Tutta la vita davanti di Paolo Virzì. 2008
Fino a qualche tempo fa avrebbe potuto essere una battuta da cabaret o una citazione degna di Woody
Allen: usare Heidegger per spiegare le dinamiche dei call center e i meccanismi dei reality televisivi, e
viceversa. E finire anche pubblicati su un fantomatico Oxford Journal of Philosophy. E invece la trovata
forse più irreale del film di Paolo Virzì scivola via come la più plausibile perché è talmente «folle» e
«surreale » la vita quotidiana raccontata dal film che anche le trovate più strane non fanno più colpo. Altro
che la realtà più forte dell'immaginazione...
Tutta la vita davanti guarda all'Italia di oggi, quella del lavoro precario e delle lauree che servono a poco o niente, quella
del mito del successo e della televisione, della vita reale e di quella immaginata. In
una «confusione» di livelli di realtà che diventa anche un incrocio di generi e stili
cinematografici, così che la lettura acre della commedia all'italiana si intrecci con la
levità poetizzante del sogno.
Questa ricchezza e complessità stilistica finisce poi per riverberare su tutta la storia
del film, che non è solo l'avventura della palermitana Marta, brillante laureata in
filosofia teoretica, che trova lavoro in un call center dove si usano le tecniche più
invasive per motivare il personale. C'è Lucio 2, che regge tutto il suo fragile
equilibrio emotivo sulla capacità di essere il numero uno; c'è Claudio, il boss che nasconde i fallimenti della sua vita
privata; c'è la direttrice Daniela la cui filosofia di vita non può cancellare solitudine e infelicità; c'è Giorgio, il sindacalista
sempre pateticamente in ritardo sulla realtà; c'è la collega Sonia, svampita e indifesa e per questo destinata alle sconfitte
più dolorose..
Utilizzando la voce narrante per imprimere al film un andamento quasi da romanzo e poi invece «arrestando » la
narrazione con squarci fantastici e irreali o con bruschi richiami alla realtà, Virzì cerca di aggiornare la struttura della
commedia all'italiana, la cui capacità narrativa non può da sola aspirare a raccontare la complessità dell'Italia ma ha
bisogno di essere «adattata» all'evoluzione troppo veloce della nostra realtà.
E non può essere un caso se uno dei luoghi comuni della narrazione al cinema — la pioggia che batte fuori dalle finestre
— accompagni i ricordi di Marta e di Giorgio sulla vita in famiglia, da adolescenti, quando le cose sembravano ancora
avere un senso. Retorico forse (come puntualizza Marta), ma certamente sincero. E significativo di una mutazione che ha
trasformato un passato appena un po' remoto in qualche cosa di antiquato e fin troppo romantico.
Virzì quella sincerità sa trovarla invece lontano da ogni retorica, con la capacità dell'osservatore partecipe ma non
partigiano, interessato più a cercare il senso sfuggente della realtà che non a farcene sapere la sua spiegazione.
Il corriere della sera, Paolo Mereghetti
Marta ha tutta la vita davanti: è una brillante neolaureata in filosofia, in cerca di prima occupazione. La
ricerca si dimostra ben presto più difficile del previsto: le porte del ‘mondo del lavoro’, nell’Italia di oggi,
non si aprono per lei come non si aprono per nessuno se non dietro una robusta ‘spintarella’. Marta finisce
così per ritagliarsi il suo primo ruolo in un microcosmo che lei stessa paragona ad un reality, in mezzo a
persone senza le sue capacità o senza la sua onestà. Attorno a lei nessuno sembra avere tutta la vita davanti:
non l’ha Claudio, il capo dell’azienda, né Daniela, la direttrice delle telefoniste, né le sue colleghe del call center, che al di
fuori di quel mondo si sentono perdute. L’unica speranza ha il nome di Lara, la
figlia di Sonia, collega e coinquilina di Marta. Ma il mondo degli altri è privo di
prospettive e di speranza. In questo modo non si può parlare di Marta come di una
persona normale circondata da alieni, ma si deve oltrepassare la barricata e
considerarla un alieno in un mondo che senza di lei sembra muoversi per inerzia
ma con coesione interna.
Virzì sceglie una protagonista apparentemente perfetta, ma non riesce a renderla
migliore degli altri personaggi: ha indubbiamente capacità, ma sceglie di
compatire gli altri invece di relazionarsi, di comunicare con loro; la sua partecipazione emotiva non è che un punto di
vista su chi vive la sua stessa realtà senza avere gli strumenti per cambiarla.
Le capacità di Marta si rivelano utili anche in un lavoro come quello al call center; se la sua coinquilina vende il suo corpo
nel momento in cui perde l’unico scoglio al quale era riuscita ad aggrapparsi, Marta si palleggia quel poco che ha: vende
la filosofia al call center, diventando velocemente la miglior piazzista del gruppo, per poi invertire rotta e vendere il call
center alla filosofia, trovando finalmente uno spunto degno di una pubblicazione.
E’ uno sguardo nero, nerissimo, quello sulla situazione attuale; tuttavia, i toni da commedia e certe situazioni lasciano
pensare che l’analisi della realtà del precariato sia un po’ troppo superficiale, e la conclusione maschera appena il
messaggio che, involontariamente, dà il film: lo sfruttamento va bene per chi non ha le capacità di ambire a qualcosa di
meglio. Sono in cento attorno a Marta: per novantanove di loro sembra che la situazione che vivono sia il massimo
traguardo raggiungibile, quindi il bene supremo. Solo Marta ha ancora tutta la vita davanti.
www.cinemadelsilenzio.it, Glauco Almonte