procedura applicabile, che la qualità di magistrato sussista al momento in cui la sanzione è inflitta (Cass., sez.un., 18 giugno 2008
n.16541, in Diritto & Giustizia, 2008 con nota di MANDALARI).
14
FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010;
ROSSI, Il potere disciplinare, in Il Consiglio superiore della magistratura, a cura di MAZZAMUTO, 2001, Giappichelli Ed., 69 ss.; FERRAJOLI, L’etica della giurisdizione penale
(contributi per una definizione della deontologia dei magistrati), in Questione giustizia,
1999, n. 3, 482 ss.; ZANCHETTA, Appunti sulla deontologia dei magistrati, in Questione
giustizia, 2000, n. 2, 330 ss. Da ultimo AA.VV. (a cura di ALBAMONTE-FILIPPI), Ordinamento giudiziario, leggi, regolamenti e procedimenti, Torino, 2009; AAVV. (a cura di
CARCANO), Ordinamento giudiziario: organizzazione e profili processuali, Milano, 2009.
150
della funzione giudiziaria15 e garantire la qualità della giustizia, senza
però ledere o interferire con l’indipendenza dell’esercizio della funzione stessa o ingabbiare il magistrato nelle strette maglie di comportamenti giuridicamente imposti. Il suo basilare referente, per i magistrati ordinari, va rinvenuto nella Costituzione che, all’art. 105, attribuisce al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme
dell’ordinamento giudiziario, i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati.
Le competenze in materia disciplinare del Consiglio superiore
della magistratura, come le altre competenze previste dall’art. 105
cost., traggono poi il loro fondamento nel precedente art. 104 che, nel
disporre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro
potere, pone l’organo consiliare a presidio di questi valori16. Analoga,
ma non identica, garanzia di indipendenza connota lo status dei magistrati amministrativi e contabili ex art. 108 cost. come più volte rimarcato dalla Consulta17.
Il sistema disciplinare tradizionale per i magistrati ordinari trovava poi la sua regolamentazione nella legge sulle guarentigie della magistratura 31 maggio 1946 n.511 (artt. 17, 18, 19, 20, 21, 27, 28, 29, 30,
31, 32, 33, 34, 35, 36, 37 e 38), nella legge istitutiva del Consiglio superiore 24 marzo 1958 n. 195 (artt. 10, primo comma, n. 3, 14, primo
comma, n. 1) e nel relativo regolamento di attuazione e di coordinamento 16 settembre 1958 n. 916 (artt. 57, 58, 59, 60, 61 e 62)18.
Su questo assetto normativo, com’è noto, è intervenuta la riforma
del 2006, attuativa della legge delega 25 luglio 2005, n. 150, prima con
il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (la c.d. legge Castelli) e,
poi, con le modificazioni ad esso apportate dalla legge 24 ottobre
2006, n. 269 (la c.d. legge Mastella) e dalla l. 30 luglio 2007 n. 111. Tale
Sul punto C.cost., n.100 del 1981, in Foro. it., 1981, I, 2360 secondo cui i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali ed indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio della funzione giurisdizionale, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell’adempimento del loro compito.
16
Ne consegue che, per sottrarre al Consiglio superiore della magistratura le attribuzioni in materia disciplinare, andrebbe modificato, con l’art. 105 della Costituzione, anche l’art. 104.
17
Da ultimo C.cost., 27 marzo 2009 n.87, in www.cortecostituzionale.it.
18
Per una felice sintesi dei caratteri del regime disciplinare per i magistrati ordinari prima della riforma del 2006 v. FANTACCHIOTTI, FIANDANESE, Il nuovo ordinamento giudiziario, Padova, 2008, 414 ss.
15
151
novellato regime, a differenza di quello previgente, non opera per i
magistrati amministrativi e contabili (ma certamente si applica ai magistrati militari ex art.1, co.3, l.30 dicembre 1988 n.561 ed ex art.2 e 7,
d.P:R. 24 marzo 1989 n.158), in quanto il d.lgs. 23 febbraio 2006 n.109
e succ.mod., in base al relativo art.30, opera per i soli magistrati ordinari: tale non trasponibilità dei nuovi principi, origina non pochi problemi per le restanti magistrature speciali.
Le ragioni di una riforma del sistema disciplinare di così ampia
portata sono certamente quelle dettate dall’esigenza di un ammodernamento dei principi generali della deontologia giudiziaria – da moltissimo tempo ormai ricondotta nell’alveo della giurisdizione19, e dal
peso sempre più crescente sul corpus della magistratura – onde adeguare il sistema ai principi costituzionali in tema di ordinamento giudiziario, sintetizzabili nella imparzialità del giudice, nell’indipendenza
della magistratura e nella sua subordinazione esclusiva alla legge, in
vista dell’efficienza della tutela giurisdizionale offerta ai cittadini20.
In buona sostanza, le finalità che in materia disciplinare tutti vorrebbero che siano realizzate sono quelle, per un verso, di assicurare
che i magistrati siano effettivamente perseguiti e sottoposti a sanzio19
C. cost., 29 gennaio 1971 n. 12, che ha affermato il principio di diritto secondo
il quale “Non è controvertibile che la legislazione vigente, sui procedimenti disciplinari a
carico dei magistrati, con espresse e non equivoche statuizioni – come quelle secondo cui
il provvedimento disciplinare (cfr. la rubrica dell’art. 35 del r.d.l. n. 511 del 1946) va adottato con “sentenza” impugnabile (art. 17, ult. comma della legge 24 marzo 1959, n. 195)
con ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione, ed il procedimento, a differenza di quello
per ai dipendenti pubblici, viene instaurato da soggetti (Ministro della giustizia, ex art.
107, secondo comma, della Costituzione, e procuratore generale, presso la Corte di cassazione, ex art. 14 della legge 24 marzo 1958, n. 195) del tutto estranei al collegio deliberante
– ha inteso stabilire, a tutela dell’indipendenza dei magistrati, che il procedimento stesso
si svolga nelle forme e nei modi e con le garanzie tipiche della funzione giurisdizionale.
Pertanto la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, di cui agli artt.
1 e 2 della legge 18 dicembre 1967, n. 1198, esercitando funzioni di carattere giurisdizionale, deve ritenersi legittimata a promuovere, in base all’art. 1 della legge costituzionale 9
febbraio 1948, n. 1, giudizi di legittimità costituzionale.”. In dottrina, v. nota adesiva di
DEVOTO, Giudizio disciplinare e indipendenza dei magistrati, in Giur.it., 1972, I, 47 ss.;
PATRONO, La responsabilità disciplinare dei magistrati, in Cass. Pen., 1998, 1099 ss.,
che ritiene il carattere giurisdizionale del giudizio disciplinare in buona sostanza costituzionalmente imposto, in quanto necessario in funzione della tutela dell’indipendenza del magistrato incolpato. v. anche Cass., sez. un. civ., 29 ottobre 1974 n. 3255;
id., 3 marzo 1970 n. 506; id., 27 gennaio 1969 n. 240, tutte in Ced Cassazione.
20
Così ROSI, Gli illeciti disciplinari, in Dir.pen. e proc., 2005, n. 12, 1505 e, più recentemente, La responsabilità disciplinare dei magistrati dal decreto legislativo Castelli
del 2005 alla legge n. 269 del 2006, in L’ordinamento giudiziario. Itinerari di riforma, a
cura di MAZZAMUTO, Jovene Ed., 2008, 213 ss.
152
ne per i loro comportamenti scorretti e per gli abusi che compiono
nell’esercizio delle loro funzioni e, per altro verso, di garantire che i
magistrati non siano arbitrariamente perseguiti ogni qualvolta che, facendo il loro dovere, si scontrino loro malgrado con interessi forti e
soggetti reattivi o mossi da intenti emulativi21.
2. La diversa natura giuridica (amministrativa, giurisdizionale,
contrattuale) dei molteplici procedimenti disciplinari presenti
nell’ordinamento e i suoi riflessi applicativi
Come si è sopra segnalato, la responsabilità disciplinare non connota solo lo status del magistrato, ma la stessa si rinviene in tutto il
pubblico impiego, nel lavoro privato e nelle libere professioni.
I molteplici regimi esistenti, pur avendo comuni principi portanti,
analizzati nei successivi parag. 3 e 4, presentano talune settoriali peculiarità e, soprattutto, una diversa natura giuridica: difatti, per ragioni storiche e costituzionali, come ribadito anche dalla Corte costituzionale con la pronuncia 19 maggio 2008 n.18222 “l’esercizio della
funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte
come giurisdizionali, in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un
ambito molto ampio”.
Ne consegue, secondo la cennata sentenza della Consulta, che la
disciplina del procedimento a carico dei magistrati incolpati, prevista
dall’art. 34 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), si svolge secondo moduli giurisdizionali in base al principio
costituzionale di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della
magistratura sancito dall’art. 101 della Costituzione. Quindi, esso non
è comparabile con il procedimento disciplinare degli altri settori della
pubblica amministrazione non privatizzata23, né con il procedimento
disciplinare previsto nell’impiego privato (o nell’impiego pubblico pri-
ROSSI, Sorvegliare e punire…”, in Quest.giustizia, 2004, n. 5, 831; v. anche G.
ICHINO, Le denunce nei confronti di magistrati tra strumentalità e sottovalutazione, in
Quest. giustizia, n. 6, 1127 ss.
22
C. cost., 19 maggio 2008 n.182, in www.cortecostituzionale.it. In terminis C.cost.,
n.145 del 1976.
23
In terminis C.cost., n. 289 del 1992.
21
153
vatizzato), ove la natura dell’iter punitivo non è né giurisdizionale, né
amministrativo (come lo è invece per il procedimento disciplinare dei
magistrati amministrativi e contabili e per gli Avvocati dello Stato),
ma è negoziale, in quanto rinviene il suo fondamento e la sua regolamentazione nella contrattazione collettiva recepita nei contratti individuali di lavoro, che attribuisce pattiziamente al datore tale potestà
sanzionatoria a fronte di inadempimenti contrattuali del lavoratore.
Qualsiasi riforma dei sistemi (ad oggi differenziati) disciplinari
delle carriere magistratuali, volta all’individuazione di un unitario organismo competente su qualsiasi magistrato (andrà poi vagliata la
possibilità di estendere la competenza punitiva anche agli Avvocati
dello Stato, appartenenti in senso più ampio a carriera magistratuale)
dovrà dunque porsi il prioritario problema della natura giuridica da attribuire al relativo procedimento: giurisdizionale (come attualmente
ha per i magistrati ordinari e militari) o amministrativa (come attualmente ha per i magistrati amministrativi e contabili e per gli Avvocati
dello Stato).
L’attribuzione all’ipotizzato (e allo stato non esistente) unitario
procedimento disciplinare intermagistratuale (di competenza di un
novello organo a composizione mista) di natura giurisdizionale urterebbe con il divieto di istituzione di giudici speciali sancito dall’art.102
della Costituzione (che andrebbe dunque pericolosamente riformulato)24 e porrebbe più complessi problemi sulla individuazione delle
norme di chiusura di riferimento in materia (codici sostanziali e procedurali penali o civili?), mentre il più agevole riconoscimento di una
natura amministrativa sarebbe più coerente con l’assetto costituzionale e più confacente alla ontologica funzione disciplinare (in tutti i
micro-ordinamenti esistenti), che, come detto, è attività procedimentalizzata di gestione del personale e non un processo interno.
Sul piano applicativo, la natura amministrativa e non giurisdizionale di un procedimento disciplinare e la natura provvedimentale (e
non giurisdizionale) del relativo provvedimento sanzionatorio, comporta rilevanti conseguenze, così schematizzabili:
24
Come è noto, attualmente gli unici giudici speciali legittimamente esistenti sono
quelli precostituzionali, come tali, non ricadenti nel divieto di istituzione di nuovi giudici speciali ex art. 102 cost., ma costituzionalmente suscettibili di mera revisione: è
ben noto l’indirizzo della Consulta sulla compatibilità tra «giudice speciale» previgente e Costituzione in ragione della non perentorietà del termine di cinque anni per la “revisione” (quella appunto prevista dall’art. 3, co. 5, lett. f, l. 14 settembre 2011 n. 148)
degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti previsto dall’articolo VI delle
disposizioni transitorie e finali della Costituzione.
154
a) applicabilità delle regole sul procedimento e sul provvedimento
amministrativo (motivazione, tempistica procedimentale, accesso,
contraddittorio etc.) sancite dalla l. 7 agosto 1990 n. 24125, che risultano non operanti (rectius operanti, ma sulla base di norme settoriali) in
procedimenti giurisdizionali;
b) non trasponibilità ai procedimenti amministrativi delle regole
del codice di procedura civile e penale previste per i procedimenti giurisdizionali (es. accompagnamento coattivo di testimoni; obbligo di
difesa tramite avvocati; dovere di giuramento per i testimoni, cause di
impedimento a comparire ex art. 486 c.p.c. etc.);
c) esperibilità dei rimedi amministrativi (non tanto il ricorso gerarchico ma soprattutto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica) accanto a quelli giurisdizionali nei confronti dei provvedimenti amministrativi punitivi, rimedi non utilizzabili a fronte di sanzioni aventi natura giurisdizionale. Tali rimedi amministrativi sono
oggi comunque esclusi per le materie non devolute al giudice amministrativo dall’art. 7, co. 8, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 10426;
25
Tra i tanti contributi sulla legge 241 del 1990 v. TENORE, Procedimento amministrativo e trattamento dei dati personali, in DE NICTOLIS, POLI, TENORE (a cura di),
Commentario al codice dell’ordinamento militare, vol. VII, Roma, EpC, 2010; DE LISE,
GAROFOLI, Codice dell’azione amministrativa e delle responsabilità, Roma, 2010; VIPIANA, Il procedimento amministrativo, nella legge n.241 riformata dalla l. n. 69 del
2009, Padova, 2010; NAVARO, Brevi cenni sulla riforma del procedimento amministrativo, in N.rass., 2009, f. 17, 1857 ss.; FIGORILLI, FANTINI, Le modifiche alla disciplina
generale sul procedimento amministrativo, in Urb.appalti, 2009, f.8, 916 ss.; TENORE,
Incidenza della nuova legge n. 241 del 1990 sulle pubbliche amministrazioni, Padova,
2006; DE ROBERTO, La legge generale sull’azione amministrativa, Torino, 2005; Aa.Vv.
(a cura di CARINGELLA, DE CAROLIS, DE MARZO), Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2005; CARINGELLA, SEMPREVIVA, Il procedimento amministrativo, Napoli, 2005; CARANTA, FERRARIS, RODRIGUEZ, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, 2005; Aa.Vv. (a
cura di M.A. SANDULLI, Riforma della l. 241/1990 e processo amministrativo, Atti del
convegno organizzato (in collaborazione tra l’Università Bocconi, Il Foro Amm.-TAR e
la Scuola per le professioni legali di Pavia) presso l’Università Bocconi di Milano il 25
maggio 2005, su “Riforma della l. 241/1990 e processo amministrativo: una riflessione a
più voci”, pubblicati sul supplemento al n. 6/05 del Foro Amm.-TAR., 2005.
26
Il codice della giustizia amministrativa, all’art. 7, co. 8, recita. “Il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa”. Tale inequivoco testo comporta il superamento del noto (e non condivisibile)
parere dell’adunanza generale del Consiglio di Stato 10 giugno 1999 n. 9 (in Foro amm.,
1999, 2166, con nota critica di TENORE, APICELLA, Corte di Cassazione e Consiglio di
Stato in contrasto sulla natura attizia o contrattuale delle determinazioni datoriali nel
rapporto di impiego pubblico privatizzato) che, in sede consultiva, ammise l’esperibilità
del ricorso straordinario avverso determine gestionali nel pubblico impiego privatiz-
155
d) esercitabilità dell’autotutela (revoca, modifica, annullamento,
sospensione di atti: v. art. 21-bis seg., l. n. 241 del 1990) nei confronti
di provvedimenti amministrativi (ovvero le sanzioni inflitte) eventualmente illegittime, potere precluso in sede giurisdizionale;
e) non sollevabilità di questioni di illegittimità costituzionale in
sede procedimentale-amministrativa, essendo ex lege (art. 1, l. 9 febbraio 1948 n. 1, art. 23, l. 11 marzo 1953 n. 87) consentita la rimessione alla Consulta solo “nel corso di un giudizio innanzi ad una autorità giurisdizionale”;
f) non necessità di una difesa tecnica da parte di un avvocato, imposta per i processi ma non per i procedimenti amministrativi27;
g) inapplicabilità alle sanzioni disciplinari–provvedimenti amministrativi degli istituti della amnistia, grazia, indulto e condono, che riguardano le sole sanzioni penali28;
h) inapplicabilità della sospensione feriale dei termini ex art.1, l. 7
del ricorso straordinario avverso determine gestionali nel pubblico impiego privatizzato.Tale infelice approdo consultivo del Consiglio di Stato è stato ribadito in successivi pareri e, da ultimo, da Cons.St., ad.plen., 22 febbraio 2011 n. 288 (in www.lexitalia.it, 2011, n. 3, con nota di VIRGA) che tuttavia, correttamente, ritiene non più esperibile il ricorso dopo la novella dell’art. 7, co. 8, d.lgs. n. 104 del 2010.
27
Il punto è rilevante alla luce della differente natura giuridica del procedimento disciplinare per i magistrati ordinari (natura giurisdizionale) e amministrativi/contabili (natura amministrativa): solo nel primo caso la difesa da parte di un avvocato
è doverosa, come oggi statuito dall’art. 22, co. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006 che ha recepito agli indirizzi della Consulta che, con sentenza 16 novembre 2000 n. 497 (in
www.cortecostituzionale.it), aveva statuito l’illegittimità del previgente art. 34, co. 2,
r.d. 31 maggio 1946 nella parte in cui escludeva che il magistrato ordinario sottoposto a procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato. Tuttavia, con
discutibile sentenza con sentenza 27 marzo 2009 n.87 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 34, secondo comma, della legge 27 aprile 1982,
n. 186 e 10, comma 9, della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui escludono
che il magistrato amministrativo o contabile, sottoposto a procedimento disciplinare, possa farsi assistere da un avvocato. Ha ritenuto la Corte che in base all’art.108
cost. la garanzia dell’indipendenza del magistrato rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida.
È necessario, dunque, che siano adottate tutte le misure volte a evitare ogni indebito
condizionamento. Tra queste misure rientrano quelle dirette ad assicurare un’efficace difesa.
28
Le disposizioni in tema di concessione di amnistia ed indulto (nella specie,
d.P.R. 16 dicembre 1986 n. 865) non sono suscettibili di applicazione analogica in materia di infrazioni e sanzioni disciplinari a carico di magistrati, alla stregua delle distinzioni ontologiche di questa rispetto ai reati ed alle sanzioni penali: Cass., sez.un.,
23 dicembre 1988 n.7035, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 12.
156
ottobre 1969 n. 742, che riguarda il solo processo innanzi al giudice e
non il procedimento amministrativo (anche se, incredibilmente ed illegittimamente, tale sospensione è oggi prevista…..con deliberato del
Consiglio di Presidenza, per il procedimento disciplinare dei magistrati contabili avente natura amministrativa!);
i) esclusione della costituzione di parte civile nel procedimento disciplinare avente natura di procedimento amministrativo del soggetto
(cliente, collega etc.) danneggiato dal lavoratore o dal libero professionista, non trattandosi di un processo;
j) inipotizzabilità di un patteggiamento processual-penalistico in
un procedimento disciplinare di natura amministrativa (salvo previsione settoriale di similari istituti: si pensi all’oblazione prevista nel regime disciplinare notarile o al patteggiamento disciplinare del regime
contrattuale del pubblico impiego privatizzato);
k) natura non pubblica delle sedute dell’ufficio disciplinare, in
quanto la regola della pubblicità delle udienze vale (salvo eccezioni)
per i processi e non per i procedimenti amministrativi (salvo eccezioni previste da legge o da regolamenti interni).
Sul piano concettuale e teorico, la distinzione tra processo e procedimento amministrativo, da cui derivano i predetti corollari, è
chiara e netta per i procedimenti disciplinari (amministrativi) dei
magistrati contabili, amministrativi e degli Avvocati dello Stato. Tuttavia, per lo specifico attuale procedimento disciplinare concernente
i magistrati ordinari (e militari), la distinzione si attenua, desumendosi dalla concreta regolamentazione normativa, anteriore e successiva alla novella del 2006, una natura atipica e quasi ambivalente dell’istituto. Difatti quello nei confronti dei magistrati ordinari (a differenza di quello concernenti i magistrati amministrativi e contabili,
avente inequivoca natura amministrativa) è notoriamente un procedimento disciplinare avente una discussa natura29, da taluni definita
“ibrida”, ma sempre avvicinata dalla giurisprudenza costituzionale e
della Cassazione, e da ultimo dalla predetta sentenza n. 182 del 2008
della Consulta, a quella giurisdizionale e non amministrativa: ne
29
Sul problema della natura giuridica del procedimento disciplinare per i magistrati ordinari tra i numerosi contributi v. BIONDI, La responsabilità del magistrato.
Saggio di diritto costituzionale, Milano, 2006, 266 ss.; DAL CANTO, La responsabilità disciplinare del magistrato nella giurisprudenza costituzionale, in AA.VV. (a cura di
VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 163 ss.
157
sono conferma i pregressi frequenti richiami del giudice delle leggi30
a “paradigmi di carattere giurisdizionale” che connotano il peculiare
procedimento sanzionatorio per i magistrati e i richiami nella relativa regolamentazione, ma nei limiti della compatibilità31, alle norme
processuali applicabili (v. il richiamo al c.p.p. contenuto nell’art.16,
co. 2 e 3, d.lgs. n.109 per le indagini disciplinari, o nell’art.18, co.4 e
5 per il dibattimento disciplinare), o la proponibilità di questioni di
legittimità costituzionale da parte della commissione disciplinare del
C.S.M., oggi testualmente prevista (art. 15, co. 8, lett. b, d.lgs. n. 109
cit.) ma già in passato ritenuta possibile32. Ulteriori evidenti indici
sintomatici della natura giurisdizionale del procedimento svolto innanzi al C.S.M. sono dati dalla natura pubblica delle udienze (salvo
eccezioni, mentre per le magistrature speciali il procedimento amministrativo disciplinare viene svolto a porte chiuse), dalla ricorribilità delle pronunce innanzi alla Cassazione a sezioni unite, dalla possibile difesa tramite avvocati, dalla terzietà decisoria dei componenti della sezione disciplinare, rimarcata dalla Consulta in caso di annullamento con rinvio della sanzione al medesimo organo punitivo
ma in diversa composizione33.
Per una panoramica sulle numerose sentenze della Corte costituzionale che
hanno affermato una tendenziale assimilazione tra procedimento disciplinare e quello
giurisdizionale, senza però mai una piena sovrapposizione, si rinvia all’accurato studio
di DAL CANTO, La responsabilità disciplinare cit., 165 ss. Sulla natura giurisdizionale
del procedimento disciplinare che si svolge davanti all’apposita sezione del C.S.M., diversa da quella amministrativa propria dei procedimenti innnanzi al plenum del
C.S.M., v. Cass., sez. un., 11 febbraio 2003 n.1994, in Foro it..
31
Sulla applicabilità del c.p.p. nei limiti della compatibilità v. C. cost., 22 luglio
2003 n. 262, in in Foro it., 2003, I, 3225.
32
Sulla legittimazione riconosciuta alla sezione disciplinare del C.S.M. a sollevare questione di illegittimità costituzionale ex pluribus C. cost., 26 ottobre 2007 n. 356,
in Foro it., 2007, I, 3333; C.S.M., sez. disc., ord. 24 ottobre 2008, in Foro it., 2008, III,
45; id., sez. disc., 16 settembre 1994, ivi, 1995, III, 58 con osservazioni di GROSSO. In
dottrina ROMBOLI, La Corte costituzionale compie cinquant’anni: Corte ed autorità giudiziaria, ivi, 2006, V, 324.
33
Come è noto, la Consulta, con decisione 22 luglio 2003 n.262 (in Foro it., 2003,
I, 3225, Giust. civ., 2003, I, 2324), ha affermato che è costituzionalmente illegittimo
l’art. 4 l. 24 marzo 1958 n. 195, nel testo modificato dall’art. 2, l. 28 marzo 2002 n. 44,
nella parte in cui non prevede l’elezione da parte del Consiglio superiore della magistratura di ulteriori membri supplenti della sezione disciplinare. Premesso che sussiste
un interesse costituzionalmente protetto a che il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, il cui svolgimento in forme giurisdizionali è affidato alla sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che costituisce emanazione del
medesimo Consiglio, si svolga in modo tale da non ostacolare l’indefettibilità e la con30
158
La dottrina ha evidenziato che “il principio ispiratore della riforma, anche al netto delle modifiche apportate nel 2006, risulta essere
quello, peraltro condivisibile, della giurisdizionalizzazione ulteriore
del procedimento, ormai quasi interamente delineato sul modello di
quello penale”34. Del resto, anche sul piano testuale, l’art. 19 del d.lgs.
n. 109 conferma la natura giurisdizionale statuendo che “La Sezione
disciplinare provvede con sentenza, irrogando una sanzione disciplinare ovvero, se non è raggiunta prova sufficiente, dichiarando esclusa
la sussistenza dell’addebito. I motivi della sentenza sono depositati
nella segreteria della sezione disciplinare entro trenta giorni dalla deliberazione”. Tale sentenza ha, secondo la Cassazione, natura di sanzione amministrativa35.
tinuità della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio superiore e che detto interesse deve essere posto a raffronto con il principio di imparzialità terzietà della giurisdizione, espresso dagli art. 24 e 111 cost., le norme denunciate violano gli art. 3, 24 e 111 cost., sotto il profilo dell’imparzialità della giurisdizione, poiché non prevedono una soluzione organizzativa che impedisca, nelle ipotesi di annullamento con rinvio di una decisione della sezione disciplinare da parte
delle sezioni unite della Cassazione, che lo stesso collegio giudicante si pronunci due
volte sulla medesima “res iudicanda”; soluzione che deve essere individuata nella elezione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, in aggiunta ai membri supplenti della sezione disciplinare già previsti, di ulteriori componenti, in modo da consentire la costituzione, per numero e categoria di appartenenza, di un collegio giudicante diverso da quello che abbia pronunciato una decisione successivamente annullata con rinvio dalle sezioni unite della Cassazione.
34
DAL CANTO, La responsabilità disciplinare cit., 169.
35
Si segnalano recenti decisioni delle sezioni unite che affermano la natura amministrativa della sanzione inflitta all’esito del procedimento giurisdizionale: v. Cass.,
sez. un., 20 dicembre 2006 n. 27172, in Foro it., 2008, I, 923 e in Giust. civ. Mass.,
2006, 12, secondo cui in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, le sanzioni
disciplinari, sebbene applicate da un organo titolare di poteri giurisdizionali, costituiscono pur sempre sanzioni amministrative, alle quali non sono automaticamente riferibili i principi propri delle sanzioni penali, e che restano quindi sottoposte, in via generale, al principio di legalità ed irretroattività, il quale comporta l’assoggettamento della
condotta alla legge in vigore al tempo del suo verificarsi, con la conseguenza che, in
mancanza di un’espressa previsione, non può trovare applicazione il principio di retroattività della legge successiva più favorevole. Tale principio, in particolare, non è invocabile, in riferimento al nuovo regime della responsabilità disciplinare introdotto dal
d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, in virtù della disciplina transitoria di cui all’art. 32-bis,
inserito dall’art. 1, co. 3, lett. q, l. 24 ottobre 2006 n. 269, il quale, nel far salvo il principio che la nuova normativa si applica solo ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla sua entrata in vigore, si limita a stabilire che per i procedimenti promossi successivamente, ma aventi ad oggetto fatti commessi in epoca anteriore, continua
ad applicarsi la normativa precedente, solo se più favorevole.
159
La fase a monte del procedimento disciplinare in senso stretto,
ovvero quella delle indagini preliminari tese ad apprezzare la reale
esistenza di fatti aventi gli estremi per essere qualificati illeciti disciplinari (es. attività di accertamento del Procuratore Generale ex art.
15, co.1, d.lgs. n. 109; attività ispettiva del Ministro della Giustizia, attività ispettiva dei Consigli di Presidenza per le magistrature speciali)
ha invece natura inequivocabilmente amministrativa al pari di ogni
ulteriore attività del plenum del C.S.M., con i corollari che ne derivano anche in punto di giurisdizione, anche se gli atti prodromici ed endoprocedimentali sono notoriamente non impugnabili in giudizio per
carenza di interesse “attuale” (impugnabile è solo la sanzione disciplinare che recepisca erronee conclusioni della pregressa attività
ispettiva).
Come detto, la natura giurisdizionale del giudizio innanzi alla sezione disciplinare del C.S.M. è rimarcata dalla Cassazione in numerose sentenze in cui si rimarca la differenza dal procedimento, di natura amministrativa, svolto innanzi ai Consigli di Presidenza delle magistrature speciali36.
In estrema sintesi, come ebbe a dire la Corte costituzionale nella
sentenza 22 luglio 2003 n. 26237, il procedimento disciplinare per i ma36
I provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza del Consiglio di Stato, in esito
a procedimento disciplinare a carico di magistrato amministrativo (come gli analoghi
provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza della Corte dei conti), sono atti amministrativi, non giurisdizionali, e, quindi, non sono impugnabili con ricorso alle sezioni
unite della Corte di Cassazione, considerato che il richiamo delle norme del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari, operato dall’art. 32 l. 27 aprile 1982 n. 186, non vale ad attribuire al predetto consiglio di presidenza natura di organo giurisdizionale (natura spettante alla sezione disciplinare del consiglio superiore
della magistratura), e che, inoltre, la non esperibilità del suddetto ricorso non implica
lesione del diritto di difesa dell’interessato (art. 24 cost.), restando le sue posizioni tutelabili in sede giurisdizionale davanti al giudice amministrativo: Cass., sez. un., 20
aprile 2004 n. 7585, in Giust. civ., 2005, 4, I, 1059; id., sez. un., 10 aprile 2002 n. 5126,
in Giust. civ., 2002, I, 2169, con nota di SALVATO; id., sez. un., 20 settembre 2000
n.1049, in Foro it., 2001, I, 2322; id., sez.un., 1 ottobre 1999 n. 710, in Foro it., 1999,
I, 2809; id., 11 dicembre 1992 n. 871, in Foro it., 1993, I, 2898 con nota di CARUSO e
in Cons. Stato, 1993, II, 727.
37
C. cost., 22 luglio 2003 n. 262, in Foro it., 2003, I, 3225, secondo cui “Fermo dunque il presupposto della spettanza del potere disciplinare al Consiglio superiore, il legislatore, nell’attribuirne l’esercizio alla Sezione disciplinare, è stato indotto a “configurare il procedimento disciplinare per i magistrati secondo paradigmi di carattere
giurisdizionale” dall’esigenza precipua di tutelare in forme più adeguate specifici interessi e situazioni connessi allo statuto di indipendenza della magistratura (sentenze n.
497 del 2000 e n. 289 del 1992). I caratteri giurisdizionali del procedimento disciplina-
160
gistrati “pur ispirandosi ad un modello giurisdizionale, ha profili
strutturali e funzionali del tutto tipici e peculiari”.
Come detto, la corretta soluzione del problema ontologico della
natura del procedimento disciplinare attribuito ad unitario organo intermagistratuale dovrà essere punto di partenza per qualsiasi riforma
e presupposto per la successiva fissazione delle regole (procedimentali o processuali) sul concreto funzionamento dello stesso.
3. I principi portanti del procedimento disciplinare:
a) obbligatorietà dell’azione disciplinare e della segnalazione
disciplinare; b) proporzionalità sanzionatoria e divieto di
automatismi punitivi; c) parità di trattamento; d) tempestività
Come si è in precedenza anticipato, il procedimento disciplinare
sia nelle magistrature, sia nell’ambito delle libere professioni, sia nel
diritto del lavoro, pubblico o privato, civile o militare, si fonda su alcuni principi portanti, che possiamo definire il “minimo comun deno-
re non comportano peraltro, in base alle sue peculiarità e finalità, un riferimento automatico alle norme del processo penale, “l’utilizzo dei cui moduli procedurali (d’altronde previsti solo in via integrativa dagli artt. 32 e 34 del r.d.lgs. n. 511 del 1946) non
è affatto sintomatico di una coincidenza che abiliti ad assimilarne i presupposti e a
confrontarne gli esiti” (sentenza n. 119 del 1995). In realtà, il procedimento disciplinare, pur ispirandosi ad un modello giurisdizionale, ha profili strutturali e funzionali del
tutto atipici e peculiari, come, in particolare, dimostra la fase della decisione, che è demandata ad un apposito collegio elettivo – alla cui scelta partecipano anche i due magistrati titolari delle funzioni di vertice della Corte di cassazione – composto in prevalenza da “pari”, in funzione di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, mentre la relativa pronuncia è sottoposta ad un regime di impugnazione costituito dal ricorso diretto alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza
n. 289 del 1992).
La peculiarità e l’atipicità del procedimento disciplinare trovano giustificazione
essenzialmente nel fatto che esso si incentra necessariamente sulla Sezione disciplinare, espressione diretta – “emanazione” – del Consiglio superiore della magistratura
(sentenza n. 145 del 1976), cosicché sussiste un interesse costituzionalmente protetto
a che il procedimento stesso, comunque configurato dal legislatore ordinario, si svolga in modo tale da non ostacolare l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio superiore”.
In terminis C.cost., n.12 del 1971, che parla della decisione della sezione disciplina del C.S.M. come “sentenza” impugnabile innanzi alle sezioni unite della Cassazione
e del procedimento disciplinare che si svolge “secondo forme, modi e garanzie tipiche
della funzione giurisdizionale”.
161
minatore” di qualsiasi sistema disciplinare. Tali principi dovranno essere il basilare punto di partenza per qualsiasi riforma dell’attuale assetto del regime disciplinare nelle carriere magistratuali. La creazione
di un unitario organo intermagistratuale dovrà dunque rispettare,
nella sua regolamentazione, alcune fondamentali regole, così schematizzabili:
a) l’obbligatorietà dell’azione disciplinare e della segnalazione disciplinare. A differenza di quanto previsto nell’impiego privato, dove la
scelta datoriale di sanzionare o meno il lavoratore è discrezionale (nei
limiti del divieto di discriminazioni e del rispetto della parità di trattamento) in quanto espressiva di prerogative manageriali (c.d. valutazione costi-benefici)38, nell’impiego presso la p.a. l’azione disciplinare
è obbligatoria, in quanto rispondente ai principi costituzionali di buon
andamento della p.a. e di legittimità dell’azione amministrativa, al cui
doveroso perseguimento è ostativa la impunita tolleranza di fenomeni
di illegalità all’interno dell’apparato pubblico39. La mancata attivazione di procedimenti disciplinari (per buonismo, per indolenza, per corporativismo, o addirittura per dolo), o il loro immotivato abbandono,
può dunque originare responsabilità disciplinari, amministrativo-contabili, e, forse, anche penali in capo all’inerte organo titolare dell’azione disciplinare, come ribadito nel pubblico impiego dal recente d.lgs.
n. 150 del 2009 che ha introdotto l’art. 55-sexies nel d.lgs. n. 165 del
2001, sancente la responsabilità disciplinare dei dirigenti che non attivano o archivino immotivatamente i procedimenti40.
Pertanto, assai opportunamente, il principio, già confermato per
tutte le carriere magistratuali dall’art. 9 della l. 13 aprile 1988 n. 117
(Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati)41, con la riforma del 2006,
Cass., sez. lav., 25 luglio 1984 n. 4382, in Mass. giur. lav., 1985, 444.
Sul punto v. la dottrina citata in TENORE, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano, 2010, 42.
40
Cfr. TENORE, Il procedimento cit., 43.
41
Secondo l’art. 9, l. n. 117 del 1988 “1. Il procuratore generale presso la Corte di
Cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi
devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno
dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta, entro due
mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5. Resta ferma la facoltà del
Ministro della giustizia di cui al secondo comma dell’articolo 107 della Costituzione. 2.
Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa”.
38
39
162
è stato specificamente ribadito, ma nei limiti infraprecisati, per i magistrati ordinari: difatti, mentre ai sensi dell’art. 14, co. 2 “Il Ministro
della giustizia ha facoltà di promuovere, entro un anno dalla notizia
del fatto, l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione”, in base all’art. 14, co. 3
“Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha l’obbligo di
esercitare l’azione disciplinare, dandone comunicazione al Ministro
della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura, con indicazione sommaria dei fatti per i quali si procede”.
La norma è decisamente innovativa, in quanto tratto caratteristico della disciplina previgente era quello della discrezionalità dell’esercizio della relativa azione, la cui titolarità – ieri come oggi – era sia del
Procuratore generale della Corte di Cassazione, sia, attraverso il
primo, del Ministro della giustizia. Anche questo aspetto, in stretto
collegamento con l’altro dell’assenza di ogni tipizzazione dell’illecito,
aveva suscitato ampio dibattito in dottrina ed in sede politica per il
possibile uso strumentale dell’azione disciplinare un tempo discrezionale42.
I sostenitori del principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare ritenevano che, in una situazione ove i confini del lecito e dell’illecito erano sfumati per l’assenza di un codice dei fatti disciplinarmente rilevanti, l’attribuzione di un potere discrezionale nell’esercizio dell’azione rischiava di compromettere la certezza del diritto e la parità
di trattamento di tutti i magistrati e poteva favorire i meccanismi di
difesa o di persecuzione a seconda dei motivi più vari, per nulla inerenti al profilo deontologico, quali l’appartenenza a certe correnti del-
42
La Commissione bicamerale presieduta dall’on. D’ALEMA aveva previsto nei
suoi lavori preparatori l’azione disciplinare obbligatoria: v. ROSSI, La giustizia disciplinare, in Questione Giustizia, “Giustizia e Bicamerale”, 1997, 560 ss.; ZAGREBELSKY, La riforma dell’ordinamento giudiziario in Commissione bicamerale, in Foro It.,
1997, 5, 245 ss., ove si afferma molto criticamente: “la Commissione, che ha purtroppo preso le mosse dall’analisi della vicenda storica della Magistratura nell’ultimo cinquantennio svolta dall’on. Parenti nella seduta della Commissione del 12 febbraio
1997, a cui il Relatore on. Boato, in larga misura, si è associato ella seduta del 18
febbraio successivo, senza essere in grado di approvare proposte, non è però rimasta
improduttiva di effetti: essa, infatti, ha certificato la squalificazione del sistema giudiziario e dei frutti che esso ha dato. Dalla qualificazione del sistema alla cancellazione delle sentenze che ha prodotto il passo può essere breve. In ogni caso, chi volesse in futuro ottenere la seconda, troverebbe utile avere fin da ora provveduto alla
prima”.
163
l’Associazione Nazionale Magistrati, a certe ideologie o a certe posizioni politiche (o di politica giudiziaria).
Altri invece ammonivano sui rischi insiti nel principio di obbligatorietà dell’azione, affermando ad esempio che, se l’azione è obbligatoria, ogni esposto, ogni denuncia, ogni segnalazione, per quanto palesemente infondata o pretestuosa, diventa necessariamente oggetto di
analisi e di giudizio, con un meccanismo che può portare, da una
parte, ad aumentare vertiginosamente il lavoro della Procura generale
prima e della sezione disciplinare poi e, dall’altra, ad innescare la moltiplicazione di denunce, esposti, anche per ragioni di ritorsione,
confondendosi spesso la giusta e legittima pretesa di controllo sull’operato dei giudici con l’immediata iniziativa disciplinare (e penale),
anche in pendenza di rituale impugnazione, nei confronti di quei magistrati autori di decisioni non condivise43.
Altri ancora ritenevano che il principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare garantisse il principio di uguaglianza, ma a caro prezzo, perché esso elimina il margine di discrezionalità del Procuratore
generale funzionale a non intraprendere azioni per condotte di minima o nessuna rilevanza44.
Per questo, la legge n. 269 del 2006 ha opportunamente introdotto, fermo restando il cennato art. 14, co. 3, la previsione di cui all’art.
3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, secondo cui “l’illecito disciplinare non è
configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”: tale norma, unitamente alla tipizzazione degli illeciti, pur confermando, a contrario, la
generale obbligatorietà dell’azione disciplinare (art. 14, co. 3 cit.), allarga la latitudine dell’apprezzamento sulla sussistenza del fatto tipico
da parte del Procuratore Generale, ancorabile, a nostro avviso, al principio di offensività (in una accezione disciplinare e non penale: ergo
valutando l’offensività alla luce delle norme disciplinari sostanziali del
d.lgs. n. 109) delle condotte tipiche45.
43
L’A.N.M., nel documento a commento dello schema di decreto legislativo approvato in via provvisoria dal Consiglio dei ministri il 28 ottobre 2005 in tema di responsabilità disciplinare, esprimeva perplessità sul punto (Associazione Nazionale Magistrati, Osservazioni, in www.associazionemagistrati.it). In dottrina, v. IZZO, Dubbi
sulla tipicità di talune ipotesi riformistiche di illecito disciplinare nel contesto di una riflessione su etica e responsabilità della magistratura e nell’avvocatura”, in Libertà e autonomia nel futuro della magistratura, a cura di SCIACCA, 2005, 152; MELE, La responsabilità disciplinare dei magistrati, op. cit., 105 ss.
44
Così GIORDANO, Il procedimento disciplinare, op. cit., 284.
45
Sul punto FUZIO, L’azione disciplinare obbligatoria del procuratore generale, in
AA.VV. (a cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 33 ss.
164
Parimenti la discrezionalità propulsiva del Ministro, tradotta
legislativamente in una mera “facoltà” di iniziativa (art. 14, co. 2,
d.lgs. n. 109 del 2006), non esprime a nostro avviso una libertà assoluta, che potrebbe scadere in arbitrio o in disparità di trattamento, ma va ancorata alla ragionevole valutazione della concreta condotta a fronte dei più tassativi parametri di offensività introdotti
nel 200646. In sintesi, la “facoltà” di iniziativa testualmente attribuita al solo Ministro (e non già al Procuratore Generale) va sempre
letta alla luce del generale principio di “obbligatorietà” dell’azione
disciplinare ove i fatti evidenzino manchevolezze di verosimile rilevanza disciplinare: ne sono riprova le norme che consentono al Ministro di formulare l’incolpazione nei casi in cui il P.G. abbia richiesto al C.S.M. pronuncia di non luogo a procedere (art. 17, co. 6
e 7), o che abilitano il Ministro a chiedere l’estensione ad altri fatti
dell’azione disciplinare (art. 14) o l’integrazione della contestazione
(art. 17, co. 3).
Accanto alla obbligatorietà del promovimento dell’azione disciplinare da parte degli organi titolari, va rammentato il concorrente
e basilare obbligo di segnalazione di fatti di possibile valenza disciplinare ai suddetti organi da parte dei dirigenti dell’ufficio ove
opera il dipendente autore dell’illecito: senza tale basilare momento
conoscitivo-propulsivo l’azione disciplinare non ha inizio per carenza di notizia del fatto, che può essere appresa con tempestività e
puntualità solo da chi opera, con funzioni apicali, nel medesimo ufficio del magistrato negligente. Tale obbligo di segnalazione, già logicamente desumibile dal sistema, è stato testualmente ribadito per
i dirigenti pubblici privatizzati dai CCNL e per i magistrati ordinari dall’art. 14, co. 4, del d.lgs. n. 109, che sancisce “Il Consiglio superiore della magistratura, i consigli giudiziari e i dirigenti degli uffici hanno l’obbligo di comunicare al Ministro della giustizia e al
Procuratore generale presso la Corte di cassazione ogni fatto rilevante sotto il profilo disciplinare. I presidenti di sezione e i presidenti di collegio nonché i procuratori aggiunti debbono comunicare ai dirigenti degli uffici i fatti concernenti l’attività dei magistrati
della sezione o del collegio o dell’ufficio che siano rilevanti sotto il
profilo disciplinare”.
46
Sul tema MOGINI, L’azione disciplinare del Ministro della Giustizia, in AA.VV. (a
cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 22 ss.
165
Come si vede, i soggetti tenuti alla segnalazione sono molteplici e
l’inerzia nella segnalazione assume di per sé valenza disciplinare per i
soggetti a ciò obbligati ex lege.
b) La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti
commessi. Tale regola, valevole per tutto il diritto punitivo (sanzioni
penali, amministrative ex art. 11, l. n. 689 del 1981, etc.), è trasfusa,
per l’illecito disciplinare nel lavoro privato, nell’art. 2106 c.c., richiamato anche dall’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 per l’impiego pubblico47 ed è costantemente riaffermato dalla giurisprudenza per tutte le
carriere pubbliche, privatizzate o meno48.
Nel sistema disciplinare dei magistrati ordinari, il principio è
chiaramente recepito nell’art. 12, d.lgs. n. 109, che correla ciascuna
sanzione a tipologie di illeciti di varia e crescente gravità, tenendo
conto, a nostro avviso, anche di circostanze attenuanti e ravvedimenti post-factum o della recidiva.
Secondo univoca giurisprudenza la valutazione della gravità della
condotta dell’incolpato, anche sotto il profilo dell’entità della sua incidenza negativa sul prestigio dell’ordine giudiziario ed al fine della sanzione da infliggere, rientra negli apprezzamenti di merito della sezio-
47
Nel pubblico impiego gli stessi contratti collettivi, nel ribadire il principio
(v. art. 25, co. 1, CCNL Ministeri 1994-1997 confermato dai CCNL 2002-2005 e
2006-2009), forniscono poi i parametri, oggettivi e soggettivi, per giungere alla quantificazione della giusta (ergo proporzionata) sanzione, facendo riferimento, oltre che
all’eventuale recidiva o del concorso di persone nell’illecito, anche alla “intenzionalità
del comportamento, alla rilevanza della violazione di norme o disposizioni; al grado di
disservizio o di pericolo provocato dalla negligenza, imprudenza o imperizia dimostrate,
tenuto conto anche della prevedibilità dell’evento; all’eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti (generiche, n.d.a.); alle responsabilità derivanti dalla posizione di lavoro occupata dal dipendente; al concorso nella mancanza di più lavoratori in
accordo tra loro; al comportamento complessivo del lavoratore, con particolare riguardo
ai precedenti disciplinari, nell’ambito del biennio previsto dalla legge; al comportamento
verso gli utenti”.
48
Ex pluribus v. Cons.St., sez. VI, 9 novembre 2005, n. 6262 (in Foro amm.-CDS,
2005, 11 3376), secondo cui in materia di procedimento disciplinare, l’amministrazione ha il dovere di valutare, previo compiuto accertamento dei fatti, la gravità dell’infrazione commessa dal dipendente al fine di individuare, secondo criteri di proporzionalità e gravità, la giusta sanzione, all’uopo indicandone le ragioni con congrua motivazione; in particolare, qualora sia stata comminata la più grave delle sanzioni previste dal vigente ordinamento (destituzione), il provvedimento che la infligge deve essere assistito da una motivazione particolarmente rigorosa, puntuale e
completa, pena l’illegittimità dello stesso per violazione dell’art. 3 comma 1 l. n. 241
del 1990.
166
ne disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la cui valutazione non può essere oggetto di riesame in sede di ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, restando sindacabili solo la correttezza e la congruità della relativa motivazione49. Non mancano casi
in cui la Cassazione ha censurato il non congruo iter motivazionale
della sezione disciplinare50.
Corollario di tale principio, la cui inosservanza comporta l’annul49
Ex pluribus Cass., sez.un., 27 luglio 2007 n. 16625 e n. 16618, in Giust. civ. Mass.,
2007, 7-8 (nella seconda fattispecie, le Sezioni unite hanno confermato l’impugnata
sentenza disciplinare, ritenendola corretta e congruamente motivata, con la quale l’apposita sezione del C.S.M. aveva inflitto la sanzione dell’ammonimento a carico di un sostituto procuratore della Repubblica assegnato alla D.D.A, in relazione alla condotta
dell’incolpato consistita nell’aver rilasciato, nel corso di un procedimento dinanzi alla
sezione del riesame, una dichiarazione al difensore dell’imputato sottoposto a custodia
cautelare dal g.i.p. su richiesta della stessa D.D.A., nella quale aveva attestato il buon livello di collaborazione del detenuto, senza però informare della sua iniziativa i colleghi
dell’ufficio, il coordinatore della D.D.A. ed il Procuratore distrettuale); id., sez. un., 23
marzo 2007 n. 7102 (fattispecie relativa a prelievo ed esposizione sull’auto privata di paletta della Polizia di Stato da parte di magistrato del p.m. non nell’esercizio di compiti
istituzionali); id., sez.un., 7 febbraio 2007 n. 2685 (fattispecie di irrogazione della sanzione disciplinare dell’ammonimento ad un magistrato che, assieme al coniuge e al fratello, aveva costituito una società in accomandita semplice, rivestendo in essa la posizione di socio accomandante, la quale aveva proceduto all’acquisito di beni immobili
partecipando ad aste giudiziarie bandite presso il tribunale nel quale detto magistrato
svolgeva le funzioni di p.m.); id., sez. un., 20 dicembre 2006 n. 27172, in Foro it., 2008I,
923; id., sez. un., 5 maggio 2006 n.10313; id., sez.un., 19 settembre 2005 n. 18451; id.,
sez. un., 12 ottobre 2004 n. 20133; id., sez.un., 5 dicembre 2001 n.15422, in Giust. civ.
Mass., 2001, 2102; id., sez. un., 9 ottobre 2001 n. 12366, in Giust. civ. , 2001, I, 2619.
50
Per un caso recente, v. Cass., sez. un., 23 agosto 2007 n. 17919, in Giust. civ.
Mass., 2007, 7-8, secondo cui il ritardo nel deposito delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari, ancorché sia sistematico, non può da solo integrare un illecito disciplinare del magistrato dal momento che occorre anche stabilire se il ritardo in questione sia sintomo di mancanza di operosità oppure trovi giustificazione in situazioni
particolari (che l’incolpato deve tempestivamente dedurre in sede di procedimento disciplinare attivando così il potere-dovere della sezione disciplinare del C.S.M. di accertarne la veridicità probatoria) collegate alla complessiva situazione di lavoro del
magistrato tenendo presente i profili qualitativi e quantitativi nonché gli aspetti inerenti la complessiva organizzazione dell’ufficio e le funzioni (ordinarie e, eventualmente, straordinarie) svolte dal magistrato . (Nella specie, le Sezioni unite hanno cassato con rinvio la sentenza del giudice disciplinare con la quale era stata irrogata al magistrato incolpato la sanzione dell’ammonimento in relazione all’illecito disciplinare ricollegabile al ritardo reiterato nel deposito di 44 sentenze, tra penali e civili, di diversi
altri provvedimenti giurisdizionali conseguenti all’esercizio di ulteriori funzioni e all’omesso deposito di alcune altre sentenze, trascurando di considerare e di accertare il
carico di lavoro e le ulteriori plurime funzioni esercitate dal magistrato come ritualmente dedotte, così pervenendosi all’emanazione di una decisione con motivazione viziata, siccome inadeguata, essendosi risolta, in relazione alle giustificazioni prospettate dal ricorrente, unicamente nell’affermazione che “le ragioni addotte dall’incolpato
non erano sufficienti a giustificare i ritardi nel deposito dei provvedimenti”).
167
lamento della sanzione “eccessiva” (o, secondo alcuni, la possibile derubricazione-conversione della sanzione da parte del giudice51), è dato
dal divieto di automatismi sanzionatori: la Corte costituzionale ha più
volte ricordato che non è possibile introdurre nei sistemi disciplinari,
con legge o regolamenti (o contratti collettivi), sanzioni disciplinari
automaticamente conseguenziali a condanne penali, dovendo il titolare dell’azione disciplinare sempre rivalutare autonomamente (senza
soluzioni coartate o automatiche) i fatti già vagliati in sede penale per
coglierne i possibili profili disciplinari52 da giudicare secondo il predetto principio di proporzionalità. Tale ultima regola subisce però attenuazioni in taluni casi ove la sanzione disciplinare è imposta quale
riflesso coartato di pene accessorie penali53 (es. condanna penale comportante interdizione perpetua dai pubblici uffici; condanna superiore ad anni tre per reati contro la p.a. ex art. 32-quinquies c.p., introdotto dall’art. 5, l. n. 97 del 2001; sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale del libero professionista) o, per la sospensione cautelare, quale riflesso di misure penali restrittive della libertà. Per chiudere sul principio di proporzionalità in generale, l’entità minima e massima delle sanzioni disciplinari comminabili è frutto di scelta legislativa insindacabile sotto il profilo della incostituzionalità, come più
volte ribadito dalla Consulta54.
c) La parità di trattamento tra lavoratori in sede disciplinare. Il principio della uniformità di trattamento a fronte di condotte identiche
51
Sulla proporzionalità e sulla convertibilità della sanzione non proporzionata nella
“giusta” sanzione ex art.1424 c.c. applicabile anche agli atti unilaterali (quale la sanzione disciplinare) ex art.1324 c.c., v., nel pubblico impiego ed in quello privato, la dottrina
e la giurisprudenza citate da NOVIELLO-TENORE, La responsabilità cit., 31, 578 ss.
52
Non ogni illecito penale comporta ex se un illecito disciplinare e viceversa: il
fatto ritenuto penalmente rilevante potrebbe non esserlo sotto il profilo disciplinare o
potrebbe comportare sanzioni blande a fronte di condanne penali “pesanti”. Sulla autonomia dei due illeciti, si rinvia a FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO
(con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, 431.
53
Come evidenziato in altra sede (FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO, con il coordinamento di TENORE, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, cit., 431 ss.), la Corte costituzionale ha ritenuto costituzionalmente legittime le norme statuenti tali eccezionali automatismi disciplinari in quanto applicativi,
in sede interna, di pene accessorie statuite dal giudice penale, di cui il titolare dell’azione disciplinare non può che prendere atto senza alcun vaglio discrezionale.
54
Da ultimo, seppur con riferimento al previgente regime che prevedeva “l’ammenda” e non l’attuale “sanzione pecuniaria”, v. C.cost., 18 marzo 2005, n. 113, in Giur.
cost., 2005, 25; in terminis C. cost., 30 gennaio 2003, n. 18, in Giust. civ., 2003, I, 1177.
168
non opera nell’impiego privato, come la Cassazione ha più volte affermato stante l’intuitus personae delle valutazioni disciplinari e la difficoltà nel comparare comportamenti posti in essere in circostanze e
tempi diversi, ribadendo anche la discrezionalità datoriale nell’esercizio dell’azione disciplinare “privata”, con il solo limite del divieto di
trattamenti discriminatori55. Nell’impiego con datore pubblico e nel sistema disciplinare magistratuale invece, i principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento della p.a. e di terzietà decisoria degli
organi punitivi di natura giurisdizionale impongono il doveroso rispetto della parità di trattamento sanzionatoria, anche se è innegabile
che per l’organo punitivo (sez. disciplinare del C.S.M. o altro) individuare due casi identici, sotto il profilo soggettivo (dolo, colpa grave,
colpa), oggettivo (fatto storico) e delle circostanze è assai difficile, se
non impossibile. Un decisivo contributo per la piena ed uniforme applicazione di tale regola può esser dato da repertori e banche-dati dei
precedenti sulle sanzioni disciplinari inflitte in ciascun ordinamento
settoriale e sulle pronunce della magistratura, anche se è innegabile (e
le sanzioni inflitte dal C.S.M. ne sono un esempio emblematico) che il
giudizio su fatti identici, per alcuni comportamenti (soprattutto extralavorativi o non penalmente rilevanti) risente del sentire etico del momento storico e della evoluzione dei costumi56.
d) La tempestività dell’azione disciplinare.Come nell’impiego privato e in quello pubblico (privatizzato o meno), anche nel regime disciplinare magistratuale l’attivazione e la conclusione del procedimento
disciplinare deve essere tempestiva, e cioè immediata, per garantire
sia l’effettività del diritto di difesa dell’incolpato (dal momento che,
minore è il lasso di tempo tra la commissione della presunta infrazione ed il procedimento disciplinare, maggiore è la possibilità per l’in55
Sulla inconfigurabilità in generale del principio di parità di trattamento nell’impiego privato v. Cass., sez.un., 29 maggio 1993 n.6031, in Foro it., 1993, I, 1794, con
nota di MAZZOTTA; id., 17 maggio 1996 n.4570, ivi, 1996, I, 1989 e, con riferimento
specifico al potere disciplinare, Cass., sez.lav., 22 febbraio 1995 n.2018, in
Mass.giur.lav., 1995, 379. Sulla discrezionalità nell’esercizio del potere disciplinare privato Cass., sez. lav., 25 luglio 1984 n.4382, in Mass.giur.lav., 1985, 444.
56
Il riferimento, tra i tanti, è alle “relazioni extraconiugali” del magistrato con personale di cancelleria, condotta un tempo (anni ‘60) disciplinarmente censurata in
quanto in contrasto con il generale (e generico) principio dell’art.18, r.d. n.511, ed oggi
pacificamente irrilevante sotto il profilo disciplinare. V. le decisioni citate da FERRI,
Gli illeciti disciplinari fuori dall’esercizio delle funzioni, in AA.VV. (a cura di VOLPI), La
responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 83 ss.
169
colpato di reperire valide argomentazioni difensive e prove di supporto), che l’interesse dell’ordine di appartenenza ad una reazione congrua ed esemplare per i colleghi e per gli utenti del servizio (es. il servizio giustizia). Tale principio, ritenuto immanente nel sistema privato (ex art. 7, l. n. 300 del 1970, c.d. Statuto dei lavoratori), è stato formalmente codificato, nel pubblico impiego, oltre che sul piano giurisprudenziale57, nell’art. 55, co. 5, d.lgs. n. 165 del 2001 (che parla di
“tempestiva contestazione scritta degli addebiti”) e nei contratti collettivi, che hanno introdotto, come già in passato prima della privatizzazione aveva fatto il d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, una serie di termini, che cadenzano il procedimento disciplinare58. Nel regime disciplinare delle libere professioni il principio è codificato, oltre che nell’istituto della prescrizione (es. per i notai v. art. 146, l. n. 89 del 1913),
in varie norme settoriali.
Per le magistrature speciali il regime dei termini è assai lacunoso,
mentre per la magistratura ordinaria la regola della tempestività nell’inizio e nella conclusione dell’iter punitivo è ribadita:
– dall’art. 15, co.1-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, che ha introdotto
una sorta di “prescrizione” dell’azione (in passato sconosciuta) statuendo che “1-bis. Non può comunque essere promossa l’azione disciplinare quando sono decorsi dieci anni dal fatto”;
– dall’art.14 secondo il quale “Il Ministro della giustizia ha facoltà
di promuovere, entro un anno dalla notizia del fatto, l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al Procuratore generale presso la
Corte di cassazione”;
– dal successivo art. 15, che nei primi commi stabilisce che “1. L’azione disciplinare è promossa entro un anno dalla notizia del fatto,
della quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della
giustizia. La denuncia è circostanziata quando contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare. In difetto di tali elementi, la denuncia non costituisce notizia di rilievo disciplinare.
Sulla tempestività nell’impiego pubblico privatizzato v. da ultimo Cass., sez.lav.,
28 settembre 2006 n.21032, in www.italgiure.giustizia.it.
58
Termini cadenzano il procedimento disciplinare nell’impiego pubblico dal suo
inizio (contestazione entro 20 gg. o 40 gg. dalla conoscenza dei fatti) alla sua fine (60
o 120 gg. dalla contestazione), anche nei riflessi temporali di giudizi penali parallelamente (rectius pregiudizialmente) in corso.
57
170
(omissis). 2. Entro due anni59 dall’inizio del procedimento il Procuratore generale deve formulare le richieste conclusive di cui all’articolo
17, commi 2 e 6; entro due anni dalla richiesta, la sezione disciplinare
del Consiglio superiore della magistratura, nella composizione di cui
all’articolo 4 della legge 24 marzo 1958, n. 195, si pronuncia”.
L’art. 15 prevede poi numerosi termini infraprocedimentali ispirati al principio di immediatezza e tempestività.
Al successivo comma 7, l’art.15 cit. aggiunge che “Se i termini non
sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che
l’incolpato vi consenta”.
Gli art.14 e 15 fissando dunque termini decadenziali sia per il Ministro della Giustizia, sia per il Procuratore Generale (oltre che per il
C.S.M.) e tali termini sono da ritenere autonomi, non potendosi ritenere ragionevole il loro reciproco condizionamento da parte dei due
organi, atteso che nessun obbligo di reciproca comunicazione è previsto a carico dei due soggetti circa la pendenza di una segnalazione o
notizia di illecito disciplinare60.
Le norme si interessano, assai opportunamente, anche dell’individuazione esatta del dies a quo del termine decadenziale e si pongono
in sintonia, per il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, con la copiosa elaborazione giurisprudenziale che, nell’impiego
privato, ha riguardato, da un lato, la valutazione dell’immediatezza
dell’azione disciplinare, ancorandola alla conoscenza “piena” del
fatto61 e non alla ricezione di meri generici esposti e, dall’altro, la relatività del requisito dell’immediatezza, da accertare non in astratto, ma
in concreto, con riferimento ad eventuali peculiarità dell’infrazione ed
59
Tale termine biennale ci sembra eccessivo e non in sintonia con il principio di
tempestività. La critica è condivisa da DELLI PRISCOLI (intervento in AA.VV., a cura
di VOLPI, La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 54) il quale, in veste di Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ha predisposto una circolare “pungolatoria” indirizzata ai Procuratori preposti ad istruttorie disciplinari per invitarli a concluderle entro il più ragionevole termine semestrale. Ovviamente lo sforamento di tale
termine non potrà essere fatto valere in sede contenziosa dall’incolpato a fronte del più
lungo termine biennale inopportunamente fissato dal legislatore.
60
In terminis MOGINI, L’azione disciplinare del Ministro della Giustizia, in AA.VV.
(a cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 27 ss.
61
Ergo conoscenze lacunose, non supportate da minimali riscontri istruttori (es.
referti ispettivi, testimonianze, documenti) non originano un obbligo di promovimento del procedimento e di successiva contestazione dell’addebito da parte dei competenti organi, tenuti però ad un doveroso preliminare riscontro istruttorio.
171
ai tempi indispensabili per il relativo accertamento62. Tale indirizzo
teso ad ancorare il dies a quo alla conoscenza piena era stato confermato dalla giurisprudenza anche sotto la vigenza del pregresso regime
disciplinare magistratuale63, anche se tale conoscenza piena non richiede che i fatti stessi per essere oggetto di addebito debbano essere
già provati, e cioè già dimostrati nella loro veridicità. In generale, infatti, è proprio il procedimento disciplinare il luogo nel quale – attraverso l’espletamento dell’istruttoria prima sommaria e poi formale –
deve innanzi tutto accertarsi la effettiva sussistenza delle condotte o
dei fatti materiali addebitati al magistrato come illeciti. Diversamente
ragionando – e se cioè il procedimento disciplinare fosse preordinato
funzionalmente solo alla valutazione della rilevanza di fatti già aliunde accertati – sarebbero in buona sostanza inutili da un lato ogni attività d’indagine da parte degli Organi disciplinari successiva al promovimento dell’azione e dall’altro la previsione, nella normativa di settore, di mezzi istruttori (si pensi alle testimonianze) prioritariamente finalizzati all’accertamento dei fatti più che alla loro valutazione64.
Problematica appare poi l’individuazione del dies ad quem, che
qualifichi come “intrapresa” (tempestivamente) l’azione disciplinare: i
62
Sulla relatività (ragionevole elasticità) nell’interpretare il concetto di immediatezza v. la giurisprudenza citata da NOVIELLO-TENORE, La responsabilità cit., 186 ss.
È noto che nell’impiego privato la magistratura si è spesso soffermata sul principio di
immediatezza della contestazione ex art.7, l. 20 maggio 1970 n. 300, chiarendo che tale
requisito va inteso in senso relativo, dovendosi valutare la buona fede del datore ex art.
1175 e 1375 cod.civ. e, dunque, l’eventuale complessità delle indagini necessarie per
l’accertamento dell’illecito, e aggiungendo che il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore precludendogli una adeguata difesa: cfr., tra le
tante, Cass., sez. lav., 20 giugno 2006 n. 14115, in Giust.civ.Mass., 2006, 6; id., sez.lav.,
19 agosto 2004 n. 16291, ivi, 2004, 7-8; Cass., sez. lav., 17 giugno 2002 n. 8730; id.,
sez.lav., 23 novembre 1991, n. 12617, in Not.giur.lav., 1992, 244; Cass., sez.lav., 21 aprile 2001 n. 5947, in www.giust.it, n.5, 2001; id., 22 aprile 2000 n. 5308, in CED Cassazione, RV 535980; id., n. 11095 del 1997, ivi. Tale tesi, come già evidenziato, è recepita
nell’impiego pubblico privatizzato, da Cons.St., sez. IV, 1 marzo 2001 n. 1132, in
Cons.St., 2001, I, 519. La valutazione del giudice di merito, secondo la predetta Cassazione, è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva
di vizi logici.
63
Che la nozione di “notizia del fatto che forma oggetto dell’addebito” deve essere intesa come conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi – nel profilo oggettivo
– dell’illecito, con la conseguenza che non è idonea a far decorrere il termine annuale
l’acquisizione di dati insufficienti per una esauriente formulazione dell’incolpazione v.,
ad es., Cass., sez.un., n.7577 del 1995.
64
In terminis su fattispecie relativa a magistrato amministrativo v. Cons.St., sez.IV,
26 maggio 2006 n.3161, in www.giustizia-amministrativa.it.
172
primi commentatori65 e la stessa giurisprudenza66, ritengono che l’azione possa considerasi iniziata, a differenza di quanto ritenuto in
altri regimi disciplinari (ove l’inizio del procedimento coincide con la
contestazione degli addebiti67), indipendentemente dalla comunicazione all’interessato, sin dal momento in cui sia resa manifesta la volontà
dell’organo legittimato ad esercitare l’azione di procedere a carico dell’interessato: ciò si verifica nel momento stesso in cui il Ministro fa richiesta al P.G. di procedere (ai sensi dell’art. 14, co. 2, del d.lgs. n. 109)
o in cui quest’ultimo comunica al Ministro ed al C.S.M. l’inizio del
procedimento ai sensi dell’art. 14, co. 3, del citato d.lgs. n. 109”.
Si rinvia a studi specifici circa il rilevante problema della natura,
ordinatoria o perentoria, dei termini (non solo di quello iniziale e finale, ma anche di quelli infraprocedimentali ex art. 15, d.lgs. n.109)
che cadenzano il procedimento disciplinare in ossequio al principio di
immediatezza, oggetto di numerosi contenziosi nel pubblico impiego,
anche se va rimarcata la peculiare previsione, non riscontrabile in altri
ordinamenti disciplinari se non in quello dei magistrati contabili68 (ma
a nostro avviso anche in altri ordinamenti desumibile da una interpretazione logico-sistematica), secondo cui la decadenza della potestà
disciplinare correlata allo sforamento di termini perentori per la sua
attivazione o conclusione, non opera qualora l’incolpato non lo consenta (art. 15, co. 7, d.lgs. n. 109 cit.): la peculiare norma valorizza evidentemente il diritto del magistrato ad ottenere una assoluzione
piena, nel merito, in sede disciplinare, evitando la facile, ma non appagante, scappatoia procedurale decadenziale, a tutela imperitura
della propria immagine, lesa dal semplice fatto di essere stato sottoposto ad un procedimento sanzionatorio interno, nel quale l’interessato è giustamente libero di “urlare” e provare la propria innocenza nella
pubblica udienza di cui all’art. 18, d.lgs. n. 109.
Il periodo tra virgolette è tratto da FANTACCHIOTTI, FIANDANESE, Il nuovo
ordinamento giudiziario, Padova, 2008, 423 ss.
66
Cass., sez. un., 20 dicembre 2006 n.27172, in Foro it., 2008, I, 923; id., sez.un.,
21 luglio 2004 n.13602, ivi Rep., 2004, voce Ordinamento giudiziario.
67
Per la coincidenza dell’inizio del procedimento disciplinare con la contestazione degli addebiti v. TENORE, Gli illeciti disciplinari cit., 31.
68
Per i magistrati contabili, l’art. 6, co. 3 del regolamento interno n. 510/CP/2000
stabilisce che “il Presidente della Corte dei conti, se il Consiglio non ritiene di deliberare il proscioglimento, fissa la data della trattazione orale con decreto da notificarsi
all’incolpato – a cura (ancora una volta inopportunamente) dell’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio – almeno quaranta giorni prima di essa ma non oltre un anno
dall’inizio del procedimento disciplinare, pena l’estinzione di quest’ultimo sempre che
l’incolpato vi consenta”.
65
173
4. I principi portanti del procedimento disciplinare:
e) tassatività delle sanzioni e (tendenziale) tipicità degli illeciti;
f) gradualità sanzionatoria; g) contraddittorio procedimentale;
h) trasparenza del procedimento; i) terzietà dell’organo titolare
della potestà disciplinare; k) potestà disciplinare verso ex
appartenenti alla p.a. ed alla magistratura in particolare;
l) la corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti
sanzionati nel provvedimento punitivo finale
e) La tassatività delle sanzioni disciplinari e la (tendenziale) tipicità
degli illeciti. Come in altri rami del “diritto punitivo” (es. diritto penale69, sanzioni amministrative), anche in quello disciplinare le sanzioni
comminabili al magistrato, al lavoratore o dall’ordine professionale ai
propri affiliati sono un numerus clausus, per esigenze di certezza e in
ossequio al favor libertatis.
Queste ultime, previste dall’art.5 del d.lgs. n.109 del 2006 sono
oggi: a) l’ammonimento; b) la censura; c) la perdita dell’anzianità; d)
l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo; e) la sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni; f) la rimozione.
Le sanzioni previste per le magistrature speciali sono invece tassativamente indicate nei rispettivi (lacunosi) ordinamenti70.
Sanzioni inflitte al di fuori di tale elenco tipico sono pertanto illegittime. Ne consegue che l’uso “paradisciplinare” ed atipico di altre
misure gestionali da parte degli organi titolari della potestà sanzionatoria, quali il trasferimento di sede per incompatibilità ambientale si
presterebbe a censure in giudizio, come spesso avvenuto in passato
nell’impiego pubblico anteriormente alla privatizzazione.
In tutti i regimi disciplinari alla tassatività delle sanzioni non fa riscontro, come del resto nello stesso diritto penale, una tipicità-tassatività rigorosa degli illeciti punibili (c.d. infrazioni), né una riserva di
legge assoluta: sotto il profilo della tassatività, nei vari sistemi disciplinari a fronte di fattispecie estremamente puntuali, la normativa
Sulla tassatività delle sanzioni penali v. MANTOVANI, Diritto penale, Padova,
2007, 59 ss.
70
Sulle sanzioni previste per magistrati amministrativi e contabili e sulle lacune
sul punto v. FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di
TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè,
2010, 573 e 593.
69
174
prevede varie norme “a condotta libera”71. Inoltre, anche il rigore del
principio della riserva di legge viene mitigato dalla legittima introduzione di ulteriori illeciti da parte dei principi deontologici elaborati in
vari ordinamenti settoriali (che per i magistrati non assumono però
valenza disciplinare per espressa previsione del preambolo dei rispettivi codici).
Nel regime disciplinare concernente i magistrati ordinari, i politici (dei diversi schieramenti), gli studiosi del diritto ed anche molti magistrati lamentavano il dato di fatto che la previgente disciplina anteriore alla novella del 2006 – basata sulla c.d. atipicità dell’illecito disciplinare – non indicasse quali potessero essere i fatti costituenti infrazione ai doveri deontologici. La norma fondamentale in materia era
costituita dall’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, in base al quale si
aveva illecito tutte le volte che “il magistrato manchi ai suoi doveri o
tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della
fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il
prestigio dell’ordine giudiziario”.
In concreto, l’individuazione delle ipotesi di illecito spettava alla
sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura72. Questo organo giurisdizionale, seppur tenendo conto dei suoi stessi preSi pensi, nel regime disciplinare notarile all’art. 147, co.1, lett. b, l. n. 89 del 1913
che sanziona il notaio che “compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della
classe notarile”. I concetti di decoro e prestigio della classe notarile risentono, come in
altri ordinamenti professionali, dell’evoluzione sociale ed etica del Paese: un emblematico raffronto può essere effettuato leggendo i massimari della sezione disciplinare
del Consiglio Superiore della Magistratura dal 1960 ad oggi, per desumere l’evoluzione interpretativa, in sede disciplinare, di tali nozioni in relazioni a casistiche analoghe
verificatesi nel corso degli anni e che hanno avuto come protagonisti magistrati per
condotte lavorative e, soprattutto, extralavorative.
72
V. da ultimo Cass., sez.un., 1 luglio 2008 n. 17929, secondo la quale “lede il prestigio dell’ordine giudiziario, essendo ragionevolmente sussumibile nell’ambito della clausola generale di cui all’art. 18 r.d.l. n. 511 del 1946, il comportamento del magistrato che
si assenti dall’ufficio per molti mesi, chiedendo e ottenendo lunghi periodi di aspettativa
per motivi di salute o di congedo straordinario, e nello stesso periodo svolga attività sportiva, incompatibile con le lamentate condizioni fisiche, anche diffusa attraverso i mezzi di
informazione. (Sulla base del suddetto principio la S.C. ha confermato la sentenza di merito relativa a magistrato che, durante i suddetti periodi, si allenava alla partecipazione di
regata transoceanica)”; v. anche Cass., sez. un., 23 marzo 2005 n.6214, secondo la quale
“Ai fini della configurabilità dell’illecito disciplinare non è sufficiente il compimento, da
parte del magistrato, di atti scorretti o contrari alla legge, essendo altresì necessario che
tali atti siano idonei ad incidere negativamente sulla fiducia e considerazione di cui il magistrato deve godere, ovvero a compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario; il relativo
accertamento compete al giudice disciplinare ed è incensurabile in sede di legittimità se
71
175
cedenti giurisprudenziali e delle prassi applicative73, era del tutto libero così nella individuazione delle fattispecie come nell’applicazione
delle relative sanzioni e di esercizio di funzioni che, in passato, sono
state definite di carattere “paralegislativo”, con possibile rischio di uso
distorto o “domestico” della leva punitiva interna74.
Tale circostanza aveva fatto dubitare taluno persino della legittimità costituzionale dell’art. 18, con riferimento agli artt. 101, co. 2 e
108, co. 1, cost., i quali, nel sancire, rispettivamente, che “i giudici
sono soggetti soltanto alla legge” e che “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”, hanno introdotto in materia di ordinamento giudiziario una riserva assoluta di
legge che, inevitabilmente si estende alla individuazione normativa dei
principi della deontologia giudiziaria, ma la Consulta ebbe a dichiarare la costituzionalità della previsione75.
sorretto da adeguata motivazione”; Cass., sez.un., 15 ottobre 2003 n.15399, secondo la
quale “Stante l’ampia formulazione dell’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, per accertare se il comportamento del magistrato sia o no rilevante sul piano disciplinare, è legittimo il ricorso a modelli deontologici o clausole di carattere generale ai quali la condotta del magistrato deve uniformarsi, tanto più che una elencazione tassativa dei singoli divieti ed obblighi rischierebbe di rendere insindacabili atteggiamenti che, pur non essendo espressamente contemplati, sono tuttavia considerati riprovevoli dalla coscienza
collettiva o all’interno della categoria di cui fa parte l’interessato”.
73
A titolo meramente esemplificativo, i filoni di condotte extralavorative più di
frequente ritenuti in contrasto con l’art.18, r.d.lgs. n.511 da parte del C.S.M. sono stati
quelli concernenti abusi della qualifica professionale, frequentazioni assidue di pregiudicati o malfamati, assunzioni di incarichi extragiudiziari senza autorizzazione,
emissioni di assegni bancari privi di copertura, ricezione di ingenti somme in prestito
da avvocato con restituzione tardiva. Le stesse sono state sostanzialmente recepite nell’art.3, d.lgs. n.109 del 2006.
74
DEVOTO, Il ruolo del C.S.M., in L’ordinamento giudiziario, a cura di PIZZORUSSO, 1974, 279 ss. e, per certi aspetti v. ZAGREBELSKY, La responsabilità disciplinare dei magistrati: alcuni aspetti generali, in Riv. Dir. Proc., 1975, 416 ss.; contra Cass.,
sez. un., 20 novembre 1998 n.11732, che ha respinto definitivamente l’idea di una funzione sostanzialmente paranormativa da parte della sezione disciplinare, trattandosi di
attività autenticamente ermeneutica, dovendo il giudice disciplinare limitarsi a valutare se, nel caso concreto, il comportamento contestato sia sussumibile alla fattispecie
astratta descritta dall’art. 18; nello stesso senso, Cass., sez. un., 18 gennaio 2001 n.5;
id., 20 novembre 1998 n.11732; id., n. 359 del 16 gennaio 1998.
75
PERRONE, Diritto alla manifestazione del pensiero per gli appartenenti all’ordine
giudiziario e “processo catodico”: cosa cambia con la riforma della deontologia giudiziaria, op. cit., 461. C. cost., 7 maggio 1981 n. 100 (in Foro it., 1981, I, 2360), ha invece dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento
a detta norma. Per una completa ricostruzione della questione v. MELE, La responsabilità disciplinare dei magistrati, 1987, Milano, 51 ss.; FERRI, Gli illeciti disciplinari
fuori dall’esercizio delle funzioni, in AA.VV. (a cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 83 ss. con ampi richiami dottrinali.
176
Parte della dottrina, in particolare, affermava che l’assenza di una
tipizzazione degli illeciti disciplinari, per un verso, poteva impedire
nel relativo procedimento di perseguire effettivamente e di sottoporre
a sanzione i magistrati che avessero commesso abusi o scorrettezze
deontologicamente rilevanti, nell’esercizio o fuori delle loro funzioni;76
per altro verso, poteva però anche consentire che i magistrati fossero
arbitrariamente perseguiti attraverso un uso distorto, intimidatorio e
persecutorio dell’illecito disciplinare77. Assai discutibile era poi la valutazione come illecito, ai sensi del predetto art. 18, r.d.lgs. n. 511, di
talune condotte extralavorative78.
Dunque, la tipizzazione degli illeciti disciplinari, con o senza la
previsione di una norma di chiusura, era vista dai più come un’esigenza di razionalità del sistema che potesse, al contempo, garantire ed
assicurare la certezza del diritto e, a ciascun magistrato, la sua piena
indipendenza, esterna come interna al sistema del governo autonomo
della magistratura79.
Recependo tali critiche, la previsione di ipotesi tipizzate di illecito
disciplinare statuite dagli art. 2 (condotte lavorative) e 3 (condotte extralavorative) della novella del d.lgs. n.109 del 2006 (come modificata
dalla l. n. 269 del 2006) segna il passaggio da un sistema nel quale la
identificazione dei comportamenti sanzionabili era affidata alla capacità degli organi di governo della magistratura di rendersi interpreti
del comune sentire del corpo giudiziario, ad un diverso sistema ispirato al principio di legalità80, anche se la tipizzazione ha recepito in
76
V. per un excursus critico nei confronti del c.d. “lassismo” o “perdonismo” del
giudice disciplinare BRUTI LIBERATI, PEPINO, Autogoverno o controllo della magistratura?, 1998, 150 ss.
77
Anche l’A.N.M. si era espressa in un primo tempo, nel lontano 1975, in senso favorevole per l’obbligatorietà attraverso un’apposita proposta che prevedeva una serie
di ipotesi tipizzate di illecito disciplinare.
78
Sul tema FERRI, Gli illeciti disciplinari cit., 83 ss. con ampi richiami dottrinali.
79
Sez. Disc. C.S.M., n. 71 del 27 giugno 2008, secondo la quale “la tipizzazione degli
illeciti disciplinari era vista dai più come un’esigenza di razionalità del sistema che potesse, al contempo, garantire ed assicurare la certezza del diritto e, a ciascun magistrato,
la sua piena indipendenza, esterna come interna al sistema del governo autonomo. Le
prime applicazioni della nuova disciplina tipizzata degli illeciti stanno dimostrando diverse rigidità del sistema, che possono riverberarsi, a seconda dei casi, tanto in danno dell’incolpato, quanto in suo favore”.
80
DELLI PRISCOLI, La responsabilità disciplinare, in L’ordinamento giudiziario.
Itinerari di riforma, a cura di MAZZAMUTO, Jovene Ed., 2008, 140; MOROZZO DELLA
ROCCA, Disciplina giudiziaria: il d.lgs. n. 109 del 2006 e il trattamento più favorevole, in
Giust.civ., 2007, I, 348 ss. Per una rigorosa ricostruzione del passaggio dalla atipicità
177
gran parte indirizzi della sezione disciplinare del C.S.M., orientamenti delle Sezioni Unite della Cassazione, del codice deontologico approvato dall’ANM nel 199481, del disegno di legge Flick del 1996, a cui
sono state aggiunte nuove formulazioni82.
Non è stata prevista una “norma di chiusura” auspicata da parte
della dottrina, per cui la rigorosa tassatività renderà non punibili fatti
(soprattutto extralavorativi) ritenuti eticamente e socialmente disdicevoli, ma non censiti nelle norme predette, che potranno essere solo oggetto, in futuro, di eventuali integrazioni o rettifiche. Del resto il rischio di una rigorosa tipizzazione degli illeciti era stata ben evidenziata nella nota sentenza n.100 del 1981 della Consulta83 che ritenne legittimo il previgente art. 18, r.d. n. 511 cit.
Le prime applicazioni della nuova disciplina tipizzata degli illeciti dimostrano, invero, come questa sia più gravosa e più rischiosa per
il magistrato incolpato rispetto alla precedente. Prova ne sia che la Sedell’illecito disciplinare vagliato dalla commissione disciplina del C.S.M. al regime di
tipicità del d.lgs. n.109 del 2006, v. DAL CANTO, La responsabilità disciplinare del magistrato nella giurisprudenza costituzionale, in AA.VV. (a cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 141 ss.
Critico nei confronti della intervenuta tipizzazione, ritenendo preferibile il previgente sistema che richiedeva oltre al comportamento irregolare anche la lesione del
prestigio e del decoro della magistratura è BERRUTI, Il giudizio dinanzi alla sezione disciplinare del C.S.M., in AA.VV. (a cura di VOLPI), La responsabilità dei magistrati, Napoli, 2008, 55 ss. L’autore evidenzia come nell’attuale sistema la tipizzazione porta a ritenere non illecito ciò che non è previsto dalla legge e a non vedere fatti che potrebbero essere eticamente censurabili.
81
Sul codice deontologico adottato dall’Associazione nazionale magistrati e dalle
altre magistrature sulla base dell’art. 58-bis, d.lgs. n.29 del 1993 (oggi art. 54, d.lgs.
n.165 del 2001), FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, 340; AA.VV. (a cura di ASCHETTINO, BIFULCO, EPINEUSE, SABATO),
Deontologia giudiziaria, Napoli, 2006, con ricca bibliografia. Sui restanti codici deontologici adottati dalle altre magistrature v. i testi e le osservazioni pubblicate in Foro It.,
1996, III, 38.
82
Per un ragionato confronto tra le fattispecie previste nell’originaria versione
della l. n.109 del 2006 e quelle previste dalla novella apportata dalla l. n. 269 del 2006,
v. la dottrina citata da FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010 e da FANTACCHIOTTI, FIANDANESE, Il nuovo ordinamento giudiziario, Padova, 2008, 417, nt. 68.
83
C.cost., 1981 n.100, in Foro.it., 1981, I, 2360, affermò che è da escludere che
l’art. 18 della legge sulle guarentigie della magistratura si ponga in contrasto con gli
art. 101 comma 2, e 108 cost., poiché ogni previsione normativa in materia non può
non avere portata generale, in quanto una indicazione tassativa renderebbe legittimi
comportamenti non previsti ma egualmente riprovati dalla coscienza sociale.
178
zione disciplinare del C.S.M. ha più volte di recente affermato che il
raffronto in concreto tra il vecchio art. 18 e le nuove fattispecie tipizzate, al fine di stabilire quale sia la norma più favorevole per l’incolpato nel regime transitorio, si risolve sovente nel senso della applicazione della disciplina abrogata, che non prevedeva tra l’altro in nessun
caso un tetto minimo di sanzione e che assicurava comunque al giudice una più ampia discrezionalità nella effettuazione del concreto apprezzamento della lesione del prestigio dell’ordine giudiziario e della
credibilità della funzione giudiziaria esercitata, ma sul punto si attendono ulteriori interventi delle sezioni unite della Cassazione84.
f) La gradualità sanzionatoria. Il sistema sanzionatorio disciplinare deve ispirarsi alla progressiva e graduale crescita delle sanzioni
comminabili a fronte di comportamenti progressivamente più gravi.
Tale ascesa punitiva non deve prevedere salti logici tra una sanzione e
l’altra. Orbene, il sistema disciplinare per i magistrati ordinari (qualche dubbio nutriamo per il sistema per i magistrati amministrativi e
contabili e per gli Avvocati dello Stato) appare tendenzialmente ossequioso di tale principio, prevedendo una gamma sanzionatoria adeguatamente graduata: in base all’art.5 del d.lgs. n.109 del 2006 le sanzioni comminabili sono oggi: a) l’ammonimento; b) la censura; c) la
perdita dell’anzianità; d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo; e) la sospensione dalle funzioni da tre
mesi a due anni; f) la rimozione.
g) Il contraddittorio procedimentale. Un basilare principio, sostanziale e processuale, che caratterizza ogni procedimento punitivo, e,
dunque, anche quello disciplinare, quale che sia la sua natura nei vari
ordinamenti (giurisdizionale, amministrativo, contrattuale), è dato dal
contraddittorio, ovvero il diritto dell’incolpato di potersi difendere, venendo sentito o producendo prove e documenti, prima che l’organo titolare di potestà sanzionatoria adotti misure afflittive. Il principio,
espressivo del diritto alla difesa anche in sede procedimentale, ancor
prima che in sede processuale, si riscontra, oltre che nel regime disciplinare magistratuale, anche nell’impiego privato, nell’impiego pub84
Cfr. Sez. Disc. C.S.M., n. 38 del 18 aprile 2008; id., 22 febbraio 2008 n. 14. Sul
regime intertemporale tra vecchio e nuovo regime e sul principio di irretroattività del
nuovo procedimento, trattandosi di iter teso ad adottare sanzioni amministrative cui
non si applica la regola dell’effetto retroattivo della norma penale più favorevole sopravvenuta v. Cass. Sez. un., 20 dicembre 2006 n. 27172, in Foro it., 2008, I, 923.
179
blico e nei regimi disciplinari professionali. Anche la legge 7 agosto
1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, applicabile, come già
evidenziato, ai procedimenti disciplinari di natura amministrativa
(ergo ai magistrati amministrativi, contabili e agli Avvocati dello
Stato), ha codificato in via generale tale basilare principio di civiltà
giuridica (v. art. 7, 9, 10, 10-bis, 22 seg.) per ogni procedimento curato dalla p.a.
L’attuale sistema disciplinare per i magistrati ordinari è dunque
assai garantista e rispettoso del principio del contraddittorio, come lo
era anche nel previgente assetto anteriore alla novella apportata nel
2006. Ne sono evidente conferma: la previa contestazione degli addebiti prevista a pena di nullità (art. 15, co. 4 e 5, d.lgs. n. 109) e la connessa necessaria corrispondenza tra sentenza/sanzione e accusa/contestazione (v. il successivo punto l), l’ampia tutela difensiva con ampli
mezzi istruttori (art. 18, d.lgs. cit.), il possibile ricorso, per esigenze di
difesa, non solo a colleghi magistrati ma anche ad avvocati del libero
foro (art. 14, co. 4 cit.)85, che rappresenta una facoltà e non un obbligo (essendo possibile l’autodifesa come statuito anche dalla Consulta86), il pieno accesso agli atti del fascicolo disciplinare (art. 17, co.1).
Per le magistrature speciali la dottrina ha invece evidenziato alcune lacune procedimentali87.
h) La trasparenza del procedimento disciplinare. In perfetta sintonia con l’evoluzione del sistema legislativo verso la trasparenza della
pubblica amministrazione (v. l. 7 agosto 1990 n. 241) si pone anche il
procedimento disciplinare. Anche in quello magistratuale, la traspa85
Si rammenta che la Consulta, con sentenza 16 novembre 2000 n.497 aveva statuito l’illegittimità del previgente art. 34, co. 2, r.d. 31 maggio 1946 nella parte in cui
escludeva che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato. Sulla difesa del magistrato nell’attuale regime del d.lgs. n.109 v.
SAPONARA, La difesa dell’incolpato, in AA.VV. (a cura di VOLPI), La responsabilità dei
magistrati, Napoli, 2008, 45 ss.
86
Sulla assenza di un obbligo di difesa tecnica e sulla possibilità di autodifesa del
magistrato anche nel previgente regime v. C. cost., 13 aprile 1995 n.119, in Foro it.,
1995, I, 1401. Da ultimo Cass., sez. un., 20 dicembre 2006 n. 27172, ivi, 2008, I, 923. In
passato la Consulta (C. cost., 16 novembre 2000 n. 497, ivi, 2001, I, 383 con osservazioni di PANIZZA) aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, co. 2,
r.d.lgs. n. 511 del 1946 nella parte in cui escludeva che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato.
87
FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010,
573 ss.
180
renza-accesso agli atti è codificata dall’art.17, co.1, d.lgs. n.109 del
2006 secondo cui “Compiute le indagini, il Procuratore generale formula le richieste conclusive di cui ai commi 2 e 6 e invia alla sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura il fascicolo del
procedimento, dandone comunicazione all’incolpato. Il fascicolo è depositato nella segreteria della sezione a disposizione dell’incolpato,
che può prenderne visione ed estrarre copia degli atti”. Per le magistrature speciali, l’accesso è ribadito da norme settoriali, oltre che
dalla l. 7 agosto 1990 n. 241, pacificamente applicabile.
Può dunque affermarsi, in sintonia con pacifici approdi giurisprudenziali cui si è giunti in altri regimi disciplinari (e più in generale cui si è pervenuti sul tema del rapporto accesso-privacy) che il diritto di accesso agli atti del procedimento in esame da parte dell’interessato prevarrà, per la valenza costituzionale sottesa alla visione-acquisizione (diritto alla difesa: art.24, 103, 113 cost.), sulla riservatezza
di eventuali terzi (es. testimoni escussi in sede istruttoria, documenti
di terzi contenenti dati sensibili acquisiti agli atti etc.), come chiarito
sia dalla giurisprudenza amministrativa88, sia dall’art. 59, del T.U. sulla
privacy (d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196), sia dall’art. 24, co. 7, l. 7 agosto
1990 n. 241.
Più delicato, ma risolvibile ai sensi del sunteggiato indirizzo giurisprudenziale, è l’ulteriore problema della possibilità di accedere ad
atti del fascicolo disciplinare di altro soggetto (es.da parte di un collega, da parte di un avvocato, da un privato parte di un giudizio istruito dal magistrato sotto procedimento disciplinare). Va evidenziato che
il diritto all’accesso (ovvero a vedere documenti della p.a. ed ottenerne copia) non è una azione popolare spettante a chiunque, ma solo e
soltanto a chi abbia un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata o collegata al documento al quale è chiesto accesso” (art. 22, co. 1, lett. b, l. n. 241). Tale
interesse va dimostrato dal soggetto istante nella domanda di accesso
e, di solito, consiste nella prospettata necessità di difendersi in giudizio o di promuovere azioni (civili, penali, disciplinari, amministrativo-contabili) di tutela. A fronte della prospettazione di tale interesse
giuridicamente rilevante, l’amministrazione non ha alcun sindacato
88
Sul rapporto accesso-privacy, si rinvia a TENORE, L’incidenza della nuova legge
n. 241 del 1990 sulle pubbliche amministrazioni, Padova, 2006, 278 ss., con ampi richiami dottrinali e giurisprudenziali.
181
sulla veridicità o meno di quanto affermato, ma il titolare deve esternare le ragioni per cui intende accedere e, soprattutto, la coerenza di
tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto d’accesso è
preordinato.
Nei casi concreti sopra prospettati, non riterremmo esclusa in
capo al terzo (collega, avvocato o privato) l’esistenza di un interesse
giuridicamente rilevante all’accesso (che andrà esternato ella domanda), qualora il richiedente voglia utilizzare le acquisizioni concernenti atti (es. dichiarazioni di testi, risultanze ispettive) per difendersi in
analogo procedimento disciplinare o per prospettare, in un contenzioso pendente o imminente presso la Commissione disciplinare, che in
un caso similare il trattamento sanzionatorio della stessa per la medesima fattispecie è stato più benevolo89. Parimenti, in altro caso, l’autore di un esposto disciplinare nei confronti di un magistrato potrebbe avere interesse non già a sapere, per mera curiosità (non avente
giuridica rilevanza90), che esito abbia avuto la propria segnalazione,
ma ad acquisire elementi istruttori rilevanti per una parallela azione
civile-risarcitoria (o per un esposto penale) intrapresa o da intraprendere nei confronti del magistrato per i medesimi fatti sottoposti al vaglio disciplinare (o archiviati previamente dal Procuratore Generale o
dal Ministro), come più volte ribadito, in generale, dalla giurispruden-
89
Es. nel proprio procedimento è stata inflitta la destituzione, mentre in un precedente analogo è stata comminata la sospensione. Sul principio di parità di trattamento in sede disciplinare v. i rilievi sopra sviluppati. Per un caso concreto, nel pubblico impiego, v. TAR Lazio, Roma, sez. I, 1 giugno 2004, n. 5163 (in Foro amm.-TAR,
2004, 1693) secondo cui il dipendente pubblico sottoposto a procedimento disciplinare in corso che abbia interesse, per esigenze difensive, ad accedere ai documenti inerenti al distinto procedimento disciplinare celebratosi a carico di un terzo ha titolo all’ostensione documentale richiesta, senza che l’amministrazione possa opporgli generiche esigenze di riservatezza.
90
È correttamente motivato il diniego di accesso che dia conto della carenza di un
interesse concreto e attuale alla conoscenza degli atti di cui viene chiesta l’ostensione,
evidenziata dall’Amministrazione nel provvedimento impugnato, laddove si evidenzia
che gli atti richiesti non sono minimamente influenti sul procedimento disciplinare a
carico dell’istante e che l’intera istanza non risulta motivata a garantirle il diritto alla
difesa ma piuttosto a soddisfare una mera curiosità: TAR Lombardia, Milano, sez. III,
21 marzo 2006, n. 657, in Foro amm.-TAR, 2006, 3, 893.
L’autore di un esposto, in seguito al quale è stato dato avvio ad un procedimento
disciplinare a carico di un libero professionista, non è titolare di un interesse personale e concreto all’accesso ai relativi atti, poiché non è parte di detto procedimento, il
quale riguarda l’Amministrazione, l’incolpato e chi svolge l’attività accusatoria: TAR
Marche, Ancona, 30 marzo 2005, n. 274, in Foro amm.-TAR, 2005, 3, 698.
182
za91. Non è da escludere, dunque, anche un accesso al deliberato del
Procuratore Generale che, ritenendo non rilevante l’esposto92, lo abbia
archiviato, non inoltrando al C.S.M. richiesta di azione disciplinare.
i) Terzietà dell’organo titolare della potestà disciplinare. La creazione di un organo unitario intermagistratuale di disciplina nasce soprattutto per assicurare maggior terzietà decisionale, stante la varie91
In terminis, di recente, in materia di procedimento disciplinare nelle libere professioni, Cons. St., ad.plen., 20 aprile 2006, n. 7 (in Corriere del merito, 2006, 6, 815, con
nota di MADDALENA e in Guida al diritto, 2006, 20, 106, con nota di FORLENZA), secondo cui la qualità di autore di un esposto al quale abbia fatto seguito un procedimento
disciplinare a carico di un professionista è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi (l’aver proposto parallela azione civile nei confronti del professionista), a radicare nell’autore medesimo la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai
sensi dell’art. 22 l. n. 241 del 1990, legittima all’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare (coinvolgente terzi) che da quell’esposto ha tratto origine, né varrebbe affermare in senso contrario la circostanza che l’autore dell’esposto è rimasto
estraneo al procedimento disciplinare che ne è seguito (tale avversa tesi era stata in passato propugnata da Cons. St., sez. IV, 8 luglio 2003 n. 4049, in www.giustizia-amministrativa.it.; TAR Lazio, sez. III, 3 aprile 2002, n. 2720 secondo cui in linea generale, nei
riguardi dei documenti del procedimento disciplinare a carico di altri soggetti il terzo
che richieda di accedervi è privo di quella “situazione giuridicamente rilevante” prescritta ai fini dell’esercizio del relativo diritto dall’art. 22 comma 1, l. 7 agosto 1990 n.
241, poiché egli, ancorché autore di esposto, non è parte del predetto procedimento che
si svolge tra l’amministrazione, l’incolpato ed il “p.m. o altra figura similare).
In altra sentenza è stato affermato che il cliente di un avvocato, che ha presentato un esposto al Consiglio dell’ordine rappresentando alcune irregolarità e violazione
di obblighi professionali che sarebbero stati commessi dal legale nella cura di una pratica, ha diritto ad accedere agli atti del procedimento disciplinare avviato a seguito dell’esposto, non sussistendo ragioni di riservatezza del professionista, in quanto si tratta
di accedere non a dati sensibili ma ad atti aventi stretto riferimento ai rapporti contrattuali intercorrenti con il cliente: Cons. St., sez. IV, 5 dicembre 2006, n. 7111, in Foro
amm.-CDS, 2006, 12, 3290.
Altra pronuncia ha statuito che in materia di procedimento disciplinare a carico
di avvocati e procuratori, non sussiste violazione del dovere di riservatezza qualora sia
consentito l’accesso a documenti del procedimento disciplinare; infatti, il diritto di accesso ai documenti di procedimenti amministrativi, anche se disciplinari, previsto
dagli art. 21 ss. della legge n. 241 del 1990, compete a chiunque abbia un concreto e
apprezzabile interesse personale a prenderne visione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto
che tale interesse era stato correttamente riconosciuto al denunziante, un avvocato nei
cui confronti la collega incolpata aveva adoperato espressioni oltraggiose ed espresso
giudizi negativi): Cass., sez. un., 25 maggio 2001, n. 218, in Giust. civ. Mass., 2001, 907.
92
Occorre ribadire che i Consigli distrettuali, in base all’art. 153, co. 2, l. n. 89 (“Il
procedimento è promosso, senza indugio, se risultano sussistenti gli elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante”) e in base all’art. 267, r.d. 10 settembre 1914
n. 1326, hanno l’obbligo di effettuare un previo filtro valutativo sugli esposti nei confronti dei notai e sui fatti addebitati, prima di inoltrare richiesta di attivazione del procedimento disciplinare alle Co.re.di.
183
gata estrazione dei componenti dell’ipotizzato organo. Tuttavia, su un
piano generale valevole per ogni regime disciplinare, la terzietà dell’organo giudicante in sede disciplinare non è codificata da alcun principio costituzionale o legislativo, come accade invece nella diversa
sede processuale per il giudice. Nell’impiego pubblico ed in quello privato la potestà punitiva compete al datore di lavoro attraverso un suo
ufficio interno (l’ufficio procedimenti disciplinari): è dunque una
parte negoziale che, sulla base di previsione legislativa o contrattuale,
sanziona l’altra (il lavoratore) ed in caso di irragionevolezza o illegittimità della sanzione si ricorre al giudice. Parimenti nelle libere professioni la potestà disciplinare è riservata non ad un “organo terzo”, ma
allo stesso Consiglio dell’ordine, garante di interessi della stessa classe professionale93 o talvolta ad un organo misto (composto da professionisti interni e presieduto da un magistrato94).
Per i magistrati ordinari l’attribuzione della potestà disciplinare
all’organo di autogoverno interno, trova invece il suo basilare referente nella Costituzione che, all’art. 105, attribuisce al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario,
i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Le competenze in materia disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, come le altre competenze previste dall’art. 105 cost., traggono poi
il loro fondamento nel precedente art. 104 che, nel disporre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, pone l’organo consiliare a presidio di questi valori95.
93
Sulla legittimità di tale regime interno nel sistema disciplinare degli avvocati v.
DANOVI, Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato, Milano, 2005, 23.
94
Nel sistema disciplinare notarile si è prescelto un organo diverso dal Consiglio
(che può richiedere l’attivazione del procedimento punitivo ex art. 153, l. n. 89), ovvero le Co.re.di., organo elettivo, temporaneo e a composizione prevalentemente notarile con un Presidente di estrazione magistratuale. Non può dunque parlarsi di organo
terzo in senso stretto, dovendosi rinvenire la terzietà di tale peculiare organo sanzionatore, oltre che nella sua separazione strutturale e funzionale dai singoli consigli notarili distrettuali, nella terzietà tecnico-giuridica che lo connota: il pieno contraddittorio che caratterizza il regime disciplinare notarile e la serenità di giudizio fondata sulle
risultanze istruttorie esprimono e consentono la terzietà delle Co.re.di. che viene completata dalle norme sulle cause di incompatibilità dei membri eletti (art. 150-bis, l. n.
89 novellata) e sui criteri automatici di assegnazione dei procedimenti ai vari collegi
(art. 151, co. 3, l. n. 89), nonché dai principi deontologici sulla imparzialità e indipendenza dei notai nell’ambito degli organi di categoria (art.26, principi di deontologia
prof.le del 26 gennaio 2007).
95
Ne consegue che, per sottrarre al Consiglio superiore della magistratura le attribuzioni in materia disciplinare, andrebbe modificato, con l’art. 105 della Costituzione, anche l’art. 104.
184
La eclettica composizione dei componenti del C.S.M., la peculiare
estrazione professionale dei componenti togati che porta ad una “attitudine” alla terzietà e l’esistenza, dopo la riforma del 2006, di una più
tassativa formulazione degli illeciti, garantiscono a nostro avviso una
innegabile terzietà valutativa, che solo una occasionale distorta logica
protezionistica o correntizia potrebbe attenuare. Tale terzietà decisoria della sezione disciplinare del C.S.M., soprattutto in un procedimento avente natura giurisdizionale e non amministrativa (quello previsto per i Magistrati ordinari), è stata rimarcata anche dalla Consulta nell’affermare, in ossequio ai principi di imparzialità e terzietà della
giurisdizione, espresso dagli art. 24 e 111 cost., che è costituzionalmente illegittimo l’art. 4, l. 24 marzo 1958 n. 195, nel testo modificato
dall’art. 2, l. 28 marzo 2002 n. 44, nella parte in cui non prevede l’elezione da parte del Consiglio superiore della magistratura di ulteriori
membri supplenti della sezione disciplinare96.
Per le magistrature speciali la “serenità di giudizio” dei Consigli di
Presidenza in sede disciplinare deriva invece dalla presenza di componenti laici nella compagine giudicante. Tutto “interno” è invece il
procedimento disciplinare per gli Avvocati dello Stato, il cui C.A.P.S.
non ha componenti laici.
k) La permanenza della potestà disciplinare anche nei confronti di
ex magistrati. Il sistema disciplinare relativo ai magistrati anteriore
alla novella del 2006 presentava una peculiarità non riscontrabile nei
restanti sistemi disciplinari (p. impiego, libere professioni, impiego
privato): qualora il magistrato cessasse di appartenere all’ordine giudiziario (per dimissioni, per decadenza, per transito in altra amministrazione, per dispensa per infermità, per morte etc.) prima del passaggio in giudicato della pronuncia che applicasse la sanzione disciplinare, il ricorso in Cassazione avverso la sanzione diveniva inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse. Parimenti la sezione
disciplinare del C.S.M. non poteva più sanzionare l’ex dipendente cessato in corso di procedimento. Tale conclusione, ribadita dalle sezioni
unite della Cassazione in più occasioni97, ivi compreso il caso di
96
C. cost., 22 luglio 2003 n. 262, in Foro it., 2003, I, 3225 con osservazioni di SABATELLI, e in Giust. civ., 2003, I, 2324. Sulla terzietà decisoria del C.S.M. v. anche
Cass., sez. un., 11 febbraio 2003 n. 1994, in Foro it., Rep. 2003, voce Ordinamento giudiziario, n. 168.
97
Cass., sez.un., 12 aprile 2005 n. 7440, in D&G - Dir. e giust., 2005, 20, 45, e in
Giust. civ. Mass., 2005, 4; id., sez. un., 26 maggio 1995 n. 5806, in Giust. civ. Mass.,
1995, 1075; id., sez. un., 8 agosto 1991 n. 8639, Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 8.
185
morte98, era desunta, a contrario, dall’art. 19, u.co., r.d. 31 maggio 1946
n. 511 (abrogato oggi dall’art. 31, d.lgs. n. 109 del 2006) che non consentiva al magistrato incolpato di fatti punibili con la sanzione della
destituzione di sottrarsi al procedimento disciplinare presentando le
dimissioni che il Ministro poteva respingere.
Intervenuta l’abrogazione del suddetto art. 19, r.d. n. 511 del 1946,
ci si è posti il problema della possibilità, nell’attuale sistema delineato
dal d.lgs. n. 109 del 2006 e succ. mod., di confermare o meno la sussistenza, in assenza di norma sul punto, dell’effetto estintivo del potere
disciplinare a fronte della intervenuta o sopravvenuta cessazione del
magistrato dal servizio.
In motivato dissenso con la discutibile prassi ancora oggi seguita
dal C.S.M. e con parte della dottrina99 che, sulla base di un (erroneo)
richiamo alla asserita pacifica giurisprudenza amministrativa in tal
senso pronunciatasi nel restante pubblico impiego, si è espressa in
senso positivo alla sopravvenuta cessazione del potere punitivo per
“carenza di interesse” delle parti ad una sanzione disciplinare inutiliter data, riteniamo, invece, che di regola tale potestà punitiva del
C.S.M. e dei Consigli di Presidenza (per le magistrature speciali) permanga nei confronti dell’ex magistrato, salvo che in alcune residuali
ipotesi infraprecisate.
Come è noto il problema non riguarda i soli magistrati, ma anche
i restanti pubblici dipendenti, i dipendenti di imprese private e i liberi professionisti.
Nel pubblico impiego la permanenza della potestà disciplinare
(intesa sia come inizio ex novo che come prosecuzione di procedimento già attivato) nei confronti di un lavoratore che si dimetta è,
dopo iniziali incertezze, principio oggi pacifico, sia al fine di evitare
successive istanze di riammissione in servizio (precluse invece a chi
98
Secondo Cass, sez. un., 5 marzo 1993 n. 2674, in Giust. civ. Mass. 1993, 438, la
morte del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, sopravvenuta prima del
passaggio in giudicato della pronuncia irrogativa della sanzione, comporta, con la cessazione del rapporto di servizio del magistrato medesimo la cessazione della materia
del contendere e, quindi, l’inammissibilità, per sopravvenuto difetto d’interesse, del ricorso per cassazione proposto contro la decisione della sezione disciplinare del C.S.M.,
con esclusione della possibilità di qualsiasi altra pronuncia, e, in particolare, di quella
di estinzione dell’illecito disciplinare, applicandosi nel procedimento d’impugnazione
instaurato con il ricorso predetto le norme processuali civili anziché i principi propri
del procedimento penale.
99
FANTACCHIOTTI, FIANDANESE, Il nuovo ordinamento giudiziario, Padova,
2008, 431.
186
sia stato licenziato o destituito essendo requisito per l’accesso, e dunque anche per la riammissione, nella PA la mancanza di sanzioni
espulsive: argomento ex art. 2, d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487, ribadito
settorialmente per i magistrati dall’art. 2, co. 1 e co. 2 lett. b-bis del
d.lgs. 5 aprile 2006 n. 160100), sia per evitare richieste di restitutiones in
integrum (differenze tra retribuzione piena ed assegno alimentare) da
parte di dipendenti cautelarmente sospesi (spesso per anni in attesa
del giudicato penale, percependo assegno alimentare) e poi dimessisi
(o comunque cessati dal servizio) senza ricevere sanzione disciplinare
(si rammenta che quella espulsiva, retroagendo alla data della misura
cautelare, preclude la restitutio in integrum101).
La conclusione, nell’impiego pubblico, favorevole alla permanenza della potestà punitiva verso ex dipendenti è stata definitivamente
condivisa dalla decisione 6 marzo 1997 n. 8 della adunanza plenaria
del Consiglio di Stato102. La magistratura amministrativa ha corretta100
Difetterebbe in capo al magistrato da riammettere in servizio o che volesse partecipare a concorsi pubblici, ivi compreso quello in magistratura, sia il requisito della
mancanza di sanzioni disciplinari (art. 2, co.1, d.lgs. n.160 del 2006) sia quello della
condotta incensurabile (art. 2, co. 2, let. b-bis, d.lgs. cit.).
101
Il principio giurisprudenziale della portata retroattiva della sanzione disciplinare espulsiva alla data della misura cautelare della sospensione è pacifico sia nell’impiego privato (ex pluribus, Cass., sez.lav., 9 settembre 2008 n. 22863, in Giust. civ.
Mass., 2008, 9, 1332; id., sez. lav., 24 luglio 1998 n. 7296; id., sez. lav., 23 gennaio 1998
n. 624) che pubblico (tra le tante Cons. St., sez. IV, 3 febbraio 2006 n. 477, in www.giustizia-amministrativa.it).
102
Cons. St., ad. plen., 6 marzo 1997, n. 8, in Foro it. 1997, III, 249 e in Vita not.,
1997, 790 con nota di TARDIVO; Cons. St., comm.spec.p.i., 20 gennaio 1997 n. 374, in
Cons. St., 1997, 1321; Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2008 n. 5757, in www.giustiziaamministrativa.it; id., sez. IV, 11 maggio 2007 n. 2273, ivi; id., sez. IV, 29 dicembre 2005
n. 7561, ivi; id., sez. IV, 26 giugno 2003 n.3827, ivi. In terminis anche il parere 17 dicembre 2004 n. 162622 dell’Avvocatura Generale dello Stato, in Rass. Avv. St., 2004, n.
4, 1312 e la delibera C.conti, sez. contr. Stato, 10 gennaio 1996 n.4 (leggibile integralmente in TENORE, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, Roma,
2007, in Appendice), secondo cui le dimissioni di un pubblico dipendente, presentate
in pendenza di un procedimento penale per uno dei reati previsti dall’art. 85 del t.u. n.
3 del 1957 dimissioni che l’amministrazione ha l’obbligo di accettare, non esplicano alcuna influenza sul procedimento disciplinare già iniziato o da iniziare giacché, qualora le dimissioni costituissero causa ostativa alla prosecuzione o all’inizio dell’azione disciplinare, il dipendente, condannato con sentenza irrevocabile, potrebbe beneficiare
di un’eventuale riammissione in servizio o comunque avere ulteriori rapporti di impiego con l’amministrazione, essendo il rapporto cessato per atto volontario e non in
virtù di un formale provvedimento di destituzione; appare pertanto censurabile il comportamento di quelle amministrazioni che, interpretando diversamente la normativa
citata, si astengono da qualunque attività disciplinare nei confronti di un dipendente,
anche condannato con sentenza irrevocabile, dopo la presentazione delle dimissioni.
187
mente confermato tale indirizzo favorevole alla permanenza della potestà disciplinare anche in caso di decesso del dipendente dimessosi
dopo aver trascorso un periodo in sospensione cautelare, per prevenire eventuali richieste di restitutio in integrum degli eredi103.
Per gli avvocati l’art. 37, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 ha previsto che non è consentita la cancellazione dall’albo a domanda del professionista che abbia in corso un procedimento disciplinare, al fine di
evitare che l’astuto legale, evitando l’azione disciplinare, possa poi richiedere la reiscrizione104. Per i notai, la miglior dottrina, avallata di
recente da pronunce di organi disciplinari, ha ritenuto che il professionista cessato sia ben sanzionabile, sia per evitare riammissioni in
servizio successive, sia per chiarire rilevanti riflessi pensionistici settoriali105.
Nell’impiego privato non si rinvengono precedenti106.
La diversa regola ostativa all’azione disciplinare avverso il dipendente cessato un tempo prevista per i magistrati ordinari e desunta indirettamente dall’art. 19, r.d. n. 511 del 1946 cit. a fronte della carenza di interesse punitivo, oggi non esiste più nell’attuale regime disciplinare del 2006, per cui riteniamo che la potestà punitiva in capo alla
sezione disciplinare del C.S.M. nei confronti di un magistrato cessato
103
Cons. St., sez.VI, 26 giugno 2003 n.3827, in Cons.St., 2003, I, 1409. Contra, in
caso di morte di un magistrato, Cass., sez.un., 5 marzo 1993 n.2674 cit.
104
Sul punto DANOVI, Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato,
Milano, 2005, 10 ss. Per Pret.Firenze, 22 maggio 1995 (in Giur. it., 1987, I, 2, 278) la
cancellazione dall’albo professionale per dimissioni non fa venir meno per il consiglio
dell’ordine l’obbligo di definizione del procedimento disciplinare e l’illegittima delibera di chiusura del procedimento disciplinare va disapplicata.
105
Sul punto TENORE-CELESTE, La responsabilità disciplinare del notaio ed il relativo procedimento, Milano, 2008, 41.
106
Si segnala però che la Cassazione ha affermato che qualifica le dimissioni del
lavoratore dal rapporto di lavoro quale atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo, rispetto al quale il destinatario dell’atto (il datore di lavoro) non può
che subire gli effetti tipici del negozio, individuabili nella estinzione del rapporto di lavoro e delle posizioni giuridiche a questo afferenti. Le dimissioni sono pertanto idonee
a risolvere il rapporto di lavoro indipendentemente dalla accettazione del datore di lavoro, acquisendo le stesse efficacia, a norma dell’art. 1334 c.c., dal momento in cui la
comunicazione delle stesse arriva a conoscenza del destinatario, o, più precisamente,
quando il soggetto destinatario venga posto nelle condizioni di prendere conoscenza
delle dimissioni rese dal lavoratore (cfr. Cass., sez. lav., 30 ottobre 2001 n. 13523, in Riv.
it. dir. lav., 2002, II, 599 con nota di STANCHI; id., sez. lav., 9 maggio 1985 n. 2909;
20 novembre 1990 n. 11179; 19 agosto 1996 n. 7629). Tale giurisprudenza non afferma
comunque che dopo tale dimissioni “imposte” al datore questi perda la potestà disciplinare per fatti commessi in costanza di rapporto.
188
dal servizio permanga per tre basilari ragioni giuridiche (tra loro alternative e non necessariamente cumulative), che palesano un evidente interesse in capo alla PA o allo stesso incolpato all’inizio e/o alla
chiusura dell’iter punitivo interno:
1) se il procedimento si chiudesse con sanzione espulsiva, la riqualificazione della cessazione dal servizio per rimozione in luogo di
altra causa di cessazione (es.per transito ex art. 211, co. 2, r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 in altra magistratura, in quanto, oltre al pensionamento per raggiunti limiti di età, anche le dimissioni, a cui il novellato art. 11, r.d. cit. ha equiparato la decadenza per inosservanza del termine per assumere le funzioni, per i soli magistrati ordinari sono ostative alla riammissione in servizio ex art. 211, r.d. n. 12 del 1941107) precluderebbe una eventuale istanza di riammissione in servizio su ri107
Prima della novella all’art.11, r.d. n.12 del 1941 apportata dall’art. 28 del D.Lgs.
23 febbraio 2006, n. 109 che ha equiparato la decadenza alle dimissioni statuendo che
“Il magistrato decaduto dall’impiego ai sensi del primo comma si considera aver cessato
di far parte dell’ordine giudiziario in seguito a dimissioni”, erano sorti numerosi contenziosi in cui era stata rimarcata la differenza tra dimissioni e decadenza ai fini della possibile riammissione in servizio del magistrato, prevista per il solo caso di decadenza (ed
entro 1 anno di tempo), dall’originario art.11, r.d. n.12 cit e dagli art. 127 e 132, primo
comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Oggi, dopo la novella del 2006, sia in caso di
decadenza che di dimissioni la riammissione in servizio del magistrato è preclusa dall’art.211 cit. e, dunque, l’unico residuale caso di riammissione in servizio consentita è
quella del magistrato ordinario transitato in altra magistratura speciale che voglia far
rientro ex art.211, co.2, cit.
Prima di tale novella del 2006 all’art.11 cit., la Consulta, con decisione 30 gennaio
2002 n.10 (in Giur. cost. 2002, 64, e in Giust. civ., 2002, I, 545) aveva affermato che
è manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 cost., la q.l.c. dell’art. 211, co. 1,
r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, nella parte in cui, vietando la riammissione in magistratura al magistrato cessato dal servizio in seguito a sua domanda, realizzerebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto al caso in cui è stata dichiarata la decadenza dall’impiego per assenza ingiustificata dall’ufficio (che consente la riammissione in
servizio ex art. 127 e 1 32, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) nonché una
irragionevole disparità di trattamento dei magistrati ordinari rispetto ai magistrati amministrativi e contabili, per i quali le dimissioni non precludono la successiva riammissione in servizio, in quanto, premesso che spetta al legislatore un’ampia discrezionalità nella materia dell’inquadramento e dell’articolazione delle carriere del pubblico
impiego, in mancanza di un valido termine di confronto e tenuto conto che non è possibile instaurare un utile confronto tra la cessazione del rapporto di impiego per dimissioni e quella per decadenza (situazioni non comparabili come statuito da C.cost.
n. 433 del 1994), che la norma censurata è una norma speciale in ragione della peculiarità di “status” dei magistrati e non può essere perciò comparata con norme generali, e che l’ordinamento vigente non contempla uniformità di regolamentazione nello
stato giuridico delle diverse magistrature, deve escludersi che la disposizione censurata sia manifestamente irragionevole o arbitraria.
189
chiesta dell’interessato108 o la partecipazione ad un nuovo concorso
pubblico (impedita dall’art. 2, d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487), ivi compreso quello in magistratura, per carenza di requisiti morali dell’art. 2,
co. 1 e co. 2, lett. b-bis del d.lgs. 5 aprile 2006 n. 160109, necessari, a nostro avviso, sia per l’ingresso che per la riammissione in servizio. AnaLa magistratura amministrativa, sempre prima della novella del 2006 all’art.11,
r.d. n.12 del 1941, aveva più volte ribadito che l’art. 21,1 r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, recante l’ordinamento giudiziario, introduce una disposizione speciale volta a limitare e
non certo ad ampliare le possibilità di rientro in servizio per il personale di magistratura rispetto alla generalità degli impiegati civili dello Stato, in ragione della particolare “dignità” inerente alle funzioni svolte, proprie dell’autonomo potere dello Stato e
della connessa configurazione dell’ingresso nello (e quindi anche dell’uscita dallo) ordine giudiziario come vera e propria scelta di vita, tendenzialmente definitiva ed irreversibile; pertanto il diniego di riammissione del magistrato cessato dal servizio “in seguito a sua domanda da qualsiasi motivo determinata” è ipotesi che (salva la fattispecie del passaggio ad altra magistratura prevista dall’art. 7, l. 2 aprile 1979 n. 97) si aggiunge alle ulteriori ipotesi ostative – che non vengono, quindi, sostituite – contemplate per la generalità degli altri impiegati civili dello Stato dall’art. 132, d.P.R. 10 gennaio
1957 n. 3 (ex pluribus Tar Lazio, Roma, sez.I, 10 giugno 1988 n.881, in Foro amm.,
1989, 266).
Si rammenta poi che l’art. 211, r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, che consente la riammissione del magistrato ordinario nei ruoli della medesima magistratura conservando
l’anzianità di servizio maturata nel ruolo di altra magistratura, non è una norma di carattere generale che consenta la stessa operazione anche per i magistrati appartenenti
alle magistrature speciali e in particolare per i magistrati che chiedono la riammissione nei ruoli della Corte dei conti che avevano lasciato per entrare nei ruoli dei Tar, a
ciò opponendosi l’art. 60, r.d. n. 1634 del 1933 sull’ordinamento della Corte dei conti
che stabilisce espressamente che la riammissione sia dei magistrati che degli impiegati della stessa Corte segue le regole dettate per gli impiegati civili dello Stato (dall’art.
132, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3), per le quali il dipendente riammesso in servizio viene
collocato all’ultimo posto del ruolo, relativamente alla qualifica rivestita (così Cons. St.,
sez. IV, 29 gennaio 2008 n. 250, in Foro amm. CDS, 2008, 1, 111).
108
Sul coordinamento delle norme per la riammissione in servizio dei magistrati
ordinari (art. 11, 211 e 276, r.d. n. 12 del 1941 e art. 132, d.P.R. n.3 del 1957) prima della
novella all’art.11, r.d. n.12 del 1941 apportata dal d.lgs. n. 109 del 2006, oltre alla giurisprudenza citata nella precedente nota, v. per una fattispecie regolata dall’art. 11, r.d.
n. 12 del 1941 prima della modifica apportata dall’art. 28 del d.lgs. 23 febbraio 2006,
n. 109, v. Tar Lazio, Roma, sez.I, 30 marzo 2005 n.2289, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui il magistrato che sia stato dichiarato decaduto dal servizio ai sensi
dell’art. 127 lett. c), t.u. n. 3 del 1957 a causa della sua protratta assenza ingiustificata
è titolare della facoltà di riammissione ai sensi dell’art. 132 della stessa fonte, resa applicabile dalla norma di chiusura dell’art. 276, r.d. n. 12 del 1941, senza essere tenuto
a rispettare per esercitarla il termine annuale previsto ad altri fini dall’art. 11, medesimo regio decreto.
109
Difetterebbe in capo al magistrato da riammettere in servizio o che volesse partecipare a concorsi pubblici, ivi compreso quello in magistratura, sia il requisito della
mancanza di sanzioni disciplinari (art. 2, co. 1, d.lgs. n. 160 del 2006) sia quello della
condotta incensurabile (art. 2, co. 2, let. b-bis, d.lgs. cit.).
190
loghe conclusioni (valutare la riammissibilità in servizio) valgono qualora la richiesta di reintegro riguardasse un magistrato astrattamente
riammissibile in base alla legge 24 dicembre 2003, n. 350 e al d.l. 16
marzo 2004, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2004, n. 126 (c.d. leggi Carnevale)110, ma per il quale occorre valutare se vi siano ulteriori e distinte ragioni giuridiche (quale una sanzione disciplinare, magari espulsiva, per diversa vicenda, inflitta dopo
la cessazione dal servizio) ostative alla riammissione imposta ex lege;
2) se il magistrato, prima della cessazione (per dimissioni, decadenza, raggiunti limiti di età, transito in altra magistratura, o altro)
fosse stato posto in sospensione cautelare obbligatoria o facoltativa
percependo assegno alimentare, qualora non intervenisse la sanzione
disciplinare espulsiva ritenendosi esaurita la potestà punitiva nei confronti di un ex magistrato, quest’ultimo avrebbe diritto, come accaduto in passato prima della riforma del 2006, alla restitutio in integrum
(differenza tra assegno alimentare e retribuzione piena). Tale inconcepibile ricostruzione stipendiale non avrebbe invece luogo se anche nei
confronti dell’ex magistrato il C.S.M. concludesse l’iter punitivo con
sanzione espulsiva che, retroagendo alla data della misura cautelare,
non darebbe luogo a restitutio in integrum (conservando l’interessato
solo quanto percepito a titolo di assegno, stante la natura alimentare
dello stesso), salvo che nel caso di inflizione di sanzione non espulsiva o di assoluzione di sede disciplinare;
3) il magistrato incolpato potrebbe avere un interesse morale e di
tutela dell’immagine (aventi valenza sociale e giuridica) ad una trattazione del procedimento per “urlare la sua innocenza” e per giungere
ad una sua motivata conclusione assolutoria “piena”, che potrebbe
eventualmente dare impulso ad eventuali reazioni civili e penali nei
confronti di autori di calunniosi esposti occasionanti l’azione disciplinare o di persecutorie (ma inipotizzabili) iniziative del C.S.M.111. Del
resto tale interesse del magistrato ad una decisione nel merito è valo110
In base a tali leggi è oggi consentito ai magistrati, pubblici dipendenti, sospesi
dal servizio e poi prosciolti in sede penale, con formule più o meno ampie, di ottenere,
sulla base di certi presupposti, il ripristino del rapporto di impiego, nonché una piena
e satisfattiva reintegrazione nel rapporto di servizio.
111
Tale ultimo interesse sembra escluso in alcune sentenze della Cassazione che,
nel previgente sistema, hanno affermato (Cass., sez. un., 1 luglio 1980 n.4120, in Giust.
civ., 1980, I, 2097; id., sez.un., 8 agosto 1991 n. 8639, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc.
8) che il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età (o la dispensa per infermità,
nel secondo caso citato) di un magistrato, che intervenga nelle more del giudizio di cassazione, da questi promosso contro la decisione della sezione disciplinare del Consiglio
191
rizzato in altra norma, l’art.15, co.7 del d.lgs. n.109 del 2006 che consente all’interessato ad opporsi alla estinzione del procedimento nei
propri confronti per sforamento dei termini perentori, segno evidente
dell’esistenza del diritto ad una pronuncia pienamente assolutoria.
A fronte di tale tesi da noi prospettata, l’unico caso in cui parrebbe risultare palese la carenza di interesse del C.S.M. o dei Consigli di
Presidenza (per i magistrati speciali) a proseguire iniziative disciplinari nei confronti di magistrati cessati dal servizio potrebbe riguardare il magistrato che non si trovi nelle tre predette condizioni, ovvero
che sia stato incolpato disciplinarmente, ma sia poi cessato dal servizio e non sia più riammissibile in servizio (ovvero sempre, salvo l’ipotesi dell’art. 21, co. 2, r.d. n. 12 del 1941 e, ancor più rara, della l. 24
dicembre 2003, n. 350 e della l.11 maggio 2004, n. 126 cit.), che non
abbia trascorso periodi in sospensione cautelare (ergo non originante
problemi di eventuale restitutio in integrum) e che non abbia chiesto
all’organo di autogoverno di proseguire l’iniziativa disciplinare nonostante le dimissioni (ergo non interessato ad una assoluzione “piena”).
Ove la sezione disciplinare del C.S.M. e poi la Cassazione (o il giudice amministrativo per le magistrature speciali) recepissero tale tesi
affermativa di una ultravigenza della potestà punitiva avverso ex magistrati dimessisi in costanza o nell’imminenza di procedimento disciplinare, si porrebbe un ulteriore e consequenziale problema in ordine
ai riflessi di una misura espulsiva nell’eventuale nuovo rapporto di lavoro intrapreso presso altra amministrazione (es. transito in altra magistratura o in altra P.A.): come sostenuto in altri studi, ai quali è sufficiente rinviare112, in tale evenienza si avrebbe un effetto non già invalidante ma caducante sul nuovo rapporto di lavoro per sopravvenuSuperiore della magistratura, che gli abbia inflitto la sanzione della rimozione, determina l’inammissibilità del ricorso medesimo, per sopravvenuto difetto d’interesse, tenuto conto che quel collocamento a riposo e le posizioni soggettive con esso acquisite
non possono essere caducati o modificati per effetto di una successiva pronuncia della
S.C., ancorché, sia stata precedentemente disposta in via cautelare la sospensione dell’incolpato dalle funzioni, e che il potere disciplinare, rivolto a conseguire esigenze di
funzionalità dell’ordinamento, non ha ragione di esplicare se non in costanza del rapporto di servizio. L’impiegato non fa valere nel procedimento disciplinare un suo interesse di carattere generale, riferito alla sua persona nella totalità delle sue espressioni
(come quello morale di essere ritenuto non colpevole), ma solo l’interesse specifico a
non subire sanzioni che incidano in modo concreto sullo svolgimento del rapporto di
servizio…Pertanto non è configurabile un interesse giuridico delle parti alla definizione del procedimento disciplinare dopo la cessazione del rapporto di servizio.
112
Ci sia consentito il richiamo a TENORE, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego cit., 60.
192
to venir meno di un requisito per l’accesso al pubblico impiego, ovvero il non essere stati destituiti o licenziati (v. art.2, d.P.R. 9 maggio
1994 n.487 e norme di settore di analogo tenore).
l) La corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti sanzionati nel provvedimento punitivo finale. Il principio, valevole non solo in
sede penale (art. 521 e 522 c.p.p.), ma anche in ogni regime disciplinare e più volte ribadito dalle sezioni unite della Cassazione per la magistratura113, tutela il diritto alla difesa parallelamente codificato in
sede processuale nell’art. 112 c.p.c.: anche se nel corso dell’istruttoria
disciplinare emergessero fatti ulteriori o diversi, la sanzione da infliggere al dipendente incolpato dovrà riguardare, a pena di nullità per
violazione del contraddittorio, solo e soltanto i fatti contestati114. Pertanto, l’emersione in fase istruttoria di fatti ulteriori e diversi potrà
portare ad una distinta ed autonoma contestazione. Tale generale
113
Ex pluribus Cass., sez. un., 1 luglio 2008 n. 17935, secondo la quale “viola il canone della necessaria correlazione tra contestazione e decisione (…) la sentenza della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che irroga all’incolpato una
sanzione, ritenendolo responsabile, oltre che del fatto ritualmente addebitatogli, anche di
uno ulteriore e diverso, che abbia assunto valore determinante ai fini della decisione e relativamente al quale l’incolpato stesso non sia stato posto in grado di far valere le proprie
difese”. V. anche, in riferimento al sistema abrogato, Cass., sez. un., 7 febbraio 2007 n.
2685, che, per fatto contestato, intende “non solo quello indicato specificamente nel capo
d’incolpazione, ma anche il complesso degli elementi aggiuntivi portati a conoscenza dell’incolpato e sui quali egli è stato posto nelle condizioni di difendersi” e, in senso analogo, Cass., sez. un., 20 dicembre 2006 n. 27172, in Foro it., 2008, I, 923; id., sez. un., 28
maggio 2001 n. 227, ivi, Rep.2001, voce Ordinamento giudiziario, n. 151; id., sez. un.,
16 gennaio 1998 n. 358, ivi Rep. voce cit., n. 287. Tali sentenze hanno chiarito che deve
intendersi per fatto contestato non solo quello indicato specificamente nel capo di incolpazione, ma quanto risulta da tutto il complesso degli elementi portati a conoscenza dell’incolpato e sui quali lo stesso è stato messo in grado di difendersi.
114
Sul principio generale del diritto disciplinare di immodificabilità dei fatti (ma
non della loro qualificazione) della contestazione disciplinare nell’impiego pubblico e
privato v. la giurisprudenza e la dottrina citati da NOVIELLO-TENORE, La responsabilità cit., 194. Il principio è stato ribadito dalla giurisprudenza, per l’illecito disciplinare notarile: nel procedimento disciplinare a carico del notaio vige il fondamentale
principio della correlazione tra l’accusa e i fatti addebitati nel provvedimento sanzionatorio. È, quindi, preclusa al giudice disciplinare la irrogazione di una sanzione per
fatti diversi da quelli contestati, ma gli compete certamente il potere di qualificazione
del fatto in modo diverso rispetto alla contestazione in quanto ciò non incide sul diritto di difesa dell’incolpato, alla cui tutela è preordinato il predetto principio della correlazione tra l’accusa e i fatti addebitati nel provvedimento sanzionatorio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittima la qualificazione, operata dalla Corte d’appello in termini di illecito disciplinare, del fatto contestato – consistente nel non avere il notaio
193
principio è settorialmente confermato per i magistrati ordinari dagli
art. 14, co. 5 e 15, co. 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, che abilitano il Procuratore Generale a nuove contestazioni per fatti emersi nel corso dell’istruttoria, ma previa nuova contestazione all’incolpato, a pena di
nullità.
Il principio ricordato ha originato diversi contenziosi negli ordinamenti professionali, in ordine a censurati sconfinamenti della sanzione rispetto ai fatti contestati, confluiti in importanti pronunciamenti esplicativi delle Sezioni Unite della Cassazione che hanno chiarito che “in tema di procedimento disciplinare a carico degli esercenti le libere professioni (forensi nel caso di specie), per aversi mutamento del fatto con riferimento al principio di correlazione tra addebito contestato e sanzione, occorre una trasformazione radicale, nei
suoi elementi essenziali (naturalisticamente intesi, come comprensivi
delle caratteristiche spaziali e temporali), del fatto concreto, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’addebito da cui scaturisca una
reale violazione del contraddittorio e dei diritti della difesa. Ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente formale tra contestazione e sanzione, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’incolpato, attraverso l’iter del processo, abbia avuto conoscenza dell’accusa e sia stato messo in condizione di difendersi e discolparsi”115.
Anche per il procedimento disciplinare riguardante i magistrati, la
Cassazione si è soffermata sulle condizioni che consentono di ritenere
integrata una modificazione del fatto, con conseguente mancanza di
correlazione fra addebito contestato e sentenza-sanzioni inflitta, chiarendo che nel procedimento disciplinare a carico di magistrati si ha
modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione fra l’addebito contestato e la sentenza, solo quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi delprestato la sua collaborazione al Consiglio notarile che gli aveva richiesto la consegna
di una certa documentazione al fine di accertare la fondatezza della contestazione rivoltagli – ritenendo tale condotta inquadrabile nell’ambito della previsione di cui all’art. 147 l. not.): Cass., sez. III, 15 luglio 1998, n. 6908, in Giust. civ. Mass., 1998, 1531
e in Vita not., 1998, 1732. In terminis Cass., sez. III, sez. III, 29 marzo 2003, n. 4843, in
Giust. civ. Mass. 2003, 658 e in Vita not. 2003, 1037; id., sez. III, 28 marzo 2003 n. 4701,
in D&G - Dir. e giust., 2003, 16 99.
Sulla libertà nelle modalità di comunicazione della contestazione nel procedimento disciplinare degli avvocati v. DANOVI, Il procedimento disciplinare cit., 95.
115
Cass., sez. un., 26 aprile 2000, n. 289, in Giust. civ. Mass., 2000, 701.
194
l’addebito e non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restano immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno116.
m) Autonomia dell’illecito disciplinare da altri illeciti. Il magistrato,
al pari di qualsiasi altro dipendente pubblico (ma analoghe considerazioni valgono per l’impiego privato e le libere professioni), può commettere illeciti che assumono valenza non solo disciplinare, ma anche
civile, penale o amministrativo-contabile. Si tratta delle note “quattro
responsabilità” (a cui va aggiunta quella dirigenziale ex art.21, d.lgs.
n.165 del 2001 per i soli dirigenti pubblici privatizzati) del pubblico dipendente, oggetto di molteplici studi117.
Rinviando a specifici saggi ogni approfondimento sul tema118, in
questa sede va esclusivamente ricordato il generale principio della autonomia tra tali illeciti, tra loro concorrenti, ma connotati da autonomia strutturale e funzionale. In altre parole, non ogni illecito disciplinare comporta un illecito penale o amministrativo-contabile e viceversa. Al titolare della potestà punitiva per ciascuno di tali illeciti competono autonomi poteri di accertamento dei presupposti sostanziali
(oggettivi e soggettivi) per attivarsi. Parimenti l’esito di un giudizio penale o amministrativo-contabile non assume portata vincolante in
sede disciplinare, dovendo l’organo titolare dell’azione disciplinare
procedere ad autonoma rivalutazione dei fatti acclarati in sede penale
(vincolanti nella solo loro storicità ex art. 653 c.p.p.), civile o giuscontabile, per stabilire se detti fatti, certi sul piano fattuale dopo il giudiCass., sez. un., 28 maggio 2001 n. 227, ivi, Rep. 2001, voce Ordinamento giudiziario, n. 151 (nella specie al magistrato, appartenente all’ufficio del p.m., era stato contestato di aver tenuto una condotta ostruzionistica a fronte della legittima richiesta del
Procuratore di avere in visione un fascicolo oggetto di un’istanza di avocazione al P.G.;
la S.C. ha confermato la decisione della sezione disciplinare del C.S.M., escludendo la
rilevanza, ai fini della correlazione tra accusa e sentenza, del fatto che nell’addebito era
detto che: - il magistrato aveva dato disposizioni alla segretaria di riferire che il fascicolo era a casa sua e non genericamente, come accertato, nella sua disponibilità; - lo
stesso aveva invitato la segretaria a non consegnarlo, mentre si era limitato a consentire che l’appuntato inviato dal p.m. si cercasse il fascicolo anziché invitare la segretaria a consegnarglielo); id., sez. un., 16 luglio 1998 n. 6956, ivi, Rep, voce cit., n. 228.
117
Sul tema generale delle responsabilità del dipendente pubblico, tra i più recenti contributi TENORE, PALAMARA, BURATTI, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, 2009, con vasti richiami dottrinali.
118
FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010,
431 ss.
116
195
cato, assumano valenza disciplinare alla stregua dei parametri, oggettivi e soggettivi, fissati dalle norme di settore (per i magistrati ordinari dagli art. 2 e 3, l. n.109 del 2006).
Tale principio generale è ribadito per i magistrati ordinari, in perfetta sintonia con gli art. 653 e 445 c.p.p., dall’art. 20, d.lgs. n. 109 del
2006. L’autonomia tra illecito disciplinare e civile è confermata dall’art. 9, l. n. 117 del 1988.
Sono dunque vietati, come più volte ribadito dalla giurisprudenza,
anche costituzionale, per diverse categorie di lavoratori e professionisti, gli automatismi sanzionatori, ovvero gli acritici recepimenti da
parte degli organi disciplinari delle risultanze penali che portino a
sanzioni disciplinari fondate solo e soltanto sulle risultanze penali
senza adeguata riponderazione delle stesse, per coglierne il risvolto disciplinare (non sempre coincidente, come detto, con quello penale, civile o giuscontabile): la Consulta ha più volte censurato i tentativi operati dal legislatore di introdurre, non solo nel pubblico impiego119, ma
anche nella normativa relativa a liberi professionisti (ivi compresi i
notai: v. C.cost., 31 gennaio 1990 n. 40 relativa al pregresso art. 142, l.
119
Tra le varie sentenze v. C. cost., 27 aprile 1993 n. 197 (in Cons. St., 1994, II, 343
con nota di VIOLA, in Giur. cost., 1993, 1341, con nota di CANTARO, in Le Regioni, 1994,
345, con nota di F. PINTO, La cessazione dall’ufficio dei pubblici dipendenti nell’art. 1 l.
16/1992: destituzione o decadenza?, e in Giur. cost., 1993, 1349, con nota di CANTARO,
Ancora su destituzione di diritto e decadenza: novità e conferme dalla più recente giurisprudenza costituzionale), con cui la Consulta ha ritenuto l’illegittimità costituzionale
dell’art. 15, co. 4-octies, l. n. 55 del 1990, nella parte in cui prevedeva la decadenza di
diritto dall’ufficio del dipendente pubblico condannato in via definitiva per taluni reati,
senza che la p.a. attivasse il previo procedimento disciplinare, valutando l’incidenza dei
fatti oggetto della sentenza sul rapporto di lavoro. Secondo tale indirizzo, la decadenza automatica ex art. 15, co. 4-octies, cit., non sarebbe dissimile dall’istituto della destituzione di diritto, già previsto dall’art. 85, d.P.R. n. 3 del 1957, e già a suo tempo dichiarato incostituzionale, per identici motivi (assenza di una previa valutazione in sede
disciplinare dei fatti oggetto di giudizio penale), con la nota decisione 14 ottobre 1988
n. 971, in Foro it., 1989, I, 24 con nota di VIRGA.
V. anche C.cost., 11 gennaio 1991 n. 16 (fattispecie relativa a destituzione di impiegati della regione Lombardia), in Giur. cost., 1991, 102; id., n. 239 del 1996 (fattispecie relativa sospensione automatica di ufficiali riscossori di tributi); id., 17 ottobre
1996 n. 363 (fattispecie relativa a cessazione automatica dal servizio continuativo di
Carabinieri), in Foro it., 1997, I, 706.
In dottrina sul tema v. MARSILI, La destituzione dei pubblici dipendenti, in Nuova
rass., 1991, n. 17/18, 1818; ALBERTI, La destituzione e la decadenza di diritto nella sentenza n. 197 del 19 aprile 1993 della Corte Costituzionale, in Funz. pubbl., 1992, n. 3, 29;
VIRGA, Sospensione e decadenza di consiglieri per condanna penale, in Nuova rass., 1992,
808; MARTINO-ARMOGIDA, La decadenza dal rapporto di pubblico impiego dopo la legge n.
16 del 1992, ivi, 1992, 2227; NOVIELLO, La decadenza di diritto nel pubblico impiego:
un’altra forma di destituzione automatica, in Foro amm., 1993, 236; VIOLA, Il pubblico
196
n. 89)120, automatismi sanzionatori-espulsivi di valenza disciplinare
correlati ad alcune condanne in sede penale: le decadenze o destituzioni di diritto sancite da diverse norme (es. art. 142 u.co., l. 16 febbraio
1913 n. 89; art. 85, d.P.R. n. 3 del 1957; art. 15, co. 4-octies, l. 19 marzo
1990 n. 55), che non prevedevano la mediazione di una autonoma rivalutazione dei fatti di valenza penale in sede amministrativa (ergo in
sede disciplinare), sono state sistematicamente dichiarate non conformi alla Costituzione.
Uniche deroghe a tale doverosa previa riponderazione interna dei
fatti acclarati in sede penale sono rinvenibili, per i magistrati ordinari, nell’art. 12, co. 5, l. n.109 del 2006, secondo cui “Si applica la sanimpiego nell’emergenza: la destituzione del pubblico dipendente in pendenza di procedimento penale, in Cons. St., 1994, VIII, 343; VIOLA, Ancora sul pubblico impiego dell’emergenza: il caso della sospensione obbligatoria del pubblico dipendente in pendenza di
procedimento penale, in Cons. St., 1994, VIII, 1445; CAMERO, Destituzione di diritto e decadenza dall’impiego, in Nuova rass., 1994, n. 21/22, 2555; POLI, Sospensione obbligatoria ex articolo 1, legge 18 gennaio 1992 n. 16 e privatizzazione del pubblico impiego: spunti in tema di giurisprudenza tra esigenze di garantismo e necessità di difesa sociale, in
Foro amm., 1996, 2163; GULÌ, Destituzione e patteggiamento, in www.giust.it.
120
L’indirizzo tendente a ritenere illegittime le «destituzioni di diritto» nell’ambito
delle professioni inquadrate in ordini, correlate a sanzioni penali senza una previa valutazione in sede disciplinare, risulta ribadito da C. cost., 31 gennaio 1990 n. 40 (fattispecie relativa destituzione di notai: è costituzionalmente illegittimo – per contrasto con
l’art. 3 cost. – l’art. 142 comma ultimo l. 16 febbraio 1913 n. 89, nella parte in cui prevede che “è destituito di diritto” il notaio che abbia riportato condanna per alcuno dei
reati indicati nell’art. 5 n. 3 della stessa legge, anziché riservare ogni provvedimento al
procedimento disciplinare camerale del tribunale civile, come per le altre cause enunciate nello stesso art. 142), in Giur. cost., 1990, 142; C. cost., 19 marzo 1990 n. 158 (fattispecie relativa a radiazione dall’albo di dottori commercialisti), in Giur. cost., 1990,
979; id., 21 gennaio 1999 n. 2, in www.consulta.it., e id., 18 aprile 2000 n. 103, ivi (entrambe su fattispecie relativa a radiazione di diritto di ragionieri e periti commerciali).
Nel contempo la Consulta ha ritenuto inapplicabile tale divieto di automatismo
nei casi in cui la legge preveda la decadenza automatica da autorizzazioni all’esercizio
di determinate attività come conseguenza della perdita di un requisito necessario per
la prosecuzione del rapporto autorizzatorio: v. C. cost., 1 luglio 1993 n. 297 (fattispecie
in tema di decadenza dall’autorizzazione all’esercizio di farmacia per effetto di condanna penale), in Foro it., 1994, I, 385; id., 4 luglio 1997 n. 226 (fattispecie in tema di
automatica cancellazione dal ruolo di agenti e rappresentanti di commercio condannati per alcuni reati), in Foro amm., 1997, 762; id., 21 gennaio 1999 n. 2, cit. (fattispecie relativa radiazione di diritto di ragionieri e periti commerciali).
La Corte costituzionale ha inoltre ritenuto inapplicabile tale divieto di automatismo all’ipotesi di doverosa interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 29,
co. 1, c.p., trattandosi di pena accessoria ragionevolmente prevista dal legislatore per finalità di difesa sociale e di prevenzione speciale: v. C. cost., 30 maggio 1995 n. 203, in
Giur. it., 1995, I, 619, con nota di ALFANO e in Giur. cost., 1995, I, 1547, con nota di DI FILIPPO; id., 18 luglio 1997 n. 249, in Giust. civ., 1997, I, 2665; id., 21 gennaio 1999 n. 2 cit.
197
zione della rimozione al magistrato che…(omissis)…che incorre nella
interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata
sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la
quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai
sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice”.
Tale autonomia dalle statuizioni penali, civili o giuscontabili è
stata più volte ribadita dalla sezione disciplinare del C.S.M. e dalla
Cassazione a sezioni unite (che hanno ritenuto rilevanti i fatti accertati in sede penale anche in caso di assoluzione “perché il fatto non sussiste”)121 e comporta, specularmente, che non sussiste alcuna preclusione alla (doverosa e tempestiva) attivazione del procedimento disciplinare a fronte di sentenze di «non doversi procedere» (es. «non doversi procedere per estinzione del reato», «non doversi procedere per
assenza di condizioni di procedibilità», «non doversi procedere per
amnistia o per prescrizione»122 o di sentenze di assoluzione perché il
121
Cfr. da ultimo, Cass., sez.un., n.17903 del 2009 (in Ced Cassazione) e Sez. Disc.
C.S.M., 18 febbraio 2008 n. 13, che hanno confermato la sospensione cautelare di un
magistrato incolpato, pur dopo che questi era stato assolto in sede penale perché il
fatto non sussiste. Per l’autonomia dell’illecito disciplinare da quello penale, nel sistema abrogato, v. ex pluribus Cass., sez. un., 19 settembre 2005 n. 18451; id., 18 ottobre
2000 n. 1120 e id., 19 settembre 2005 n.18451, secondo la quale “I rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare a carico di magistrati sono regolati in via esclusiva
dall’art. 29 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, secondo cui nel procedimento disciplinare
fa sempre stato l’accertamento dei fatti che formarono oggetto del giudizio penale, risultanti da sentenza passata in giudicato. Tale regola non contrasta con il disposto dell’art.
653 cod. proc. pen., che disciplina l’efficacia nel giudizio disciplinare della sentenza penale di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso,
poiché il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei
fatti accertati dal giudice penale, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità, fermo restando il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro
materialità, così come compiuto dal giudice penale, cosicché, se è inibito al giudice disciplinare di ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’incolpazione in modo diverso da
quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato, sussiste tuttavia piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell’ottica, indubbiamente più rigorosa, dell’illecito disciplinare”.
122
Nell’impiego pubblico, per l’assenza di preclusioni disciplinari a fronte di sentenze di non doversi procedere per amnistia v., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 23 marzo
2000 n. 1566, in Cons. St., 2000, I, 654; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 18 febbraio 1999
n. 582, in TAR, 1999, I, 816; Tar Puglia, Bari, sez. I, 27 febbraio 1998 n. 151, ivi, 1998,
I, 1562. Per l’assenza di preclusioni disciplinari a fronte di sentenze di non doversi procedere per prescrizione v. Cons. St., sez. IV, 2 giugno 2000 n. 3156, in Cons. St., 2000,
I, 1353 e il parere 5 giugno 2002 reso dall’ARAN su quesito relativo al comparto Regioni-autonomie locali (in www.aranagenzia.it).
198
«fatto non costituisce illecito penale» (statuizione inserita nel novellato
653, co. 1, c.p.p., ma non preclusiva ad una valutazione disciplinare
del fatto)123.
A maggior ragione alcuna incidenza ha sul procedimento disciplinare l’avvenuta archiviazione del procedimento penale a carico del magistrato: in tali casi graverà sull’organo promotore dell’azione disciplinare solo l’onere di una più approfondita istruttoria interna124.
Ciò chiarito in ordine al “peso” della decisione penale in sede disciplinare, sul piano procedurale, ovvero delle interferenze procedimentali tra i due giudizi,la normativa non brilla per chiarezza125. Da un
lato l’art. 20, co. 1, d.lgs. n. 109 ribadisce l’autonomia dell’azione disciplinare statuendo che “L’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall’azione civile di risarcimento del danno o dall’azione
penale relativa allo stesso fatto”, ma nel contempo aggiunge “ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all’articolo 15,
comma 8”: quest’ultima norma sembra invece sancire una pregiudiziale penale, statuendo che “Il corso dei termini, compreso quello di
cui al comma 1-bis, è sospeso: a) se per il medesimo fatto è stata esercitata l’azione penale, ovvero il magistrato è stato arrestato o fermato o
si trova in stato di custodia cautelare, riprendendo a decorrere dalla
In base all’art. 653 c.p.p. nel testo novellato dall’art. 1, l. n. 97 del 2001, « la sentenza penale irrevocabile di assoluzione (ancorché non pronunciata a seguito di dibattimento come nel previgente testo n.d.a.) ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto
non sussiste o non costituisce illecito penale, ovvero che l’imputato non lo ha commesso ».
124
Cfr. Sez. Disc. C.S.M., 16 novembre 2007 n.97 per una fattispecie regolata dalla
abrogata normativa, attinente al comportamento di un magistrato che si era assentato
dall’ufficio per molti mesi, chiedendo ed ottenendo lunghi periodi di aspettativa per
motivi di salute o di congedo straordinario e che, nello stesso periodo, aveva svolto attività sportiva, incompatibile con le lamentate condizioni fisiche, anche diffusa attraverso i mezzi di informazione (regate veliche ed allenamenti per la partecipazione ad
una regata transoceanica).
Nel pubblico impiego ex pluribus, sul punto, Tar Puglia, Lecce, sez. I, 9 marzo
1999 n. 328, in TAR, 1999, I, 2154; Tar Lazio, Roma, sez. II, 14 luglio 1993 n. 800, ivi,
1993, I, 2598. Interessante il caso vagliato da Tar Puglia, Bari, sez. I, 19 aprile 2001 n.
1199, in www.giust.it, n. 5, 2001, secondo cui l’archiviazione penale dovuta alla inutilizzabilità processuale di intercettazioni telefoniche, non preclude l’attivazione del procedimento disciplinare e l’utilizzo in tale sede interna delle predette intercettazioni ove
i relativi contenuti assumano valenza disciplinare.
125
Tra i rari contributi sul tema si rinvia a FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE,
VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, 431; SORRENTINO, Procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati: cause di sospensione e sospensione dei termini, in
Quest.Giustizia, 2008, 1 ss.
123
199
data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza di non
luogo a procedere ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna”.
La norma va a nostro avviso intesa nel senso di sancire un effetto
sospensivo sul procedimento disciplinare e sui relativi termini derivante dall’esercizio dell’azione penale (ergo dalla richiesta di rinvio a
giudizio) sino all’esito del giudicato penale, che contraddice la predetta autonomia dell’azione disciplinare da quella penale e rappresenta
una ennesima applicazione (riscontrabile in altri regimi disciplinari,
ma in corso di superamento) del “mito” della pregiudiziale penale, regola in astratto condivisibile (per prevenire contrasti decisionali e per
consentire all’organo disciplinare di giovarsi delle approfondite istruttorie penali), ma poco utile in un Paese, come l’Italia, in cui il giudicato penale sopravviene dopo molti anni, con conseguenti intollerabili ritardi dell’azione disciplinare, che deve invece essere tempestiva per
non perdere di reale efficacia, soprattutto a fronte di fatti storici di
plastica ed incontrovertibile evidenza (e valenza disciplinare) già
prima del procedimento penale. Tale pregiudiziale penale opera anche
per i magistrati amministrativi e contabili in base a deliberati Presidenziali (fonte di discutibile valenza giuridica in materia)126.
La sezione disciplinare del C.S.M. ha sempre inteso tali due norme
come espressive di un effetto sospensivo dell’inizio del procedimento
penale su quello disciplinare intrapreso o da intraprendere sino alla
sentenza penale definitiva, ferma restando, dopo il giudicato penale, la
autonoma rivalutazione dei fatti ivi acclarati nella successiva sede disciplinare.
Ovviamente tale effetto preclusivo scatta solo in caso di identità
dei fatti vagliati in sede penale e disciplinare, per cui nel caso in cui si
proceda a carico di un magistrato per una pluralità di fatti, non sussiste l’obbligo della sospensione del procedimento disciplinare per tutti
gli addebiti contestati, ma solo dell’addebito correlato (nel senso di
identità del fatto contestato) al procedimento penale127.
126
Sul punto, per le magistrature speciali, v. FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE,
VITELLO (con il coordinamento di TENORE), La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, Giuffrè, 2010, 616.
127
Cfr. in relazione al sistema abrogato Cass., sez. un., 27 settembre 2006 n. 20888,
che ha dichiarato manifestamente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29
del r.d.lgs. n. 511 del 1946, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non
prevede in questi casi, appunto, la sospensione relativamente anche ai fatti contestati
in via disciplinare diversi da quelli per cui vi sia pregiudizialità penale.
200
A prescindere dalla specifica normativa settoriale prevista per i
magistrati ordinari (ma analoghe previsioni operano per le magistrature speciali), il sistema disciplinare nel pubblico impiego, proprio per
i ritardi del “pregiudiziale” procedimento penale e per l’autonoma valenza degli illeciti disciplinari, si sta evolvendo verso l’autonomia del
procedimento disciplinare da quello penale, come statuito dalla recente legge “Brunetta” 4 marzo 2009 n. 15, che, all’art. 7, co. 2, lett. b),
ha codificato il superamento della “pregiudiziale penale” ad opera del
successivo decreto delegato (attuato dall’art. 69 del d.lgs. n.150 del
2009 che ha introdotto l’art. 55-ter al d.lgs. n. 165 del 2001), consentendo agli uffici disciplinari di perseguire i fatti di propria competenza senza dover attendere l’esito del procedimento penale e, dunque,
senza subire pluriennali effetti sospensivi sull’iter punitivo intrapreso.
È auspicabile che ciò avvenga, attraverso idoneo intervento normativo, anche nel procedimento disciplinare per i magistrati (soprattutto qualora andasse in porto la riforma tesa ad individuare un unitario organo disciplinare per tutti i magistrati), nell’interesse sia del
magistrato incolpato, sia dell’ordine di appartenenza, che deve con
immediatezza far chiarezza in sede disciplinare sui fatti, evitando una
pluriennale permanenza in servizio, in attesa del formale giudicato penale, di un soggetto che potrebbe discreditare o offuscare l’immagine
della magistratura.
201
Stab. Tipolit. Ugo Quintily S.p.A.
Viale Enrico Ortolani, 149/151 - Roma - Tel. 06.52.16.92.99 r.a.
Finito di stampare nel mese di aprile 2012
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