42 C ORRIERE DELLA S ERA U D OMENICA 7 M AGGIO 2006 TEATRO, MUSICA E DVD Krief a Cagliari «Valchiria» decadente e disperata A l Lirico di Cagliari rimettere insieme i cocci del recente passato non sarà cosa breve né indolore. Ma l'idea di riprendere un allestimento di qualità prodotto all'estero è certo funzionale. È l'edizione di Valchiria di Karlsruhe, parte di un Ring in corso d'opera, del quale è auspicabile, a questo punto, un completamente anche italiano. Denis Krief, il «grande apparatore» dello spettacolo (regia, scene, luci e costumi) sposa la rispettabile tesi che ogni tappa del ciclo sia un unicum a sé bastante e lo dimostra riprendendo solo alcuni degli elementi narrativi utilizzati un anno fa nell' Oro del Reno. Prosegue però nell'idea di un teatro povero, fatto di buona recitazione, geometria nel disegno dell'impianto scenico (con citazioni da Ejzenstein), di gestualità essenziale: elementi che vanno nella direzione di un’umanizzazione del mito, raccontato attraverso il riverbero psicologico che suscita nei vari personaggi. È il teatro dunque di un'astrazione capace di mettere in risalto le umane passioni, in primis il senso di progressiva impotenza che attanaglia il vero protagonista, Wotan. Ne sortisce una Valchiria disperata, lirica, decadente. Una bella edizione in cui peraltro regia e direzione musicale parlano la stessa lingua, perché il suono dell'orchestra cagliaritana, molto ben diretta da Anthony Bramall, è così italiano, vaporoso, pieno di slancio melodico. A parte lo Hunding di Ulrich Schneider, stonacchiatello, è un'edizione che si avvale anche di un cast di livello, con Lance Ryan (Siegmund), Anja Kampe (Sieglinde), Caroline Whisnant (Brünnhilde), Silvia Hablowetz (Fricka) e l'ottimo Jürgen Linn (Wotan). Enrico Girardi LA VALCHIRIA di Wagner Teatro Lirico di Cagliari «Vita di Galileo» torna in scena. Con Virginio Gazzolo e la regia di Garella Home video Brecht sapeva quanto vale un eroe Ecco Mizoguchi Una rarità del maestro giapponese di FRANCO CORDELLI V i sono opere, I tre moschettieri di Dumas o l’Angelus di Millet nel XIX secolo, Lo straniero di Camus o Vita di Galileo di Brecht nel XX, che pur non essendo capolavori, nelle rispettive discipline, lo sono di fatto, si sono conquistati sul campo quella eccellenza che scaturisce dal situarsi in punti nevralgici dell’immaginario del tempo loro, e del nostro. Vita di Galileo, dunque, ora riproposto da Nanni Garella con la sua compagnia Arte e Salute. Su Brecht pesa una specie di «damnatio memoriae». Fu o non fu un ideologo? Lo fu. Cioè, secondo alcuni, non fu un grande artista. Ma Vita di Galileo si sottrae al dubbio per la qualità che dicevo prima: mette a fuoco, in modo canonico, un dilemma che coinvolge gli intellettuali di ogni tipo nei loro rapporti con le società di cui dovrebbero essere coscienza. C’è di più, nella canonicità di Vita di Galileo. E’ il dramma in cui Brecht definisce in modo lapidario il valore, o disvalore, dell’eroismo. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» replica Galileo all’allievo Andrea Sarti che aveva appena detto: «Sventurata la terra che non ha eroi». Con la celebre frase di Galileo, Brecht prefigurava una società futura e migliore. Ma, nello stesso tempo, è incerto se fosse più la celebrazione di un utopistico mondo a venire o la liquidazione di un luogo comune, appunto la virtù eroica. Forse Brecht voleva dire: chi se ne frega de- CANOCCHIALE Virginio Gazzolo-Galileo nel dramma di Brecht diretto da Garella gli eroi, non sono gli eroi che ci stanno a cuore. Questa ambiguità si vede nell’elaborazione del testo. Scritto nell’esilio danese, nel 1938, esaltava l’astuzia di Galileo, che si sottrae al giudizio dell’Inquisizione romana per continuare la propria ricerca della verità. Dieci anni dopo — dopo l’interrogatorio da parte delle attività antiamericane e il ritorno in Europa, ma soprattutto dopo Hiroshima — Brecht riscrisse la scena XIV, penultima del dramma. Galileo rifiuta di ri- conoscere qualunque eccellenza all’idea di avere le mani sporche ma libere. Se la scienza è al servizio dell’umanità, se essa serve la causa della lotta contro la sofferenza degli uomini, non può dagli uomini staccarsi, come Galileo se ne è staccato, privilegiando il proprio bene personale. Del resto, gli opposti giudizi che si danno dell’eroe rivelano, di una società, il suo sviluppo. Alle esaltazioni, nelle società totalitarie, di tutto ciò che appare eroico, fino alla suprema ambiguità eroi- smo/fanatismo, si contrappone la disillusione delle società democratiche. Penso a un libro recente, Il ribelle di Massimo Fini, nel quale, dice l’autore, il maggior eroe dell’Italia repubblicana, Nicola Calipari, era una spia! Qui la disillusione è davvero troppa. Tutto dipende dal linguaggio. L’uso della parola spia, con il suo connotato negativo, il suo alone perfino psicologico, indica più un’inclinazione di Fini che la descrizione obiettiva dei fatti. Per parte sua, Nanni Garella si mantiene su una costante stilistica di sobrietà, che implica una sobrietà di giudizio. Vi è un piccolo spazio circolare, vi sono cambi-luce che di per sé descrivono i diversi ambienti del dramma, vi è il vibrante, nitido suono delle campane. Ciò che più conta, vi è il rapporto che si stabilisce tra Virginio Gazzolo, Galileo, e gli altri che, a parte Umberto Bortolami, il Papa, e Gabriele Tesauri, l’Inquisitore, si manifesta nel rapporto tra il protagonista del dramma didattico, l’eroe che insegna, e gli “ignoranti“, che sono i pazienti psichiatrici, con le loro fragilità, i loro così toccanti dialetti o, semplicemente, accenti di regione, di provincia, di città, di famiglia: educati, tutti, alla civile virtù del teatro, ovvero della convivenza. VITA DI GALILEO di Brecht/Garella Arena del Sole di Bologna Aria di Hollywood anni ’60 con «Sweet Charity» della Rancia Cuccarini vivace, musical datato D opo la nuova Broadway del magistrale The producers, la Compagnia della Rancia torna con Sweet Charity al vecchio musical «made in Hollywood», alla riduzione, allora innovativa e premiata assai, che Bob Fosse fece nel '66 delle Notti di Cabiria, poi divenuto anche un film con Shirley McLaine. Di Fellini non c'è più traccia in questo show variopinto scritto da Neil Simon negli anni della contestazione, mentre c'è molto del geniale Fosse oltre ai costumi e al costume di ieri, non solo la musica ma lo stile optical e psichedelico. I numeri migliori dello spettacolo sono due classici del coreografo-regista di Cabaret: il pezzo alla sbarra con le entreneuses e il delizioso assolo di Charity nascosta con cilindro e bastone nell'alcova del divo. Coreografato da Luca Tommassini, che fa rivivere quei balletti con una vernice di giovanilismo un po' televisivo, e diretto con l'ormai proverbiale perizia da Saverio Marconi, il musical ahimè è, visto oggi, un presepe di allora, con il santone religioso come in Hair e quella sincera voglia di pace oggi riproposta con stile da marketing della nostalgia. Charity, passata da battona a ballerina, è comunque innamo- rata non corrisposta della vita e degli uomini che non fanno che tradirla e sfruttarla. L'ultimo della serie, Oscar, è un nevrotico che non ha il coraggio di sposarla: in questa versione l'happy end però arriva e rischia di trascinare via tutto il senso del personaggio, glorificando il buonismo. Lorella Cuccarini dà impeto ed entusiasmo, grazia e vitalità ginnica (e psicologica) alla Sweet Charity, e vince la partita anche con alcune belle canzoni di Cy Coleman combattendo contro un testo che spesso gira a vuoto o forse deve ancora trovare il suo giusto ritmo. Nel cast sono adorabili le due amiche del IN SCENA Lorella Cuccarini in una scena del nuovo spettacolo musicale firmato da Saverio Marconi cuore del tabarin, Crescenza Guarnieri e Adelaide di Bitonto, mentre Carlo Reali è il divertente direttore cerbero, che canta un affettuoso song. I boys di Charity sono, per 20 minuti Gianni Nazzaro (era Nazzari con Fellini, destino del nome) che fa del divo un cameo vecchio stampo dalla potente voce, mentre la palla passa poi a Cesare Bocci, assistente di Montalbano in tv, che esplora brillantemente le classiche nevrosi del civis nuovayorkese, iniziando il suo flirt nell'ascensore in panne. Maurizio Porro SWEET CHARITY di Marconi/Tommassini Teatro della Luna di Milano «prima maniera» F inalmente Mizoguchi! Il più misterioso, il più raffinato, il più lirico tra i grandi registi giapponesi, che proprio l’Italia aveva contribuito a far conoscere al mondo premiando nel 1952 alla Mostra di Venezia Vita di O-Haru, donna galante, era praticamente invisibile per i cinefili di casa nostra. A rompere questa specie di assurdo «embargo» arriva finalmente la RaroVideo che propone addirittura un film «perduto» del maestro giapponese, quel Cinque donne attorno a Utamaro di cui risulta introvabile il negativo originale (da cui una qualità non proprio perfetta del dvd, generato da una copia magnetica). Eppure la scelta del «primo Mizoguchi» da mostrare in Italia non poteva essere più indovinata perché il film, girato nel 1946, affronta tutti i temi che hanno attraversato la sua opera, dal ruolo centrale della donna alla passione per le arti figurative fino al confronto/scontro tra presente e passato. Che qui, dove il protagonista è il grande pittore Utamaro, sono rappresentati da due diverse concezioni dell’arte, una ferma nel perpetuare le idee della tradiMizoguchi zione e l’altra, quella di Uta5 DONNE ATTORNO A maro, aperta al cambiamenUTAMARO (RaroVideo) to sociale che agita il Giappone del Settecento. E che vede proprio nell’inafferrabile corpo femminile (su cui Utamaro arriva addirittura a dipingere) lo strumento per rivoluzionare le regole estetiche. Sempre alla RaroVideo si devono anche i primi dvd italiani dedicati a un altro grandissimo del cinema Yasujiro Ozu giapponese, Yasujiro Ozu, CREPUSCOLO DI di cui sono usciti fino ad TOKYO (RaroVideo) ora due cofanetti, il primo con Viaggio a Tokyo e Inizio di primavera, il secondo, recentissimo, con Crepuscolo di Tokyo e Buon giorno. Lontanissimo dallo stile di Mizoguchi fatto di grandi carrellate avvolgenti che esplorano lo spazio, i film di Ozu sembrano voler «inchiodare» la realtà con inquadrature vicine all’immobilità, che riprendono l’azione «ad altezza di cane» (come lui stesso diceva per indicare la posizione della macchina da presa poco sollevata da terra). Eppure questa presunta antispettacolarità si rivela strumento perfetto per raccontare i drammi di una cultura che sembra incapace di accettare la modernizzazione novecentesca, ancorata com’è, soprattutto all’interno del nucleo familiare, a valori tradizionali inevitabilmente messi in discussione dal mutamento della società. Tutti i dvd della RaroVideo sono corredati da stimolanti interventi in video (di Ghezzi, Luciano Emmer, Aprà, Hou Hsiao-hsien, tra gli altri) e preziosissimi libretti critico informativi Paolo Mereghetti Dischi ROCK PEARL JAM JAZZ TIME LINES ELETTRONICA GOTAN PROJECT CLASSICA SETTIMA DI MAHLER Vedder e soci con «violenza» L’inafferrabile Andrew Hill La tradizione del tango Barenboim: partitura audace per cantare il sogno Usa fallito ( e ricompare anche Tolliver) all’incrocio tra rap e western con trasparenza geometrica Un ritorno violento quello dei Pearl Jam, rabbioso come gli esordi di Ten. Non a caso il titolo dell’album è il nome della band, come accade per i debutti. Ma anche per riappropriarsi di un carisma riconfermato nel precedente Riot Act. Pearl Jam è rock a tutti gli effetti, a partire da Life Wasted, che apre l’album con inaspettata veemenza. La critica alla società americana prosegue in Worldwide Suicide (suicidio globale), Army Reserve, l’attesa di una donna per il marito al fronte (scritta con Damien Echols, adolescente accusato - secondo alcuni in modo pretestuoso - di satanismo e omicidio), Gone, in cui Vedder canta l’amarezza sul fallimento del sogno americano e Unemployable, sulle vite spezzate dalla perdita del posto di lavoro. Ma ci sono anche momenti delicati, come le ballate Come Back e Inside Job, mentre i riff di Marker In The Sand e Comatose sono già dei classici. Assenti dall’Europa da Pearl Jam quasi sei anni, saranno in tour in Italia a metà settembre per 5 concerti. PEARL JAM Mario Luzzatto Fegiz (Sony/BMG) Personalità inafferrabile fin dagli anni Sessanta (quelli della sua prima gloria), il pianista chicagoano Andrew Hill, classe 1937, è uno dei grandi protagonisti della scena attuale. Il gruppo con cui ha inciso l'estate scorsa Time Lines sarà in Italia nei prossimi giorni (a Vicenza il 15, a Roma il 18, a Milano il 23); sarà interessante ascoltare come verrà riproposta questa musica magmatica e ostinata, inquietante nella sua lugubre fissità eppure profondamente vitale grazie ai vibranti sfasamenti ritmici, allo spontaneo contrappunto collettivo, agli originali impasti sonori. Eccellente la punteggiatura di John Ebert (contrabbasso) ed Eric McPherson (batteria), sorprendente il ritorno del trombettista Charles Tolliver (lontano dal virtuosismo di gioventù), emozionante il triplice ruolo di Greg Tardy a clarinetto, clarinetto basso e Andrew Hill sax tenore; Hill è regista sapiente e minuzioso. TIME LINES Claudio Sessa (Blue Note) Bisogna saper cogliere i segnali. Migliaia di turisti volano a Buenos Aires per vivere solo la notte ballando il tango. Nella tradizione Piazzolla resta inimitabile e, per vendere cd, bisogna andare oltre. I Gotan Project lo hanno capito e, incrociando la tradizione con elettronica e beat, sono diventati un fenomeno. Da tre settimane sono nella top 5 italiana a confermare i buoni risultati (100 mila copie nel 2001) del debutto La revancha del tango. In queste 12 canzoni Philippe Cohen Solal, Eduardo Makaroff, Chrisophe H. Müller hanno fatto un passo in più. Alla contaminazione fra ieri e oggi, hanno aggiunto qua e là quella fra generi. In Amor Porteño si innesta una chitarra western, quella dei Calexico. Un ritmo africano ci guida lungo il testo recitato da Juan Carlos Càceres che ricorda le origini meticce del tango (Notas). Con Mi Confesión arriva addirittura il rap dei Kozmoz. Non a caGotan Project so l’unica cover è Paris-Texas di Ry Cooder, camaleonte del rock. LUNÁTICO Andrea Laffranchi (¡Ya Basta!/Discograph/Self) Alle spalle le integrali di Mozart, Beethoven, Schumann, Wagner, Brahms e Bruckner, Daniel Barenboim non poteva astenersi dall’intraprendere la scalata alla montagna del sinfonismo di Mahler, autore tra i meno frequentati nella sua sostenuta attività concertistica e discografica. E se il buongiorno si vede dal mattino, la nuova avventura nasce sotto i migliori auspici con questa Settima radiosa e piena di musicalità. L’orchestra è la Staatskapelle Berlin, ormai strumento duttilissimo nelle mani del direttore argentino pur conservando quello statuto di «grosso violoncello» da antica compagine del nord, che certi vicini di casa non hanno più. E il suono è formidabile perché potente e tellurico per un verso, agile e reattivo per l’altro. Cosicché l’energia, la tensione, la forza dirompente di questa partitura — la più audace di Mahler — si sposa a una trasparenza che non è iperbole diGustav Mahler re geometrica: il peso dei volumi di Bruckner con la clarté di Mozart. SINFONIA N.7, dir. Daniel E. Gir. Barenboim (Warner)