DOMENICA 18 OTTOBRE 2015 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 9 Constantine Zlatev (1974), The Last Gun (2012, installazione, particolare): l’artista bulgaro, da tempo trapiantato in California dove ha fondato lo studio «Made in Constantine», ha realizzato un doppio flauto «meccanizzato e robotizzato» utilizzando un fucile scarico e una serie di scarti industriali. Il doppio flauto può suonare grazie all’aria compressa. Nel 2013 Zlatev ha vinto il Premio Arte Laguna nella sezione scultura e installazioni La tecnologia al servizio della medicina Salve, sono RP-VITA macchina-infermiera che assiste il paziente di GIUSEPPE REMUZZI I L’Istituto di tecnologia di Genova C’è un cataclisma, chiama il gigante buono di STEFANO AGNOLI L o scorso aprile, a più di quattro anni dal disastro di Fukushima, alcune immagini dall’interno di un reattore hanno fatto sensazione. Non sarebbero potute venire da un cameraman in carne e ossa, visto il livello di radiazioni letale per un essere umano. A inviarle è stato un robot di ultima generazione, commissionato dall’azienda proprietaria degli impianti, la Tepco. Tre ore di immagini e poi lo stop. Un mezzo fallimento, è vero; ma anche un mezzo successo, se si pensa alle prospettive e, ad esempio, a quanto accadde nel 1986 a Chernobyl. Allora 250 pompieri spensero roghi di grafite radioattiva, e decine di elicotteristi si sacrificarono, ignari, scaricando sul reattore impazzito tonnellate di piombo e sabbia. Il robot «gigante buono», che può intervenire in incidenti e catastrofi o lavorare in ambienti nefasti per l’uomo, è uno dei campi sui quali scienza e tecnologia sono da tempo al lavoro. Robot «umanoidi» pensati per muoversi in situazioni di emergenza. Come quello richiesto dalla Tepco. O come Walkman, il robot dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova (185 centimetri per 120 chili, a sinistra), pensato per guidare un’auto, aprire una porta, aprire e chiudere una valvola, superare macerie, salire una scala. Lo scorso giugno, in un test in California, Walkman si è fermato per un problema di batteria. Ostacolo di certo non impossibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA mmaginate uno scenario così: il dottore è via per un convegno e un robot umanizzato si muove nei corridoi dell’ospedale fino alla camera di un malato, si avvicina e fa tutto quello che serve perché il medico — in qualunque parte del mondo si trovi — possa esaminare la storia clinica, visitare il paziente, guardare il risultato degli esami e ottenere in tempo reale immagini ecografiche. Fantascienza? Mica tanto, la Food and Drug Administration negli Stati Uniti ha appena autorizzato l’impiego di un robot così, si chiama RP-VITA e affittarlo costa all’ospedale dai quattromila ai seimila dollari al mese. La realizzazione di quel robot è frutto dello sforzo congiunto fra due compagnie, iRobot e InTouch Health. RP-VITA sa muoversi in modo autonomo nel caos dell’ospedale. Per adesso l’hanno provato nei reparti di cardiologia e in quelli di medicina generale, ma quel robot ha imparato a occuparsi delle donne che partoriscono e il suo impiego consente ai chirurghi di essere vicini giorno e notte ai malati che hanno appena operato. E non basta: l’industria sta lavorando per la messa a punto di robot capaci di fare diagnosi e suggerire terapie, uno di questi è Watson dell’Ibm. Dove arriveremo? Al punto che i dottori non serviranno più? Vediamo. Harley Lukov ha 72 anni, ha smesso di fumare dieci anni fa — lo aveva promesso a sua figlia proprio il giorno della nascita del primo nipotino — ma non è bastato; quarant’anni di venti sigarette al giorno prima o poi si fanno sentire. Adesso Lukov ha un cancro al polmone, un adenocarcinoma già metastatizzato al fegato. Ci sono dei farmaci biologici che funzionano solo se uno ha una mutazione in certi geni (EGFR e ALK). Queste mutazioni sono però piuttosto rare. Per il cancro di Lukov che non ha queste mutazioni i farmaci biologici non servono. Gli oncologi a questo punto fanno la chemioterapia tradizionale che di solito non risolve il problema. Ce ne sarebbe un altro, di gene: si chiama KRAS. Ma le linee guida non prevedono che si faccia questo test. L’avranno fatto a Lukov? I suoi medici sapranno del legame fra la mutazione di questo gene e le metastasi del fegato? È solo una delle tante variabili in gioco in un caso così. Ce ne sono tante altre, un super computer potrebbe aiutare. La vita degli oncologi sarebbe più semplice e Lukov forse guarirebbe. Watson sa analizzare 60 milioni di pagine di testo in un secondo e per lui che sia un testo scientifico o divulgativo è lo stesso. Non è cosa da poco perché non sempre nella letteratura si trova tutto; ci sono informazioni che vengono dalle cartelle cliniche e dalle lettere di dimissione, dalla corrispondenza fra medici e da quello che si sente ai convegni. Trovare una logica in una quantità di dati del genere è quasi impossibile. Watson è capace di farlo. Non solo: più ha informazioni più impara, più si aggiorna e più le sue raccomandazioni sono precise. Harley Lukov in realtà non esiste. Il suo caso l’hanno inventato i medici del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York per mettere alla prova Watson e per cercare di capire quanto potesse essere davvero utile nella formazione degli stu- denti e dei giovani medici. Grazie a quel caso e a tante altre simulazioni del genere però i ricercatori si sono accorti che Watson sbaglia molto meno dei medici. Se due o tre sintomi sono perfettamente in linea con una certa diagnosi per esempio, il dottore tende a focalizzarsi su quella e anche inconsciamente trascura gli altri. Watson invece prende in considerazione proprio tutto e così supplisce ai limiti dell’uomo. C’è chi è scettico naturalmente, ma i medici più colti, almeno nel mondo anglosassone, cominciano a pensare che con l’arrivo dei robot un giorno sapremo prevenire le malattie e curare molto meglio chi si ammala. E chissà che non sia proprio questa tecnologia a riuscire là dove generazioni di politici e manager hanno fallito o stanno per fallire in tutte la parti del mondo (come si fa, per esempio, ad andare incontro alle esigenze della popolazione che invecchia senza mandare in bancarotta il servizio sanitario pubblico?). Ci sarà presto un mondo senza medici? È quanto prevede Vinod Khosla, un venture capitalist co-fondatore di Sun Microsystems che scommette sul fatto che quattro dottori su cinque spariranno almeno negli Stati Uniti. Ma allora — si chiede qualcuno — chi starà vicino ai malati, ai loro familiari? E chi li aiuterà a scegliere (tra le tante possibilità che computer come RP–VITA o Watson ti mettono davanti)? In realtà computer e medici non sono affatto incompatibili, anzi sarà proprio grazie ai robot che avremo più tempo per stare vicino agli ammalati e per parlare con loro e discutere del loro futuro con un po’ di calma. Vuol dire che la prossima volta che andremo nell’ufficio di un medico ci verrà incontro un computer? No, non subito per lo meno; però è verosimile che il futuro della medicina non sia nei nuovi farmaci o in una migliore chirurgia, ma nell’essere capaci di mettere insieme e analizzare una quantità enorme di informazioni e trovare delle soluzioni, non per la media degli ammalati con quella malattia lì (come succede oggi con i cosiddetti studi controllati) ma per l’ammalato che hai davanti. In tutto questo c’è però un rischio di cui è bene essere consapevoli. Watson può mettere insieme tutti i dati relativi a un determinato ammalato, compresi esami e indagini strumentali che quel malato ha fatto durante la sua vita e può integrarli con l’enorme numero di dati che presto verranno dall’analisi del Dna di ciascuno di noi e poi confrontarli in tempo reale con le conoscenze che vengono dalla letteratura medica (quanti medici possono avere in testa le informazioni contenute nei 30 mila articoli che si pubblicano ogni mese in medicina?). A quel punto il robot suggerirà diverse diagnosi, quattro o cinque o più. Allora potrebbe succedere che il tuo medico voglia indagare tutte quelle possibilità, che significa più esami, più raggi e più biopsie con conseguenze in termini di costi e tempo. È un rischio da cui dovremo imparare a difenderci. Intanto però Watson e le altre macchine cambieranno la medicina e il modo di esercitarla; a patto che ci crediamo e che impariamo a prendere vantaggio da tutto quello che i robot ci mettono a disposizione piuttosto che esserne schiavi. © RIPRODUZIONE RISERVATA