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La
Organo
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Ufficiale della
Società Italiana
di Colposcopia
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p
e Patologia
g
Cervico Vaginale
ANNO XXIV - N. 1
SETTEMBRE 2011
Comitato di Redazione
Coordinatore Scientifico
Vecchione Aldo (Roma)
Comitato Scientifico
Carinelli Silvestro (Milano)
Chiossi Giuseppe (Modena)
Fidelbo Melchiorre (Catania)
Gallia Laura (Asti)
Giunta Antonio (Partinico, PA)
Montanari Gioia (Torino)
Ricci Maria Grazia (Siena)
Tortolani Francesca (Modena)
Visci Paolo (Pescara)
Coordinamento Editoriale
Perino Antonio (Palermo)
Peroni Mario (Ascoli Piceno)
Piccoli Roberto (Napoli)
Sommario
SCHEMI TERAPEUTICI PER IL CARCINOMA EPITELIALE
DELL’OVAIO
F. Sopracordevole, R. Sorio
3
CONIZZAZIONE E RISCHIO DI PARTO PRETERMINE
C.A. Liverani, E. Monti, D. Puglia, F. Fanetti, S. Mangano
11
LSIL PERSISTENTI: L’ESPERIENZA DEL CENTRO
DI GINECOLOGIA ONCOLOGICA PREVENTIVA DI VERONA
P. Cattani, R. Colombari, D. Dalfior, B. Bertolin, M. T. Iannone 15
DIAGNOSTICA INFETTIVOLOGICA IN GRAVIDANZA: QUALI
PROTOCOLLI
A. Ciavattini, F. Mancioli, H. Frizzo, M.G. Piermartiri,
L. Moriconi, A.L. Tranquilli
20
RUBRICHE
Accreditamento professionale in colposcopia e fisiopatologia
del tratto genitale inferiore
a cura della SICPCV
31
Notiziario della Società
32
Direttore Responsabile
Fausto Boselli
Redazione
41043 Casinalbo (Mo)
Via Brescia, 5
Tel. 059 551685
Fax 059 5160097
Autorizzazione del Tribunale
di Ascoli Piceno
Iscr. al Reg. Stampa n. 196
del 14-03-1983
Stampa/Pubblicità
Tipolitografia F.G. snc
Strada Provinciale 14, 230
Savignano sul Panaro (Mo)
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Fax 059 796202
Proprietario
Società Italiana di
Colposcopia e Patologia
Cervico Vaginale
Via dei Soldati, 25
00186 Roma
Finito di stampare nel mese di
Settembre 2011
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SICPCV
Società Italiana di Colposcopia e Patologia Cervico Vaginale
affiliata alla International Federation for Cervical Pathology and Colposcopy (IFCPC)
Consiglio Direttivo
Presidente
Aldo Vecchione
Vice Presidenti
Antonio Frega Giancarlo Mojana Roberto Piccoli
Segretario Generale Tesoriere
Fausto Boselli
Segretario Aggiunto
Stefano De Martis
Consiglieri
Maggiorino Barbero Paolo Cattani Andrea Ciavattini
Carlo Penna Paolo Scirpa Francesco Sopracordevole
Revisori dei Conti
Fabrizio Fabiano
Alberto Biamonti Emanuela Sampugnaro
Revisori dei Conti supplenti
Maria Antonietta Bova Marco Palomba
Comitato Scientifico Permanente
Coordinatore
Antonio Perino
Referente per gli screening
Gioia Rita Montanari
Referenti Studio HPV
Il vaccino
La diagnostica
Massimo Moscarini
Franco M. Buonaguro
Deborah French
Referenti protocolli terapeutici
Alberto Agarossi Maria Grazia Fallani Brunella Guerra
Forum per le attività didattiche e la formazione
Bruno Ghiringhello Daria Minucci Roberto Zarcone
Referente per lo studio della Patologia vulvare
Mario Preti
Forum per le linee guida
Andrea Amadori Elisabetta Carico Paolo Cristoforoni
Gian Piero Fantin Carlo Antonio Liverani Giovanni Miniello
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Schemi terapeutici
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per il carcinoma epiteliale dell’ovaio
F. Sopracordevole°, R. Sorio*
°SOC di Oncologia Ginecologica
* SOC di Oncologia Medica C
Centro di Riferimento Oncologico di Aviano - IRCCS
La Colposcopia in Italia Anno XXIV – N. 1 pagg. 3 - 10
Introduzione
L
a conoscenza delle vie di diffusione metastatica dei
tumori epiteliali dell’ovaio (TEO) è alla base delle
metodiche di stadiazione e della programmazione
terapeutica. Il carcinoma ovarico diffonde precocemente
per via linfatica ai linfonodi pelvici e soprattutto lomboaortici, attraverso i linfatici che scorrono lungo i vasi ovarici (tanto che il 25% dei tumori apparentemente al I stadio
ed il 50% di quelli apparentemente al II stadio vengono
correttamente studiati allo stadio IIIC dopo lo studio chirurgico dei linfonodi retroperitoneali). La neoplasia può
diffondere per continuità ai tessuti e agli organi pelvici, e,
una volta infiltrata la superficie ovarica o la capsula della
neoformazione, le cellule neoplastiche vengono liberate
nella cavità celomatica, e vengono trasportate dalla corrente del fluido endocelomatico, stimolato dai movimenti respiratori, secondo un senso orario lungo la doccia paracolica destra fino al diaframma; le zone di più probabile
insemenzamento metastatico saranno quindi l’omento
infracolico, il peritoneo pelvico, delle docce paracoliche
(a destra più che a sinistra), il peritoneo sottodiaframmatico, la glissoniana, e via via l’omento gastrocolico, il peritoneo dei mesi e dell’intestino, la superficie della milza, fino
ad interessare la superficie di tutti gli organi endocelomatici. L’interessamento dei linfatici soprattutto diaframmatici è alla base della diminuzione del riassorbimento
del liquido celomatico con la formazione dell’ascite, alla
cui formazione contribuisce poi anche l’ipertrasudazione causata dagli impianti metastatici. Attraverso i linfatici
diaframmatici la malattia raggiunge la pleura, e determina
un versamento con citologia positiva, prevalentemente
a destra. Per via ematica la malattia può raggiungere più
raramente e più tardivamente il parenchima epatico, e
può determinare metastasi polmonari e cerebrali. L’interessamento della parete intestinale comporta poi quadri
di occlusione intestinale, sia a livello del sigma retto (più
frequentemente) che a livello del piccolo intestino (1).
La maggior parte dei casi viene riscontrata allo stadio III,
e cioè con interessamento celomatico extrapelvico, o
con interessamento dei linfonodi retroperitoneali, mentre solo il 10-15% dei casi viene diagnosticato negli stadi
Tabella 1. – Carcinoma ovarico – Stadiazione FIGO
Stadio I:
Stadio II:
MALATTIA CONFINATA ALL’OVAIO
IA
limitata ad un ovaio, capsula integra, washings negativi
IB
in entrambe le ovaie, capsula integra, washings negativi
IC
capsula NON integra o interessata,
washings o free-fluid positivo
MALATTIA LIMITATA ALLA PELVI
IIA
diffusione all’utero o alle tube
IIB
estensione ad altre strutture pelviche
IIC
capsula non integra o interessata,
washings o free fluid positivi
Stadio III: MALATTIA SOLO ENDOCELOMATICA
IIIA
positività microscopica peritoneale, LN retroperitoneali negativi
IIIB
positività macroscopica (impianti <
2 cm) LN retroperitoneali negativi
IIIC
positività macroscopica (impianti
> 2 cm) O LN retroperitoneali
positivi
Stadio IV: MALATTIA EXTRACELOMATICA
metastasi intraepatiche, intraspleniche,
versamento pleurico positivo, metastasi
cerebrali, parete addominale, vescica...
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“early” (I e II FIGO), mentre la gran parte dei casi viene
diagnosticata in stadio già avanzato (III e IV), quando la
possibilità di cura è minore (2,3). La sopravvivenza a 5 anni
negli stadi iniziali, in cui la malattia è confinata all’ovaio,
può raggiungere il 70-90%, mentre in caso di malattia riscontrata negli stadi avanzati la sopravvivenza a 5 anni si
riduce al 20-30% (4), di cui solo il 9% è senza malattia (5),
malgrado terapie integrate molto costose (5,6).
Tappe fondamentali della terapia sono stati il riconoscimento dell’importanza del primo sforzo chirurgico
per il raggiungimento del residuo 0 (R0) o microscopico
e l’introduzione nella chemioterapia dei composti del
platino. Complessivamente è stata ottenuta una miglior
sopravvivenza libera da malattia, anche se negli ultimi
20 anni di fatto non è cambiata la sopravvivenza totale.
La stadiazione del carcinoma ovarico è riportata nella
tabella 1.
Principi di terapia
Per poter impostare la terapia è necessario l’accertamento istologico preliminare, in grado di stabilire con
certezza:
a) la malignità della lesione;
b) la sede di origine del processo neoplastico (il percorso terapeutico, sia chirurgico che chemioterapico, è ovviamente diverso per un carcinoma ovarico
con disseminazione endocelomatica rispetto ad un
cancro del colon o gastrico con la stessa estensione);
c) nei casi iniziali l’eventuale grading istologico.
Il vero test diagnostico è costituito dall’ovariectomia
con esame istologico (7). Al fine di stabilire la diagnosi
e di definire l’operabilità o meno del caso può essere
utile un approccio laparoscopico preliminare: la laparoscopia sarebbe utile per definire i casi sicuramente
non operabili, tutti gli altri casi andranno sottoposti a
laparotomia (8).
Accertata la diagnosi va eseguita una adeguata stadiazione, che non può prescindere da una esauriente ed
adeguata esplorazione laparotomica del celoma e del
retro peritoneo.
Va ricordato che la sopravvivenza a 5 anni è complessivamente aumentata di circa il 20% da quando è stata
introdotta la chirurgia di debulky, e la chemioterapia
prima con platino e poi con taxani. La sopravvivenza è
aumentata negli stadi IB e IC, in relazione alla miglior
selezione delle pazienti in seguito al’impiego di una
corretta stadiazione chirurgica, eliminando quindi casi
di donne sottostadiate che facevano peggiorare la sopravvivenza in questi stadi (9).
La successiva terapia, nei casi operabili, è in ogni caso
volta alla rimozione di tutto il tessuto neoplastico, nelle diverse sedi in cui può essere presente, con intento
di radicalità: il residuo di malattia è infatti correlato alla
prognosi. È ovvio che il giudizio di operabilità dipende
ovviamente dall’abilità e dall’esperienza del chirurgo (8).
:[HKPHaPVULJOPY\YNPJH
Lo stadio della malattia viene definito dalla valutazione
antomopatologica postchirurgica.
Indipendentemente dall’estensione endocelomatica
della malattia, la stadiazione minima deve comprendere i seguenti tempi chirurgici, similmente a quanto consigliato dall’EORTC e dal GOG e dalla FIGO (9):
- laparotomia longitudinale sovraombelico (xifo)- pubica;
- washing endocelomatico;
- esplorazione completa degli organi endocelomatici e
del peritoneo, valutando il peritoneo sottodiaframmatico, lo spazio di Morrison, i mesi, la loggia splenica,
l’omento anche gastrocolico, la glissoniana;
- biopsie peritoneali “at random” nei casi iniziali, senza lesioni peritoneali visibili, preferenzialmente nelle
zone di maggior probabile insemenzamento metastatico (docce paracoliche, peritoneo pelvico, peritoneo
sottodiaframmatico dx, glissoniana, etc.), anche se
non sembrano essere in grado di rivelare efficacemente casi in stadio più avanzato (10);
- sampling linfonodale pelvico bilaterale e lomboaortico
(linfoadenectomia sistematica in caso di grading e istotipo sfavorevoli (11)). Si ricorda che in centri adeguati in
media il numero di linfonodi lombo aortici asportati è
stato di 24 (stazioni laterocavali, intercavoaortiche, precavali, iliaci comuni) e 21 dalle stazioni pelviche (11).
- resezione del tumore primitivo;
- rimozione dell’ovaio/e restante/i, delle tube, dell’utero
(possono essere lasciati in sede dopo consenso informato in caso di chirurgia conservativa negli stadi iniziali in donne giovani desiderose di prole);
- omentectomia infracolica (gastrocolica in presenza
di interessamento addominale diffuso o di metastasi
all’omento infracolico);
- appendicectomia almeno in gruppi selezionati di pazienti (tumori mucinosi).
Tutte le lesioni sospette endocelomatiche dovranno essere asportate o almeno biopsiate; in presenza di versamento pleurico dovrà essere eseguita toracentesi con
esame citologico (in passato era stata proposta anche la
pleuroscopia (12). Gli esiti istologici, radiologici e clinici
modificano lo stadio posto alla laparotomia e viceversa.
Tra gli esami di stadiazione preoperatoria rientra la radiografia (o altra tecnica di imaging) del torace; altre
tecniche di imaging o il dosaggio dei marcatori possono essere utili in fase preoperatoria ma non modificano
di per sé la stadiazione.
È concreto il rischio di sottostadiazione se la chirurgia
di stadiazione iniziale è sub ottimale. Soprattutto in
caso di malattia al I stadio l’accurata stadiazione risulta
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essere un fattore indipendente per la prognosi (13).
Tra i capitoli più discussi della stadiazione chirurgica è
il tipo di linfoadenectomia nella valutazione del retro
peritoneo. Non è stata riscontrata differenza significativa di complicanze maggiori tra sampling linfonodale
(pelvico e lomboaortico) e linfoadenectomia sistemica,
quando eseguita in centri di riferimento per la patologia
(11), anche se la linfoadenectomia sistemica ovviamente
comporta un allungamento del tempo chirurgico e una
maggior perdita ematica, con una maggior frequenza
del ricorso a trasfusioni. Va considerato che la frequenza
di linfonodi positivi è in relazione alla diffusione endocelomatica della malattia ma anche del numero di linfonodi
rimossi: in questo modo potranno essere più facilmente
identificate donne realmente allo stadio IIIC, che altrimenti sarebbero sottostadiate. In realtà la linfoadenectomia sistematica eseguita negli stadi early comporta che
circa un quarto delle pazienti vengano poi ristadiate correttamente allo stadio IIIC (11); in realtà molte di queste
metastasi sono micrometastasi e non sappiamo quale
possa essere il loro significato clinico. La percentuale di
interessamento metastatico linfonodale in pazienti stadiate al I stadio sarebbe tra il 9 e il 25% (14). È ovvio che
con la linfoadenectomia sistematica la stadiazione è ottimale. La frequenza di positività linfonodale correla con il
grading e con il sottotipo istologico e poiché in genere la
diagnosi istologica è disponibile prima della chirurgia di
debulking è possibile pianificare una linfoadenectomia
sistematica almeno nei tumori sierosi con grading G3 o
indifferenziati (11). La positività linfonodale è un fattore
prognostico indipendente per la sopravvivenza, sia negli
stadi avanzati che in quelli early.
massimo sforzo chirurgico con un debulking tendente
a R0 - prima chirurgia -: è noto infatti che l’efficacia della chemioterapia è massima nei casi con citoriduzione
ottimale o con residuo minimo. Tranne che in alcuni
stadi iniziali, è prevista chemioterapia adiuvante con
carboplatino e taxolo per sei cicli. Nei i casi inoperabili
(evidenziabili con la laparoscopia in fase diagnostica,
da eseguire ad esempio nei casi di malattia ascitogena
o presumibilmente in stadio avanzato (8)) va eseguita la
chirurgia di intervallo - con gli stessi principi della prima chirurgia - dopo tre cicli di chemioterapia neoadiuvante, seguiti da ulteriori 3 cicli di chemioterapia (19): ci
sono dati però che dimostrano come la sopravvivenza
sia migliore nei casi in cui si ottiene l’R0 durante la prima chirurgia rispetto a quando lo si raggiunge dopo la
chirurgia di intervallo (8,20).
La laparoscopia può essere utile nei casi sospetti per
definire la diagnosi istologica e per dare un giudizio di
operabilità: in presenza di lesioni miliariformi, diffuse
o non resecabili la valutazione laparoscopica è in grado di indirizzare correttamente donne ad una chemioterapia neoadiuvante e ad una successiva chirurgia di
intervallo e di indirizzare ad una chirurgia di debulky
i casi operabili con una probabilità di raggiungere l’R0
nel 54% dei casi e R<2 cm fino al 77% dei casi (8). Identificare i casi non operabili ha il significato di evitare laparotomie con resezione sub ottimale e quindi inutili,
che sono solo in grado di ritardare la chemioterapia e
di intaccare le difese dell’organismo (8). Sono apparsi
in letteratura score per definire l’operabilità o meno (in
relazione all’estensione e alle sedi di disseminazione
della malattia) in base ai risultati della laparoscopia (21).
:[YH[LNPH[LYHWL\[PJHNLULYHSL
7YPTHJOPY\YNPH
La strategia terapeutica deve tener conto che i principali fattori prognostici nei TEO sono:
- lo stadio e l’estensione della malattia alla presentazione;
- la possibilità o meno di ottenere un debulking ottimale senza residuo macroscopico di malattia, cioè
R0 (15). Negli stadi avanzati le donne con debulking
ottimale rispetto a quelle in cui la prima chirurgia ha
lasciato malattia macroscopica hanno una sopravvivenza significativamente maggiore (30-40% vs 1520%) a 5 anni (4,9) e la possibilità di un debulky ottimale ovviamente è in relazione all’estensione della
malattia all’esplorazione chirurgica (16) oltre che con
il fatto che la prima chirurgia sia eseguita da un chirurgo esperto nella chirurgia del cancro ovario (17) in
un centro di riferimento che abbia un alto volume di
interventi di questo tipo (18);
- la sensibilità della neoplasia alla chemioterapia con
platino e il grading istologico della neoplasia.
La strategia terapeutica prevede, per i casi operabili, il
Dopo la diagnosi e la stadiazione, la chirurgia con un
ottimale debulking è fattore determinante. Il debulking
deve porsi l’obiettivo di essere radicale, con assenza di
malattia alla fine dell’intervento, e in ogni caso deve essere rivolto alla maggior citoriduzione possibile. Al di
fuori degli stadi iniziali, si tratta di una chirurgia aggressiva e complessa, non preventivamente definibile nella
sua estensione, che deve “a domanda”, caso per caso a
seconda della disseminazione della malattia, essere in
grado di far fronte a innumerevoli aspetti della chirurgia
addominale e pelvica, oltre che retroperitoneale.
L’intervento è laparotomico e, al di fuori degli stadi iniziali dove può essere prevista una chirurgia conservativa dopo consenso informato, prevede l’annessiectomia
bilaterale, l’isterectomia eventualmente extraperitoneale, l’omentectomia radicale, l’eventuale appendicectomia, la linfoadenectomia pelvica e lombo aortica (secondo la maggior parte degli autori la linfoadenectomia
sistematica ha senso solo quando si sia raggiunta una
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ottimale citoriduzione endocelomatica: in caso contrario, potrebbe avere senso una valutazione chirurgica
stadiante per verificare la presenza di uno stadio IIIC).
Il massimo sforzo chirurgico, che migliora la prognosi
(22) può comportare l’asportazione di lesioni a livello
del peritoneo diaframmatico (23,24,25), dell’addome superiore (24), la splenectomia (26), gli interventi sul retto
sigma e sul colon (27,28), anche nell’ambito dell’esecuzione di exenteratio posteriore (29), sul tenue, sulle vie
urinarie, l’asportazione del peritoneo pelvico (28), etc…
Si tratta di una chirurgia molto costosa anche in termini
economici (5,6) e gravata da un alto tasso di complicanze (deiscenze, fistole, etc.).
*OPY\YNPHKPPU[LY]HSSV
È la chirurgia che viene eseguita nei casi precedentemente giudicati inoperabili e sottoposti quindi a chemioterapia neoadiuvante, e che alla ristadiazione clinico-strumentale dopo 3 cicli dimostrano una risposta alla
terapia tale da rientrare nell’operabilità. Oppure si tratta
di casi con chirurgia citoriduttiva grossolanamente non
ottimale (es.: stadio III B sottoposto solo ad annessiectomia). Uno studio randomizzato dell’EORTC ha concluso
che la chirurgia di intervallo è in grado di aumentare la
sopravvivenza, rispetto al fatto di eseguire la chirurgia
dopo tutti i sei cicli di chemioterapia neoadiuvante.
La chirurgia di intervallo, se riesce a portare la paziente a R0, darebbe le stesse possibilità di sopravvivenza
come per le donne in cui l’R0 è stato ottenuto alla prima
chirurgia (15).
:LJVUKHJOPY\YNPH
Nell’ambito della seconda chirurgia rientrano interventi
tutti volti ad ottenere una citoriduzione ottimale, ma in
situazioni eterogenee: vi rientrano la chirurgia di intervallo, la chirurgia della persistenza in presenza di primo
intervento non ottimale, la chirurgia delle recidive.
Nei casi in cui c’è persistenza di malattia dopo chirurgia
inadeguata e chemioterapia di prima linea la malattia va
trattata se possibile con nuova chirurgia, sempre con
intento di radicalità, che va anche a completare la precedente chirurgia inadeguata.
Anche la terapia delle recidive è ancora una volta principalmente chirurgica (30), anche in pazienti con recidiva solo retro peritoneale (31), con intento di radicalità,
di citoriduzione e poi eventualmente di palliazione, va
eseguita presso centri di riferimento. Si tratta spesso di
una chirurgia complessa che può coinvolgente l’intestino e più raramente le vie urinarie, con ricostruzione
della continuità delle stesse o con interventi di derivazione (32) su un terreno già provato dalla prima chirurgia e dalla malattia. In relazione alla frequente progressione intracelomatica con interessamento intestinale e
conseguente occlusione intestinale può essere necessaria una chirurgia di salvataggio, con derivazioni intestinali (resezione con anastomosi, by-pass, derivazioni
esterne). In quest’ottica non va dimenticata, nell’ambito
della chirurgia palliativa, oltre all’esecuzione di derivazioni intestinali, la gastrostomia endoscopica percutanea a scopo decompressivo (33).
9LZ[HNPUN
Non è più utilizzata di routine la rivalutazione chirurgica dopo la prima chirurgia e la chemioterapia di prima
linea (second look), ma viene eseguita una rivalutazione clinico-strumentale (esame obiettivo ginecologico,
marcatori, tecniche di imaging con valutazione dell’addome, del retroperitoneo, del torace). Infatti la rivalutazione chirurgica laparotomica è troppo invasiva in
pazienti che hanno comunque davanti la possibilità di
eseguire una nuova chirurgia per recidiva di malattia,
e una valutazione laparoscopica non è indicata nella
normale pratica clinica in relazione all’alta possibilità
di falsi negativi: queste tecniche restano indicate solo
nell’ambito di studi clinici controllati.
*OLTPV[LYHWPHHKP\]HU[LVKPWYPTHSPULH
La chemioterapia adiuvante è indicata in tutti i casi di
TEO al di sopra dello stadio IA e IB grado 1 e istotipo
non a cellule chiare o in caso di pazienti non adeguatamente stadiate. Il farmaco di uso corrente è il carboplatino AUC5, combinato con il taxolo 175mg/mq in tre
ore, per 4-6 volte ogni 3 settimane in presenza di significativi fattori di rischio. Negli stadi avanzati la chemioterapia standard è ancora la combinazione carboplatino/taxolo per 6 cicli Non è dimostrato che l’aggiunta di
un farmaco attivo o l’aumento del numero di cicli ne
aumenti l’efficacia (34). Un’alternativa di pari efficacia al
taxolo è rappresentata dalla doxorubicina liposomiale
peghilata (caelix) come dimostrato dallo studio italiano
MITO 2 (35,36). Recenti comunicazioni (GOG 218 collaborators, ASCO 2010, e ICON 17 collaborators, ESMO
2010) hanno evidenziato il ruolo positivo di bevacizumab associato e di mantenimento alla doppietta standard carboplatino-taxolo: il vantaggio in termini di sopravvivenza libera è statisticamente significativo e varia
tra 2 e 4 mesi circa.
*OLTPV[LYHWPHULVHKP\]HU[L
È stato recentemente dimostrato, ma è opinione comune tra i più qualificati ginecologi-oncologi che vada data
precedenza alla chirurgia con intento radicale (36) che
l’approccio neoadiuvante può essere considerato un’alternativa alla chirurgia primaria. Nei casi non operabili,
o sottoposti solo a laparotomia esplorativa o a chirur-
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gia minima (es.: solo annessiectomia in caso di malattia
grossolanamente diffusa nel celoma), le pazienti vengono trattate ugualmente con carboplatino e taxolo al
fine di ottenere una riduzione di malattia che sia in grado di portare le pazienti all’operabilità. Tre cicli di chemioterapia sono quelli che ottengono i risultati migliori
come riduzione della massa neoplastica, e la successiva
chirurgia di intervallo è in grado di raggiungere la citoriduzione ottimale nel 60-80% dei casi (8,15,37). Dopo la
chirurgia di intervallo vengono eseguiti gli altri tre cicli
a scopo di consolidamento.
Nei casi in cui per altri motivi (patologie intercorrenti, alto
rischio operatorio) la paziente non possa essere sottoposta a chirurgia di intervallo, la paziente verrà trattata con
sola chemioterapia palliativa, in genere non oltre sei cicli
causa tossicità da accumulo invalidante la qualità di vita.
*OLTPV[LYHWPHKPZLJVUKHSPULH
Quando la malattia recidiva o va in progressione, ci si
trova di fronte a quattro scenari possibili:
- Farmacorefrattarietà: progressione durante il trattamento con JM8-taxolo; si utilizzano allora i farmaci attivi disponibili, (doxorubicina liposomiale pegilata, topotecan, gemcitabina…) in monochemioterapia. Ove
disponibile valutare per un protocollo sperimentale;
- Farmaco resistenza: ricaduta entro 6 mesi dalla fine della terapia primaria: l’approccio è simile al precedente;
se possibile proporre una fase II di associazione con un
prodotto biologico (in questo momento il più interessante è l’anticorpo antivascolare bevacizumab);
- Media sensibilità: progressione tra i 6 e i 12 mesi dalla
fine della terapia primaria; la paziente può essere trattata con un regime basato sul platino ma è la candidata ideale per uno studio di fase III di nuove combinazioni. La combinazione caelix-trabectedina ha avuto
recentemente questa indicazione (38);
- Farmacosensibilità: progressione dopo almeno 12
mesi dalla fine della terapia primaria; in questa situazione i casi operabili vanno operati; dopo la seconda
chirurgia o nei casi inoperabili va ripresa la terapia con
carboplatino-taxolo. Un recente studio ha dimostrato
la possibilità di sostituire il taxolo con la doxorubicina
liposomiale peghilata (39).
(S[YP[YH[[HTLU[PKPJVUZVSPKHTLU[V
Si tratta di terapie eseguite dopo l’esecuzione della chemioterapia di prima linea per mantenere e consolidare
quindi la risposta ottenuta. Il successo della terapia di
consolidamento sta nel migliorare la prognosi.
Tra i vari tipi di trattamento vanno ricordati:
- La radioterapia sull’addome: si è dimostrata utile solo nel
sottogruppo di pazienti con R0 dopo la prima chirurgia,
ma a prezzo di tossicità intestinale importante (40);
- L’utilizzo di radionuclidi endocelomatici collegati o
meno ad anticorpi non si sono dimostrati in grado di
aumentare la sopravvivenza (40);
- La chemioterapia prolungata con taxolo ha avuto un
impatto solo sulla sopravvivenza libera da progressione a costi tossici elevati;
- L’utilizzo di farmaci biologici: sono stati utilizzati diversi farmaci, tra cui gli interferoni alfa e gamma, il tanomastat, l’oregovomab (una sostanza che lega il CA125),
senza che studi randomizzati abbiano dimostrato un
aumento della sopravvivenza. Non ci sono ancora i
dati definitivi sull’uso di erlotinib (piccola molecola
anti EGFR) e di abagovomab (vaccino anti CA125).
(S[YP[YH[[HTLU[P
- Chemioterapia endocelomatica con cisplatino: già utilizzata in passato e proposta da alcune scuole anche in
Italia (41). Alcuni studi randomizzati indicano un certo impatto dell’approccio i.p. sulla sopravvivenza(42),
ma la complessità assistenziale ne ha di fatto limitato
l’impiego di routine; l’alternativa con il carboplatino è
tutt’ora oggetto di studio;
- Platino e taxolo endocelomatico: un recente studio
del GOG ha evidenziato che nei casi al III stadio trattati con chirurgia ottimale (R0 o lesioni residue fino a
1 cm di diametro) la chemioterapia con cisplatino e
taxolo i.p. + taxolo endovenoso determina un aumento significativo (16 mesi) della sopravvivenza rispetto
alla chemioterapia e.v. (43). I costi in termini di tossicità
sono stati però giudicati eccessivi e ciò ha stimolato
la produzione di protocolli tendenti a migliorarne la
tollerabilità;
- Chemioipertermia: eseguita intraoperatoriamente
dopo l’esecuzione della citoriduzione / peritoneectomia ottimale nei casi recidivi con carcinomatosi diffusa; non vi sono studi di confronto con la chemioterapia
standard, complessivamente la morbilità arriva al 40%
e la mortalità al 10%. La tecnica è estremamente complessa e va riservata ad istituzioni di riferimento (44).
:P[\HaPVUPWHY[PJVSHYP
.SPZ[HKP¸,HYS`¹0L00Z[HKPV
Dopo la stadiazione (che deve essere ottimale, eseguita per via laparotomia longitudinale) nell’ambito della
prima chirurgia va eseguito quanto previsto dai protocolli FIGO EORTC e GOG, e cioè nelle donne alla fine
del percorso riproduttivo l’annessiectomia bilaterale,
l’isterectomia, l’omentectomia, la appendicectomia in
caso di lesione mucinosa. Resta in discussione l’entità
e le modalità della linfoadenectomia. Ricordiamo che a
questo proposito NON sembra esserci differenza significativa, in genere negli stadi early, in termini di soprav-
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vivenza e disease free survival tra la linfoadenectomia
sistematica e il sampling linfonodale dei linfonodi retroperitoneale - pelvici e lombo aortici - (11), anche se la
linfoadenectomia sistematica è in grado di individuare
un maggior numero di donne con metastasi linfonodali e quindi di stadiare correttamente donne allo stadio
IIIC che verrebbero sottostadiate - differenza statisticamente significativa - (11).
In età fertile, quando la diagnosi di stadio IA sia affidabile, (lesione limitata ad un ovaio, con capsula integra, superficie non coinvolta, washings negativi), la terapia può
limitarsi all’ovariectomia monolaterale, alla stadiazione
chirurgica, alla linfoadenectomia retroperitoneale (45,46).
La prognosi peggiora passando dallo stadio IA a quello
IC (rottura della capsula o coinvolgimento della superficie ovarica o washings positivi) e il fattore prognostico più
importante sarebbe la differenziazione cellulare, che peraltro non figura tra i parametri della stadiazione (47). La
frequenza di recidive dopo il trattamento chirurgico che
abbia completamente eradicato la malattia varia a seconda di diversi sottogruppi di pazienti e per questo motivo
viene eseguita in alcuni di questi sottogruppi chemioterapia complementare. Poiché è stata dimostrata la superiorità degli schemi a base di platino negli stadi avanzati, questi
regimi sono di prima scelta anche in caso di terapia adiuvante negli stadi early dopo chirurgia. La terapia adiuvante
è indicata allo stadio IC, indipendentemente dal grading,
è discussa negli stadi IA G2 e negli stadi IB G1-G2 non è
indicata negli stadi IA G1 (48,49). In effetti la chemioterapia si è dimostrata utile anche nei sottogruppi di pazienti
con staging subottimale (come ovvio attendersi) (48,50),
alle quali dovrà essere proposta.
Quindi, la chemioterapia deve essere proposta a tutti i
casi in stadio IA e IB che non siano stati stadiati adeguatamente o che abbiano istologia G3 (48). Non ci sono
dati adeguati oggi per dire che se le donne allo stadio
IA e IB adeguatamente stadiate con grading G1 e G2
potrebbero avere un guadagno in termini di sopravvivenza o di disease free survival se sottoposte a chemioterapia adiuvante.
Per quanto riguarda l’entità della chemioterapia, lo studio del GOG del 2006 ha dimostrato che non c’è differenza nell’eseguire 3 o 6 cicli di carboplatino e taxolo
negli stadi IA e IB G3, I (A-B-C) a cellule chiare, IC e al
secondo stadio completamente resecato (51).
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Una paziente può essere definita al IV stadio prima della prima chirurgia; in caso di IV stadio per positività del
versamento pleurico è consigliabile eseguire prima la
chirurgia di citoriduzione addominale e quindi inviare la
paziente a chemioterapia con carboplatino-taxolo per
6 cicli. In caso di positività intraepatica (che va differen-
ziata dalla positività alla glissoniana !!!) la sopravvivenza a 5 anni delle pazienti si avvicina allo 0. La strategia
terapeutica in questi casi è di eseguire chemioterapia
neoadiuvante con carboplatino e taxolo e quindi, solo
in caso di risposta, inviare la paziente a chirurgia.
Nel caso di identificazione del IV stadio dopo la chirurgia la paziente eseguirà come per il III stadio chemioterapia con carboplatino e taxolo e la prognosi sarà in
relazione al residuo alla prima chirurgia.
0;,6IVYKLYSPUL;,6)
I TEO-B presentano alcuni aspetti simili a quelli dei
TEO maligni, hanno la possibilità di recidivare e di
dare impianti metastatici endocelomatici (52), ma non
danno invasione stromale nè in sede primitiva nè in
sede di impianti in oltre il 90% dei casi. Il 6% dei TEOB presenta impianti invasivi, con prognosi molto scarsa, vicina a quella dei TEO invasivi allo stadio III (53).
Non è chiaro se con il tempo siano in grado di evolvere verso la malignità: recentemente Kurman avrebbe
identificato due vie carcinogenetiche per i TEO, di cui
quella di tipo I associata a tumori a lento sviluppo e
originatesi prevalentemente da TEO-B, mentre quella di tipo II è associata a mutazioni della TP53, ad alta
instabilità genetica, veloce crescita e alta aggressività
(54). I TEO-B rappresentano circa il 10% dei TEO, hanno un’ottima prognosi, 90 % circa di sopravvivenza a 5
anni (9), generalmente vengono diagnosticati allo stadio I. La diagnosi differenziale verso i TEO maligni è
solo istologica, postchirurgica.
La presenza di un TEO-B limitato all’ovaio o anche con
impianti non invasivi non inficia la sopravvivenza e non
ha conseguenze cliniche, se non legate alla possibilità di
recidiva e quindi in età fertile la tendenza è conservativa,
con escissione della lesione fino all’ovariectomia/annessiectomia monolaterale e alla rimozione degli impianti,
dopo adeguato consenso informato da parte della paziente. In menopausa o alla fine del percorso riproduttivo è indicata l’annessiectomia bilaterale, oltre alla rimozione degli impianti: non ci sono evidenze che in questi
casi l’isterectomia abbia significato (55). Ovviamente
è necessaria una adeguata stadiazione con washings e
biopsie, ed è auspicabile, secondo alcuni, una biopsia
dell’ovaio controlaterale. Non c’è accordo sulla necessità
o meno di asportare l’omento infracolico, ma chi non lo
rimuove solitamente esegue una ampia biopsia (56).
In caso di lesione mucinosa va asportata l’appendice,
anche al fine di escludere metastasi ovariche da tumori
appendicolari.
L’esplorazione dei linfonodi retroperitoneali può comportare l’escissione di linfonodi palpabili e ingrossati
(“bulky”), ma in genere la presenza di interessamento
linfonodale nei TEO-B è rara e solitamente non invasiva
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(55,57); per questo non è raccomandabile la linfoadenectomia sistematica, soprattutto in assenza di linfonodi “bulky”.
In presenza di una lesione ovarica trattata conservativamente è indicato poi un attento follow-up, con valutazione ginecologica, ETV, CA125 ogni 3 mesi e, secondo
alcuni, almeno una laparoscopia a 6-12 mesi per identificare forme con eventuale evoluzione (56).
Non è indicata chemioterapia adiuvante, se non nei
casi con fattori prognostici negativi quali la presenza di
impianti invasivi o microinvasivi ed in questi casi solitamente si utilizza la terapia con carboplatino e taxani.
La chemioterapia sarebbe indicata anche in presenza di
neoplasia estesa non resecata completamente.
In presenza di recidiva è indicata ancora in prima linea
la radicalizzazione chirurgica.
In realtà, il comportamento dei clinici non è uniforme
(55,56,57,58) e restano molte aree grigie per cui non
sono ancora presenti linee di trattamento uniformemente condivise.
Conclusioni
Il trattamento dei TEO necessita dell’integrazione tra
le competenze del ginecologo e dell’oncologo medico. La preparazione chirurgica del ginecologo oncologo quale chirurgo pelvico e addominale “a tutto
campo” è determinante poiché l’impatto della chirurgia di stadiazione e della prima chirurgia, con una citoriduzione ottimale, è in relazione alla prognosi della paziente. Gioca inoltre un ruolo fondamentale nel
trattamento delle recidive e nella chirurgia palliativa. Il
ruolo dell’oncologo medico è fondamentale non solo
per l’identificazione degli schemi di chemioterapia
più adatti al caso, soprattutto nelle recidive, ma anche
per stabilire, in accordo con il ginecologo oncologo,
lo specifico programma terapeutico e la successione
delle scelte terapeutiche proprie di quel caso. Solo in
questo modo è possibile dare alle donne affette da
TEO le migliori chance di sopravvivenza con la migliore qualità di vita possibile.
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Conizzazione e rischio
di parto pretermine
C.A. Liverani, E. Monti, D. Puglia, F. Fanetti, S. Mangano
Oncologia Ginecologica Preventiva;
Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico;
Università degli Studi di Milano
La Colposcopia in Italia Anno XXIV – N. 1 pagg. 11 - 14
Introduzione
I
l parto pretermine rappresenta la principale causa di
morbilità e mortalità neonatale nei paesi industrializzati e qualsiasi intervento possa contribuire ad aumentarne il tasso deve essere attentamente valutato (1-5).
La neoplasia intraepiteliale cervicale (CIN) si verifica
spesso in donne in età riproduttiva. Diverse procedure
sono state utilizzate per trattare la CIN, compresa la conizzazione, la crioterapia, il laser e l’escissione con ansa
termica (LLETZ o LEEP). Questa ultima metodica è stata
introdotta nel 1989 ed è oggi ampiamente utilizzata sia
in Italia come nel resto del mondo (6-8). I vantaggi della
LEEP rispetto agli altri metodi di trattamento comprendono il fatto che possa essere eseguita in anestesia locale a livello ambulatoriale, che sia relativamente poco
costosa, semplice e rapida da eseguire e che il tessuto
escisso possa essere valutato istologicamente (9).
Nonostante le donne sottoposte a chirurgia escissionale
cervicale per lesioni preneoplastiche siano considerate
a rischio aumentato di eventi avversi della gravidanza
come appunto il parto pretermine, i dati della letteratura
a questo proposito sono discordanti. Studi meno recenti
avevano evidenziato come la conizzazione cervicale fosse associata a parto pretermine (meno di 37 settimane),
basso peso alla nascita (meno di 2500 gr), incompetenza
cervicale e stenosi cervicale (10-17). Due studi avevano
osservato un tasso più elevato di basso peso alla nascita
nei neonati di donne che erano state sottoposte a LEEP
(18,19), ma non avevano identificato una differenza nel
tasso di parti pretermine. Una review del 2003 aveva invece dimostrato esattamente il contrario: in questa analisi il parto pretermine ma non il basso peso alla nascita
era significativamente aumentato nelle donne sottoposte a LEEP; secondo l’autore il fumo di sigaretta poteva
rappresentare un fattore che contribuiva al basso peso
alla nascita ma non spiegava la più alta incidenza di parto
pretermine (20). Altri autori avevano ritrovato un rischio
aumentato di rottura prematura delle membrane dopo
queste procedure: Sadler non aveva riscontrato un aumento del rischio di parto pretermine ma solo di rottura
prematura delle membrane (21), mentre Samson e Sjoborg avevano evidenziato un rischio aumentato per entrambi gli eventi (22,23).
Studi più recenti hanno confermato il rischio aumentato
di parto pretermine nelle donne sottoposte a LEEP (2431). In particolare Noehr ha rilevato un raddoppiamento del rischio di parto pretermine nelle donne sottoposte a LEEP anche dopo correzione per vari potenziali
fattori di rischio, sia per quanto riguarda le gravidanze
singole (27) che – anche se in minor misura – quelle
gemellari (28). Jakobsson ha sottolineato come la LEEP
aumentava il rischio di parto pretermine soprattutto nel
sottogruppo di donne che non avevano avuto un parto
pretermine in precedenza e tale rischio era più elevato
dopo LEEP ripetute (30). Armarnik ha trovato un’associazione fra conizzazione (la maggioranza con LEEP) e
parto prematuro al di sotto delle 34 settimane e questa associazione persisteva anche dopo controllo per
vari fattori di confondi mento (31). Una metanalisi nel
2006 ha mostrato come la LEEP fosse significativamente
associata al parto pretermine e alla rottura prematura
delle membrane, ma non procedure ablative quali la
laser vaporizzazione (32). Queste osservazioni venivano confermate nel medesimo anno da uno studio di
Crane, che dimostrava come la LEEP e la conizzazione a
lama fredda, ma non la crioterapia, fossero associate al
parto pretermine (24). Al contrario Jakobsson nel 2007
dimostrava un rischio aumentato di parto pretermine
anche dopo procedure ablative come la crioterapia,
l’elettrocoagulazione e la laser vaporizzazione (33).
Himes nel 2007 ha dimostrato che fra le donne trattate,
quelle con parto pretermine avevano avuto un minore intervallo temporale fra procedura e gravidanza rispetto alle
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donne con una successiva gravidanza a termine (34). In realtà – dopo un periodo sufficiente dall’intervento di LEEP
(≥ 3 mesi) – la lunghezza della cervice uterina misurata con
ecografia transvaginale non risulta diminuita (35).
La maggioranza degli studi indica un rischio aumentato
di parto pretermine con l’aumentare dell’altezza della
conizzazione (12,14,16,18,22,29,30,32,33,36,37). Noehr ha
mostrato un aumento stimato del 6% di rischio di parto
pretermine per ogni millimetro di tessuto escisso. Il grado istologico della lesione su LEEP e il tempo trascorso
dal momento dell’esecuzione dell’intervento non risultavano invece associati ad un aumento del rischio, mentre
due o più LEEP aumentavano il rischio del quadruplo (29).
Oltre all’altezza del cono cervicale, anche il quantitativo
globale di tessuto escisso ha importanza nel determinismo di eventuali complicazioni. Infatti la gravidanza
dopo trachelectomia è associata a vari esiti avversi della
gravidanza, compresi l’aborto del secondo trimestre e
il parto pretermine (37): rispetto ad un’incidenza di circa il 13% di parto pretermine negli Stati Uniti, le donne
sottoposte a trachelectomia per carcinoma cervicale
microinvasivo avevano una probabilità doppia di partorire prematuramente (38). A ciò contribuirebbero sia
il diminuito supporto meccanico e la lunghezza della
cervice uterina, che l’aumentata suscettibilità alle infezioni dopo la perdita di produzione del muco cervicale.
Un’altra metanalisi ha mostrato come la LEEP, la crioterapia e la laser vaporizzazione non erano associate ad un
rischio significativamente aumentato di complicanze
della gravidanza, mentre la conizzazione a lama fredda e probabilmente tanto la laser conizzazione quanto
coagulazioni diatermiche radicali erano associate ad un
aumentato rischio di successiva mortalità perinatale ed
altri esiti avversi della gravidanza (39). Infatti il volume
di tessuto cervicale rimosso con una laser conizzazione
è mediamente superiore rispetto a quello rimosso con
una LEEP (40).
Occorre considerare che in passato studi che non avevano ritrovato differenze statisticamente significative
potrebbero non essere stati pubblicati, portando così ad
un eccesso in letteratura di dati pubblicati per esiti sfavorevoli. Molto importante è anche controllare che tutti i
possibili fattori di confondimento siano stati considerati,
compresi lo stato socio-economico, un precoce inizio
dell’attività sessuale, pregressi parti pretermine, profondità del campione tissutale e fumo di sigaretta (che
potrebbero conferire indipendentemente un rischio più
elevato di parto pretermine). Già Cruickshank aveva dimostrato che quando si andavano a controllare i fattori
socio-epidemiologici associati con lo sviluppo della CIN,
la LEEP non esercitava un effetto avverso indipendente
sui successivi esiti ostetrici (41). Anche in uno studio di
Tan, la LEEP non ha avuto effetti avversi sugli esiti della
gravidanza (42). Infine Shanbhag ha fatto notare come le
donne affette da CIN 3 abbiano tassi più elevati di parto
pretermine spontaneo e rottura prematura delle membrane rispetto alla popolazione generale e la LEEP non
alterava questi tassi di complicazioni della gravidanza.
Secondo questo autore le donne andrebbero informate
adeguatamente prima del trattamento, ma dovrebbero
essere rassicurate riguardo il rischio di parto pretermine
(43). Anche Bruinsma aveva riscontrato come le donne
affette da CIN 3 fossero a rischio più elevato di parto pretermine indipendentemente dal fatto che fossero state
sottoposte o meno a LEEP (44). Un’ulteriore conferma a
questo proposito si deve recentemente ad uno studio di
Werner, che ha mostrato come – rispetto alla popolazione ostetrica generale – non si sia osservato alcun rischio
aumentato di parto pretermine (prima della 34 settimana, ma anche fra la 34 e la 36 settimana di gestazione)
nelle donne che erano state sottoposte a LEEP prima o
dopo una gravidanza (45).
Ciononostante una recentissima revisione sistematica
e metanalisi ha concluso che anche alcune metodiche
ablative hanno un piccolo rischio di parto pretermine,
mentre i trattamenti escissionali un rischio significativamente aumentato (46).
La nostra esperienza
Abbiamo analizzato gli esiti ostetrici dopo LEEP nella
popolazione di donne che hanno partorito presso il
Policlinico di Milano nell’arco di dieci anni. Tutte le pazienti studiate erano state sottoposte a LEEP cervicale
per lesioni di alto grado (CIN 2 e CIN 3).
Su un totale di 66.215 donne che hanno partorito nella
nostra clinica fra il Gennaio 2000 e il Dicembre 2009,
i parti singoli sono stati 61.730. Di queste pazienti 608
erano state sottoposte in precedenza a LEEP per CIN
2-3 all’interno della nostra unità di colposcopia.
I parti pretermine sono stati 3.875 (6,3%) nella popolazione ostetrica generale e 15 (2,4%) nelle donne sottoposte a LEEP. Il volume mediano del tessuto escisso era
di 2,8 cm3 e l’altezza mediana di 1,2 cm. Il calcolo del
volume dell’emiellissoide ottenuto dopo LEEP è stato
effettuato utilizzando la formula matematica: 1/2 x 4/3 x
π x a/2 x b/2 x c (l’altezza è infatti un raggio dell’ellissoide piuttosto che un diametro) (40).
Questi dati non sono confrontabili con quelli di altri
studi che hanno inglobato differenti metodiche escissionali, ma sono da considerarsi “puri” in quanto si riferiscono esclusivamente a lesioni di alto grado trattate
tutte con la medesima tecnica (LEEP con anse da 1,5 a 2
cm di diametro), rigorosamente sotto guida colposcopica, da quattro operatori con esperienza in patologia
del tratto genitale inferiore.
Il nostro studio non mostra alcun rischio di parto prematuro dopo LEEP per volumi di tessuto escisso fino a
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2,8 cm3 e altezze dell’emiellissoide fino a 1,2 cm, ma
sembra anzi paradossalmente che la LEEP abbia conferito una sorta di effetto protettivo sul parto pretermine,
forse a causa del tessuto cicatriziale che si è venuto a
determinare dopo alcuni mesi dall’intervento.
Il rischio di aborto spontaneo dopo LEEP è risultato ridotto quando la gravidanza era iniziata 12 o più mesi
dopo la procedura. Questa ultima osservazione è dovuta al fatto che viene concesso al tessuto cervicale di
rigenerarsi gradualmente.
Conclusioni
L’incidenza massima di lesioni cervicali di alto grado si
ha in donne di età inferiore ai 35 anni. Poiché oggi l’età
media della prima gravidanza è parecchio aumentata rispetto a pochi decenni fa, molto frequentemente capita che le donne possano essere state sottoposte ad un
intervento escissionale per una lesione preneoplastica
prima della gravidanza.
Dato che il rischio di parto pretermine sembra essere
direttamente correlato all’altezza della conizzazione
e al quantitativo di tessuto cervicale rimosso, è molto
importante evitare conizzazioni classiche senza controllo colposcopico, in cui spesso viene asportato anche tessuto cervicale sano. Altri fattori di rischio modificabili sono legati ad un improprio trattamento delle
CIN. Infatti se da un lato una gestione inappropriata
della CIN può aumentare il rischio di cancro cervicale, dall’altro lato un eccesso di trattamenti (per lesioni
minori) può aumentare il rischio di eventuali complicazioni ostetriche. Un approccio più conservativo viene
oggi raccomandato nelle adolescenti con CIN 2, in cui
è sicuramente più appropriato un follow up ad intervalli semestrali piuttosto che un trattamento escissionale
(47-51). Il trattamento delle lesioni CIN 1 non è mai raccomandabile (51-57).
Benché il nostro studio non abbia dimostrato un rischio
aumentato di parto prematuro nelle donne sottoposte
a LEEP, non è pertanto consigliabile l’asportazione di
lesioni di basso grado, sia per l’elevata percentuale di
regressione spontanea, sia per l’alta probabilità di recidiva dopo un eventuale intervento escissionale. Il consiglio è di effettuare solo escissioni sotto controllo colposcopico e solo per lesioni di alto grado. Infine, dato
che il concepimento entro 2-3 mesi da un intervento
escissionale cervicale può associarsi ad un rischio aumentato di parto pretermine (34), si può raccomandare
di procrastinare la gravidanza quando possibile di almeno 6-12 mesi dopo la procedura.
Per il ginecologo è importante considerare una più stretta sorveglianza della gravidanza in donne sottoposte in
precedenza a LEEP, anche se non esistono in questo senso raccomandazioni standardizzate. Lo screening delle
infezioni vaginali non sembra tuttavia risultare utile, in
quanto non è stata osservata alcuna associazione fra
trattamenti antibiotici e riduzione dei parti pretermine.
Lo screening della lunghezza cervicale fra la 16 e la 18
settimana di gravidanza può invece risultare di qualche
utilità (58-61): cervicometrie ecografiche seriate possono aiutare a determinare il momento appropriato per
la somministrazione di corticosteroidi per accelerare la
maturità polmonare fetale o la prescrizione di farmaci
tocolitici. In questo gruppo di pazienti si raccomanda
anche di limitare le esplorazioni vaginali digitali durante
il corso della gravidanza; in presenza di segni di ulteriore raccorciamento cervicale o altri segni di parto pretermine si può consigliare una restrizione dell’attività fisica
e l’astinenza sessuale dopo la 20 settimana; infine può
essere consigliato il riposo a letto precocemente nel secondo trimestre, quando indicato (61).
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persistenti: l’esperienza
p
del Centro di Ginecologia Oncologica
Preventiva di Verona
P. Cattani, R. Colombari°, D. Dalfior°, B. Bertolin, M. T. Iannone
Centro di Ginecologia Oncologica Preventiva ULSS 20 – Verona
° UOC Anatomia Patologica ULSS 20 - Verona
La Colposcopia in Italia Anno XXIV – N. 1 pagg. 15 - 19
Introduzione
L
e lesioni intraepiteliali di basso grado rivelate dal
pap test rappresentano le modificazioni dell’epitelio cervicale dovute alla presenza dell’infezione
da Papilloma virus. Queste lesioni, indipendentemente
dal tipo di virus HPV (ad alto o a basso rischio) cui sono
correlate, sono destinate quasi sempre a regredire: per
questo motivo la maggior parte degli autori è concorde
nel non ritenere la L SIL una vera precancerosi ma solo
l’espressione citologica della presenza dell’HPV con scarse probabilità di evolvere in una lesione ad alto rischio di
degenerazione carcinomatosa (1-11).
Coerentemente con questa premessa la gestione di questa
classe di lesioni è spesso attendistica (12-24): risulta perciò
evidente come sia indispensabile avere ragionevole cerr
tezza che la diagnosi di lesione di basso grado sia corretta
(25-27). Tale certezza diagnostica deriva innanzitutto dalla
concordanza del quadro citologico con quello istologico
della biopsia. Il problema più importante infatti nella gestione di una LSIL consiste proprio nel rischio di misconoscere una lesione di alto grado: ciò può accadere sia per le
difficoltà diagnostiche insite nella lettura dei preparati istologici, sia per la possibilità che la biopsia non rappresenti
correttamente la lesione più grave della cervice uterina
(28-31). La probabilità che si verifichi questo evento è legata alle caratteristiche del quadro colposcopico (giunzione
visibile o no, estensione delle lesioni, multifocalità….) che
pertanto devono essere dal clinico accuratamente soppesate prima di ogni decisione gestionale.
I fattori a noi noti che possono influenzare la progressione delle lesioni squamose intraepiteliali di basso grado
sono molteplici ma spesso non a facile portata per il clinico che si trovi a gestire il caso: il tipo di virus, la carica
virale, gli indicatori dell’integrazione del virus HPV nel
genoma dell’ospite e quelli della replicazione virale sono
alcuni di questi fattori (32-45).
È noto ormai da tempo che esistono diversi tipi di virus
HPV suddivisi in due grandi categorie ad alto rischio ed a
basso rischio oncogeno, ma anche all’interno del gruppo
ad alto rischio la presenza dell’HPV 16 rappresenta un fattore prognostico sfavorevole.
La valutazione della carica virale (> 1000 RLU/PC) può essere predittiva della persistenza dell’infezione da HPV oltre che della persistenza o ricorrenza della displasia dopo
il trattamento.
La determinazione dell’mRNA virale consente di valutare
l’attività replicativa del virus studiandone le regioni oncogeniche E6 e E7 responsabili del blocco delle proteine
cellulari p53 e pRb, entrambe con funzione repressiva e
di controllo sul ciclo cellulare e pertanto definite “antioncogeni”.
Infine la proteina P16 è un oncosoppressore in grado di
inibire la fosforilazione della pRb bloccando così la replicazione cellulare in fase G1. Essa è carente o inattivata in
molteplici neoplasie mentre risulta sovraespressa nelle
lesioni preneoplastiche e neoplastiche della cervice uterina.
Nella realtà clinica queste indagini di laboratorio non
sono di routinaria applicabilità sia per i costi sia per il carico di lavoro che esse comportano e risultano pertanto
più spesso utilizzate in centri di terzo livello o nel corso di
studi clinici. Il ginecologo colposcopista, tuttavia, anche
in assenza di questi dati, ha la possibilità di modulare il
proprio comportamento in base a considerazioni cliniche (46-55).
L’età della paziente superiore ai cinquanta anni si associa
ad un aumentato rischio di progressione della malattia
forse per una minor efficienza immunologia, certamente
per una maggior difficoltà diagnostica.
Anche lo stato di immunocompetenza ha un ruolo importante: nelle pazienti HIV positive, ad esempio, vi è la prevalenza almeno doppia di infezione da parte di ceppi HPV
ad alto rischio e di infezioni virali multiple. Inoltre la pre-
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valenza della displasia cervicale è del 20-60% (invece del
3-10%), si ha una maggior persistenza dell’infezione da
HPV (46%), con una maggiore progressione (8-38%) e una
minor percentuale di regressione spontanea (27-31%).
Gli idrocarburi policiclici aromatici specifici del fumo di
sigaretta agiscono sulla regolazione del ciclo vitale del
virus HPV aumentandone la sintesi di sette-otto volte:
questo fattore, associato al calo delle difese immunitarie
vaginali, spiegherebbe l’aumentata persistenza virale nelle donne fumatrici.
Materiali e metodi
Da quanto sopra esposto risulta evidente che la persistenza dell’HPV a livello della cervice è inequivocabilmente la
maggior fonte di rischio per lo sviluppo del cervicocarcinoma (56-66): quanto è lecito ed opportuno insistere
nell’atteggiamento attendistico in caso di persistenza
della lesione virale di basso grado nelle pazienti che,
dopo un’accurata valutazione degli altri fattori di rischio,
si è deciso di seguire nel tempo? La letteratura internazionale a questo proposito non ci dà chiare indicazioni
come confermato dalle European Guidelines for Quality
Assurance in Cervical Cancer Screening: “…there is no
reliable evidence on the optimal duration of follow-up...
Patients with CIN1 can also be offered treatment, which
can be ablative or excisional. In case of recurrent CIN1
excisional methods should be preferred” (9).
Inoltre, quale è rischio di misconoscere una lesione di
alto grado o addirittura un carcinoma invasivo in pazienti
con LSIL persistente nel tempo anche se clinicamente selezionate ed affidabili?
Proprio per rispondere a queste domande abbiamo deciso di sottoporre a trattamento le pazienti con diagnosi
di LSIL confermata istologicamente alla biopsia cervicale
e persistente da oltre 2 anni che sono afferite al Centro
di Ginecologia Oncologica Preventiva dell’ULSS 20 – Verona dall’1 gennaio 2009 al 30 giugno 2010. I criteri che
avevano permesso di includere queste pazienti nel programma di attesa, che in alcuni casi è stato anche di lunga durata, erano la concordanza cito-istologica, nessuna
precedente CIN, normale immunocompetenza, quadro
colposcopico soddisfacente con lesioni di grado minore
interamente visualizzate, assenza di lesioni endocervicali, consenso della paziente e sua adesione al follow-up. Si
è deciso di non includere in questo studio le pazienti con
persistenze inferiori ai 24 mesi ritenendo questo un lasso
di tempo ancora congruo per la clearance in accordo con
l’ASCCP e con l’NHS – Cancer Screening Programmes - e
secondo gli attuali indirizzi della SICPCV.
Le pazienti presentatesi alla nostra osservazione sono
state 32: dopo un esauriente colloquio informativo tutte
hanno dato il consenso all’intervento che è stato sempre
di tipo escissionale.
I pezzi operatori, inviati a fresco orientati e distesi su tavoletta di polistirolo, dopo adeguata fissazione in formalina,
sono stati marcati con inchiostro di china lungo il margine di resezione chirurgico, inclusi “in toto” in paraffina
ed esaminati istologicamente su sezioni seriate.
Dopo il trattamento chirurgico le pazienti sono state sottoposte a controlli semestrali con colposcopia e pap test
secondo i protocolli da noi adottati.
Risultati e conclusioni
I risultati delle nostre osservazioni sono riportati nella
Tabella 1.
L’età media delle pazienti è risultata di 37 anni (25 – 49).
È pertanto superiore (19 pazienti avevano più di 35 anni)
a quella in cui di solito si manifesta l’infezione da HPV a
conferma che all’età può essere legato il grado di rischio
di persistenza dell’infezione.
Di queste pazienti 13 erano fumatrici (oltre 6 sigarette al
giorno). L’ Istituto Superiore di Sanità nel Rapporto Doxa
2010 stima che le fumatrici in Italia siano 5.200.000 e rappresentino il 19,7% della popolazione femminile: nel nostro campione le fumatrici risultano essere percentualmente più numerose (46,4%) come ci si può aspettare in
un gruppo di pazienti con HPV persistente.
Tra la diagnosi di LSIL (confermata all’istologia) ed il trattamento, le pazienti erano state sottoposte a controlli semestrali con colposcopia e citologia: 15 donne sono state
seguite per 24 -36 mesi, 10 per 36 - 48 e 7 per oltre 48 mesi.
L’ultima citologia prima del trattamento è stata LSIL in 29
casi ed HSIL in 3.
Gli interventi effettuati sono stati 26 trattamenti escissionali e 6 trattamenti combinati ablativo – escissionali:
nessuna paziente presentava lesioni vaginali per cui non
Tabella 1. - 32 pazienti con LSIL persistente
Età media
37 anni (25 Æ 49)
Fumatrici
13 (46,4%)
Follow up
pre-trattamento
Ultima citologia
24 - 36 mesi: 15 pazienti
36 - 48 mesi: 10 pazienti
> 48 mesi: 7 pazienti
LSIL: 29 pazienti
HSIL: 3 pazienti
CIN I: 16 pazienti (50%)
Istologia definitiva
CIN 2+: 13 pazienti (40,6%
Negativa: 3 pazienti (9,4%)
Follow up
post trattamento
(tutti negativi)
2 controlli: 13 pazienti
3 controlli: 11 pazienti
4 controlli: 8 pazienti
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sono stati eseguiti interventi a livello di questo distretto.
I risultati istologici sul tessuto escisso sono stati CIN 1
in 16 casi e CIN2+ in 13. Il margine profondo del pezzo
anatomico è sempre risultato libero da malattia; 3 esami
istologici sono risultati negativi in pazienti sottoposte a
controlli da 31, 38 e 56 mesi. L’esiguità del numero non ci
consente di stratificare, per la valutazione del rischio di
progressione, le pazienti in fasce di durata di persistenza.
Tuttavia la percentuale di CIN di alto grado (40,6%) ritrovata nel gruppo da noi osservato è nettamente superiore
a quella riportata in letteratura per donne con diagnosi
di CIN1 o di LSIL, ad ulteriore conferma che la persistenza dell’infezione virale rappresenta in assoluto un rischio
importante di progressione: la mancata regressione evidenziata dal pap test potrebbe pertanto rappresentare il
primo segnale dell’attivazione di quei meccanismi di integrazione del virus nel genoma dell’ospite responsabili
del vero processo carcinogenetico. D’altro canto però il
fatto di avere trovato 3 istologici negativi in pazienti con
ripetute citologie LSIL indica comunque che la clearance
dell’HPV può avvenire anche dopo una persistenza prolungata.
Dopo il trattamento chirurgico tutte le pazienti (comprese
le pazienti con esame istologico negativo) sono state sottoposte ad almeno 2 controlli semestrali; 11 ne hanno effettuati 3 e 8 ne hanno effettuati 4. Tutti gli esami citologici
fin qui eseguiti sono stati negativi. Questi risultati, favorevoli forse oltre ogni previsione, possono essere limitati nel
loro valore prognostico dalla brevità del periodo di follow
up post-trattamento: suggeriscono tuttavia che l’efficacia
della terapia chirurgica sia buona e non sia dovuta solo
alla semplice escissione del tessuto colposcopicamente
sede dell’infezione ma anche ad altri fattori quali l’attivazione di meccanismi di difesa immunitaria tessutale.
Per concludere sono possibili due ulteriori considerazioni.
La prima è che, nonostante il tempo estremamente lungo che in alcuni casi è intercorso tra la diagnosi ed il trattamento chirurgico, non è stato evidenziato alcun caso
di microinvasione o di invasione franca in accordo con
i quadri colposcopici che non hanno manifestato significativi peggioramenti. Questo fatto è per noi fonte di
grande serenità nella decisione di seguire nel tempo lesioni cervicali di basso grado se la diagnosi è certa e la
paziente è affidabile.
Riteniamo infine importante sottolineare che tutte le pazienti interpellate hanno accondisceso, talora quasi con
sollievo, al trattamento chirurgico proposto anche se
adeguatamente informate sulla possibilità che l’intervento potesse non essere risolutivo. La consapevolezza infatti della presenza nel proprio corpo del papilloma virus
con la nota possibilità, anche se recondita, di sviluppare
un carcinoma della cervice rappresenta per la donna una
spina emotiva difficilmente controllabile anche se viene
data un’informazione tranquillizzante ed un buon supporto alla razionalizzazione del problema.
Questa esperienza ci radica ancor più nella convinzione che nella gestione delle LSIL non sia utilizzabile una
singola strategia: l’atteggiamento clinico forse più vantaggioso risulta essere il “see and select” che presuppone
l’accurata valutazione di tutti i parametri clinici, colposcopici e di laboratorio senza però mai prescindere dal
coinvolgimento informato della paziente che deve dare
sempre la propria convinta adesione all’iter diagnosticoterapeutico scelto.
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Diagnostica
g
infettivologica
g
in gravidanza: quali protocolli
A. Ciavattini, F. Mancioli, H. Frizzo, M.G. Piermartiri, L. Moriconi, A.L. Tranquilli
Dipartimento di Scienze Cliniche Specialistiche ed Odontostomatologiche
Sezione Scienze della Salute della Donna
Università Politecnica delle Marche
La Colposcopia in Italia Anno XXIV – N. 1 pagg. 20 - 28
Introduzione
L
a gravidanza è una condizione fisiologica che induce nella gestante modificazioni degli organi
genitali - organi bersaglio - nonché modificazioni
endocrine e sistemiche aventi lo scopo di facilitare l’impianto dell’embrione ed il suo regolare accrescimento
all’interno della cavità uterina per tutta la durata della
gravidanza.
Le infezioni sessualmente trasmesse (MST), virali e non,
acquisite in gravidanza, possono avere ripercussioni sul
feto o sul neonato determinando quadri clinici variabili.
In particolare, la molteplicità delle interazioni tra difesa
immunitaria materna notevolmente abbassata ed agente patogeno, la non completa conoscenza dei meccanismi patogenetici di alcune infezioni, le diverse modalità
di trasmissione verticale ed il progressivo sviluppo del
sistema immunitario fetale spiegano l’ampia varietà di
manifestazioni dell’insulto infettivo.
Se dal punto di vista della morbilità e mortalità perinatale il ruolo delle infezioni virali in gravidanza è prevalente rispetto a quello delle infezioni batteriche (6-8%
dei nati vivi, di fronte al 2% di quelle batteriche), nel
momento in cui parliamo d’incidenza e/o frequenza
d’infezioni genitali in gravidanza, le infezioni batteriche
sono nettamente superiori rispetto alle virali.
L’affezione vaginale più comune in gravidanza è la vaginosi batterica (BV), seguita dalla candidosi vulvovaginale. Si ha quindi l’infezione da Streptococco Agalatiae,
la tricomoniasi vaginale, l’infezione da Chlamydia Trachomatis (CT) e la Gonorrea; frequente è anche l’identificazione dei diversi Mycoplasmi. Tra le infezioni virali i patogeni maggiormente implicati sono l’Herpes
Simplex Virus (HSV 1 e 2) e lo Human Papillomavirus
(HPV). Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare la Sifilide
che negli ultimi anni sta tornando frequente anche alle
nostre latitudini.
Obiettivo del nostro lavoro è stato quello di cercare
d’identificare, sulla base di evidenze di letteratura, quali fossero i protocolli di screening e diagnostici delle
infezioni del basso tratto genitale in gravidanza. In tal
senso, sono state prese come riferimento le linee guida dell’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG), del Center for Disease Control and
Prevention (CDC), della Society of Obstetricians and
Gynaecologists of Canada (SOGC), del Royal College
of Obstetricians and Gynaecologists (RCOG), della US
Preventive Services Task Force (USPSTF) e della Public
Health Agency of Canada.
=HNPUVZPIH[[LYPJH)=
La vaginosi batterica (Bacterial Vaginosis, BV) è un’affezione del basso tratto genitale causata da uno sbilanciamento dell’ecosistema vaginale con abnorme crescita
di batteri aerobi ed anaerobi (Gardnerella Vaginalis,
Mycoplama Hominis, Bacteroides species, Peptostreptococcus species, Fusobacterium species, Prevotella
species, Atopobium vaginae, Mobiluncus) a scapito dei
lattobacilli con concomitante diminuzione della produzione di perossido di idrogeno. La BV rappresenta il
30% delle infezioni vaginali e, sebbene sia più frequente nelle donne sessualmente attive, la possibilità di una
trasmissione sessuale non è chiara: infatti il trattamento
del partner non comporta effetti benefici nella prevenzione delle recidive.
La BV risulta asintomatica fino al 50% dei casi. Il quadro
clinico, quando presente, è caratterizzato da perdite
vaginali maleodoranti, soprattutto dopo i rapporti sessuali, leucorrea abbondante di colore bianco grigiastro,
fluida, omogenea, a volte schiumosa, aderente alle pareti vaginali. Raramente si verifica dispareunia, disuria,
prurito e bruciore.
La BV si rileva nel 9-23 % delle donne in gravidanza, con
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una maggiore prevalenza in gestanti di basso livello socioeconomico e in quelle aventi anamnesi ostetrica positiva per IUGR, parto pretermine e MST. La risoluzione
spontanea della BV in gravidanza si attesta nel 50% dei
casi. Tuttavia, durante la gestazione, essa sembra associarsi ad aborto tardivo, rottura prematura delle membrane, corioamnionite, parto pretermine, basso peso
alla nascita, endometrite post-partum con una frequenza maggiore rispetto ai controlli. Alla base dell’insorgenza di queste complicazioni secondo alcuni starebbe la
presenza di elevate concentrazioni di sialidasi di origine
batterica, che faciliterebbe l’ascesa di microrganismi patogeni nelle vie genitali alte. Inoltre alcuni anaerobi sono
capaci di produrre fosfolipasi A2, con attivazione della
sintesi delle prostaglandine. Nella BV è stato descritto
un aumento della concentrazione di endotossine batteriche, e quindi delle citochine, come l’IL 1, nel muco
cervicale, con attivazione della sintesi di prostaglandine.
Sulla base delle evidenze attuali, lo screening di routine sulle gravide asintomatiche non è raccomandato,
in quanto il trattamento sembra non determinare una
significativa riduzione del rischio di parto pretermine
o di rottura prematura delle membrane. Ciò è quanto
si deduce anche da una revisione Cochrane di 15 studi controllati randomizzati (RCT), comprendente 5888
donne. Nelle donne con anamnesi positiva per parto
pretermine non vi è evidenza di efficacia nel prevenire il parto pretermine (OR 0.83, CI 0.59-1.17), mentre si
riduce significativamente il rischio di rottura pretermine prematura delle membrane (OR 0.14, CI 0.05-0.38) e
di neonato di basso peso (OR 0.31, CI 0.13-0.75). Nei 5
trials in cui il trattamento antibiotico era somministrato
prima della 20a settimana di gestazione, si è registrata
una differenza significativa nella frequenza di parti pretermine (<37 settimane) (OR 0.63, CI 0.48-0.84).
In gravidanza i regimi di trattamento per la vaginosi batterica raccomandati dal Center for Disease Control and
Prevention (CDC) sono il Metronidazolo orale (250 mg
x 3 volte al di per 7 gg) o topico (gel 0.75% intravaginale
5 g /die per 5 gg) e la Clindamicina orale (300 mg x 2 volte al di per 7 gg) o topica (ovuli 100 mg /die x 3 gg, crema
2% 5 g /die per 7 gg).
Tutte le donne gravide sintomatiche devono essere
trattate. Il trattamento sia orale che topico vaginale
sembra essere ugualmente efficace con risoluzione
della BV nel 70% dei casi, ma non è nota l’efficacia nel
prevenire il parto pretermine. Il trattamento tardivo nel
terzo trimestre non sarebbe efficace sugli eventi avversi della gravidanza.
Studi clinici condotti per stabilire se il trattamento della
vaginosi batterica nelle gravide asintomatiche può diminuire la percentuale degli eventi avversi hanno dato
risultati contrastanti. Nelle gestanti ad alto rischio (donne con pregresso parto pretermine), è raccomandato
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lo screening per la BV in occasione della prima visita
prenatale nel primo trimestre, con un esame microscopico del secreto vaginale e un trattamento della BV prima della 16a settimana di gestazione, anche se la donna è asintomatica. La diagnosi di vaginosi batterica e la
successiva terapia possano infatti diminuire il rischio di
PROM e di parto pretermine. Non sono stati dimostrati effetti teratogeni sul feto per il metronidazolo; l’uso
della clindamicina in crema è stato associato ad eventi
avversi nella seconda metà della gravidanza.
0UMLaPVULKHZ[YLW[VJVJJVHNHSHJ[PHL:).
Lo Streptococcus Agalactiae (Streptococco di gruppo
B - SGB) è un batterio gram positivo appartenente al
genere Streptococco, caratterizzato dalla presenza di
antigeni B sulla parete cellulare. È un comune patogeno
della flora batterica dell’intestino e delle vie urogenitali femminili dei mammiferi, uomo compreso. L’SBG è
un battere β-emolitico poiché causa emolisi completa
(β-emolisi) nelle colture quando viene coltivato su uno
strato di agar contenente sangue.
Lo S. Agalactiae provoca il 15% delle vaginiti aerobie;
gli altri agenti eziologici sono Escherichia coli (38%),
Streptococco faecalis (31%), Proteus (8%), Klebsiella
(6%). La vaginite aerobia rappresenta il 10% delle vaginiti diagnosticate ed è caratterizzata da diminuzione
dei lattobacilli e da aumento di batteri aerobi d’origine
intestinale con presenza di importanti segni di flogosi,
di leucociti e pH > 5. Lo SBG è inoltre l’agente patogeno principale di infezioni neonatali invasive nei paesi
industrializzati, causando sepsi, polmonite, meningite,
osteomielite, e le infezioni dei tessuti molli.
Il 2,3-28% delle donne gravide presenta infezione da
SGB a livello rettale e/o vaginale; esse in genere sono
asintomatiche. La prevalenza della colonizzazione con
SGB è strettamente associata allo status socioeconomico della donna, ed è simile sia in stato di gravidanza che
non. Alla nascita, il 40-70% dei neonati figli di donne
colonizzate riceve il microorganismo dalla madre, ma
solamente l’1-2% di queste partorirà bambini con malattia clinicamente evidente, mentre nel 40-70% dei casi
il neonato presenterà un’ infezione asintomatica.
L’ infezione da SGB nel neonato viene acquisita nella
maggior parte dei casi in seguito a trasmissione verticale, soprattutto in prossimità del parto, per infezione
ascendente in utero attraverso le membrane amniotiche rotte oppure durante il passaggio lungo il canale
del parto per contaminazione con secrezioni infette.
Fattori legati al parto, quali prematurità, rottura prolungata delle membrane amniotiche, travaglio prolungato,
endometrite-corioamnionite materna, possano incrementare il tasso di colonizzazione neonatale e il rischio
di malattia da SGB ad esordio precoce. La trasmissione
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orizzontale dell’infezione da SGB, sebbene meno frequente, è un’eventualità possibile.
L’ infezione da SGB può avere esordio precoce o tardivo,
con un’incidenza di 0.5-4 per 1000 nati vivi per la forma
precoce e di 0,5-1,8 per 1000 per la forma tardiva. L’infezione ad esordio precoce (entro 7 giorni dal parto) si
può manifestare in molteplici forme: nel 35-55% dei casi
come polmonite, come sepsi perinatale severa (25-40%
dei casi), come distress respiratorio o come meningite
(5-15% dei casi, con una mortalità del 5-20%). L’esordio
della malattia può verificarsi alla nascita, soprattutto nei
nati prematuri; in media i primi sintomi compaiono entro
le prime 20 ore di vita. L’ infezione da SGB ad esordio
tardivo si manifesta con febbre, cellulite, osteomielite e
nel 35% dei casi come meningite, con una mortalità dello 0-6%. In genere i sintomi possono comparire a partire
dal settimo giorno al terzo mese di vita.
L’ isolamento dello SGB avviene mediante prelievo colturale, in seguito a tamponi cervico-vaginali e rettali
completi cui deve sottoporsi la gravida attorno alla 35a37a settimana di gestazione.
La chemioprofilassi costituisce al momento attuale il
metodo utilizzato per prevenire la trasmissione materno-fetale dell’infezione da SGB. Nel 2002, CDC, the
American College of Obstetricians and Gynecologists
e the American Academy of Pediatrics hanno pubblicato delle linee guida per la prevenzione della malattia
neonatale da SGB ad esordio precoce; queste, oltre ad
indicare lo screening universale mediante tamponi cervico-vaginali e rettali completi su tutte le donne in gravidanza tra la 35esima e la 37esima settimana di gestazione,
raccomandano la somministrazione antibiotica intrapartum di quelle gravide risultate positive al test. La prevenzione attiva contro tale infezione è iniziata nel 1990, e
ad oggi negli Stati Uniti si registra un calo pari all’80%
dell’infezione ad esordio precoce, che attualmente ha
un’incidenza di 0.2-0.5 casi per mille (con calo di mortalità al 5-6%). Non si è invece modificata né l’incidenza né la mortalità delle forme tardive che sono dovute
per lo più ad una trasmissione orizzontale (nosocomiale o comunitaria) e non ad una trasmissione verticale
intra-partum materno-fetale come nel caso delle forme
precoci di malattia. I protocolli di profilassi antibiotica
intra-partum raccomandano l’utilizzo di penicillina G, 3
gr in bolo seguiti da 1.5 gr ogni 4 ore sino al parto, in alternativa, di ampicillina 2 gr e.v. seguiti da 1 gr e.v. ogni 4
ore fino al parto. In caso di allergia alle penicilline, nelle
donne con basso rischio di reazione anafilattica si raccomanda l’uso di cefazolina 2 gr e.v. seguiti da 1 gr e.v.
ogni 8 ore fino al parto. Nelle donne con alto rischio di
reazione anafilattica, invece, è raccomandata la somministrazione di clindamicina 900 mg e.v. ogni 8 ore fino al
parto o eritromicina 500 mg e.v. ogni 6 ore fino al parto.
In alternativa, nelle donne intolleranti alla clindamicina
o eritromicina, viene raccomandato l’utilizzo di vancomicina 1 gr e.v. ogni 12 ore fino al parto. A lungo si è
sostenuto che lavaggi vaginali con clorexidina potessero diminuire la positività della madre verso l’infezione
da S. Agalactie, ma attualmente non vi è evidenza che
l’uso della clorexidina intrapartum sia vantaggioso nella
prevenzione di esiti avversi materni e fetali legati a tale
infezione. In genere, non viene segnalato alcun beneficio dal trattamento antibiotico in gravidanza; unica eccezione è costituita dalla presenza di una colonizzazione delle vie urinarie, indice di elevata carica batterica e
possibile causa di serie complicanze.
0UMLaPVULKHJHUKPKH
La candidiasi vulvo-vaginale (VVC), insieme alle vaginosi batteriche, rappresenta la causa più comune di vulvovaginite: colpisce 3 donne su 4 nell’arco della vita. Nel
40-50 % dei casi si verifica un secondo episodio e nel
5% si sviluppano forme di vulvovaginiti recidivanti.
La Candida Albicans, responsabile dell’80–90% delle
infezioni micotiche, è un saprofita del tubo digerente e
della cavità buccale ed è presente in vagina nel 10–20%
delle donne asintomatiche. Il 5–15% delle infezioni vaginali micotiche può essere sostenuto da specie nonAlbicans come la Candida Glabrata, Tropicalis, Krusei e
Parapsilosis. Il contagio avviene per via sessuale oppure
attraverso biancheria intima infetta, servizi igienici non
puliti, sabbia della spiaggia o per autoinfezione (le feci
contengono spesso tale micete).
Le manifestazioni cliniche tipiche sono rappresentate
da prurito e leucorrea caseosa, a volte associate a bruciore o edema vulvare, disuria, dispareunia, stranguria
con periodo di recrudescenza pre o post mestruale.
La donna in gravidanza è maggiormente soggetta a
sviluppare infezioni micotiche, favorite dall’incremento dei livelli estrogenici e di glicogeno a livello delle
secrezioni vaginali. Ad oggi non vi sono evidenze che
la VVC abbia un effetto negativo sull’andamento della gravidanza e sul feto. Secondo una recente review
della Cochrane, pertanto, la VVC non dovrebbe essere
sottoposta a screening. Tuttavia Donders et al. in uno
studio del 2009 attesta un’aumentata incidenza di parto pretermine nelle donne con dismicrobismo vaginale
(vaginosi anaerobie e aerobie) nel primo trimestre, ed,
a sua volta, tale condizione rappresenterebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di candidosi.
La gestione di questa infezione in gravidanza varia in
base all’entità della sintomatologia, essendo il trattamento limitato alle sole gestanti sintomatiche.
La terapia topica con farmaci azolici somministrata per
7-14 giorni è l’unica terapia raccomandata in gravidanza,
grazie al minimo assorbimento sistemico ed all’accertata
non teratogenicità sull’animale e sull’uomo; la sommini-
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strazione settimanale si associa ad una percentuale di
remissione del 90%. Al contrario, il fluconazolo per via
orale non è raccomandato a causa della potenziale teratogenicità; diversi case report segnalano un’associazione tra uso sistemico del fluconazolo e malformazioni fetali maggiori. Più recentemente, Norgaard et al. nel 2008
non ha riscontrato alcun effetto avverso per somministrazioni brevi di fluconazolo alla dose di 150 mg.
0UMLaPVULKH*OSHT`KPH[YHJOVTH[PZ*;
L’infezione da Chlamydia Trachomatis (CT) è una tra le
più comuni malattie sessualmente trasmesse, con circa
92 milioni di nuove infezioni all’anno nel mondo. Uomini e donne sessualmente attivi possono essere esposti inconsapevolmente al patogeno attraverso contatti
sessuali con persone infette, ma la trasmissione può
anche essere verticale, con conseguente insorgenza
di congiuntivite e di polmonite nei neonati. Il rischio di
trasmissione da madre a feto durante il parto è pari al
50%, con possibile sviluppo d’infezione oculare nel 2050% dei casi e d’infezione delle vie aeree o polmonite
nel 10-20% dei casi. L’infezione può comunque avvenire anche in corso di taglio cesareo a membrane integre.
Il riscontro d’infezione da CT è particolarmente frequente tra le giovani donne sessualmente attive ed in gravidanza, periodo nel quale l’incidenza stimata oscilla tra
il 2 e il 13%. La sede primaria dell’infezione è la cervice
uterina, dove nel 20-30% dei casi si ha un’infezione cronica paucisintomatica o asintomatica. Dalla cervice il microrganismo può diffondere ad endometrio ed annessi,
provocando complicanze e sequele anche irreversibili.
L’infezione in gravidanza si associa a rischio aumentato
di endometrite post partum, ritardo di crescita intrauterina (OR 2,5), di rottura prematura delle membrane e
parto pretermine (OR 1,6). L’infezione non trattata si associa a basso peso alla nascita e morte neonatale. Dati
epidemiologici hanno indotto l’avvio di protocolli di
screening per contenere la diffusione dell’infezione in
paesi quali Stati Uniti e Regno Unito; diversa è la situazione per l’Italia in cui non è ancora stato predisposto
un piano di monitoraggio.
Evidenze sembrano attestare l’efficacia di uno screening in gravidanze asintomatiche per ridurre l’incidenza di complicanze. A tale riguardo tuttavia servono
ulteriori studi per definire il programma diagnostico
ed i costi: effettuare il test nel primo trimestre di gravidanza potrebbe ridurre il rischio di parto prematuro;
farlo nel terzo trimestre potrebbe prevenire la trasmissione dell’infezione al neonato. Le raccomandazioni
sull’argomento differiscono; alcune agenzie pubbliche
o società scientifiche consigliano lo screening nel primo trimestre per tutte le gravide, altre solamente per
le donne a rischio d’infezione (ad esempio di età < 25
anni). Comunque nelle gestanti risultate positive allo
screening per infezione a livello cervicale già trattate, è
consigliabile eseguire dei controlli seriati fino al termine della gravidanza per l’elevato rischio di recidiva e di
reinfezione.
In termini di terapia, una recente review del 2009 ha valutata l’efficacia terapeutica, in termini di eliminazione
di malattia e di riduzione degli effetti avversi, di alcuni antibiotici in gravidanza. Com’è noto, le tetracicline
sono controindicate durante la gestazione poiché nel
neonato causano anomalie ossee e dentali; l’eritromicina ha compliance inferiore dell’amoxicillina a causa dei
suoi effetti indesiderati gastrointestinali. Nel caso in cui
questi farmaci non siano tollerati o controindicati, valide alternative sono rappresentate dalla clindamicina e
dall’azitromicina. Tuttavia in nessuno degli 11 trials valutati è stata analizzata la riduzione delle infezioni polmonari ed oculari nel neonato.
Gli schemi terapeutici raccomandati prevedono l’assunzione di eritromicina 500 mg quattro volte al giorno per sette giorni; di amoxicillina 500 mg tre volte al
giorno per sette giorni; di azitromicina 1 gr per via orale
in monosomministrazione. Quest’ultimo antibiotico è
considerato sicuro, efficace e di prima scelta tranne che
in Gran Bretagna, dove non è registrato per tale utilizzo.
Per verificare l’efficacia della cura, è indicata la ripetizione del test a distanza di almeno tre settimane dall’inizio
della terapia (cinque settimane in caso di terapia con
eritromicina), per evitare falsi positivi. Il trattamento e
follow-up anche del partner viene raccomandato per
assicurare la guarigione. L’astinenza e l’utilizzo del preservativo durante il trattamento e fino al test di followup negativo è raccomandato. Il Taglio Cesareo elettivo
in una donna a termine di gravidanza con infezione attiva non trattata da Chlamydia non risulta raccomandato.
0UMLaPVULKHNVUVJVJJV
La Neisseria gonorrhoeae è un diplococco gram-negativo che si trasmette sessualmente per contatto diretto
delle mucose interessate. Esso ha tropismo per uretra,
cervice, retto, faringe ed occhi. A livello dei genitali
femminili, oltre alla cervice uterina, infetta anche dotti
di Skene e Ghiandole del Bartolino. Una complicanza
frequente è la salpingite. L’incidenza è maggiore tra i
20 e i 24 anni, con picchi tra i 15 e i 19 anni. I fattori di
rischio includono il precoce inizio dell’attività sessuale,
il numero dei partner e l’abuso di droghe.
L’infezione può essere trasmessa dalla madre al neonato durante il passaggio di questo nel canale del parto,
con interessamento oftalmico oppure orofaringeo, fino
a forme sistemiche con batteriemia, artrite, meningite o
endocardite. Nel neonato partorito da una donna con
diagnosi di rottura delle membrane con infezione co-
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nosciuta da Gonococco è necessario iniziare subito la
terapia medica. Attualmente tutti i neonati sono sottoposti alla profilassi di Credè entro un’ora dalla nascita,
con l’instillazione nel sacco congiuntivale inferiore di
soluzione acquosa di Nitrato di Argento all’1% o di eritrocina in collirio.
Lo screening in gravidanza è raccomandato da alcuni
durante la prima visita prenatale, in tutte le donne o solamente in quelle a rischio (donne con più partner sessuali, con pregressi episodi di gonorrea o provenienti
da aree con alta prevalenza della malattia), da ripetere
eventualmente nel terzo trimestre permanendo le condizioni di rischio.
Per il trattamento è raccomandato l’utilizzo di cefalosporine ad ampio spettro di terza generazione (ceftriaxone
125 mg intramuscolo in singola dose oppure cefixime 400
mg per via orale in singola dose). In alternativa è raccomandato l’utilizzo di spectinomicina alla dose di 2 gr intramuscolo in singola dose (utile in caso di intolleranza alle
cefalosporine), di amoxicillina 3 g o ampicillina 2 o 3 g più
probenecid 1 g per via orale, in singola dose, utilizzabile
nelle regioni in cui la resistenza al farmaco è < 5%, o di
altre cefalosporine efficaci quali cefoxitina 2 g, cefotaxime 500 mg, ceftizoxime 500 mg, tutte somministrabili IM
in singola dose. Poiché l’infezione da gonorrea è spesso
associata a quella da Chlamydia, è consigliabile indagare
ed eventualmente trattare tale coinfezione con i regimi
terapeutici raccomandati precedentemente. Nella donne in gravidanza un test di conferma per la negativizzazione dell’infezione è raccomandato. Tutti i partner delle
pazienti con infezione da Neisseria Gonorroeae devono
essere valutati e trattati sia per infezione da gonorrea che
da Chlamydia. Si raccomanda l’astensione dai rapporti
sessuali fino al completamento del trattamento della coppia. In gravidanza, si raccomanda un test di conferma di
negativizzazione dell’infezione per ambedue i partner.
0UMLaPVULKH/LYWLZ:PTWSL_=PY\Z/:=
L’Herpes genitale è causato in circa l’80-90% dei casi
dall’HSV-2 e nel 10-20% dei casi dall’HSV-1. L’HSV-2 si
trasmette prevalentemente per via sessuale, con una
sieroprevalenza nella popolazione generale mondiale
che varia dal 6 al 30%, percentuale che aumenta nei
gruppi a rischio, quali sesso femminile, elevato numero
di partner sessuali, basso livello socio-economico, scarsa igiene, omosessualità e infezione da HIV.
La frequenza di acquisizione dell’HSV in gravidanza è
circa del 2%, con un rischio relativamente costante durante tutta la durata della gestazione. Circa il 10% delle
donne HSV-2 sieronegative hanno partner sieropositivi
e, quindi, sono a rischio di contrarre l’infezione nel corso della gestazione. Tra le donne con Herpes ricorrente,
il 75% può presentare almeno una ricorrenza durante
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la gravidanza e il 14% può avere la comparsa di sintomi
prodromici o di ricorrenza clinica al momento del parto.
L’infezione erpetica genitale nelle donne in gravidanza
è asintomatica in più del 75% dei casi. In assenza di sintomi specifici la diagnosi è sierologia. L’infezione sintomatica, associata a dolore e disuria, si caratterizza per
la presenza di vescicole vulvari, vaginali e cervicali che
divengono ulcere, croste per poi proseguire la completa
restituzione ad integrum in circa 3 settimane, in assenza
di terapia; si possono osservare linfoadenopatia inguinale e sintomi sistemici quali malessere, mialgia e febbre.
La coltura virale e la PCR sono diagnostici con una specificità del 100% ed una sensibilità del 70%.
Le vie di trasmissione dell’infezione materna al feto o al
neonato sono la via ematogena transplacentare (rara),
la via ascendente favorita dalla rottura delle membrane
prima del travaglio di parto, ed il contatto diretto con le
mucose materne infette sia in presenza di lesioni clinicamente visibili che in corso di escrezione virale asintomatica. Circa 80% dei neonati infetti sono nati da madri
senza storia di infezione da HSV.
La trasmissione dell’infezione al feto è in funzione
dell’età gestazionale: se l’infezione primaria genitale viene contratta entro la 20° settimana di gestazione, il 25%
delle gravidanze esita in aborto. Nel II e III trimestre l’infezione aumenta il rischio di parto pretermine, di IUGR e
di trasmissione del virus al feto (specie nelle ultime 6 settimane dal parto, con rischio di infezione neonatale pari
al 57%), determinando complicanze quali microcefalia
ed epatosplenomegalia. La più frequente modalità di trasmissione è quella intra-partum (80-90% dei casi); nonostante ciò in assenza di lesioni in atto al parto il rischio di
infezione neonatale è dello 0.04%. L’infezione neonatale
si manifesta tra il 5° ed il 17° giorno di vita e tende a generalizzarsi nel 75% dei casi con interessamento poliviscerale, del SNC ed emorragie diffuse; il tasso di mortalità
sfiora il 70%. Nei bambini che sopravvivono all’infezione
sistemica possono esitare gravi lesioni neurologiche ed
oftalmiche permanenti. Quando invece l’infezione è limitata alla cute ed alle mucose, la mortalità è molto bassa
e la guarigione spesso è completa e senza esiti. Il rischio
di trasmissione è molto basso in caso d’infezione ricorrente anche in presenza di lesioni al momento del parto
(0.25-3%).
In caso d’infezione primaria acquisita nella prima fase
della gravidanza, è opportuno eseguire esami colturali sulle secrezioni genitali a partire dalla 32° settimana;
se due colture consecutive risultano negative e non
ci sono lesioni genitali evidenti, è possibile l’espletamento del parto per via vaginale, al contrario nel caso
in cui un esame colturale risultasse positivo è indicata
la profilassi con acyclovir. In tutte le gravide con infezione ricorrente oppure con anamnesi positiva per
esposizione virale, ai fini preventivi l’American College
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of Obstetricians and Gynaecologists raccomanda l’esecuzione settimanale, a partire dalla 36esima settimana,
dell’esame colturale del secreto cervico-vaginale. In
caso di positività del test è necessario ricorrere al taglio
cesareo, così come nei casi con lesioni evidenti in atto.
Nel caso di rottura delle membrane, in presenza di lesioni erpetiche evidenti, il taglio cesareo va effettuato
entro quattro ore dal momento dell’avvenuta rottura,
in quanto il rischio di contagio fetale, in questi casi, è
del 41%. In caso di parto vaginale inarrestabile, il trattamento materno-fetale con acyclovir è opportuno.
L’acyclovir è il farmaco di elezione nella terapia dell’Herpes Simplex, sia nelle forme di infezione primaria (400
mg per os 3 volte al giorno x 7-10 gg) che in quelle d’infezione ricorrente e può essere somministrato per via
orale, in vena e come topico; è ben tollerato in gravidanza e non esistono evidenze di tossicità materna o fetale.
L’acyclovir nelle ultime 4 settimane di gestazione viene
indicato per tutte le donne che presentano un primo
episodio di herpes genitale in gravidanza poiché riduce
la durata e la severità dei sintomi e la durata della viremia. Il trattamento parenterale è indicato solo nei casi di
grave infezione primaria in gravidanza; nei casi di ricorrenza il trattamento orale è sufficiente alla dose di 400
mg per 3 volte al giorno per circa 5 giorni; le linee guida
della Society of Obstetricians and Gynecologist of Canada consigliano tali dosaggi a partire dalla 36° settimana
fino all’espletamento del parto. Le misure da adottare
per evitare l’acquisizione dell’infezione durante l’ultimo
periodo della gravidanza consistono, in caso di gestanti
con partner affetto da HSV, nell’utilizzo di metodi di prevenzione (astensione dai rapporti, uso del profilattico).
0UMLaPVULKHO\THUWHWPSSVTH]PY\Z/7=
L’infezione da HPV è la più frequente malattia virale trasmessa per contagio sessuale; la sua prevalenza oscilla
tra il 20% ed il 46% nelle diverse nazioni. Si calcola che
circa il 75% della popolazione sessualmente attiva si infetti nel corso della vita da 1 o più genotipi virali, con
un picco di incidenza dell’infezione tra i 20-25 anni di
età. L’infezione da HPV è causa di lesioni benigne, quali la condilomatosi ano-genitale e lesioni intraepiteliali
preinvasive (CIN), precursori del cervicocarcinoma.
L’incidenza dell’infezione genitale da HPV nella popolazione di donne gravide è pari al 13%, con percentuali
sovrapponibili a quelle osservate in una popolazione di
confronto non gravida. La prevalenza dell’HPV varia dallo 0,5 al 3% ed è probabilmente sottostimata come per
la popolazione generale. Il motivo per cui l’infezione da
HPV sembra prevalere nella gestante sta nel fatto che la
gravidanza rappresenta un momento fisiologico di più
vivace replicazione virale, attivata sia dallo stato di immuno-depressione T-mediato, che da una diretta influenza
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esercitata prevalentemente dal progesterone sugli elementi regolatori del DNA virale; si ha inoltre un aumento della carica virale indipendentemente dal numero di
cellule infettate. La gravidanza, pertanto, si associa ad un
maggiore rischio di progressione delle lesioni produttive virali, con incremento delle dimensioni dei condilomi,
che crescono in numero e modificano la loro morfologia
con tendenza alla frammentazione ed al sanguinamento
soprattutto in caso di lesioni grandi. Al contrario, le lesioni displastiche di cervice e vagina, legate ai sottotipi virali
oncogeni, non subiscono in gravidanza variazioni significative nell’ambito della loro storia naturale. La presenza di condilomi ano-genitali esterni o interni implica la
ricerca di lesioni displastiche o neoplastiche a livello del
collo dell’utero, della vulva, della vagina e dell’ano al di
fuori dello stato di gravidanza così come in gravidanza;
vi è infatti una frequente associazione (circa del 30%) tra
gli HPV di tipo 6, 11 e 42 responsabili dei condilomi acuminati e gli HPV di tipo 16 e 18 ad alto potere oncogeno.
La trasmissione dell’infezione virale al neonato avviene
durante il transito nel canale del parto o dopo la rottura
prematura delle membrane. Nel neonato l’infezione da
HPV, generalmente causata dai tipi 6 e 11, può provocare la papillomatosi respiratoria ricorrente (recurrent
respiratory papillomatosis) o la papillomatosi laringea
giovanile (juvenile laryngeal papillomatosis) che in genere si manifesta entro il quinto anno di età. Questa
patologia, a differenza della papillomatosi respiratoria
dell’adulto, risulta molto aggressiva e di difficile risoluzione. L’incidenza della papillomatosi laringea giovanile
è di circa 1 su 1500 nati vivi.
L’approccio terapeutico alla lesione condilomatosa viene sostanzialmente stabilito in base alle caratteristiche
cliniche e morfovolumetriche della stessa. Le lesioni
asintomatiche non richiedono alcuna modificazione
della condotta ostetrica né alcun trattamento; si procede con una rivalutazione clinico-diagnostica dopo
l’espletamento del parto che avviene per via vaginale.
Durante il I e II trimestre è consigliato intervenire solo
su lesioni di piccole e medie dimensioni, con tecniche
escissionali o distruttive. Nell’approccio terapeutico è
sconsigliato sia l’uso di sostanze caustiche (podofillina),
sia citostatiche (5-fluorouracile). L’uso dell’imiquimod
non è raccomandato in gravidanza, sebbene studi su
piccoli numeri abbiano mostrato la sua efficacia senza
rischi per la madre ed il feto. Nel III trimestre, il trattamento è limitato a condilomatosi di medie dimensioni
per le quali il trattamento potrebbe consentire un parto
vaginale; per condilomatosi piccola e piana, si preferisce un atteggiamento di attesa, posticipando il trattamento a dopo l’espletamento del parto per via vaginale.
In presenza di una condilomatosi vulvo-vaginale gigante è indicato il taglio cesareo per ridurre il rischio di distocie meccaniche al momento della fase espulsiva del
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parto e la trasmissione, seppur rara, dell’infezione virale in forma di papillomatosi respiratoria del neonato.
In caso di condilomasi cervicale e del fornice, piccola
e piana, è indicato un atteggiamento di attesa, posticipando il trattamento a dopo l’espletamento del parto.
Secondo le linee guida della SICPCV 2006, in caso di
CIN di qualsiasi grado in gravidanza non è indicato alcun trattamento, che viene procrastinato 6-12 settimane dopo l’espletamento del parto. Questa condotta di
attesa caratterizzata da controlli seriati citologici e colposcopici è giustificata dal fatto che la gravidanza non
modifica in alcun modo la storia naturale della lesione.
Pertanto in presenza di un referto citologico anormale
in gravidanza è raccomandata l’esecuzione della colposcopia con eventuale biopsia mirata al fine di escludere una eventuale infiltrazione. La sola indicazione alla
conizzazione, da espletare entro la 16a settimana, è il
sospetto di carcinoma invasivo preclinico.
:PÄSPKL
La sifilide, causata dal Treponema pallidum, è una delle malattie sessualmente trasmesse più comuni. Dopo
aver raggiunto il tasso dello 0.4-0.6/100000 dal 1994 al
2000, si è assistito ad un aumento della sua prevalenza
fino ad un 4/100000 nel 2008.
La madre può trasmettere la sifilide al feto per via transplacentare o durante il passaggio nel canale del parto
mediante il contatto del feto con le lesioni genitali; la
trasmissione al neonato durante l’allattamento, si verifica solo nel caso in cui vi siano delle lesioni a livello
mammario. Contrariamente a quello che si pensava in
passato, Nathan et al. hanno dimostrato che il Treponema pallidum può accedere nel compartimento fetale a partire dalle 9-10 settimane di gestazione. Il rischio
di trasmissione materno-fetale in caso di mancato trattamento è del 70-100% nel caso d’infezione primaria o
secondaria, del 40% nel caso di sifilide latente precoce e del 10% nello stadio latente tardivo. Le possibili
conseguenze del mancato trattamento della sifilide in
gravidanza sono l’aborto spontaneo, il parto pretermine, il basso peso alla nascita, la rottura prematura delle
membrane amniocoriali, la morte endouterina fetale,
l’idrope fetale non immune, la restrizione della crescita fetale, la morte perinatale e le sequele severe nei
neonati con sifilide congenita.
È quindi molto importante la precoce identificazione
ed il successivo trattamento di questa infezione; per
questo, è raccomandato lo screening di routine nel I
trimestre. Nelle aree ad alta prevalenza di sifilide o in
donne ad alto rischio di acquisizione della sifilide, lo
screening andrebbe ripetuto a 28-32 settimane di gestazione ed al termine della gravidanza. La diagnosi di
sifilide può essere fatta mediante sierologia o esami
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diretti. I test sierologici sono suddivisi in non treponemici (VDRL: reazione di microflocculazione e RPR:
reazione di macroflocculazione) e treponemici (FTAABS: test di immunofluorescenza indiretta; MHA-TP:
test di emoagglutinazione; EIA/CIA: immunoassays
per identificare gli anticorpi IgG e/o IgM ed il test syphilis INNO-LIA, un recente test di immunoassay). I
test non treponemici diventano reattivi dopo 4-8 settimane dall’acquisizione dell’infezione ed hanno una
sensibilità del 60-90%. Il test FTA-ABS ha una sensibilità dell’85-100% in tutti gli stadi della malattia, mentre il
test MHA-TP è meno sensibile (60-85%) nell’infezione
primaria. Lo screening si effettua con un test non treponemico che, se reattivo, viene confermato con un
test treponemico in quanto nel 50% dei casi vi possono essere dei falsi positivi. Tuttavia, nei pazienti con
sospetta sifilide primaria o latente tardiva, in cui il test
non treponemico può risultare non reattivo, è appropriato aggiungere un test treponemico allo screening
iniziale o, in caso di sospetta sifilide primaria, ripetere
il test non treponemico dopo 2-4 settimane.
La maggior parte delle donne in gravidanza non ha segni o sintomi di sifilide per cui viene usata la sierologia
per fare diagnosi. Dal momento che la comparsa del
sifiloma precede anche di una settimana la conversione sierologica, in sua presenza si può fare diagnosi più
precocemente mediante l’identificazione al microscopio del Treponema nell’essudato delle lesioni (sensibilità 74-86% e specificità 97%). Il microscopio viene
usato anche per la ricerca della spirocheta nel liquido
amniotico. Un’alternativa al microscopio è l’immunofluorescenza (DFA-TP) che è più sensibile e specifica
del test precedente, ma è più costosa. La negatività
di questi due esami diretti non esclude l’infezione in
quanto l’esito dell’esame può essere falsato da diversi
fattori tra cui il precedente uso di antibiotici.
La diagnosi prenatale d’infezione fetale si può fare
mediante il riscontro della presenza di anticorpi IgM
nella circolazione fetale. I segni ecografici della sifilide fetale sono l’idrope fetale, l’epatosplenomegalia,
l’ipertrofia placentare, le ostruzioni gastrointestinali e
la dilatazione del piccolo intestino. In presenza di tali
segni aumenta il rischio di fallimento del trattamento
fetale. Nelle donne con sifilide il Doppler delle arterie uterine ed ombelicali mostra un aumento statisticamente significativo del rapporto sisto/diastolico
dovuto all’aumento delle resistenze vascolari a livello
placentare probabilmente secondario alla presenza di
aree focali di vasculite, arterite obliterativa ed infiammazione a livello dei villi placentari.
Il trattamento in gravidanza andrebbe iniziato subito
in tutte le donne risultate positive ai test non treponemici o treponemici a meno che non si abbia la certezza che quel risultato sia un falso positivo. Il trattamen-
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to si effettua con penicillina G-benzatina 2.4 milioni
di unità, i.m.; la terapia in gravidanza varia in base allo
stadio della sifilide materna. Circa il 5-10% delle donne
con sifilide in gravidanza riporta una storia di allergia
alla penicillina; in tali donne si attua una desensibilizzazione per poter effettuare il trattamento con la
penicillina dal momento che non esiste una valida alternativa a tale antibiotico. Per valutare l’adeguatezza
della terapia si usano i test sierologici. Il CDC definisce
la risposta terapeutica adeguata se il titolo anticorpale
diminuisce di almeno quattro volte in pazienti con sifilide precoce o rimane stabile o diminuisce di meno
di un quarto negli altri pazienti. La maggior parte delle
donne trattate partorirà prima che si sia assestata la risposta sierologica al trattamento. Nel 45% delle donne
dopo trattamento per la sifilide precoce si ha la reazione di Jarisch-Herxheimer caratterizzata da febbre,
mialgia, ipotensione, tachicardia ed accentuazione
transitoria delle lesioni cutanee, con risoluzione entro
24-36 ore. Tale reazione, dovuta al rilascio di lipopro-
teine del Treponema pallidum che possiedono un’attività infiammatoria, può causare le contrazioni uterine
ed il parto tramite, un meccanismo mediato dalle prostaglandine. Durante tale episodio il feto è tachicardico, può mostrare decelerazioni al CTG e diminuisce
la sua attività. Quando si ha tale reazione, la madre va
idratata, le va dato un supplemento di ossigeno, antipiretici ed è indicato un monitoraggio continuo del
battito cardiaco fetale (CTG). Nonostante il trattamento con la penicillina, nel 14% si ha morte fetale o neonato con sifilide congenita. Un secondo trattamento
in gravidanza non è necessario a meno che non vi sia
evidenza clinica o sierologica di una nuova infezione o
di una risposta inadeguata al trattamento o un recente
rapporto sessuale con una persona affetta da sifilide.
Per il follow-up si usano i test non treponemici che
dovrebbero essere ripetuti fino a che non si negativizzano o raggiungono stabilmente un titolo basso. La
cadenza con cui vanno effettuati tali test in gravidanza
varia in base allo stadio dell’infezione.
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