Brecht sapeva quanto vale un eroe

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C ORRIERE
DELLA
S ERA U D OMENICA
7
M AGGIO
2006
TEATRO, MUSICA E DVD
Krief a Cagliari
«Valchiria»
decadente
e disperata
A
l Lirico di Cagliari
rimettere insieme i
cocci del recente
passato non sarà cosa breve né indolore. Ma l'idea
di riprendere un allestimento di qualità prodotto
all'estero è certo funzionale. È l'edizione di Valchiria di Karlsruhe, parte di
un Ring in corso d'opera,
del quale è auspicabile, a
questo punto, un completamente anche italiano.
Denis Krief, il «grande
apparatore» dello spettacolo (regia, scene, luci e
costumi) sposa la rispettabile tesi che ogni tappa
del ciclo sia un unicum a
sé bastante e lo dimostra
riprendendo solo alcuni
degli elementi narrativi
utilizzati un anno fa nell'
Oro del Reno. Prosegue
però nell'idea di un teatro
povero, fatto di buona recitazione, geometria nel
disegno dell'impianto scenico (con citazioni da Ejzenstein), di gestualità essenziale: elementi che vanno nella direzione di
un’umanizzazione del mito, raccontato attraverso
il riverbero psicologico
che suscita nei vari personaggi. È il teatro dunque
di un'astrazione capace di
mettere in risalto le umane passioni, in primis il
senso di progressiva impotenza che attanaglia il vero protagonista, Wotan.
Ne sortisce una Valchiria disperata, lirica, decadente. Una bella edizione
in cui peraltro regia e direzione musicale parlano la
stessa lingua, perché il
suono dell'orchestra cagliaritana, molto ben diretta da Anthony Bramall, è così italiano, vaporoso, pieno di slancio melodico.
A parte lo Hunding di
Ulrich Schneider, stonacchiatello, è un'edizione
che si avvale anche di un
cast di livello, con Lance
Ryan (Siegmund), Anja
Kampe (Sieglinde), Caroline Whisnant (Brünnhilde), Silvia Hablowetz (Fricka) e l'ottimo Jürgen
Linn (Wotan).
Enrico Girardi
LA VALCHIRIA
di Wagner
Teatro Lirico di Cagliari
«Vita di Galileo» torna in scena. Con Virginio Gazzolo e la regia di Garella
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Brecht sapeva quanto vale un eroe Ecco Mizoguchi
Una rarità del maestro giapponese
di FRANCO CORDELLI
V
i sono opere, I tre moschettieri di Dumas o l’Angelus di
Millet nel XIX secolo, Lo
straniero di Camus o Vita di Galileo di Brecht nel XX, che pur non
essendo capolavori, nelle rispettive discipline, lo sono di fatto, si sono conquistati sul campo quella
eccellenza che scaturisce dal situarsi in punti nevralgici dell’immaginario del tempo loro, e del
nostro.
Vita di Galileo, dunque, ora riproposto da Nanni Garella con la
sua compagnia Arte e Salute. Su
Brecht pesa una specie di «damnatio memoriae». Fu o non fu un
ideologo? Lo fu. Cioè, secondo alcuni, non fu un grande artista.
Ma Vita di Galileo si sottrae al
dubbio per la qualità che dicevo
prima: mette a fuoco, in modo canonico, un dilemma che coinvolge
gli intellettuali di ogni tipo nei loro rapporti con le società di cui dovrebbero essere coscienza.
C’è di più, nella canonicità di Vita di Galileo. E’ il dramma in cui
Brecht definisce in modo lapidario il valore, o disvalore, dell’eroismo. «Sventurata la terra che ha
bisogno di eroi» replica Galileo all’allievo Andrea Sarti che aveva
appena detto: «Sventurata la terra che non ha eroi». Con la celebre frase di Galileo, Brecht prefigurava una società futura e migliore.
Ma, nello stesso tempo, è incerto se fosse più la celebrazione di
un utopistico mondo a venire o la
liquidazione di un luogo comune,
appunto la virtù eroica. Forse Brecht voleva dire: chi se ne frega de-
CANOCCHIALE Virginio Gazzolo-Galileo nel dramma di Brecht diretto da Garella
gli eroi, non sono gli eroi che ci
stanno a cuore.
Questa ambiguità si vede nell’elaborazione del testo. Scritto
nell’esilio danese, nel 1938, esaltava l’astuzia di Galileo, che si sottrae al giudizio dell’Inquisizione
romana per continuare la propria
ricerca della verità. Dieci anni dopo — dopo l’interrogatorio da
parte delle attività antiamericane
e il ritorno in Europa, ma soprattutto dopo Hiroshima — Brecht
riscrisse la scena XIV, penultima
del dramma. Galileo rifiuta di ri-
conoscere qualunque eccellenza
all’idea di avere le mani sporche
ma libere. Se la scienza è al servizio dell’umanità, se essa serve la
causa della lotta contro la sofferenza degli uomini, non può dagli
uomini staccarsi, come Galileo se
ne è staccato, privilegiando il proprio bene personale.
Del resto, gli opposti giudizi
che si danno dell’eroe rivelano, di
una società, il suo sviluppo. Alle
esaltazioni, nelle società totalitarie, di tutto ciò che appare eroico,
fino alla suprema ambiguità eroi-
smo/fanatismo, si contrappone la
disillusione delle società democratiche.
Penso a un libro recente, Il ribelle di Massimo Fini, nel quale, dice
l’autore, il maggior eroe dell’Italia repubblicana, Nicola Calipari,
era una spia! Qui la disillusione è
davvero troppa. Tutto dipende
dal linguaggio. L’uso della parola
spia, con il suo connotato negativo, il suo alone perfino psicologico, indica più un’inclinazione di
Fini che la descrizione obiettiva
dei fatti.
Per parte sua, Nanni Garella si
mantiene su una costante stilistica
di sobrietà, che implica una sobrietà di giudizio. Vi è un piccolo spazio circolare, vi sono cambi-luce
che di per sé descrivono i diversi
ambienti del dramma, vi è il vibrante, nitido suono delle campane.
Ciò che più conta, vi è il rapporto che si stabilisce tra Virginio
Gazzolo, Galileo, e gli altri che, a
parte Umberto Bortolami, il Papa, e Gabriele Tesauri, l’Inquisitore, si manifesta nel rapporto tra il
protagonista del dramma didattico, l’eroe che insegna, e gli
“ignoranti“, che sono i pazienti
psichiatrici, con le loro fragilità, i
loro così toccanti dialetti o, semplicemente, accenti di regione, di
provincia, di città, di famiglia:
educati, tutti, alla civile virtù del
teatro, ovvero della convivenza.
VITA DI GALILEO
di Brecht/Garella
Arena del Sole di Bologna
Aria di Hollywood anni ’60 con «Sweet Charity» della Rancia
Cuccarini vivace, musical datato
D
opo la nuova Broadway del magistrale
The producers, la
Compagnia della Rancia
torna con Sweet Charity al
vecchio musical «made in
Hollywood», alla riduzione, allora innovativa e premiata assai, che Bob Fosse
fece nel '66 delle Notti di
Cabiria, poi divenuto anche un film con Shirley
McLaine. Di Fellini non
c'è più traccia in questo
show variopinto scritto da
Neil Simon negli anni della contestazione, mentre
c'è molto del geniale Fosse
oltre ai costumi e al costume di ieri, non solo la musica ma lo stile optical e psichedelico. I numeri migliori dello spettacolo sono
due classici del coreografo-regista di Cabaret: il
pezzo alla sbarra con le entreneuses e il delizioso assolo di Charity nascosta con
cilindro e bastone nell'alcova del divo.
Coreografato da Luca
Tommassini, che fa rivivere quei balletti con una vernice di giovanilismo un po'
televisivo, e diretto con l'ormai proverbiale perizia da
Saverio Marconi, il musical ahimè è, visto oggi, un
presepe di allora, con il
santone religioso come in
Hair e quella sincera voglia di pace oggi riproposta con stile da marketing
della nostalgia. Charity,
passata da battona a ballerina, è comunque innamo-
rata non corrisposta della
vita e degli uomini che non
fanno che tradirla e sfruttarla. L'ultimo della serie,
Oscar, è un nevrotico che
non ha il coraggio di sposarla: in questa versione
l'happy end però arriva e rischia di trascinare via tutto il senso del personaggio,
glorificando il buonismo.
Lorella Cuccarini dà impeto ed entusiasmo, grazia
e vitalità ginnica (e psicologica) alla Sweet Charity, e
vince la partita anche con
alcune belle canzoni di Cy
Coleman combattendo
contro un testo che spesso
gira a vuoto o forse deve
ancora trovare il suo giusto ritmo. Nel cast sono
adorabili le due amiche del
IN SCENA
Lorella
Cuccarini
in una scena
del nuovo
spettacolo
musicale
firmato
da Saverio
Marconi
cuore del tabarin, Crescenza Guarnieri e Adelaide di
Bitonto, mentre Carlo Reali è il divertente direttore
cerbero, che canta un affettuoso song. I boys di Charity sono, per 20 minuti
Gianni Nazzaro (era Nazzari con Fellini, destino
del nome) che fa del divo
un cameo vecchio stampo
dalla potente voce, mentre
la palla passa poi a Cesare
Bocci, assistente di Montalbano in tv, che esplora
brillantemente le classiche
nevrosi del civis nuovayorkese, iniziando il suo
flirt nell'ascensore in panne.
Maurizio Porro
SWEET CHARITY
di Marconi/Tommassini
Teatro della Luna di Milano
«prima maniera»
F
inalmente Mizoguchi! Il più misterioso, il più raffinato, il più lirico tra i
grandi registi giapponesi, che proprio l’Italia aveva contribuito a far conoscere al mondo premiando nel 1952 alla
Mostra di Venezia Vita di O-Haru, donna
galante, era praticamente invisibile per i cinefili di casa nostra.
A rompere questa specie di assurdo «embargo» arriva finalmente la RaroVideo
che propone addirittura un film «perduto»
del maestro giapponese, quel Cinque donne attorno a Utamaro di cui risulta introvabile il negativo originale (da cui una qualità non proprio perfetta del dvd, generato
da una copia magnetica).
Eppure la scelta del «primo Mizoguchi»
da mostrare in Italia non poteva essere più
indovinata perché il film, girato nel 1946,
affronta tutti i temi che hanno attraversato la sua opera, dal ruolo
centrale della donna alla
passione per le arti figurative fino al confronto/scontro tra presente e passato.
Che qui, dove il protagonista è il grande pittore Utamaro, sono rappresentati
da due diverse concezioni
dell’arte, una ferma nel perpetuare le idee della tradiMizoguchi
zione e l’altra, quella di Uta5 DONNE ATTORNO A maro, aperta al cambiamenUTAMARO (RaroVideo) to sociale che agita il Giappone del Settecento. E che
vede proprio nell’inafferrabile corpo femminile (su cui
Utamaro arriva addirittura
a dipingere) lo strumento
per rivoluzionare le regole
estetiche.
Sempre alla RaroVideo si
devono anche i primi dvd
italiani dedicati a un altro
grandissimo del cinema
Yasujiro Ozu
giapponese, Yasujiro Ozu,
CREPUSCOLO DI
di cui sono usciti fino ad
TOKYO (RaroVideo)
ora due cofanetti, il primo
con Viaggio a Tokyo e Inizio di primavera, il secondo, recentissimo,
con Crepuscolo di Tokyo e Buon giorno.
Lontanissimo dallo stile di Mizoguchi fatto di grandi carrellate avvolgenti che esplorano lo spazio, i film di Ozu sembrano voler «inchiodare» la realtà con inquadrature vicine all’immobilità, che riprendono
l’azione «ad altezza di cane» (come lui stesso diceva per indicare la posizione della
macchina da presa poco sollevata da terra). Eppure questa presunta antispettacolarità si rivela strumento perfetto per raccontare i drammi di una cultura che sembra incapace di accettare la modernizzazione novecentesca, ancorata com’è, soprattutto all’interno del nucleo familiare, a valori tradizionali inevitabilmente messi in
discussione dal mutamento della società.
Tutti i dvd della RaroVideo sono corredati da stimolanti interventi in video (di
Ghezzi, Luciano Emmer, Aprà, Hou
Hsiao-hsien, tra gli altri) e preziosissimi libretti critico informativi
Paolo Mereghetti
Dischi
ROCK PEARL JAM
JAZZ TIME LINES
ELETTRONICA GOTAN PROJECT
CLASSICA SETTIMA DI MAHLER
Vedder e soci con «violenza» L’inafferrabile Andrew Hill La tradizione del tango
Barenboim: partitura audace
per cantare il sogno Usa fallito ( e ricompare anche Tolliver) all’incrocio tra rap e western con trasparenza geometrica
Un ritorno violento quello dei Pearl Jam, rabbioso come gli
esordi di Ten. Non a caso il titolo dell’album è il nome della
band, come accade per i debutti. Ma anche per riappropriarsi di un carisma riconfermato nel precedente Riot Act.
Pearl Jam è rock a tutti gli effetti, a partire da Life Wasted,
che apre l’album con inaspettata veemenza. La critica alla
società americana prosegue in Worldwide Suicide (suicidio globale), Army Reserve, l’attesa di una donna per il marito al fronte (scritta con Damien Echols, adolescente accusato - secondo alcuni in modo pretestuoso - di satanismo e omicidio),
Gone, in cui Vedder canta l’amarezza sul fallimento del sogno americano e Unemployable, sulle vite spezzate dalla perdita del posto di lavoro. Ma ci sono anche momenti delicati, come le ballate Come Back e
Inside Job, mentre i riff di Marker
In The Sand e Comatose sono già
dei classici. Assenti dall’Europa da
Pearl Jam
quasi sei anni, saranno in tour in Italia a metà settembre per 5 concerti.
PEARL JAM
Mario Luzzatto Fegiz
(Sony/BMG)
Personalità inafferrabile fin dagli anni Sessanta (quelli
della sua prima gloria), il pianista chicagoano Andrew
Hill, classe 1937, è uno dei grandi protagonisti della scena attuale. Il gruppo con cui ha inciso l'estate scorsa
Time Lines sarà in Italia nei prossimi giorni (a Vicenza il
15, a Roma il 18, a Milano il 23); sarà interessante ascoltare come verrà riproposta questa musica magmatica e
ostinata, inquietante nella sua lugubre fissità eppure profondamente vitale grazie ai vibranti sfasamenti ritmici,
allo spontaneo contrappunto collettivo, agli originali impasti sonori.
Eccellente la punteggiatura di
John Ebert (contrabbasso) ed
Eric McPherson (batteria), sorprendente il ritorno del trombettista Charles Tolliver (lontano dal
virtuosismo di gioventù), emozionante il triplice ruolo di Greg Tardy a clarinetto, clarinetto basso e
Andrew Hill
sax tenore; Hill è regista sapiente
e minuzioso.
TIME LINES
Claudio Sessa
(Blue Note)
Bisogna saper cogliere i segnali. Migliaia di turisti volano a
Buenos Aires per vivere solo la notte ballando il tango. Nella tradizione Piazzolla resta inimitabile e, per vendere cd,
bisogna andare oltre. I Gotan Project lo hanno capito e, incrociando la tradizione con elettronica e beat, sono diventati un fenomeno. Da tre settimane sono nella top 5 italiana a
confermare i buoni risultati (100 mila copie nel 2001) del debutto La revancha del tango.
In queste 12 canzoni Philippe Cohen Solal, Eduardo Makaroff, Chrisophe H. Müller hanno fatto un passo in più. Alla contaminazione fra ieri e oggi, hanno aggiunto
qua e là quella fra generi. In Amor
Porteño si innesta una chitarra western, quella dei Calexico. Un ritmo
africano ci guida lungo il testo recitato da Juan Carlos Càceres che ricorda le origini meticce del tango
(Notas). Con Mi Confesión arriva addirittura il rap dei Kozmoz. Non a caGotan Project
so l’unica cover è Paris-Texas di Ry
Cooder, camaleonte del rock.
LUNÁTICO
Andrea Laffranchi
(¡Ya Basta!/Discograph/Self)
Alle spalle le integrali di Mozart, Beethoven, Schumann,
Wagner, Brahms e Bruckner, Daniel Barenboim non poteva astenersi dall’intraprendere la scalata alla montagna
del sinfonismo di Mahler, autore tra i meno frequentati nella sua sostenuta attività concertistica e discografica.
E se il buongiorno si vede dal mattino, la nuova avventura
nasce sotto i migliori auspici con questa Settima radiosa e
piena di musicalità. L’orchestra è la Staatskapelle Berlin,
ormai strumento duttilissimo nelle mani del direttore argentino pur conservando quello statuto di «grosso violoncello» da antica compagine del nord, che certi
vicini di casa non hanno più. E il
suono è formidabile perché potente e tellurico per un verso, agile e
reattivo per l’altro. Cosicché l’energia, la tensione, la forza dirompente di questa partitura — la più audace di Mahler — si sposa a una
trasparenza che non è iperbole diGustav Mahler
re geometrica: il peso dei volumi di
Bruckner con la clarté di Mozart.
SINFONIA N.7, dir. Daniel
E. Gir.
Barenboim (Warner)
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