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Roberto Fini
Commercio internazionale
Paradigmi teorici
e processi di integrazione
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via Raffaele Garofalo, 133/A–B
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I edizione: ottobre 2010
Ad Anna
Indice
9 Introduzione
1. Le vicende storiche – 2. Sviluppo economico & commercio internazio­
nale
17 Capitolo I
Evidenze empiriche del commercio internazionale
21 Capitolo II
La formazione della teoria del commercio internazionale e i
suoi sviluppi in ambito neoclassico
2.1. Teoria dei vantaggi assoluti di Smith – 2.2. Teoria dei vantaggi com­
parati – 2.3. Teoria della dotazione dei fattori produttivi
29 Capitolo III
Nuovi modelli teorici del commercio internazionale
3.1. I presupposti fondamentali delle nuove teorie del commercio inter­
nazionale – 3.2. Conseguenze della presenza di economie di scala interne
– 3.3. Mercati di concorrenza imperfetta come conseguenza di rendimenti
di scala interni – 3.4. Economie di scala esterne – 3.5. La differenziazione
del prodotto come fattore strategico – 3.6. Economie di scala interne ed
effetti dell’apertura commerciale – 3.7. Oligopolio e commercio interna­
zionale – 3.8. Economie di scala esterne e commercio internazionale
59 Capitolo IV
La nuova geografia economica
4.1. Quanto spiegano le teorie del commercio internazionale?
7
8
Commercio internazionale
69 Capitolo V
Il peso dell’Europa nell’economia mondiale
1. Le ragioni della bassa crescita – 2. Il fattore critico della specializzazio­
ne produttiva – 3. Le minacce della globalizzazione – 4. Attendere tempi
migliori?
83 Bibliografia
Introduzione
La teoria del commercio internazionale rappresenta il principale
degli approcci utilizzati nello studio dei rapporti economici fra pae­
si o aree geografiche. Si tratta di un insieme di strumenti, metodi e
modelli analitici cui è deputato lo scopo di comprendere se e in che
misura conviene stabilire relazioni commerciali su di un piano inter­
nazionale. La teoria del commercio internazionale rappresenta uno
dei più antichi e maturi campi di indagine economica, ma oggi ha
trovato un nuovo consistente interesse legato ai processi di integra­
zione dei mercati a livello planetario (globalizzazione).
Lo studio delle cause e degli effetti del commercio internazionale
costituisce, dunque, uno dei più antichi settori della teoria economi­
ca. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è uno fra i meno
compatti ed unitari. In realtà, per un lungo periodo l’analisi del com­
mercio internazionale si presentava in modo esattamente opposto:
fino a due decenni fa, una rassegna sull’argomento avrebbe riguar­
dato quasi esclusivamente la descrizione del corpo centrale della te­
oria, in particolare nella versione che va sotto il nome dei due au­
tori che ne avevano operato un’efficace sintesi, E.F. Heckscher e B.
Ohlin. Solo marginalmente la rassegna in questione avrebbe riporta­
to alcuni sviluppi considerati minori, in genere risultato di ricerche
più o meno esplicitamente eterodosse.
In effetti, alla domanda “perché i paesi trovano conveniente com­
merciare fra di loro?” le teorie di derivazione neoclassica, le quali per
molto tempo hanno rappresentato il paradigma largamente dominan­
te, rispondono molto semplicemente: “perché i paesi sono diversi”. Di­
versi in base alle tecnologie produttive adottate (teoria di Ricardo–Tor­
9
10
Commercio internazionale
rens), oppure diversi in base alle dotazioni fattoriali relative di capitale
e lavoro (modello di Heckscher e Ohlin). Si dedicano qui alcune brevi
note al modello classico e a quello di Heckscher e Ohlin, in quanto an­
tesignani di ogni discussione sul commercio internazionale.
Il fondamento della teoria generale del commercio internaziona­
le, almeno nelle sue versioni ortodosse, esprime la convinzione se­
condo la quale, a determinate condizioni, il libero scambio coincide
con la massimizzazione del benessere sociale delle collettività coin­
volte nello scambio. In questo caso, però, l’elemento cruciale sono
per l’appunto quelle condizioni entro cui si svolge il commercio in­
ternazionale: in particolare, nella versione neoclassica della teoria as­
sumono significati forse troppo stringenti e lontani dalla realtà.
In effetti, la teoria neoclassica del commercio internazionale prende
avvio da due constatazioni che ne condizionano la successiva analisi:
1) i diversi prodotti oggetto dello scambio sono caratterizza­
ti da funzioni di produzione differenti; in altre parole differi­
scono per le diverse proporzioni di fattori produttivi impiega­
ti nel processo: l’industria tessile, quella meccanica, quella ae­
reo–spaziale, per esempio, sono caratterizzate da rapporti pro­
gressivamente crescenti di capitale per lavoratore impiegato;
quando per mettere in atto un determinato processo produtti­
vo esista un ventaglio più o meno ampio di soluzioni tecnolo­
giche alternative, la scelta della tecnica produttiva da utilizzare
in concreto verrà determinata sulla base dei prezzi relativi dei
fattori, i quali prezzi ne riflettono la scarsità o l’abbondanza;
2) in riferimento ai singoli paesi, essi differiscono tra di loro nella
disponibilità relativa di fattori produttivi (ciò che viene corren­
temente definito come dotazione fattoriale): accanto a paesi nei
quali la dotazione di capitale è abbondante rispetto a quella di
lavoro1, vi sono paesi caratterizzati da condizioni opposte, cioè
poco capitale e molto lavoro2.
1. In un caso di questo genere, i salari saranno relativamente alti e i tassi di interes­
se relativamente bassi
2. Dunque livelli salariali bassi e costo del capitale elevato
Introduzione
11
Utilizzando al meglio i vantaggi potenziali che tale duplicità con­
sente, e in assenza di interferenze da parte dello stato negli aspetti
del commercio internazionale, ciascun paese assumerà una propria
caratteristica collocazione nella divisione internazionale del lavoro: i
paesi caratterizzati da abbondanza del fattore capitale si specializze­
ranno in attività capital intensive, mentre quelli con abbondante forza
lavoro si specializzeranno in attività labour intensive. I primi esporte­
ranno l’output eccedente rispetto alla domanda interna per impor­
tare prodotti ad alta intensità di lavoro dai secondi, i quali, coerente­
mente con la propria dotazione fattoriale avranno intrapreso un per­
corso di specializzazione differente e speculare. Deriva da questo ra­
gionamento la constatazione che gli scambi internazionali hanno:
1) una origine, costituita dalla diversa dotazione fattoriale dei
pae­si coinvolti nel processo;
2) una funzione, costituita dall’alleggerimento delle conseguen­
ze della carenza relativa di alcuni dei fattori produttivi all’inter­
no di ciascun paese.
Questo significa che ciascuno dei paesi massimizzerà la produzio­
ne e, di conseguenza, sarà massima la produzione complessiva. Si
tratta, a ben riflettere, di una versione particolare del modello della
mano invisibile di origine smithiana.
Il punto da sottolineare, tuttavia, è che la razionalità, desiderabili­
tà e utilità del modello prevede alcune ipotesi piuttosto stringenti:
1) perfetta mobilità internazionale delle merci prodotte; dun­
que assenza di restrizioni (tariffarie e non) agli scambi in­
ternazionali, trascurabilità dei costi di trasporto; inoltre il
modello deve prevedere una perfetta immobilità dei fatto­
ri impiegati; dunque in ciascun paese le quantità dei fattori
produttivi sono date e pienamente occupate;
2) omogeneità del fattore lavoro; in altre parole, non si verifi­
cano variazioni della produttività spostando un lavoratore
da un settore a un altro in funzione della specializzazione
decisa dal paese;
12
Commercio internazionale
3) rendimenti costanti, che per ipotesi escludono la formazione
di economie di scala legate alla specializzazione produttiva e
l’apertura degli scambi internazionali;
4) condizioni di mercato di libera concorrenza perfetta, cioè stret­
ta proporzionalità fra costi di produzione e prezzo di mercato
per ciascuna merce;
5) prezzi dei fattori il cui ammontare è determinato esclusiva­
mente dalla loro disponibilità relativa, dunque, ancora una vol­
ta, dalla dotazione fattoriale.
Inoltre, nei modelli in questione si assume che la scelta della specia­
lizzazione dipende esclusivamente da tale dotazione fattoriale e non si
incontrano restrizioni nell’accesso alla tecnologia. Si assume, cioè,
che esista qualcosa di simile ad uno “scaffale tecnologico” sul quale sono
allineati i “manuali” contenenti tutte le informazioni necessarie ad im­
piantare e condurre qualsiasi processo produttivo e che tali “manuali” sia­
no disponibili per tutti gli attuali o potenziali produttori di tutti i paesi3.
Se si verificano tali condizioni e se tutti i paesi hanno una dimensio­
ne produttiva analoga4, la massimizzazione del benessere complessivo
coincide con quella dei singoli paesi partecipanti. In questo gioco a som­
ma positiva, nessuno dei paesi coinvolti dovrebbe avere convenienza ad
adottare politiche intese a migliorare il proprio benessere a danno degli
altri paesi5. In altri termini: nessuno dei paesi coinvolti nello scambio ha
interesse a praticare politiche protezionistiche, e non dovrebbe presen­
tarsi neppure l’esigenza di definire cornici giuridiche e regolamentative
che si propongano di contenere e regolamentare gli scambi.
È facile argomentare che la pratica differisce in modo notevole
dalla teoria fin qui esposta: gli organismi creati con lo scopo di rego­
lamentare il commercio internazionale sono numerosi e le loro pra­
3. Testi (2006; p.16)
4. Questo aspetto è essenziale: nessuno dei paesi coinvolti nello scambio internazionale
deve essere in grado di modificare i prezzi internazionali delle merci oggetto di scambio va­
riando la quantità delle proprie importazioni o esportazioni; si deve verificare, in altri termini,
una situazione di libera concorrenza perfetta che non riguarda le imprese ma i paesi.
5. Politiche di beggar–my–neighbour
Introduzione
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tiche articolate e capillari. Inoltre si osserva una varietà di accordi,
sia per quanto riguarda il numero di paesi coinvolti (accordi multila­
terali, regionali, bilaterali) sia per quanto riguarda la materia regola­
ta (accordi completi, settoriali, su singoli prodotti).
Questa notevole differenza fra teoria e pratica, cioè fra comporta­
menti razionali ascrivibili al modello generale e comportamenti sto­
ricamente osservabili in concreto, va spiegata. Due sono i piani da
cui tentare una possibile spiegazione:
1) quello delle vicende storiche che interessano gli stati e tenden­
zialmente l’intero pianeta;
2) quello dell’analisi economica, cioè delle assunzioni che stanno
alla base del modello.
1. Le vicende storiche
Senza andare troppo indietro nel tempo, si può ricordare che il pe­
riodo fra le due guerre mondiali fu caratterizzato da contrastanti ten­
tativi di risolvere le difficoltà di gestione di un sistema economico in­
ternazionale uscito dalla prima guerra mondiale con profondi squili­
bri repressi, che peraltro vennero acuiti dalla fase della ricostruzione
post–bellica. L’aspetto, certamente non unico ma più vistoso, di tale
instabilità possono considerarsi le ampie fluttuazioni nei cambi inter­
nazionali registrate tra gli anni 1919 e 1924. Nella seconda metà de­
gli anni venti furono messi in atto dei tentativi di conferire stabilità
alle relazioni economiche internazionali con un sistema di cambi fis­
si, che però si infranse contro ostacoli di notevole portata: mancan­
za di adeguati meccanismi di aggiustamento, effetti destabilizzanti di
intensi flussi internazionali di capitale (in particolare dalla piazza di
Londra a quelle di Parigi e New York), e infine l’esplodere della crisi
del ’29 e la successiva depressione degli anni Trenta6.
6. Come notato da Salvatore (1998), all’esplodere della Grande Depressione contri­
buì certamente il cattivo funzionamento del sistema dei pagamenti vigente in quel mo­
mento, ma al tempo stesso essa esercitò una tale pressione sul sistema da minare l’opera­
tività di qualsiasi altro sistema di pagamenti.
14
Commercio internazionale
G. Myrdal (1972) descrive gli anni trenta del novecento come il
periodo “dell’integrazione nazionale e della disintegrazione interna­
zionale: nella sua sinteticità è una definizione che ben descrive l’in­
treccio di anarchia monetaria e di ricorso al protezionismo commer­
ciale del periodo, durante il quale si produssero le condizioni mag­
giormente negative per le relazioni commerciali internazionali. In
particolare esse vennero condizionate in maniera pesante da politi­
che commerciali caratterizzate dall’imposizione di forti dazi e in ge­
nerale da restrizioni alle importazioni7.
Nel corso della seconda guerra mondiale vennero adottate ulte­
riori politiche protezionistiche, concretizzatesi in prevalenza da seve­
ri controlli sui movimenti finanziari e reali. Avvicinandosi la fine del
conflitto ci si pose il problema di rimuovere tali blocchi commerciali in
modo da ripristinare una ragionevole libertà di movimento, sia per le
merci che per i capitali. In questa direzione premevano in particolare
gli USA, che percepivano perfettamente il rischio delle politiche pro­
tezionistiche che alla fine del conflitto avrebbero provocato loro serie
difficoltà nel collocamento delle loro eccedenze commerciali.
Da qui quell’insieme di provvedimenti attuati subito dopo la se­
conda guerra mondiale tendenti a liberare il commercio internazio­
nale e il varo di organizzazioni quali BIRD e IMF.
2. Sviluppo economico & commercio internazionale
Sul piano analitico si può facilmente osservare che le teorie del
commercio internazionale di derivazione neoclassica sono fondate
sull’assunzione di ipotesi modellistiche molto restrittive e di difficile
riscontro nella realtà, in particolare negli ultimi cinquanta anni, ca­
ratterizzati dal tumultuoso sviluppo dell’integrazione commerciale
a livello planetario. Come afferma Testi (2006):
7. Si può affermare senza tema di smentita che ogni paese venne interessato da si­
mili decisioni di politica commerciale: anche gli USA, alfieri del libero scambio, adottan­
do nel 1930 lo Smooth–Hawley Act si inchinarono alle ragioni commerciali e alla necessità
di preservare a tutti i costi la crescita interna delle attività commerciali.
Introduzione
15
Al riguardo si rifletta, ad esempio, sul realismo dell’ipotesi di immobilità
internazionale dei fattori, a fronte di un mondo in cui tutto si muove, lavo­
ratori e capitali: e questi ultimi, dando luogo alla formazione di mercati in­
ternazionali che – per dimensione e volatilità – sono venuti crescentemen­
te dominando l’agenda della politica economica internazionale. Oppure
si consideri quanto corrisponda alla concreta esperienza l’assunzione di
ipotesi di assenza di restrizioni nell’accesso alla tecnologia, quasi esistesse
quello “scaffale tecnologico” […], dal quale poter liberamente trarre tut­
te le informazioni necessarie per la realizzazione di qualsiasi scelta pro­
duttiva8.
Riflettendo sull’evoluzione delle relazioni commerciali nel secon­
do dopoguerra, si nota come la loro struttura sia stata influenzata da
fattori economici e politici, sia di natura endogena rispetto ai singo­
li paesi (tipologie e caratteristiche dei settori produttivi, formazioni di
lobby, ecc.), sia di natura esogena, essenzialmente a causa dell’esisten­
za di rapporti gerarchici informali tra paesi ed aree. Tutto ciò ha con­
tribuito a determinare la definizione e l’evolversi di politiche commer­
ciali nazionali, spesso tutt’altro che orientate al libero scambio.
Un rilevante problema analitico, oltreché ovviamente denso di
conseguenze pratiche, riguarda il ruolo dei PVS nella divisione in­
ternazionale del lavoro. Contrariamente al grande interesse mostra­
to dagli economisti classici per le cause in grado di determinare “la
ricchezza delle nazioni” (o la loro povertà), gli economisti di orien­
tamento neo–classico si sono dimostrati meno sensibili a tali proble­
mi, rinunciando nei fatti a sviluppare una coerente teoria del rap­
porto fra commercio internazionale e sviluppo economico. La teo­
ria neoclassica è in grado di spiegare perché un paese godrà di mi­
glioramenti in termini di benessere decidendo di specializzarsi nella
produzione di quei beni in cui, data l’esistenze dotazione fattoriale
che lo caratterizza, goda di un vantaggio comparato. Ma da questo
punto di vista gli economisti neo–classici , in sostanza, prendono in
considerazione le dotazioni fattoriali esistenti, in una visione statica
della realtà economico–produttiva di un paese, ignorando, o quanto
8. Testi (2006; p. 19)
16
Commercio internazionale
meno sottovalutando, le ragioni e i processi attraverso i quali si sono
venute configurando tali dotazioni.
Tuttavia i concreti processi storici hanno un peso: oggi si ricono­
sce largamente che vi è molto più di una dotazione fissa, immutabile
e da considerarsi “naturale” di fattori che determinano le condizio­
ni per un determinato vantaggio comparato. In questo senso, il pro­
cesso di decolonizzazione avviatosi tra gli anni cinquanta e sessan­
ta, con il conseguente modificarsi dei rapporti di forza internaziona­
li, vede svilupparsi una nuova branca, genericamente definita come
economia dello sviluppo. Nell’ambito dell’economia dello sviluppo,
la prima affermazione di peso è stata la constatazione che i modelli
di specializzazione caratterizzanti i PVS non potevano considerarsi
neutrali, ma il risultato dell’azione secolare del colonialismo, il qua­
le aveva assegnato loro il compito di fornire un accesso alle princi­
pali materie prime e, al tempo stesso, di rendere possibile disporre
di mercati di sbocco per attività manifatturiere dei paesi coloniali. Il
vantaggio comparato non poteva dunque considerarsi come “natu­
rale”, ma al contrario, il risultato “artificiale” di azioni consapevoli e
di rapporti di forza esistenti.
D’altra parte, sempre di più venivano avanzati dubbi sulla capa­
cità del modello storico di specializzazione riguardo alla sua pretesa
di garantire un processo sostenuto e duraturo di crescita economi­
ca ai paesi di recente indipendenza: si trattava di dubbi fondati sulla
constatazione della profondità dei meccanismi di ineguaglianza insi­
ti nel modello stesso, nel cui ambito asimmetrie strutturali, sia di na­
tura tecnologica che politico–istituzionale, agivano nel determina­
re una redistribuzione internazionale del reddito fortemente pena­
lizzante per i PVS.
Conseguentemente a ciò, la ricerca di una ridefinizione dei van­
taggi comparati divenne un imperativo sia teorico che empirico. Tale
ricerca, alla fine di un lungo processo analitico, suggerì che la solu­
zione dovesse essere individuata nella realizzazione di estesi processi
di industrializzazione su produzioni manifatturiere labour intensive.
Questo suggerimento si scontrava però con le diseconomie di sca­
la che impedivano, o comunque rallentavano, l’affermarsi di un pro­
cesso di industrializzazione.