David Benassi e Enzo Mingione LA SPERIMENTAZIONE DEL REDDITO MINIMO ALL’INTERNO DEL WELFARE STATE ITALIANO DI INSERIMENTO - Bozza – Non citare - Indice 1. Il sistema di welfare italiano e l’attuale processo di cambiamento 1.1. Le principali caratteristiche del sistema di welfare italiano 1.2. Le innovazioni nell’assistenza: localismo, professionalizzazione e terzo settore Appendice: Le principali caratteristiche della povertà in Italia 2. Un quadro generale delle politiche contro la povertà in Italia 2.1. Le prestazioni a favore dei soggetti a rischio di impoverimento 2.2. Le principali caratteristiche delle prestazioni 2.3. Beneficiari e spesa 3. Le sfide del RMI in Italia 3.1. L’architettura del RMI 3.2. I beneficiari del RMI 3.3. I programmi di inserimento e gli esiti 4. Note conclusive: valutazioni e prospettive 4.1. Valutazioni sulla sperimentazione del RMI 4.2. Le prospettive del RMI all’interno del sistema di welfare italiano Dr. David Benassi Dept. of Sociology and social research University of Milano-Bicocca Tel. ++39 02 6448 7579 [email protected] Prof. Enzo Mingione Dept. of Sociology and social research University of Milano-Bicocca Tel. ++39 02 6448 7512 [email protected] 1 1. Il sistema di welfare italiano e l’attuale processo di cambiamento Il sistema assistenziale italiano, dopo un lungo periodo di immobilismo, sta finalmente attraversando una stagione di cambiamenti, segnata da due eventi principali: l’introduzione in via sperimentale del Reddito minimo di inserimento (RMI) nel 1998 e l’approvazione della legge quadro di riforma dell’assistenza alla fine del 2000. L’impatto di queste innovazioni legislative non è ancora pienamente valutabile, ma tale comunque da permetterci di discutere l’impatto dei cambiamenti del sistema di welfare italiano. Nella prima parte cercheremo di mettere a fuoco il significato delle trasformazioni in atto rispetto alle modalità specifiche del welfare italiano, poi ricostruiremo il quadro frammentato del sistema di lotta alla povertà in Italia all’interno del quale si vanno a collocare le innovazioni e infine il RMI in base alle indicazioni che emergono dalla valutazione del biennio di sperimentazione. Le attuali innovazioni nelle politiche assistenziali sono momenti di una trasformazione più generale dei sistemi di welfare, motivata dalla necessità di rispondere ai cambiamenti nella struttura dei deficit di protezione sociale (Esping-Andersen, 2000; Ferrera, 1998). Nei paesi dell’Unione Europea il processo di adattamento del welfare si è intrecciato sia con la questione dei vincoli nella gestione delle finanze pubbliche decisi con il trattato di Maastricht in vista dell’introduzione della moneta unica, sia con le sempre più pressanti raccomandazioni di omogeneizzazione e coordinamento delle politiche sociali. Per l’Italia questo processo ha favorito una strategia di risanamento finanziario con significative conseguenze sull’organizzazione e il finanziamento del welfare, in un momento reso particolarmente delicato sia da profondi cambiamenti sociali, demografici ed occupazionali sia dalla cronica crisi del Mezzogiorno. L’intreccio tra risanamento dei conti pubblici e necessità di mettere mano all’organizzazione del welfare, in Italia, è stato sollevato esplicitamente dai lavori della Commissione Onofri, un gruppo di esperti nominato dal Governo Prodi nel 1997 per suggerire tagli alla spesa sociale che avrebbero consentito il risanamento dei conti pubblici necessario per rispettare i parametri di Maastricht1. La Commissione non si è limitata a suggerire tagli alla spesa previdenziale (l’unico capitolo in cui si potevano realisticamente realizzare risparmi consistenti, messi in atto dalla Riforma Dini delle pensioni) ma ha segnalato anche la debolezza dell’intervento assistenziale raccomandando esplicitamente la necessità di introdurre un programma nazionale di Minimo Vitale2. Questa raccomandazione è stato seguita dal Governo, che nel biennio 1998-99 ha realizzato una sperimentazione, successivamente prorogata ed allargata ad altri comuni, nei quali sta oggi proseguendo la sperimentazione. 1.1. Le principali caratteristiche del sistema di welfare italiano A tutt’oggi l’Italia è oggi uno dei pochi paesi europei a non avere un programma universalistico di lotta all’esclusione sociale e la trasformazione del suo sistema assistenziale muove, come vedremo, da un quadro storicamente molto frammentato e diviso (Kazepov, 1996; Negri e Saraceno, 1996). La protezione contro i rischi di povertà è caratterizzata dalla sussidiarietà dell’assistenza pubblica rispetto alla protezione garantita dalla famiglia e dalla parentela, da un deficit strutturale di capacità professionali e di coordinamento dell’attore pubblico e da una disordinata e diseguale partecipazione di vecchi e nuovi soggetti del privato sociale nei diversi contesti locali. La costruzione del regime di welfare capitalism in Italia, come negli altri paesi europei, si è appoggiata decisamente sulla componente familiare, che ha dovuto adattare la qualità dei propri circuiti solidaristici alle necessità legate alla divisione del lavoro con Stato e mercato. In Italia, poi, questo è avvenuto in un quadro di forte persistenza del lavoro autonomo e delle piccole imprese a conduzione familiare, di un accentuato dualismo economico Nord/Sud, e di una storica difficoltà da 1 Questo è evidente nella denominazione stessa della Commissione: Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale. 2 Per ulteriori dettagli sul dibattito a proposito dei lavori della Commissione Onofri si veda, tra gli altri, Mingione, 1998. 2 parte dello Stato nel governare le dinamiche sociali3. Diversamente che in altri paesi europei, la “defamiliarizzazione” dei sistemi di protezione e di cura è avvenuta solo in parte. Piuttosto, la modernizzazione degli stili di vita e dei modelli di organizzazione familiare ha fatto leva sulla trasformazione del ruolo di cura svolto dalle donne all’interno delle famiglie (professionalizzazione della maternità, innovazioni negli stili di vita quotidiana, e così via), delle reti parentali e delle istituzioni formali e informali di supporto (dalle reti comunitarie e di vicinato alle organizzazioni caritative) (Mingione, 2002). Il welfare italiano, sia nella componente pubblica che in quella privata, si è sviluppato in modo complementare rispetto a questo assetto. Il welfare pubblico ha quindi maturato caratteristiche sussidiarie rispetto alla centralità delle relazioni solidaristiche su base familiare: creazione di un sistema sanitario universalistico e di una scuola a tempo parziale, debolezza delle politiche che interferiscono con le responsabilità familiari4, preponderanza dei programmi di integrazione del reddito, atrofia del sistema di servizi alle persone e alle famiglie, frammentazione locale e categoriale dei programmi, tolleranza per le relazioni informali, e così via (Negri e Saraceno, 1996; Ferrera, 1998; Benassi, 2000). Non è un caso, dato il quadro di riferimento, che nel 1998 il 64% della spesa per protezione sociale italiana era destinato alla protezione della vecchiaia (vecchiaia + reversibilità), di matrice largamente previdenziale o assicurativa, contro una media europea del 45,7% (Tab. 1.1.). Tab. 1.1. Prestazioni sociali per tipo nella UE, paesi selezionati (1998) EU 15 D E F I NL Sanità/malattia 26,8 28,1 29,2 29,2 23,4 28,5 Disabilità 8,3 7,9 8,1 4,9 6,2 11,8 Vecchiaia 40,6 40,4 41,9 37,9 53,3 35,8 Reversibilità 5,1 1,9 4,3 6,1 10,7 5,3 Famiglia/minori 8,3 10,1 2,1 9,8 3,6 4,5 Disoccupazione 7,2 8,7 13,5 7,6 2,7 7,3 Housing 2,1 0,7 0,3 3,2 0,0 1,6 Altro 1,6 2,2 0,7 1,4 0,1 5,2 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 S 23,4 11,6 37,2 2,3 10,8 9,3 2,5 3,0 100,0 UK 25,2 11,6 39,9 3,9 8,6 3,6 6,2 0,8 100,0 Fonte: Eurostat (2000). Il principio di fondo del welfare state italiano, in sintesi, è che il nucleo familiare e, in subordine, la rete parentale hanno una responsabilità prioritaria di tutela dell’individuo dai rischi socioeconomici, attribuendo allo Stato compiti residuali realizzati soprattutto tramite trasferimenti monetari ai capifamiglia. La combinazione tra diritti sociali e responsabilità familiari si declina considerando come “scelta razionale” il ricorso alla famiglia estesa, prima che all’assistenza pubblica. Ne è conseguito che quest’ultima è rimasta particolarmente fragile e frammentata e non ha realizzato compiutamente la manovra di “laicizzazione” dell’apparato caritativo privato, un processo che in altri contesti ha largamente riorganizzato l’intervento assistenziale5. A fronte delle trasformazioni socio-economiche degli ultimi decenni (Benassi e Mingione, 2001), il sistema di welfare italiano ha registrato tensioni crescenti, in parte diverse rispetto a quelle tipiche di altri contesti. In particolare vanno sottolineate le seguenti dinamiche: 3 Si tratta di aspetti strutturali della società italiana troppo ampi e complessi per essere affrontati in questa sede. Per quanto riguarda le storture amministrative basti segnalare l’uso politico/clientelare che è stato fatto di alcuni istituti di sostegno del reddito - come è avvenuto nel caso di un tipo di pensioni di invalidità concesse a non invalidi residenti in aree meno sviluppate - ad indicare come gli strumenti del welfare possano essere utilizzati a fini di consenso politico (Ascoli, 1984). 4 Scarsa diffusione degli asili nido e delle scuole materne, sostanziale assenza di politiche nazionali per i giovani, assenza di sostegno a favore dei disoccupati non breadwinner, assenza di quadri regolativi nazionali per i servizi di cura a favore degli anziani e di altri soggetti deboli. 5 Vedi i contributi classici in Flora (1986-7), ma anche Alber (1986) e Ritter (1996). 3 • una tendenza al sovraccarico delle responsabilità familiari a fronte dell’invecchiamento della popolazione e del consolidamento della coabitazione prolungata tra genitori e figli adulti, una delle ragioni della elevata denatalità italiana (Barbagli e Saraceno, 2000); • un indebolimento della capacità di sostegno da parte di reti parentali e comunitarie rese più rarefatte dalla caduta della natalità e meno solidali dai più accentuati livelli di individualismo (Micheli, 1997, 2001; Andreotti, 2002); • una tendenza a sovradimensionare la protezione economica degli anziani (Benassi, 2000) che sono gli unici soggetti per i quali non viene dato per scontato il supporto finanziario della famiglia - alla quale però corrisponde una debole offerta di servizi a loro favore, soprattutto in alcune regioni del paese, a fronte dell’accentuato invecchiamento della popolazione; • una resistenza culturale da parte delle famiglie - che si trasmette alla classe politica e ai sistemi politici-amministrativi a tutti i livelli - alla esternalizzazione delle funzioni di cura, che a sua volta si traduce in minori opportunità occupazionali per donne e giovani e che si combina con lo sviluppo di servizi domestici forniti da immigrate all’interno dell’ambito domestico; • e, soprattutto, un accentuato aggravamento della differenziazione tra i contesti sociali al Nord e al, Sud che costituisce una caratteristica dominante del caso italiano e sulla quale dovremo soffermarci per metterne a fuoco l’impatto sulle caratteristiche dell’esclusione sociale e sul funzionamento delle politiche sociali e, in particolare, del RMI. A valle di questi mutamenti, la protezione assistenziale è rimasta rachitica, sostanzialmente incapace di provvedere al deficit di protezione determinato dall’indebolimento della combinazione tra mercato e famiglie tipica del welfare sud-europeo, e molto diversificata su scala locale (Fargion, 1997). Il processo di laicizzazione e professionalizzazione è stato debole e diseguale sul territorio. Ciò si traduce oggi nel fatto che la maggior parte degli enti locali non riesce ad esprimere pienamente quelle capacità strategiche di coordinamento organizzativo indispensabili per elaborare interventi articolati - si pensi, ad esempio, alla rete di assistenza domiciliare agli anziani o alla efficace attivazione delle procedure di inserimento previste dal programma di reddito minimo fondati sulla mobilitazione di attori istituzionali diversi, pubblici e privati, e sulla partecipazione dei cittadini-utenti. La divergenza tra le condizioni sociali del Nord e del Sud costituisce la complicazione più importante per le riforme di politica sociale in Italia, compresa ovviamente la generalizzazione del RMI. Dobbiamo quindi fare un excursus su questa questione che assume oggi vari aspetti: dalla concentrazione al Sud della popolazione in difficoltà alla persistente differenza delle tipologie di vulnerabilità sociale nelle due parti del paese fino alla crescente impopolarità di politiche sociali esplicitamente a favore del Mezzogiorno. La frattura tra Nord e Sud è una caratteristica storica di lungo periodo che si è amplificata nel corso della prima fase di sviluppo industriale all’inizio del XX secolo6. In questa sede ci limitiamo a menzionare i processi di divaricazione intervenuti alla fine del miracolo economico, dell’ondata di emigrazione dal Sud e di una stagione di investimenti che avevano messo in moto una tendenza a colmare il divario prodotto dalla prima fase di industrializzazione. Il miracolo economico italiano del dopoguerra è stato anche il frutto di un rapporto di complementarità tra Nord e Sud, del quale entrambe le regioni hanno beneficiato. Questo periodo è coinciso con la maturazione delle istituzioni di welfare e quindi ne ha condizionato la costruzione. Il Mezzogiorno ha fornito al Nord 6 E’ possibile dividere la storia della questione meridionale in due periodi. Nel primo, che va dalla formazione dello Stato italiano (1860) alla Seconda Guerra Mondiale, il Mezzogiorno rimane una società agricola basata sul latifondo, con un ampio strato di contadini senza terra e una limitata esposizione alla produzione e al consumo di mercato. Nel secondo periodo, malgrado il dissolvimento del regime agrario e l’integrazione della regione in un’area economica esposta alle pressioni del mercato, il Mezzogiorno non sviluppa un modello di strutturazione sociale basato sulla prevalenza della competizione di mercato. Per le questioni poste dalla prima fase vedi l’autorevole interpretazione di Gramsci (1966) ed i contributi raccolti in Villari (1966) e Caizzi (1970); per la seconda fase vedi Castronovo (1975) e Rossi Doria (1956). 4 una riserva di lavoratori, di nuovi consumatori, emancipati dalla povertà rurale ma non in grado di competere localmente nella produzione industriale, di elettori moderati che hanno garantito la stabilità politica. In cambio il Sud ha beneficiato di investimenti per consolidare il mercato interno, dalla riforma agraria all’ammodernamento delle infrastrutture, del coinvolgimento, anche se discriminato, nella modernizzazione del welfare nonché di una dose notevole di investimenti industriali pubblici7, e in misura minore privati. L’impatto della transizione post-fordista negli anni ’80-’90 sulle regioni meridionali è stato nettamente negativo: una crisi occupazionale che coinvolge la maggioranza dei giovani che entrano in età lavorativa; strutturali difficoltà di innovazione delle piccole imprese, rimaste tradizionali e poco produttive mentre nel resto del paese sono il motore del second industrial divide (Piore e Sabel, 1984); un progressivo deterioramento, in assenza di investimenti, delle infrastrutture economiche e dei servizi di welfare proprio in una fase in cui questi hanno costituito un volano per la creazione di nuove opportunità in termini di capitale umano e sociale8. A valle di questo impatto negativo troviamo la concentrazione, stimata per tutti i fenomeni a più del 65%, nelle regioni meridionali (dove risiede il 36% della popolazione) di disoccupazione, popolazione al di sotto della linea della povertà, lavoro informale e precario, drop-out dalla scuola dell’obbligo. Nel periodo precedente al risanamento dei conti pubblici indispensabile per rispettare i parametri di Maastricht, la crescita della spesa pubblica e del deficit dello Stato è stata utilizzata per finanziare il consenso politico (non solo a favore del Mezzogiorno) più che per favorire un adattamento alle trasformazioni sociali in atto. La gestione del mercato del lavoro, della formazione, educazione e inserimento dei giovani, della assistenza di base ai poveri, la modernizzazione dei trasporti e delle infrastrutture, le politiche familiari e abitative sono rimaste deficitarie. Nell’ambito del circuito vizioso che concentra tutti i problemi critici nel Mezzogiorno questo ha contribuito a rendere la situazione ancora più grave. In altre parole la crisi del welfare italiano si è condensata nel Sud, dove è più difficile dare una risposta alla crisi occupazionale, alla povertà cronica nelle grandi città, al deficit dei servizi pubblici e così via. Oggi riforma del welfare in Italia significa una nuova attenzione ai problemi sociali delle regioni meridionali ma questa attenzione è in conflitto con la netta dominanza politica delle regioni settentrionali. Sul fronte delle politiche di contrasto all’esclusione sociale si aggiunge un’ulteriore difficoltà dato che è proprio la caratterizzazione localistica della tradizione assistenziale italiana che costituisce oggi una risorsa di innovazione e questa risorsa è molto più presente ed utile in alcuni contesti del centro-nord. 1.2. Le innovazioni nell’assistenza: localismo, professionalizzazione e terzo settore La nostra lettura del welfare italiano poggia su due presupposti. Il primo è che oggi, accanto alle due grandi componenti nazionali - previdenza e sanità - che storicamente hanno assorbito in larga misura la spesa per la protezione sociale del welfare state, sta riemergendo l’importanza della componente assistenziale. L’aspetto interessante del sistema assistenziale è che, a differenza di sanità e previdenza, l’accesso alle prestazioni non si può fondare su una logica contrattuale in senso stretto. È in questo ambito che la nozione di cittadinanza, sulla quale si è costruito il moderno rapporto tra individuo e Stato, trova la sua più ampia applicazione, in quanto il diritto ad ottenere le prestazioni di difesa di uno standard minimo di vita è giustificata dalla sola appartenenza alla comunità nazionale9. Per inciso questo stretto rapporto tra assistenza e cittadinanza, in una fase storica nella quale la lotta alle forme di esclusione sociale è sempre più importante, è in controtendenza rispetto alle logiche di privatizzazione dei servizi pubblici. La responsabilità 7 Gli investimenti particolarmente concentrati nell’industria chimica e siderurgica non hanno promosso una sufficiente crescita occupazionale, ma hanno senz’altro contribuito alla crescita dei consumi (Graziani e Pugliese, 1979; Del Monte, Giannola, 1978; Trigilia, 1992 e 1996). 8 Come nota Trigilia “…si hanno seri indizi che la dotazione infrastrutturale in campo economico e in campo sociale sia cresciuta meno dell’incremento del reddito e che quindi oggi il Mezzogiorno abbia una qualità ambientale peggiore di quella di altri contesti a minor reddito pro capite e minori consumi privati …” (1996: 167). 9 Questo punto è stato ampiamente discusso in Benassi (2002). 5 pubblica nel garantire un eguale diritto a uno standard minimo di vita imporrebbe infatti di mantenere sotto controllo l’implementazione di questo tipo di programmi10. Una delle conseguenze dell’importanza del settore assistenziale nel quadro di welfare è che impone di cogliere il rapporto tra produzione delle condizioni di bisogno e modalità di soddisfacimento delle esigenze di protezione sociale. In breve, riconoscere una maggiore centralità alla componente assistenziale dell’intervento pubblico, significa aprire una finestra interpretativa sulla variabilità dei meccanismi di strutturazione sociale del bisogno e delle modalità di soddisfacimento dello stesso. Quest’ultimo aspetto si collega alla secondo presupposto del nostro approccio all’analisi del welfare: i fenomeni di marginalità acquistano connotati e significati solamente a livello locale11, dove le politiche sociali vengono implementate con modalità peculiari in funzione delle diverse risorse professionali disponibili, dei variabili stili di adattamento e di innovazione istituzionale e della mobilitazione e coinvolgimento di attori locali differenti. La variabilità delle formazioni sociali locali, soprattutto per quanto riguarda le espressioni della marginalità, non si esaurisce in un maggiore o minore scarto da un modello generale – normalmente nazionale. Si tratta in realtà di processi storici complessi e differenziati di strutturazione economica, politica e sociale tramite i quali acquistano una connotazione specifica tanto le modalità locali di intervento assistenziale (per esempio nella selezione dei più “meritevoli” o nella articolazione tra pubblico e terzo settore), quanto le tipologie di soggetti che soffrono di un deficit di protezione sociale. Nella strutturazione e implementazione dell’assistenza il livello locale è decisivo, indipendentemente dalle caratteristiche del regime nazionale di welfare e dalle articolazioni del sistema delle competenze politiche, sia che si tratti di politiche universalistiche o di libero mercato e sia che vi sia un’ampia e completa autonomia locale o un sistema nazionale fortemente centralizzato12. La combinazione tra centralità dell’assistenza e livello locale di manifestazione delle domande di intervento e di implementazione delle politiche assistenziali pone un problema controverso ma centrale nell’attuale riforma del welfare in Italia. La centralità della garanzia pubblica di un tenore di vita minimo come diritto di cittadinanza impone di elaborare un forte sistema di controllo a livello nazionale, che infatti si trova alla base della filosofia della legge quadro sull’assistenza. Allo stesso tempo, però, l’impronta locale dei meccanismi di produzione del bisogno e dei modelli di implementazione delle politiche assistenziali13, impone di attribuire ampi margini di autonomia al livello di intervento operativo, vale a dire ai comuni. Qui sorgono difficoltà che non si risolvono invocando la “sussidiarietà” nelle sue varie accezioni. In questa sede non possiamo entrare nel merito specifico della questione delle varie espressioni con le quali è possibile realizzare il principio di sussidiarietà, ma è utile citare la questione delle competenze delle Regioni, una questione cruciale all’interno del sistema istituzionale italiano. La riforma costituzionale, che ha assegnato alle Regioni la competenza esclusiva per le politiche assistenziali e che, è importante sottolinearlo, è intervenuta successivamente alla sperimentazione del RMI e alla riforma dell’assistenza, complica il meccanismo istituzionale nazionale previsto per assicurare la determinazione degli standard minimi delle prestazioni e il controllo sull’operato degli enti locali. Inoltre, la devolution costituzionale, valorizzando il ruolo delle Regioni nel disegno del 10 Il ragionamento riguarda soprattutto l’area dell’assistenza che ci interessa qui, cioè quella delle politiche di lotta all’esclusione sociale, e, in misura minore gli altri due settori cruciali dei servizi di cura dei bambini in età prescolare e degli anziani non autosufficienti. Anche in questi due ultimi casi, comunque, la garanzia data dal controllo pubblico di qualità e di equità del servizio assume un valore rilevante rispetto allo sviluppo dell’intervento del privato sociale o del mercato (vedi per esempio Gori, 2001). 11 Abbiamo sviluppato questo aspetto in Mingione e Oberti (in corso di stampa), Benassi (2002), Benassi e Mingione (2002); vedi anche gli interessanti spunti in Bagnasco e Negri (1994) e, per alcuni risultati di ricerca, Saraceno (2002). 12 Il riconoscimento dell’importanza della dimensione locale nello studio dei sistemi di welfare e nella ricerca sulla povertà, ed evidentemente anche nello studio dell’intreccio tra meccanismi di impoverimento e strumenti di protezione sociale, produce conseguenze teoriche di ampia portata. Ci preme sottolineare in particolare l’importanza dell’attenzione per il livello micro di strutturazione di tali fenomeni, soprattutto in questa fase di riforma del sistema assistenziale e di sperimentazione del RMI. 13 Per le quali è impossibile prevedere forme di regolamentazione ad elevata standardizzazione, come invece accade negli ambiti previdenziale e sanitario. 6 quadro operativo e finanziario delle politiche assistenziali, può innescare tensioni istituzionali considerevoli tra Regioni e Comuni. Si pensi, ad esempio, al contenzioso che potrebbe aprirsi tra Regioni che decidono di privilegiare politiche sociali fondate su assegni di cura (voucher) e Comuni che invece preferiscono potenziare i servizi diretti alle persone (assistenza domiciliare). All’interno di questo quadro controverso la sperimentazione del RMI è importante per cogliere la variabilità locale di un programma assistenziale il cui scopo è garantire un intervento universalistico di ultima istanza per individui e famiglie esclusi da altre forme di protezione sociale14. Sul fronte dell’implementazione, il RMI è una misura realizzata a livello locale a favore di categorie di soggetti poveri con caratteristiche diverse e, almeno per quanto riguarda i contratti di inserimento, mette in gioco professionalità, competenze, reti di attori che sono localmente molto variabili15. Ma proprio sulla questione della diversità locale dei soggetti a rischio e delle modalità locali di costruire l’implementazione delle politiche di lotta all’esclusione sociale è importante accennare a parametri più generali, ispirati sia dalle valutazioni della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, sia dai risultati di ricerche nazionali e comparate sui temi del disagio sociale e degli interventi di contrasto della povertà. Quando oggi si parla di esclusione sociale - o di nuove povertà - ci si riferisce ad aggregati diversi di popolazione che si distribuiscono in maniera variata nei contesti locali, sia per incidenza che per intensità del fenomeno. In linea di massima, la varietà tipologica si può ridurre a quattro gruppi di popolazione diversamente esposti ai fattori di vulnerabilità e, quindi, ai possibili percorsi di reinserimento: 1) individui socialmente isolati con basse qualifiche professionali, che non riescono (o non possono, come nel caso degli anziani) a reinserirsi stabilmente nel lavoro e/o a ricostruire reti di socialità (con i casi estremi dei senza dimora); 2) immigrati e minoranze, che sommano un accesso problematico ad occupazioni stabili (e salario adeguato) con forme di discriminazione sociale; 3) famiglie monogenitoriali, che non riescono a combinare un sufficiente accesso al lavoro (e al reddito) con la cura dei figli; 4) famiglie (relativamente) numerose, per le quali il reddito, quando unico e precario, non è sufficiente per mantenere un tenore di vita adeguato. Nel caso italiano il secondo e terzo gruppo sono meno presenti che non in altre regioni d’Europa, dove la quota di immigrati e minoranze è tradizionalmente più elevata e il divorzio e le nascite al di fuori del matrimonio sono più frequenti. Questi due gruppi sono però in crescita, soprattutto nelle grandi città del centro-nord. Il gruppo degli individui che soffrono di isolamento sociale è più diffuso nel centro-nord. Qui sono numerosi gli anziani soli (soprattutto donne) o le coppie anziane con redditi da pensioni troppo bassi per sostenere un tenore di vita sufficiente, ma questa popolazione tende a decrescere per effetto delle pensioni sociali e degli aumenti delle pensioni minime e della diffusione dei servizi di assistenza domiciliare. Cresce invece la quota degli individui isolati, in misura crescente giovani, che non riescono ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro e questa componente ha caratteristiche differenti in funzione delle specificità dei mercati del lavoro locali. La differenza tra Milano e Torino, oggetto di studio da alcuni anni (Saraceno, 2002; Andreotti e Mingione, 2001), è, ad esempio, molto significativa. A Milano la disoccupazione è bassa e i soggetti a rischio di esclusione sociale soffrono di un cumulo di problemi che disegna sindromi di “inoccupabilità”. A Torino, invece, la disoccupazione si è mantenuta a livelli un po’ più elevati e con una composizione più complessa, favorendo così processi cumulativi di formazione del bisogno segnati prioritariamente dalle difficoltà di accesso all’occupazione. 14 Le interpretazioni più attente del welfare italiano, infatti, hanno ormai da tempo sottolineato l’iniquità intrinseca del sistema di protezione sociale nazionale, derivante proprio dal fatto che la delega delle responsabilità operative agli enti locali era avvenuta in assenza di un quadro nazionale di diritti assistenziali minimi. Nelle intenzioni, il RMI dovrebbe essere un primo tassello verso uno standard nazionale, con tutte le difficoltà e i dubbi di cui si dirà. 15 Forse non è un caso che nell’impianto della sperimentazione del RMI non venga dato molto spazio alle Regioni per competenze intermedie tra Stato e comuni. Il programma italiano, infatti, è direttamente ispirato all’impianto originario francese, notoriamente a forte centralizzazione. In realtà, si potrebbe immaginare un aggiustamento dell’impianto istituzionale che, tenendo conto della riforma costituzionale, valorizzi il ruolo delle regioni, sulla falsariga del modello spagnolo. 7 Il quarto gruppo – le famiglie numerose o comunque sostenute da un reddito troppo basso e intermittente per garantire un tenore di vita accettabile – assorbe la maggioranza della popolazione al di sotto della linea della povertà in Italia, pur non trattandosi ovviamente sempre di soggetti in condizioni di esclusione sociale. Si tratta di una tipologia particolarmente concentrata nelle regioni meridionali, dove il fenomeno raggiunge punte di elevata intensità e diffusione, alimentata dalla cronica crisi del sistema occupazionale, dove si sommano gli effetti dei livelli elevati di disoccupazione e occupazione precaria e informale e un basso tasso di occupazione. Anche in questo caso si tratta di una popolazione con configurazioni e bisogni molto variati, accomunata però dal fatto di vivere nei quartieri disastrati delle grandi città dove i fattori ambientali tendono ad aggravare le condizioni di deprivazione. La diffusione delle nuove forme di espressione della marginalità sociale rende sempre più evidente l’inadeguatezza dei tradizionali strumenti di intervento, che non sembrano in grado di risolvere le situazioni di esclusione sociale. Nel caso italiano risultano sempre meno accettabili – e politicamente difendibili - gli squilibri tra categorie di cittadini ad elevata protezione, che difficilmente scivolano in una condizione di precarietà, e categorie con deboli diritti sociali, che invece più facilmente corrono rischi di esclusione sociale. Ciò facilita un atteggiamento innovativo nell’ambito delle politiche di sostegno dei rediti deboli e delle politiche di lotta all’esclusione e di reinserimento sociale, nelle quali appare sempre più chiaro che è necessario guardare al destinatario degli interventi come ad un soggetto attivo e protagonista del proprio percorso di reinserimento. All’interno di questo clima generale orientato all’innovazione istituzionale, si pongono tre questioni chiave: la professionalizzazione di un intervento che, valorizzando la responsabilizzazione degli utenti e le pratiche di reinserimento sociale, non può più limitarsi alla semplice valutazione burocratica dei mezzi e all’erogazione di un sostegno monetario; la mobilitazione di un mix articolato di vecchie e nuove istituzioni del terzo settore; l’organizzazione, il controllo e il coordinamento dell’intervento da parte dell’ente pubblico16. I modelli locali, in Italia, hanno affrontato con modalità e capacità estremamente diseguali queste questioni, laddove in alcuni casi le amministrazioni locali, forti di una lunga tradizione di intervento, stanno guidando il processo di adattamento del settore assistenziale alle nuove esigenze, mentre in altri casi non sembrano in grado di superare una altrettanto tradizionale incapacità di affrontare la richiesta di protezione sociale, tanto meno quella più moderna. Al di là di questo aspetto, rimane centrale la prospettiva analitica tesa a superare le somiglianze superficiali nei modelli di protezione sociale al fine di ricostruire i meccanismi di strutturazione dei sistemi di welfare locale. Come abbiamo visto le differenze più macroscopiche riguardano la divisione tra Nord e Sud, ma anche all’interno delle due macroregioni si iniziano a registrare diversità significative. Di nuovo, l’esempio più esplorato riguarda la differenza tra Milano e Torino dove, sia per quanto riguarda i programmi di sostegno al reddito, a monte della sperimentazione del RMI che nelle grandi città settentrionali non ha avuto luogo (Saraceno, 2002; Mingione e Oberti, in corso di stampa), sia per quanto riguarda le iniziative a favore dei senza dimora (Mugnano, 2002), si nota a Torino una più forte capacità di coordinamento e di intervento pubblico diretto, soprattutto con politiche attive del lavoro, mentre a Milano l’autonomia e l’iniziativa del privato sociale si confermano di grande importanza. Prima di analizzare i dati sul primo biennio di sperimentazione del RMI in Italia, che comunque forniscono poche indicazioni utili per comprendere l’impatto del programma nel centro-nord dato il coinvolgimento limitato a pochi casi di comuni relativamente piccoli e a due quartieri di Genova, ci soffermeremo nel prossimo capitolo sul panorama delle politiche di contrasto alla povertà in Italia per inquadrare il probabile impatto del RMI nel quadro frammentato e variato in cui il programma si va ad inserire. Ci concentreremo soprattutto su dati e politiche nazionali con limitati accenni alla realtà delle politiche municipali di sostegno al reddito perché quest’ultima, pur essendo proprio l’ambito che il RMI andrebbe principalmente a sostituire, è così diversificata da non permettere una ricognizione approfondita su larga scala. 16 Che nel caso italiano, come abbiamo sostenuto in precedenza, è storicamente poco efficace ed efficiente. 8 Appendice: Le principali caratteristiche della povertà in Italia Nel 2000, secondo le stime della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (CIES, 2001) su dati Istat, vi erano in Italia 2.707.000 famiglie in condizioni di povertà relativa17, corrispondenti a 7.948.000 individui: il 12,3% delle famiglie e il 13,9% degli individui. La soglia di povertà è stata pari a € 810,3 nel caso di una famiglia composta da 2 persone. Circa i due terzi dei soggetti in condizione di povertà si concentrano nelle regioni meridionali, dove risiede poco più di un terzo della popolazione italiana. Qui l’incidenza della povertà è pari al 25,5% (individui), contro il 5,9% nel Nord e il 10,5% al Centro. Le tabelle che seguono riassumono le caratteristiche della povertà in Italia, in modo da fornire un quadro empirico di riferimento nel quale collocare l’analisi delle politiche nazionali contro la povertà. Tab. A.1. Soglie di povertà per famiglie di diversa numerosità, € (2000) N. componenti Coefficiente di Soglia equivalenza relativa 1 0,599 485,4 2 (standard) 1,000 810,3 3 1,335 1.081,8 4 1,632 1.322,4 5 1,905 1.543,7 6 2,150 1.742,2 7 e più 2,401 1.945,6 Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale Fig. A.1. Persone povere per ripartizioni geografiche (1997-2000) 30,0 1997 1998 1999 2000 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 Nord Centro Sud Italia Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale Tab. A.2. Distribuzione, diffusione e intensità della povertà per ripartizioni geografiche (2000) Nord Centro Sud Italia Distribuzione Famiglie 22,0 (47,8) 15,3 (19,4) 62,7 (32,8) 100,0 Persone 18,9 (44,5) 14,6 (19,2) 66,5 (36,3) 100,0 Diffusione Famiglie 5,7 9,7 23,6 12,3 Persone 5,9 10,5 25,5 13,9 Intensità Famiglie 19,2 20,4 24,2 22,5 *: tra parentesi le famiglie o le persone residenti Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale 17 Si tratta cioè delle famiglie di 2 persone che hanno un reddito inferiore o uguale al consumo medio procapite, corretto in base ad una scala di equivalenza nel caso di famiglie di numerosità diversa. 9 Tab. A.3. Diffusione povertà per classi d’età e ripartizioni geografiche (2000) Nord Centro Sud Italia Fino a 18 anni 7,4 11,2 27,1 16,7 Da 19 a 34 anni 5,3 9,8 25,0 13,8 Da 35 a 64 anni 4,5 8,4 23,2 11,5 65 anni e oltre 8,6 15,4 29,3 16,7 Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale Tab. A.4. Diffusione povertà per ampiezza famiglie e ripartizioni geografiche (2000) Nord Centro Sud Italia 1 comp. 6,1 6,2 17,5 9,3 2 comp. 4,9 11,9 24,2 11,7 3 comp. 4,9 8,5 21,6 10,5 4 comp. 5,9 10,7 25,0 14,7 5 o più comp. 11,3 16,2 33,4 24,3 *Non significativo a causa della scarsa numerosità dei casi Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale Tab. A.5. Incidenza della povertà per tipologie familiari e ripartizioni geografiche (2000) Nord Centro Sud Italia Persona sola con meno di 65 anni 3,1 * 9,0 4,4 Persona sola con 65 anni e più 8,7 9,4 23,2 13,2 Coppia con p.r. con meno di 65 anni 1,9 * 12,7 4,8 Coppia con p.r. con 65 anni e più 8,0 18,5 32,8 18,5 Coppia con 1 figlio 4,4 7,3 20,4 9,5 Coppia con 2 figli 5,6 10,0 24,4 14,5 Coppia con 3 o più figli 11,3 * 33,3 25,2 Monogenitore 5,9 13,7 23,5 13,0 Altre famiglie 9,6 14,7 32,4 17,6 *Non significativo a causa della scarsa numerosità dei casi Fonte: Commissione d’indagine sull’esclusione sociale 10 2. Un quadro generale delle politiche contro la povertà in Italia Per comprendere l’impatto e il ruolo che il RMI potrebbe avere nel sistema di welfare italiano, è opportuno presentare lo stato degli istituti di sostegno del reddito riconducibili al contrasto delle situazioni di povertà esistenti oggi. Ci soffermeremo su una serie di misure a carattere nazionale anche se, allo stato attuale, gli interventi assistenziali esplicitamente diretti al sostegno al reddito e a servizi sociali a favore dei poveri (come il ricovero notturno dei senza fissa dimora o l’elargizione di pasti caldi o di contributi per pagare gli affitti) sono a carico dei Comuni18. Non entriamo qui nei dettagli dell’assistenza comunale soprattutto per la sua accentuata variabilità che impedisce di individuare un qualsiasi standard e che costituisce una valida ragione per introdurre il RMI al posto di una giungla di interventi locali che lascia una parte consistente della popolazione povera in balia di Comuni privi di risorse finanziarie e professionali per fornire effettivamente un aiuto. L’elevata variabilità degli interventi deriva da vari fattori. In primo luogo, fino alla legge di riforma dell’assistenza (L328/2000), che richiederà però diversi anni prima di diventare pienamente operativa, l’assenza di standard regionali o nazionali ha lasciato i comuni liberi di realizzare o meno programmi assistenziali e di fissare le proprie regole e soglie di intervento e di servizio, in cooperazione o in modalità autonome e perfino duplicate con l’assistenza privata (a titolo d’esempio, nella tab. 2.1. riportiamo alcune informazioni sintetiche sui programmi di minimo nei Comuni RMI prima della sperimentazione). Un altro fattore che ha avuto effetti di iniquità, oltre che di diversità, sull’intervento è il meccanismo di finanziamento autonomo che ha penalizzato i comuni con poche risorse economiche e i periodi di crisi, proprio quelle località e quelle fasi in cui ci sarebbe bisogno di maggiore intervento a favore dei poveri. Infine, e questo è un elemento importante perché influenza le capacità di attuazione del RMI, quasi tutti i comuni di piccole dimensioni e molti comuni di maggiori dimensioni, soprattutto nel Mezzogiorno, non sono riusciti a sviluppare autonomamente le competenze professionali (assistenti sociali, servizi informatici, consulenti psicologici, familiari e sanitari, e così via) utili per sviluppare un servizio assistenziale moderno. Passando ora alla misure nazionali si deve anticipare che esistono difficoltà di analisi e di valutazione riconducibili a due questioni centrali: • si tratta di politiche implicite, nel senso che si inseriscono nel panorama frammentato delle politiche di protezione sociale senza configurare un approccio organico alla povertà, senza cioè costruire un sistema integrato e complesso di strumenti volti ad intervenire sui diversi aspetti che caratterizzano le situazioni di povertà19; • si tratta, nella maggior parte dei casi, di politiche indirette, nel senso che spesso non sono esplicitamente ed esclusivamente finalizzate al contrasto della povertà, o quanto meno tra i beneficiari vi possono essere anche soggetti o categorie non necessariamente in condizioni di difficoltà economica. Questi due aspetti rendono difficile un lavoro sistematico di ricostruzione del campo delle politiche contro la povertà, sia perché in molti casi non è chiaro se una data politica appartiene a questo campo o meno, sia perché in fase interpretativa si deve tenere conto del fatto che non tutti i fruitori di un dato strumento sono necessariamente in condizioni di povertà o a rischio di diventarlo. Al fine di individuare un criterio preciso che consenta di individuare le prestazioni che svolgono una funzione significativa in questo campo, prendiamo in considerazione gli strumenti finalizzati al miglioramento delle condizioni economiche della popolazione a basso reddito e che prevedono una verifica del reddito dei potenziali beneficiari. Come si vedrà, il panorama di questi interventi si rivela frammentato e disorganico, per molti aspetti iniquo e inefficace. Per questa ragione, il RMI 18 La responsabilità pubblica a livello comunale si è consolidata in Italia nel XIX secolo negli Enti Comunali di Assistenza ai quali è anche assegnato il compito di rompere il monopolio cattolico della carità. Le responsabilità e i beni degli ECA, dopo varie traversie e trasformazioni sempre variate a livello locale, sono passati negli anni ottanta agli assessorati comunali ai servizi sociali. 19 Questo è stato chiaramente messo in luce da Negri e Saraceno (1996). 11 costituisce una vera e propria innovazione nel sistema di protezione sociale, andando ad occupare uno spazio finora scarsamente tutelato a livello nazionale. Tab. 2.1. Assistenza economica continuativa precedente alla sperimentazione del RMI Comune Nuclei in carico Nichelino Limbiate Cologno Monz. Rovigo Genova Voltri/Pra Massa Civita Castellana Corchiano Monterosi Onano Gallese Fabrica di Roma Canepina Pontecorvo Alatri Caserta Orta di Atella Napoli L'Aquila Isernia Foggia 29 24 125 120 507 186 65 Importo annuo 2.448.000 1.291.666 2.403.712 2.325.000 1.940.800 1.613.000 661.530 medio Nessuna assistenza continuativa n.d. n.d. 259 n.d. 194 278.350 Nessuna assistenza continuativa 292 476.027 180 1.794.444 Comune Nuclei in carico Importo annuo medio Andria Bernalda Grassano Isola Capo Rizzuto Cutro San Giovanni in Fiore Reggio Calabria n.d. n.d. Nardodipace Nessuna assistenza continuativa Enna n.d. n.d. Barrafranca 256 200.000 Leonforte 46 1.348.608 Nessuna assistenza continuativa Catenanuova Agira n.d. n.d. Centuripe 35 2.000.000 Catania VII, IX, X 3.600 2.222.222 Sassari 1.407 732.000 S. Nicolò d'Arcidano Nessuna assistenza continuativa Oristano 63 1.092.162 Totale 7.388 1.426.720 Nessuna assistenza continuativa Fonte: CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles e Istat 2.1. Le prestazioni a favore dei soggetti a rischio di impoverimento Le politiche contro la povertà, dirette o indirette, esplicite o implicite, intervengono come fattori di regolazione in diversi ambiti sociali. Ciò significa che possiamo dare una lettura dell’intervento dello Stato in funzione del ruolo che esso svolge come attore regolativo all’interno dei diversi ambiti nei quali prendono forma i meccanismi di deprivazione e, quindi, di impoverimento. In sostanza, esistono aree della vita sociale nelle quali si producono e si distribuiscono risorse (non solo monetarie) alle quali alcuni soggetti possono avere, temporaneamente o cronicamente, un accesso insufficiente. Le politiche di protezione e promozione sociale, seguendo i principi di fondo del welfare state, intervengono – o dovrebbero intervenire - in quelle aree, riequilibrandone i criteri di accesso o indennizzando i soggetti che vi subiscono forme di deprivazione. Viste le difficoltà di cui si è detto, nella selezione degli strumenti da analizzare abbiamo incluso, oltre a quelli esplicitamente progettati per intervenire direttamente a favore degli individui o delle famiglie in povertà, anche gli strumenti che, pur introdotti con finalità diverse, svolgono indirettamente un ruolo significativo nell’alleggerire la severità delle condizioni economiche dei soggetti in qualche modo fragili o a rischio di impoverimento20. Possiamo raggruppare gli strumenti analizzati in tre categorie21: le politiche di sostegno diretto del reddito, le politiche del lavoro e le politiche a favore delle famiglie; mentre il Reddito Minimo di Inserimento ha un ruolo trasversale rispetto a questi campi di intervento. Politiche di sostegno diretto del reddito Si tratta degli strumenti che hanno come immediato obiettivo quello di garantire un reddito sufficiente agli individui o alle famiglie in possesso di specifiche caratteristiche. Sono essenzialmente strumenti passivi finalizzati all’innalzamento del reddito disponibile e destinati a 20 Ciò significa che alcune prestazioni beneficiano sia soggetti poveri sia soggetti non poveri. Andrebbero poi aggiunte le politiche della sfera abitativa: public housing e sostegno del costo dell’affitto. Per quanto riguarda le prime, si tratta di politiche miste nazionali/locali, con conseguenti problemi di analisi empirica. Per le seconde vanno ricordati due recenti interventi: la creazione nel 1999 del Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione e, sempre nel 1999, di una detrazione di imposta per i titolari di contratti di affitto. Si tratta però di innovazioni troppo recenti per avere dati nazionali di sintesi. 21 12 categorie con particolari caratteristiche di svantaggio sociale: anziani e invalidi. I rischi tutelati sono quelli relativi all’incapacità – involontaria - di procurarsi un reddito a causa dell’età anziana o della condizione di invalidità, quando non si possano far valere sufficienti diritti previdenziali o assicurativi. Si tratta di prestazioni assistenziali o miste22. Tra le prime, troviamo il principale strumento di innalzamento del reddito basato esclusivamente sulla carenza di risorse monetarie, l’assegno sociale per gli anziani ultrasessantacinquenni (che dal 1996 ha sostituito la pensione sociale). L’altra misura di carattere assistenziale è costituita dai trattamenti di invalidità civile, destinati agli invalidi che non possiedono i requisiti per accedere ai trattamenti di invalidità di tipo previdenziale. I trattamenti di invalidità civile comprendono l’assegno mensile di assistenza, la pensione di inabilità e l’indennità di accompagnamento; i primi due si trasformano in assegno sociale al compimento del 65° anno d’età. Sono invece di tipo previdenziale, prevedono cioè il possesso di determinati requisiti contributivi, il trattamento minimo delle pensioni, la pensione di inabilità23 e l’assegno ordinario di invalidità. In particolare, il trattamento minimo è lo strumento con il maggior numero di beneficiari (4.405.476 nel 2000). Politiche del lavoro In questo campo abbiamo ricompreso le prestazioni collegate alla condizione di lavoratore (occupato o disoccupato) dell’individuo. A differenza degli interventi di sostegno diretto del reddito, le prestazioni di questo campo non possono essere assunte come strumenti “puri” di contrasto della povertà, in quanto non si tratta di prestazioni collegate al reddito dei beneficiari. Tuttavia, vista l’assenza di politiche generali o di cittadinanza di sostegno del reddito, bisogna considerare che molte situazioni individuali e familiari trovano in questi strumenti una soluzione alla scarsità di risorse economiche. Vengono tutelati i rischi derivanti dalla mancanza di lavoro, tamponando in alcuni casi le situazioni di emergenza o incoraggiando, in altri, l’ingresso o il reingresso nel mercato del lavoro. Appartengono al campo delle politiche del lavoro con effetti contro la povertà l’indennità di disoccupazione (ordinaria e con requisiti ridotti24), le liste di mobilità25, i lavori socialmente utili e i lavori di pubblica utilità (in via di esaurimento). Politiche per la famiglia Nel campo delle politiche per la famiglia troviamo gli interventi che assumono come soggetto beneficiario il nucleo familiare, e che sono finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita dell’unità familiare in quanto tale. Gli assegni familiari e gli assegni per il nucleo familiare sono prestazioni d’impronta previdenziale ma con connotazioni assistenziali, in quanto hanno un’impostazione redistributiva e beneficiano maggiormente le famiglie disagiate (numerose, con membri disabili, monogenitoriali). Di carattere strettamente assistenziale è, invece, l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, erogato sulla base della composizione familiare e del possesso di determinati requisiti di reddito. Gli stessi parametri sono utilizzati anche nel caso dell’assegno di maternità. Questa prestazione è stata introdotta come riconoscimento di un diritto di cittadinanza, la maternità 22 Per miste intendiamo quelle prestazioni la cui accessibilità è subordinata a un diritto di natura previdenziale ma che sono gestite in modo assistenzialistico. 23 Abbiamo quindi due diverse pensioni di inabilità, una erogata dall’INPS su base assicurativa e una concessa dal Ministero degli Interni su base assistenziale. 24 Non abbiamo considerato altri tre trattamenti di disoccupazione (ordinaria e speciale per operai agricoli e speciale per lavoratori edili) in quanto destinate a lavoratori impiegati in settori di attività particolari e con problematiche molto specifiche. 25 Nella nostra analisi non abbiamo inserito la Cassa Integrazione Guadagni in quanto non direttamente interpretabile come strumento contro la povertà, anche se evidentemente spesso è attraverso essa che viene evitato lo scivolamento in una condizione di indigenza. In particolare, ci è parso significativo il fatto che i lavoratori in cassa integrazione mantengono il rapporto di lavoro, e quindi la condizione di occupati a tutti gli effetti, a differenza dei lavoratori inseriti nelle liste di mobilità. Per altro poi, le liste di mobilità sono il passo successivo alla cassa integrazione, quando cioè il reinserimento occupazionale del lavoratore diventa molto più incerto. 13 appunto, ma per esigenze di contenimento dei costi è stata subordinata ad un meccanismo di means testing. Reddito minimo di inserimento Il RMI, vista la sua natura particolare ed innovativa nel panorama del welfare state italiano, non può essere attribuito a nessuno dei campi delle politiche sociali individuati. Il taglio universalistico ed assistenziale, insieme alla centralità delle prestazioni finalizzate al reinserimento dell’individuo, rendono questa prestazione l’unico strumento puro di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale in Italia su scala nazionale. 2.2. Le principali caratteristiche delle prestazioni L’assenza di organicità del sistema complessivo degli strumenti contro la povertà del welfare state nazionale si accompagna alla mancanza di uno spirito unitario che informi l’approccio al disagio socio-economico. Questo aspetto si sostanzia nell’uso di molteplici criteri per l’individuazione dei potenziali beneficiari e per il calcolo dell’ammontare delle prestazioni. In sostanza, l’origine incrementale del welfare state italiano ha prodotto una situazione di sostanziale eterogeneità della regolamentazione delle prestazioni, che si traduce in un grado elevato di disuguaglianza dei diritti di cittadinanza ed in una frattura istituzionale tra insider e outsider dai confini sfumati e mutevoli. Requisiti di accesso La possibilità di ottenere le prestazioni previste dal sistema di protezione sociale nazionale contro la povertà è, naturalmente, subordinato al possesso di specifiche caratteristiche individuali o familiari. Tramite l’analisi dei requisiti attesi per l’accesso alle prestazioni è possibile comprendere alcune delle logiche di fondo che governano, nel suo complesso, l’approccio alla povertà in Italia. Il principio di riferimento principale previsto in quasi tutte le misure in esame è costituito dal rispetto di specifiche soglie di reddito26, spesso calcolate in base a scale di equivalenza e specificate per tipi di entrate monetarie che partecipano alla determinazione del reddito personale o familiare. Più avanti ci concentreremo sull’analisi di questo aspetto, mentre di seguito analizziamo le caratteristiche personali o familiari dei beneficiari potenziali. Il parametro che distingue i diversi tipi di prestazioni è la natura assicurativa o assistenziale che regola l’estensione della platea di potenziali beneficiari. Nel primo caso, è opportuno innanzitutto osservare che le misure selezionate non sono rigidamente assicurative o previdenziali, nessuna di esse cioè vincola la determinazione dell’importo della prestazione esclusivamente alla posizione contributiva del richiedente. Piuttosto, diverse misure presuppongono il possesso di una determinata anzianità assicurativa, vale a dire una “biografia previdenziale” sufficientemente lunga per maturare un diritto che, in ultima analisi, assume anche caratteristiche assistenziali. In questo campo rientrano il trattamento minimo delle pensioni, la pensione di inabilità e l’assegno di assistenza, l’assegno ordinario di invalidità, i trattamenti di disoccupazione e di mobilità, gli assegni familiari e per il nucleo familiare. Il trattamento minimo delle pensioni prevede il rispetto dei requisiti di età e di anzianità contributiva (15 anni) per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, sui quali si innesta un diritto assistenziale qualora il calcolo della pensione di vecchiaia risulti di importo inferiore ad un minimo stabilito (per il trattamento intero, € 4.960,9 annui nel 2001). Nel caso dei trattamenti di inabilità e di invalidità INPS sono richiesti almeno 5 anni di contributi dei quali almeno 3 negli ultimi 5 anni. La pensione di inabilità è erogata a coloro che si trovano nella impossibilità definitiva di svolgere qualsiasi lavoro; l’importo viene calcolato aggiungendo ai periodi contributivi esistenti quelli successivi al pensionamento e fino alla data di compimento dell’età pensionabile (calcolati sulla media delle retribuzioni ricevute negli ultimi 5 anni). L’assegno ordinario di invalidità è erogato a coloro che hanno una capacità residua di svolgere un lavoro inferiore a un terzo; viene calcolato sulla base dei contributi effettivamente erogati, e nel 26 Fanno eccezione i trattamenti di disoccupazione, la mobilità e i lavori socialmente utili. 14 caso l’importo sia molto modesto può essere innalzato fino all’importo dell’assegno sociale o del trattamento minimo. L’indennità ordinaria di disoccupazione è riconosciuta ai lavoratori licenziati27 che possano far valere almeno due anni di assicurazione contro la disoccupazione involontaria e almeno un anno di contributi nei due anni precedenti la cessazione del rapporto. L’indennità è pari al 30% della retribuzione percepita nei mesi precedenti la cessazione del lavoro, indipendentemente dal reddito personale o familiare, e viene corrisposta per 6 mesi. L’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti si differenzia per il fatto che il richiedente, non potendo far valere il requisito dei 52 contributi settimanali negli ultimi due anni, può però far valere almeno 78 giornate di lavoro prestate nell’anno precedente. L’indennità viene corrisposta per un numero di giornate pari a quelle lavorate nell’anno precedente. Il riconoscimento dell’indennità di mobilità segue una logica simile all’indennità di disoccupazione, dalla quale si differenzia per una maggiore durata (da 12 a 48 mesi) in base all’età del lavoratore e alla localizzazione dell’azienda (Nord, Centro o Sud). Per accedervi, il lavoratore deve possedere un’anzianità aziendale complessiva di almeno 12 mesi e deve poter far valere almeno 6 mesi di effettivo lavoro. Gli assegni per il nucleo familiare spettano ai lavoratori dipendenti e ai pensionati ex lavoratori dipendenti, ai disoccupati indennizzati, ai lavoratori cassintegrati, in mobilità o impegnati in lavori socialmente utili. L’ammontare degli assegni è calcolato in base alla numerosità e alle caratteristiche del nucleo familiare, sulla base di fasce di reddito aggiornate di anno in anno. Dal 1 gennaio 1999 gli assegni per il nucleo familiare sono riconosciuti anche agli iscritti alla gestione separata dei lavoratori autonomi, secondo criteri di accessibilità più esigenti degli assegni per i lavoratori dipendenti sia in riferimento alle tipologie familiari sia in riferimento ai requisiti di reddito. Gli assegni familiari sono invece destinati a coltivatori diretti, mezzadri e coloni e ai pensionati delle gestioni speciali per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri). Costoro debbono rispettare dei limiti di reddito ed ottengono un importo fisso, pari a € 10,2 mensili per ciascun beneficiario. Al campo delle prestazioni a carattere strettamente assistenziale appartengono tutti gli strumenti destinati alla generalità della popolazione in possesso di determinati requisiti individuali o familiari, a prescindere quindi dalla posizione occupazionale o previdenziale. A questa categoria appartengono l’assegno e la pensione sociale, i lavori socialmente utili, le prestazioni di invalidità civile, l’assegno di maternità e quello per le famiglie numerose. L’assegno e la pensione sociale spettano a tutti i cittadini ultrasessantacinquenni con redditi inferiori a determinate soglie, che non possano richiedere altre prestazioni pensionistiche. Ai lavori socialmente utili e ai lavori di pubblica utilità possono accedere diverse figure di lavoratori o di disoccupati che sinteticamente possiamo identificare con i giovani in cerca di prima occupazione, i disoccupati iscritti alle liste di collocamento da almeno due anni, gli iscritti alle liste di mobilità, i cassintegrati speciali a zero ore. Inoltre, è possibile individuare altre specifiche categorie di lavoratori su base locale. La partecipazione ai lavori socialmente utili non è subordinata al possesso di veri e propri requisiti di reddito, ma l’assegno previsto – per coloro che non ricevono altro trattamento previdenziale – è incompatibile con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato con contratto a termine a tempo pieno. Al contrario, l’assegno è cumulabile, previo il rispetto di determinate soglie di reddito, con redditi derivanti da attività autonome o di collaborazione e con redditi da lavoro dipendente a tempo determinato parziale. Possono accedere alle prestazioni di invalidità civile gli individui in possesso di una percentuale di invalidità pari almeno al 74% e che rispettino determinati requisiti di reddito; non sono incompatibili con lo svolgimento di attività lavorative. L'indennità di accompagnamento può essere concessa solo ai pensionati di invalidità non deambulanti e bisognosi di assistenza continuativa; non è collegata a limiti di reddito in quanto è concessa al solo titolo dell’handicap. 27 Prima del 1 gennaio 1999 potevano accedervi anche i lavoratori che si dimettevano volontariamente; vale anche per l’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti. 15 L’assegno di maternità è riconosciuto alle madri cittadine italiane residenti sul territorio nazionale che non beneficiano del trattamento previdenziale di maternità e con reddito inferiore a determinate soglie. L’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori è accessibile alle famiglie composte da cittadini italiani residenti sul territorio nazionale che rispettano determinati requisiti di reddito. Soglie di reddito e scale di equivalenza Le politiche contro la povertà prevedono generalmente alcuni dispositivi di selezione dei destinatari tali da indirizzare i benefici previsti alle fasce di popolazione povere o a rischio di impoverimento28. In molti casi, come abbiamo visto, questa operazione avviene innanzitutto tramite la semplice definizione dei profili di cittadini ammissibili al godimento della prestazione, profili individuati come intrinsecamente fragili o a rischio di impoverimento. Per quasi tutte le prestazioni previste, però, vengono fissate delle soglie di reddito al di sopra delle quali viene considerato risolto il rischio di povertà. L’applicazione di tali soglie di reddito viene spesso realizzata tramite l’uso di scale di equivalenza che consentono di differenziare le soglie in base alla numerosità e/o alle caratteristiche del nucleo familiare29. Alcuni strumenti prevedono solamente delle soglie di reddito al di sopra delle quali non è possibile accedere alla prestazione, e non anche il riferimento a scale di equivalenza per nuclei familiari di diversa numerosità. È questo il caso, in primo luogo, dell’assegno e della pensione sociale e del trattamento minimo delle pensioni, corrispondenti ad erogazioni annue (2001) pari rispettivamente a: € 4.428,8, € 3.650,0, € 4.960,9. Tab. 2.1. Soglie di reddito per accedere a pensione e assegno sociale e trattamento minimo delle pensioni (2001) Pensionato solo Intero Assegno sociale Pensione sociale Trattamento minimo 0 0 4.960,9 Ridotto da 0,1 0,1 4.960,9 Non spetta oltre: a 4.428,9 3.650,0 9.921,9 4.428,9 3.650,0 9.921,9 Pensionato con coniuge Intero fino a Ridotto Da Assegno sociale 4.428,9 4.428,9 Pensione sociale 8.927,6 8.927,6 Trattamento minimo* 14.882,8 14.882,8 *: pensioni con decorrenza successiva al 1994 Non spetta oltre: A 8.857,7 12.577,6 19.843,7 8.857,7 12.577,6 19.843,7 L’assegno sociale si differenzia dalla pensione sociale perché esso spetta anche quando il reddito personale del richiedente supera i limiti imposti, purché il reddito cumulato con quello del coniuge sia inferiore al limite previsto. 28 Per essere più chiari, le politiche contro la povertà muovono generalmente da un principio di selettività per il quale l’erogazione delle prestazioni è subordinata all’accertamento della condizione economica del richiedente. Per una discussione di questo punto, in riferimento anche al dibattito tra sostenitori dell’approccio selettivo e sostenitori dell’approccio universalistico, vedi il volume curato da S. Toso (2000), in particolare il capitolo su “Selettività o universalismo? Il dilemma delle politiche assistenziali”. 29 Fanno eccezione i trattamenti di disoccupazione, di mobilità e lavori socialmente utili, che non prevedono il riferimento né a soglie di reddito né di scale di equivalenza 16 Anche le prestazioni di invalidità, sia INPS (esclusa la pensione di inabilità, di natura assicurativa) che civili, non prevedono l’applicazione di scale di equivalenza, ma solamente il riferimento a soglie massime di reddito personale del richiedente30. Tab. 2.2. Soglie di reddito per accedere ai trattamenti di invalidità INPS e civili (2001) Soglia personale Importo mensile Pensione di inabilità INPS Nessuna Contributivo – figurativo Assegno ordinario di invalidità Inps 8.857,7 Contributivo - integrabile Assegno di assistenza 3.650,0 212,5 Pensione di inabilità civile 12.435,5 212,5 Indennità di accompagnamento nessuna 422,1 Il meccanismo di calcolo degli assegni per il nucleo familiare si basa su fasce di reddito distinte per i nuclei con figli e i nuclei senza figli, sul numero dei membri, sulla composizione del nucleo (presenza di orfani, di fratelli/sorelle, …) e sulle caratteristiche del nucleo (non problematico, monogenitoriale, con invalidi, monogenitoriale con invalidi). Di conseguenza, le tabelle di riferimento per il calcolo dell’importo degli assegni sono numerose, e vanno dai nuclei con entrambi i genitori e almeno un figlio minore senza componenti inabili ai nuclei familiari con un solo genitore e almeno un figlio minore con componenti inabili, passando per numerosi possibili assetti31. Le due tabelle 2.3. esemplificano i due profili familiari citati. Tab. 2.3. Assegni per il nucleo: esemplificazioni di calcolo (2001) Nuclei familiari con entrambi i genitori e almeno un figlio minore senza componente inabili Importo per numero di componenti Reddito familiare 3 4 5 6 7 Fino 11.122,4 130,7 250,5 358,9 492,2 619,7 11.122,4 - 13.763,1 114,7 220,5 339,8 481,3 600,6 13.763,1 - 16.403,2 92,4 190,6 313,0 473,1 584,1 16.403,2 - 19.042,3 65,6 158,0 283,0 454,0 565,0 19.042,3 - 21.683,4 43,9 111,6 241,7 407,5 507,7 21.683,4 - 24.323,6 25,8 81,6 217,4 391,0 488,6 24.323,6 - 26.964,7 15,5 57,3 176,6 364,1 466,9 26.964,7 - 29.603,8 15,5 38,7 135,8 339,3 439,5 29.603,8 - 32.244,0 12,9 25,8 102,8 317,6 426,1 32.244,0 - 34.883,6 12,9 25,8 91,9 225,2 398,7 34.883,6 - 37.525,2 12,9 23,2 91,9 154,4 292,8 37.525,2 - 40.165,4 23,2 78,5 154,4 219,0 40.165,4 - 42.806,0 23,2 78,5 132,2 219,0 42.806,0 - 45.446,1 78,5 132,2 189,0 45.446,1 - 48.087,3 132,2 189,0 48.087,3 - 50.728,5 189,0 30 Solo l’assegno ordinario di invalidità Inps prevede una maggiorazione della soglia nel caso del richiedente coniugato (€ 13.286,6 nel 2001). 31 Per esempio: nuclei familiari orfanili con almeno un figlio minore e almeno un componente inabile; nuclei familiari con entrambi i coniugi e senza figli in cui sia presente almeno un fratello, sorella o nipote inabile; nuclei monoparentali senza figli con almeno un fratello, sorella o nipote in cui il solo richiedente sia inabile. 17 Nuclei familiari con un solo genitore e almeno un figlio minore con almeno un componente inabile Importo per numero di componenti Reddito familiare 2 3 4 5 6 7 Fino a 21.683,4 106,9 198,8 445,7 600,1 784,0 965,3 21.683,4 - 24.323,6 86,2 178,2 403,9 573,3 772,1 941,5 24.323,6 - 26.964,7 56,3 145,6 359,5 531,4 760,2 911,5 26.964,7 - 29.603,8 23,8 110,0 315,0 493,2 730,8 887,8 29.603,8 - 32.244,0 20,7 77,5 249,4 433,8 665,2 820,1 32.244,0 - 34.883,6 20,7 53,7 208,1 398,2 641,4 780,9 34.883,6 - 37.525,2 35,6 172,5 341,4 605,8 748,3 37.525,2 - 40.165,4 35,6 145,6 282,0 570,2 712,7 40.165,4 - 42.806,0 30,0 127,6 237,6 540,7 692,1 42.806,0 - 45.446,1 30,0 127,6 220,0 410,1 656,4 45.446,1 - 48.087,3 30,0 106,9 220,0 305,7 502,0 48.087,3 - 50.728,5 106,9 184,4 305,7 398,2 50.728,5 - 53.365,5 106,9 184,4 255,6 398,2 53.365,5 - 56.006,1 184,4 255,6 332,6 56.006,1 - 58.645,2 255,6 332,6 58.645,2 - 61.284,8 332,6 Gli assegni per il nucleo familiare per gli iscritti alla gestione separata dei lavoratori autonomi prevedono maggiori restrizioni per quanto riguarda i limiti di reddito e le tipologie familiari ammissibili32. Per quanto riguarda i limiti di reddito, il reddito familiare complessivo, suddiviso per il numero di componenti del nucleo, non deve essere superiore a € 4.131,6 per ciascun membro del nucleo, elevato a € 5.164,6 nel caso di nuclei con un solo genitore o con soggetto inabile. Inoltre, la somma dei redditi derivante da attività di collaborazione coordinata e continuativa, da vendita porta a porta e da libera professione deve essere pari o superiore al 70% del reddito complessivo familiare. L’importo degli assegni per i lavoratori autonomi viene determinato con tabelle simili a quelle riportate (tab. 2.3.). A differenza degli assegni per il nucleo familiare, gli assegni familiari prevedono un importo fisso per ciascun membro del nucleo (€ 10,2); la titolarità alla prestazione è anche in questo caso vincolata al rispetto di determinati limiti di reddito in base alla numerosità del nucleo familiare. Tab. 2.4. Limiti di reddito per ricevere gli assegni familiari (2001) Reddito familiare annuo oltre il Reddito familiare annuo oltre il quale cessa la corresponsione del quale cessa la corresponsione di Componenti il trattamento di famiglia per il tutti gli assegni primo figlio nucleo 1* 7.356,9 2 12.208,0 14.620,4 3 15.697,2 18.795,9 4 18.746,4 22.463,8 5 21.798,1 26.103,8 6 24.704,2 29.584,7 7 o più 27.609,8 33.065,1 * Titolare maggiorenne di pensione ai superstiti unico componente il nucleo familiare 32 Gli assegni spettano a: nuclei con entrambi i genitori e almeno due figli minori; nuclei con entrambi i genitori e almeno un figlio minore in cui sia presente un soggetto inabile; nuclei con un solo genitore ed almeno un figlio minore, con o senza inabili; nuclei con entrambi i coniugi, senza figli minori, in cui sia presente almeno un soggetto inabile; nuclei con un solo genitore, senza figli minori, in cui sia presente almeno un soggetto inabile. 18 Per la determinazione degli aventi diritto all’assegno di maternità e all’assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori viene utilizzato l’indicatore della situazione economica (ISE). L’ISE, introdotto in via sperimentale per il periodo 1999-2002, definisce criteri unificati di valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizi assistenziali o sanitari non destinati alla generalità dei soggetti o comunque collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche. Viene utilizzata la seguente scala di equivalenza per ponderare la numerosità della famiglia nella determinazione della situazione economica. Tab. 2.5. Scala di equivalenza ISE Numero componenti 1 2 3 4 5 dei Parametro 1,00 1,57 2,04 2,46 2,85 Maggiorazioni: 0,35 per ogni ulteriore componente; 0,2 in caso di assenza del coniuge e presenza di figli minori; 0,5 per ogni componente con handicap permanente o con invalidità superiore a 66%; 0,2 per nuclei familiari con figli minori, in cui entrambi i genitori svolgono attività di lavoro e di impresa. La situazione economica familiare si ottiene sommando il reddito complessivo IRPEF e il reddito prodotto dal patrimonio mobiliare e immobiliare33. Qualora il nucleo familiare risieda in abitazione in locazione, dalla somma ottenuta viene detratto il valore del canone annuo, per un ammontare massimo di € 5.164,6. L’assegno di maternità utilizza i criteri dell’ISE a partire da un reddito annuo di riferimento (2002) di € 27.644,9 per un nucleo familiare composto da tre persone, ottenendo i redditi equivalenti indicati nella tab. 2.7. L’importo è di € 265,2 per 5 mesi. Tab. 2.6. Soglie di reddito per ottenere l’assegno di maternità (2002) Scala di equivalenza N. Scala Dlgs 109/98 Parametri art. 56 L 448/98 Reddito componenti Base: 1 comp.=1 Base: 3 comp.=1 riparametrato 2 1,57 0,87* 24.051,1 3 2,04 1,00 27.644,9 4 2,46 1,21 33.450,4 5 2,85 1,40 38.702,9 * ottenuto calcolando: (1,57+0,2 maggiorazione nucleo con un unico genitore) : 2,04 = 0,87 Ugualmente, nel caso dell’assegno per i nuclei familiari con almeno tre componenti viene utilizzato, l’ISE a partire da un reddito annuo (2002) di riferimento di € 18.889,9 per un nucleo familiare composto da cinque persone. L’importo è di € 1.437,5 annui. Tab. 2.7. Soglie di reddito per ottenere l’assegno ai nuclei numerosi (2002) Scala di equivalenza N. Scala Dlgs 109/98 Parametri art. 56 L 448/98 Reddito componenti Base: 1 comp.=1 Base: 5 comp.=1 riparametrato 4 2,46 0,93* 18.511,5 5 2,85 1,00 19.904,3 6 3,20 1,12 22.292,9 7 3,55 1,25 24.880,4 * ottenuto calcolando: (2,46+0,2 maggiorazione nucleo con un unico genitore) : 2,85 = 0,93 33 Qualora il nucleo familiare risieda in abitazione di proprietà è possibile detrarre il valore della casa fino a € 51.645,7. 19 2.3. Beneficiari e spesa Documentare il numero di beneficiari e la spesa relativi alle prestazioni nazionali contro la povertà è, per varie ragioni, un’operazione complessa. Innanzitutto, alcune prestazioni sono state introdotte recentemente, e non si dispone quindi per il momento di informazioni esaustive sul loro effettivo funzionamento. In altri casi, invece, le modalità di riconoscimento ed erogazione della prestazione impediscono il conteggio preciso dei beneficiari (assegno per il nucleo familiare). Infine, le informazioni sono a volte fornite aggregando diverse prestazioni. Per queste ragioni le cifre riportate vanno interpretate con una certa cautela e utilizzate soprattutto per sottolineare le caratteristiche complessive della spesa contro la povertà. Beneficiari e benefici Il numero di beneficiari degli strumenti di intervento riconducibili al contrasto della povertà è estremamente numeroso, per quanto non sia possibile stabilire definitivamente quanti siano per almeno tre ragioni: è possibile che un soggetto riceva due prestazioni contemporaneamente; per alcune prestazioni (assegni al nucleo) è impossibile conoscere il numero esatto di beneficiari; alcuni strumenti sono stati introdotti recentemente. Al di là di questi problemi metodologici, gli ordini di grandezza dei beneficiari dei diversi strumenti che abbiamo preso in considerazione sono molto ampi: l’intervallo è tra i quasi 4,5 milioni di pensionati al minimo e i meno di 100mila iscritti alle liste di mobilità. I beneficiari di prestazioni pensionistiche per anziani (assegno e pensione sociali, pensioni integrate al minimo) sono complessivamente oltre 5 milioni, dei quali una parte molto significativa gode di un reddito molto basso, inferiore alla soglia di povertà indicata dalla CIES, in quanto sono molto esigenti i requisiti di reddito per ottenere quel tipo di prestazioni. Numerosi sono anche i percettori di prestazioni di invalidità, soprattutto dell’assegno ordinario di invalidità INPS. I beneficiari di prestazioni Inps sono oltre 3 milioni (1998), mentre quelli che fruiscono di prestazioni di invalidità civile sono 1.263mila (1999). Di questi oltre 4,3 milioni di persone è difficile valutare la quota di soggetti in serie difficoltà economica in quanto le prestazioni di invalidità INPS e l’indennità di accompagnamento per invalidi civili possono essere cumulate con altri redditi. Il numero dei soggetti impegnati in lavori socialmente utili si colloca in un diverso ordine di grandezza, trattandosi di 119.520 persone, alle quali si aggiungono 93.542 persone che hanno beneficiato del trattamento di mobilità. In questo caso, trattandosi di prestazioni non subordinate a soglie di reddito, è possibile che una quota significativa di beneficiari non sia in gravi difficoltà economiche, benché siano prestazioni abbastanza indicative di difficili rapporti col mercato del lavoro. Per quanto riguarda infine gli strumenti assistenziali in senso stretto (assegno di maternità e assegno ai nuclei numerosi)34 si tratta di prestazioni molto specializzate che coprono fasce ben definite della popolazione: donne che hanno avuto un figlio e non hanno diritto al congedo di maternità per le lavoratrici, famiglie con almeno tre figli minori. Si tratta comunque di sostegni del reddito che, benché introdotti di recente, si sono diffusi rapidamente raggiungendo rispettivamente 172.742 madri e 243.637 famiglie numerose, con un effetto, pur lieve, sui tassi di diffusione della povertà per queste categorie di famiglie. Le informazioni relative agli importi medi degli strumenti sono difficilmente comparabili tra loro in quanto le finalità delle prestazioni sono diverse. Ci sembra tuttavia di poter affermare che in pochissimi casi si tratti di interventi in qualche modo sufficienti a risolvere le difficoltà economiche che definiscono una condizione di povertà. Nel caso degli strumenti di integrazione del reddito, se ci riferiamo alla parte di beneficiari che non può fare affidamento su altre fonti di reddito, concludiamo che solamente la pensione di inabilità, l’indennità di mobilità e, forse, le prestazioni di invalidità civile garantiscono un reddito sufficientemente elevato. Tutte le altre prestazioni, nel caso 34 A questi va aggiunto naturalmente il RMI, che discuteremo dettagliatamente nel prossimo capitolo. 20 di redditi molto bassi, non sono sufficienti per innalzare i beneficiari al di sopra della soglia di povertà. La spesa Nella tabella 2.8 riportiamo le spese totali sostenute per le singole prestazioni. Il valore complessivo della spesa, pari a quasi a 55 miliardi di Euro, non è in sé un indicatore significativo dell’impegno finanziario sostenuto nella lotta contro la povertà, in quanto una parte non indifferente di questa spesa è destinata a nuclei non poveri e, d’altro canto, altri interventi che non abbiamo preso in considerazione hanno un impatto sulla povertà35. Fatta questa precisazione, è interessante notare che le prestazioni di impronta previdenziale assorbono l’81,3% del totale destinato a finanziare gli strumenti nazionali contro la povertà; quelle invece strettamente assistenziali sono pari complessivamente al 18,7%. Per quanto riguarda le prime, il trattamento minimo delle pensioni e l’assegno ordinario di invalidità assorbono la quota nettamente più rilevante, con oltre i 2/3 (68,2%) del totale; sommati all’assegno per il nucleo familiare ricaviamo che queste tre prestazioni costituiscono oltre i 3/4 (75,2%) del totale, e quasi il 95% delle prestazioni previdenziali. Nel campo assistenziale, invece, la parte più rilevante delle risorse è assorbito (70,3%) dalle prestazioni di invalidità civile; insieme all’assegno e alla pensione sociale rappresentano il 90,7% della spesa assistenziale. 2.8 Distribuzione della spesa per tipo di strumenti (migliaia di €) Tipo strumenti Spesa % Previdenziali 44.696.325,6 81,3 Assistenziali 10.286.027,3 18,7 La riaggregazione della spesa per categorie di beneficiari può risultare interessante per la comprensione degli equilibri interni a questo campo delle politiche sociali. Innanzitutto, possiamo osservare che una parte molto ampia della spesa (23,9 miliardi di Euro) viene destinata agli strumenti in favore dei soggetti invalidi, pari al 43,5% della spesa totale. Altrettanto importante è la spesa a favore degli anziani, con 23,6 miliardi di Euro, corrispondenti al 43% della spesa totale. Ricaviamo, quindi, che l’86,5% delle risorse destinate a strumenti contro la povertà che abbiamo esaminato si concentra in due sole categorie di beneficiari: anziani e invalidi. Questa breve analisi della spesa per gli strumenti nazionali contro la povertà conferma chiaramente lo squilibrio interno della spesa per la protezione sociale in Italia, largamente concentrata nelle prestazioni di tipo previdenziale, anche nel caso di quelle contro la povertà. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, questo aspetto è particolarmente preoccupante perché i soggetti in condizione di povertà raramente hanno diritti previdenziali da far valere, e quindi si ritrovano spesso privi di protezione. Il potenziamento della componente assistenziale è dunque un obiettivo desiderabile nella riforma del welfare italiano. Genere e territorio Al fine di dare una diversa chiave di lettura dei dati ci sembra interessante vedere come si distribuiscono i beneficiari e la spesa rispetto a due variabili: genere e ripartizioni geografiche. Attraverso queste prospettive, possibili solo per una parte degli strumenti esaminati, vedremo come la strutturazione della spesa e dei beneficiari segua delle logiche caratteristiche, dipendenti in parte dal contesto socio-economico sul quale si applicano gli strumenti e in parte dalla organizzazione stessa degli strumenti. Per quanto riguarda le differenze di genere nella partecipazione agli strumenti analizzati, la tabella che segue prende in considerazione le tre prestazioni pensionistiche per anziani. 35 Si tenga inoltre presente che gli importi delle singole prestazioni sono riferiti ad anni diversi. 21 Tab. 2.9 Beneficiari e importi medi di pensione e assegno sociale e integrazione al minimo delle pensioni per sesso (1999 e 2000) Maschi Femmine Numero Imp. medio Numero Imp. medio %F Assegno sociale (1999) 38.244 291,2 89.678 263,8 70,1 Pensione sociale (1999) 89.267 279,5 436.488 264,2 83,0 Integrazione al minimo (2000) 1.105.088 409,5 3.300.388 406,8 74,9 1.232.599 396,4 3.826.554 387,2 75,6 Totale Fonte: Inps Come si vede, tutte queste prestazioni sono fortemente femminilizzate: la quota di beneficiarie femmine è rispettivamente del 70,1%, dell’83% e del 74,9%. È interessante notare come queste prestazioni vengano riconosciute a soggetti con diritti previdenziali limitati o inesistenti, coloro cioè che hanno avuto una vita lavorativa di scarso spessore: è una prova indiretta della vulnerabilità femminile. Si tratta quindi di prestazioni destinate a soggetti che non possono fruire di prestazioni pensionistiche di anzianità, nettamente più generose36. Altrettanto interessanti, anche se di segno opposto, sono i dati relativi ai beneficiari delle prestazioni di invalidità INPS, collegate alla maturazione di sufficienti versamenti contributivi, e di quelle concesse dal Ministero degli Interni, di carattere assistenziale. Tab. 2.10. Beneficiari e importi medi di pensione di inabilità e assegno ordinario di invalidità (INPS) e prestazione di invalidità civile (Ministero degli Interni) per sesso (1998 e 1999) Maschi Femmine Numero Imp. medio Numero Imp. medio Pensione di inabilità 55.081 912,6 15.445 627,0 Assegno ord. invalidità 196.171 530,6 86.698 381,2 Assegno ante-lege 222/84 1.078.135 514,7 1.616.749 394,5 Invalidità civile 481.895 485,0 781.382 471,8 Fonte: Inps In questa tabella si osserva una distribuzione dei beneficiari complementare: le prestazioni subordinate al possesso di sufficienti requisiti contributivi vedono una prevalenza di maschi, quelle di tipo assistenziale di femmine. Le prime sono più generose delle seconde; tra le prime, inoltre, si nota una netta differenza degli importi medi tra maschi e femmine: queste ultime godono di trattamenti inferiori di circa il 30%, e addirittura i due assegni di invalidità sono inferiori ai trattamenti di invalidità civile (a causa dell’attribuzione dell’indennità di accompagnamento). Una maggiore equità di trattamento tra maschi e femmine emerge invece dall’analisi dei trattamenti di invalidità e dei lavori socialmente utili (dati al 1998). Tab. 2.11 Beneficiari di indennità di mobilità, (2000) Maschi Numero % Indennità di mobilità 53.898 62,0 Lavori socialmente utili 76.196 54,1 lavori socialmente utili e borse lavoro per sesso Numero 32.964 64.540 Femmine % 38,0 45,9 Fonte: Inps 36 L’importo medio mensile di tutti i trattamenti pensionistici italiani (pubblici e privati, di vecchiaia, anzianità, invalidità, indennità e benemerenza) nel 1999 è stato di € 638,5. Se prendiamo solo i trattamenti di vecchiaia privati l’importo medio sale a € 743,7, se prendiamo invece i trattamenti diretti del settore pubblico si arriva a € 1.372,8. 22 In sintesi, dall’analisi delle dimensioni quantitative delle prestazioni in base al sesso del beneficiario si vede come esse riproducano lo stesso meccanismo di penalizzazione a danno delle donne operante all’interno del mercato del lavoro: i diritti sociali “forti” si maturano attraverso la partecipazione al mercato del lavoro; altrimenti si deve fare affidamento su strumenti molto meno generosi. È questa la ragione che spiega il fatto che la componente femminile è nettamente prevalente nell’area del welfare contro la povertà per gli anziani, e come invece le prestazioni di invalidità più generose (previdenziali) siano meno femminilizzate di quelle meno generose (assistenziali). Significativo anche il dato relativo agli strumenti legati al lavoro, con una buona presenza femminile, pur dimostrando indirettamente l’esistenza di un'altra sfera di penalizzazione delle donne: le difficoltà di inserimento occupazionale. A conclusione di questa panoramica sull’insieme di prestazioni nazionali contro la povertà in Italia possiamo affermare che il RMI rappresenta un punto di svolta per il sistema di welfare nazionale in quanto consentirebbe il superamento di squilibri che ne hanno storicamente ridotto l’efficacia. Come abbiamo visto, infatti, l’assenza di un sistema organico di politiche nazionali di copertura dei molteplici rischi e forme di povertà crea ingiustificabili forme di disuguaglianza all’interno del sistema di welfare. In particolare, appare evidente la debolezza del sistema di protezione sociale italiano a causa dello scarso peso che hanno al suo interno gli interventi di natura assistenziale. Il punto centrale, per quanto il processo di riforma attualmente in corso stia cercando di mettere ordine nella materia, è la commistione tra previdenza e assistenza: la parte decisamente più significativa degli interventi (nazionali) nel campo della povertà dipende dalla posizione contributiva del beneficiario, escludendo così una quota molto ampia dei soggetti in difficoltà. La povertà, però, è strettamente legata all’esclusione o all’instabilità occupazionale, e di conseguenza una quota molto ampia dei soggetti con problemi economici è automaticamente esclusa dalle prestazioni di origine contributiva. L’aspetto più contraddittorio di tale assetto è che anche gli strumenti di natura previdenziale vengono in parte erogati in base a principi assistenziali. Ne deriva quindi che esistono due circuiti assistenziali: uno, basato su un principio assicurativo, più generoso; l’altro, pienamente assistenziale, più disorganico e carente. Nella sostanza, questo assetto è generatore di evidenti e ben noti squilibri in relazione all’efficacia della spesa, dal momento che una parte preponderante della povertà si genera per l’impossibilità (disoccupazione) o l’incapacità (malattia, invalidità, carichi familiari) di partecipare pienamente al mercato del lavoro, colpendo quindi soprattutto soggetti con carriere occupazionali inesistenti o frammentarie. In questi casi viene meno il requisito fondamentale per maturare diritti previdenziali e assicurativi, formandosi di conseguenza una fascia di popolazione esclusa dal core delle politiche di protezione sociale: una forma di esclusione sociale istituzionalizzata37. In definitiva, i flussi di spesa vanno a beneficiare solo in piccola parte i soggetti in maggiori condizioni di bisogno. A questo sbilanciamento delle politiche sociali italiane si è cominciato a dare una risposta negli ultimi anni, introducendo alcuni strumenti direttamente finalizzati a sostenere gli individui e le famiglie in condizioni o a rischio di povertà. Comincia insomma a delinearsi un approccio più coerente alla lotta contro la povertà tramite le misure per alleggerire il peso degli affitti, le misure a favore delle famiglie disagiate (assegno ai nuclei familiari numerosi) e, soprattutto, il Reddito Minimo di Inserimento. Quest’ultimo, in particolare, introdotto per il momento in via sperimentale, qualora confermato allineerebbe l’Italia agli altri paesi dell’Unione Europea, dotando il welfare italiano di uno strumento esplicito ed universalistico di lotta contro la povertà. 37 Si tratta di una caratteristica ben nota del nostro sistema di welfare; vedi per esempio Saraceno (1993) e Ferrera (1998). 23 Tab. 2.a. Numero beneficiari e importo medio mensile e annuale delle prestazioni, € (vari anni) Strumento Numero beneficiari Assegno sociale (1999) 127.922 Pensione sociale (1999) 525.755 Trattamento minimo delle pensioni 4.405.476 (2000) Pensione di inabilità e assegno per 70.526 l’assistenza personale e continuativa (1998) Assegno ordinario di invalidità* 2.977.753 (1998) Assegno per il nucleo familiare ~3.430.000 (1998) Assegno per il nucleo familiare per Vedi sopra gli iscritti alla gestione separata dei lavoratori autonomi Assegni familiari Vedi sopra Indennità ordinaria di 191.712 disoccupazione (2000) Indennità ordinaria di 387.133 disoccupazione con requisiti ridotti (2000) Indennità di mobilità (2000) 93.542 Lavori socialmente utili (2000) 119.520 Prestazioni di invalidità civile 1.263.277 (1999) Assegno di maternità (2000)*** 172.742 Assegno ai nuclei familiari con 243.637 almeno tre figli minori (2000)*** * Assegno ordinario + assegno ante-lege 222/84 ** Solo pensionati *** Esclusa Provincia di Bolzano Importo medio Importo medio mensile annuale 272,0 3.264,1 266,8 3.201,4 407,5 4.889,9 850,1 10.200,7 446,6 4.946,9 37,8** 453,0** Vedi sopra Vedi sopra Vedi sopra 410,8 Vedi sopra 4.930,0 208,0 2.496,4 657,1 733,5 476,7 7.885,3 4.529,6 5.720,7 134,0 669,8 (5 mesi) 103,1 1.237,0 24 Tab. 2.b. Spese sostenute per strumento (vari anni, in migliaia di €) Strumento Importo Assegno sociale (1999) 417.553,3 Pensione sociale (1999) 1.683.171,4 Trattamento minimo delle pensioni 21.542.148,3 (2000) Pensione di inabilità e assegno per 719.424,5 l’assistenza personale e continuativa (1998) Assegno ordinario di invalidità* 15.958.156,7 (1998) Assegno per il nucleo familiare 3.827.410,4 (1998) Assegno per il nucleo familiare per Vedi sopra gli iscritti alla gestione separata dei lavoratori autonomi Assegni familiari Vedi sopra Indennità ordinaria di 945.140,2 disoccupazione (2000) Indennità ordinaria di 966.438,8 disoccupazione con requisiti ridotti Indennità di mobilità 737.606,7 Lavori socialmente utili e 541.377,8 lavori di pubblica utilità Prestazioni di invalidità civile 7.226.828,7 Assegno di maternità 115.708,4 Assegno ai nuclei familiari con 301.387,7 almeno tre figli minori Totale 54.982.352,9 * A = assistenziale; P = previdenziale STRUTTURA % 0,8 3,1 39,2 A/P* A A P 1,3 P 29,0 P 7,0 P P 1,7 P P 1,8 P 1,3 1,0 P A 13,1 0,2 0,5 A A A 100,0 25 3. Le sfide del RMI in Italia Il RMI, introdotto dalla legge finanziaria per il 1998 e definito da successivi provvedimenti legislativi fino alla (presunta) definitiva introduzione prevista dalla legge di riforma dell’assistenza (328/00), “è una misura di contrasto della povertà e dell'esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli” (DL 237/97, art. 1). In questo senso, come è stato originariamente sostenuto dalla Commissione Onofri ed in seguito più volte ripetuto anche dalla CIES, il RMI si configura come una prestazione di ultima istanza, destinata cioè a quei soggetti e nuclei familiari impossibilitati a soddisfare in modo autonomo i bisogni di una vita dignitosa e che non possiedono la titolarità ad altri tipi di prestazioni (per esempio indennità legate alla posizione occupazionale, alla condizione di invalidità o all’anzianità) ed è incentrata sulla prova dei mezzi, cioè sulla verifica delle disponibilità economiche del potenziale beneficiario. Nel panorama del sistema di welfare italiano il RMI costituisce una novità in quanto per la prima volta viene istituita, anche se ancora in via provvisoria38, una prestazione di sostegno del reddito di tipo universalistico, non fondata cioè sull’appartenenza del beneficiario a particolari categorie – il lavoratore, il disoccupato, il pensionato, l’anziano, l’invalido, … - ma semplicemente sull’esistenza di una condizione di bisogno economico. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il sistema nazionale di protezione degli individui e dei nuclei familiari a basso reddito è decisamente deficitario e iniquo: solo alcune categorie godono di schemi di sostegno del reddito certi, ma in tutti i casi si tratta di interventi non risolutivi della condizione di bisogno. Nel quadro di generale debolezza del sistema di protezione sociale italiano, che come abbiamo visto si caratterizza per frammentazione dei programmi, incertezza dei diritti soggettivi e debolezza del settore assistenziale, il RMI introduce alcuni elementi di assoluta novità. In particolare, tenta di superare la forte discrezionalità nel riconoscimento della titolarità alle prestazioni e presuppone una nuova attenzione alle capacità e alle risorse soggettive dei beneficiari. Per tutte queste ragioni il RMI rappresenta un’innovazione che adegua il sistema italiano agli standard europei, sancendo il diritto soggettivo ad uno standard di vita minimo, indipendentemente dal ruolo o dalla posizione occupata all’interno della società. Nei paragrafi che seguono viene analizzata l’esperienza del RMI nei 39 comuni ammessi alla sperimentazione principalmente in base alle informazioni contenute in CIES (2001), in quanto l’intero rapporto di valutazione, elaborato da organismi indipendenti e consegnato a metà del 2001, a tutt’oggi non è ancora stato diffuso dal Governo. Comunque, il nostro obiettivo non sarà quello di ripercorrere in dettaglio tutte le fasi della sperimentazione e di analizzare tutti gli aspetti coinvolti in questo complesso processo (aspetti organizzativi e amministrativi, rapporti Ministero-Comuni e Comuni-Enti periferici, questioni contabili, etc.). La nostra attenzione si concentrerà su alcuni aspetti che riteniamo centrali per formulare dei pareri sull’andamento della sperimentazione ed i possibili aggiustamenti del RMI in vista della sua generalizzazione: la penetrazione del RMI sulla popolazione di riferimento, il ruolo dei programmi di reinserimento, l’impatto del RMI su contesti locali profondamente diversi, la capacità dei comuni di gestire una prestazione di questo tipo. 38 La natura provvisoria o definitiva del RMI non è semplice da stabilire, perché se è vero che la legge 328/00 all’art. 23 prevede l’estensione della misura (senza però indicare entro quando), è anche vero che non sembra esservi oggi un clima politico favorevole, come dimostrato tra l’altro dal mancato rispetto delle scadenze previste alla stesso art. 23 (il Governo avrebbe dovuto riferire al Parlamento sull’andamento della sperimentazione entro il 30.5.2001, ed emanare entro il 25.5.2001 un decreto legislativo per il riordino degli emolumenti per invalidità civile, sordomutismo e cecità). Attualmente, la sperimentazione del RMI è stata estesa fino alla fine del 2002 a tutti i comuni inseriti in patti territoriali nei quali sia presente uno dei 39 comuni originari (si vedano l’art. 80 della legge Finanziaria 2001 [388/00], col quale vengono stanziati circa 181 milioni di € per il 2001 e circa 222 milioni per il 2002, e i Decreti del Ministro per la Solidarietà Sociale del 20.4.01 e 7.5.01 con i quali vengono elencati i comuni ammessi). Si tratta, in totale, di 272 comuni, ai quali vanno ovviamente aggiunti i 39 iniziali. La nostra analisi si riferirà necessariamente alla prima sperimentazione, ormai conclusa. 26 3.1. L’architettura del RMI La sperimentazione del RMI è stata avviata nell’ottobre del 1998 tramite tre provvedimenti legislativi principali (la legge Finanziaria per il 1998 n. 449/97 che ne stabilisce l’introduzione, il DL 237/98 che disciplina le caratteristiche della misura e della sperimentazione, il DM 5.8.1998 che individua i comuni nei quali verrà effettuata la sperimentazione) e con i seguenti obiettivi: 1. verificarne le modalità di realizzazione e i relativi costi in contesti territoriali diversi; 2. studiarne gli effetti nel contrasto della povertà e nella promozione dell’integrazione sociale; 3. valutarne l’eventuale generalizzazione a tutto il territorio nazionale. La gestione del RMI è affidata ai Comuni, che ricevono le risorse direttamente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. I destinatari del RMI sono: 1. i cittadini italiani o di Paesi della UE residenti da almeno 12 mesi in uno dei Comuni ammessi alla sperimentazione; 2. i cittadini non appartenenti alla UE o apolidi residenti in uno dei Comuni ammessi alla sperimentazione da almeno 3 anni. Ai soggetti in età lavorativa, non occupati e abili al lavoro, è richiesta la disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e la disponibilità al lavoro La soglia di reddito massima per accedere al RMI nel caso di una famiglia composta da una sola persona è stata pari a € 258,2 nel 1998, a € 263,4 nel 1999 e a € 268,6 nel 1999. È stata utilizzata una scala di equivalenza per stabilire l’importo del RMI nel caso di famiglie di diversa numerosità e composizione. Tab. 3.1. Soglie di reddito per accedere al RMI secondo le dimensioni della famiglia (1998-2000) N. membri Parametro 1998 1999 2000 1 1,00 258,2 263,4 268,6 2 1,57 405,4 413,5 421,6 3 2,04 526,8 537,3 547,9 4 2,46 635,2 647,9 660,7 5 2,85 736,0 750,7 765,4 Maggiorazioni: 0,35 per ogni ulteriore componente; 0,2 in caso di assenza del coniuge e presenza di figli minori; 0,5 per ogni componente con handicap; 0,2 per nuclei con figli minori in cui entrambi i genitori sono occupati L’importo del RMI è stato calcolato come differenza tra la soglia prevista e il reddito mensile percepito. Il reddito di riferimento risulta dal totale dei redditi percepiti dal nucleo familiare del richiedente. I redditi da lavoro, al netto delle ritenute, sono calcolati al 75% per limitare i rischi di trappola della povertà; i destinatari devono essere inoltre privi di patrimonio mobiliare e immobiliare, fatta eccezione per la casa di abitazione. I Comuni sono tenuti a formulare, entro 30 giorni dall’accoglimento della domanda, i programmi di integrazione sociale personalizzati tenendo conto delle caratteristiche personali e familiari dei beneficiari. Tali programmi sono finalizzati al recupero e alla promozione delle capacità personali e alla ricostruzione delle reti sociali; nel caso dei minori sono prioritari l’assolvimento dell’obbligo scolastico e la formazione professionale. Il costo della sperimentazione è stato pari complessivamente a poco meno di € 246 milioni. Tab. 3.2. Costo della sperimentazione per ripartizioni geografiche (31.12.00) Spesa % Nord 8.515.044,4 3,5 Centro 11.996.222,1 4,9 Sud 225.445.539,1 91,7 Totale 245.956.805,6 100,0 Fonte: CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles e Istat 27 3.2. I beneficiari del RMI Nel disegno della sperimentazione sono stati sovradimensionati i comuni delle regioni meridionali, dove la povertà raggiunge una diffusione molto maggiore che nel resto del paese: su 39 comuni nei quali è stato sperimentato il RMI, 24 erano localizzati al Sud, 10 al Centro e solo 5 al Nord. Per quanto tale scelta sia condivisibile sotto il profilo della necessità di testare in profondità il RMI nelle aree con maggiore diffusione delle situazioni di scarsità di risorse materiali, è però vero che, data l’esiguità del numero complessivo di comuni, le indicazioni che si possono ricavare da quelli settentrionali e centrali sono limitate39. Questo è un motivo abbastanza serio di complicazione nel tentativo di riflettere sull’impatto del RMI su strutture sociali e tipologie di povertà che sappiamo essere molto differenziate sul territorio nazionale. Tab. 3.3. Popolazione, individui poveri e beneficiari RMI per ripartizioni territoriali (2000) Popolazione Povertà RMI Nord 44,7 18,9 2,8 Centro 19,3 14,6 4,0 Sud 36,0 66,5 93,2 Italia 100,0 100,0 100,0 Fonti: Istat per popolazione, CIES (2001) per povertà e RMI Nel primo biennio di sperimentazione del RMI sono state presentate 55.522 domande, delle quali 34.730 sono state accolte, per un totale di 25.591 famiglie e 85.818 individui coinvolti nella sperimentazione (vedi tab. 3.11. in appendice per informazioni puntuali). Uno degli spunti di riflessione più interessanti si ricava dall’osservazione della penetrazione della prestazione sulla popolazione di riferimento, cioè quanto essa ha interessato i residenti nei comuni oggetto della sperimentazione. L’incidenza dei beneficiari sulla popolazione è un indicatore, per quanto grossolano, del ruolo che il RMI può acquistare in contesti socio-economici profondamente diversi sia in relazione alle caratteristiche dei sistemi produttivi locali sia in relazione alla qualità del mercato del lavoro40. Naturalmente ci aspettiamo che l’incidenza delle domande e dei beneficiari sia maggiore nelle aree con maggiori difficoltà occupazionali (Sud) rispetto alle aree con condizioni occupazionali migliori (Nord e Centro). Fatto salvo questo punto, è importante ricordare che il RMI non deve essere inteso né come strumento per il sostegno del reddito dei disoccupati né come strumento per l’occupazione in senso proprio, ma come strumento che in alcuni casi può favorire la ricostruzione delle capacità soggettive di trovare e svolgere un’occupazione41. 39 9 dei 10 comuni del Centro sono localizzati nel Lazio; dei 5 comuni scelti per la sperimentazione nel Nord solo Rovigo supera, di poco, i 50mila abitanti, benché la povertà sia notoriamente concentrata nelle città di maggiori dimensioni. Inoltre, in molte regioni, anche popolose come l’Emilia-Romagna, il RMI non è stato sperimentato in nessun comune. Questa è una mancanza abbastanza grave perché limita la possibilità di valutare l’andamento della sperimentazione in contesti con sistemi di welfare locale assai diversi tra loro. 40 Non è qui il caso di affrontare la complessa questione del dualismo economico italiano (tra gli altri vedi Mingione, 1997; Mingione e Pugliese, 2002). La tabella che segue, che riassume sinteticamente alcuni indicatori del mercato del lavoro, mostra molto chiaramente come in Italia esistano almeno due regimi occupazionali distinti, uno al Nord e uno al Sud. Principali indicatori del mercato del lavoro per sesso e ripartizione geografica. Gennaio 2002 T. attività 15-64 T. disoccupazione generale T. disoccup. lunga durata T. disoccupazione 15-24 Fonte: Istat Nord 75,6 2,6 0,9 8,5 MASCHI Centro Sud 73,9 71,1 5,2 14,5 2,8 9,3 23,1 44,0 Italia 73,7 7,1 4,1 25,4 Nord 54,9 5,7 2,3 11,3 FEMMINE Centro Sud 50,5 36,5 9,7 27,2 5,5 19,3 26,3 61,4 Italia 47,4 12,5 7,7 31,5 Nord 65,4 3,9 1,5 9,8 MASCHI+FEMMINE Centro Sud 62,1 53,7 7,0 18,8 3,9 12,7 24,6 51,0 Italia 60,5 9,2 5,5 28,1 41 Nel DL 237/98, che istituisce il RMI, viene testualmente affermato che il RMI “è una misura di contrasto della povertà e dell'esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli”. Oggetto di intervento non è quindi meramente la condizione di disoccupazione, ma il rischio 28 Tab. 3.4. Domande presentate e accolte e totale beneficiari al 31.12.00 Abitanti* Presentate Accolte Totale beneficiari Nord 217.793 2.050 1.466 2.415 Centro 143.112 2.674 1.789 3.406 Sud e Isole 2.000.877 50.798 31.475 79.997 Senza Napoli 965.042 31.925 22.580 62.661 Totale 2.361.782 55.522 34.730 85.818 Beneficiari /abitanti 1,1 2,4 4,0 6,5 3,6 * Nei comuni ammessi alla sperimentazione Fonte: CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles e Istat Nei comuni delle regioni meridionali il 4% della popolazione residente è stato ammesso a fruire del RMI, contro un’incidenza quattro volte minore nei comuni settentrionali e della metà in quelli del Centro. Quindi una frazione significativa delle famiglie residenti nei comuni meridionali era in possesso dei requisiti, molto rigorosi e selettivi, per ottenere il RMI. In realtà, questo valore appare fortemente influenzato dal caso di Napoli, dove solo l’1,7% della popolazione residente ha ottenuto la prestazione, per un valore assoluto però molto elevato (17.336 persone) rispetto al totale dei beneficiari meridionali (79.997)42. Se esaminiamo i dati meridionali escludendo il caso di Napoli, scopriamo che la quota di beneficiari sulla popolazione cresce drasticamente, salendo al 6,5%, vale a dire sei volte il valore registrato nei comuni settentrionali: il peso dei potenziali beneficiari aumenta quindi in modo sostanziale. Non è tanto importante qui discutere la sostenibilità finanziaria del RMI, la cui generalizzazione all’intera popolazione italiana si stima possa costare tra € 2,22 miliardi e € 2,94 miliardi (CIES, 2001:47), un impegno sicuramente sostenibile e che rimanda la possibile generalizzazione ad una sufficiente volontà politica43. Ci sembra invece più interessante riflettere sulle conseguenze che una simile “rivoluzione” del welfare italiano potrà produrre sia dal lato dei beneficiari e dei sistemi sociali locali, sia dal lato del sistema di protezione sociale stesso e della sua capacità di gestire una prestazione di questo tipo. La tab. 3.11. allegata al presente capitolo, mostra differenze nella incidenza del RMI sulla popolazione locale difficilmente comprensibili in mancanza di un riferimento al ruolo degli enti locali e all’impatto che una misura di questo tipo può avere in alcuni contesti territoriali. È infatti difficile ipotizzare che in zone omogenee dal punto di vista socio-economico vi sia una così forte differenza nella diffusione del disagio e della marginalità sociale: nei 5 comuni calabresi l’incidenza dei beneficiari sugli abitanti oscilla tra il 3% e il 24,9%, nei 6 comuni in provincia di Enna tra il 6,7% e il 15,8%, in un comune campano si raggiunge il picco del 50,9% mentre nel vicino capoluogo di provincia ci si ferma al 6,2%. soggettivo e familiare di precipitare, anche a causa di una scarsità di risorse monetarie disponibili dovuta alla mancanza di un’occupazione, in una situazione di marginalità. Come sottolinea anche la CIES (2001:35) “il RMI non è una politica del lavoro e non può sostituirsi a una politica del lavoro”. È importante sottolineare questo aspetto perché utilizzare il RMI come strumento di indennizzo della disoccupazione non solo sarebbe in contrasto con le intenzioni del legislatore, ma soprattutto creerebbe in tutto il Mezzogiorno problemi difficilissimi di gestione e di sostenibilità politica e sociale della prestazione. 42 La sperimentazione a Napoli con tutta probabilità è stata influenzata proprio dall’ordine di grandezza dell’intervento che il comune si è trovato a gestire. In un primo momento, infatti, la sperimentazione doveva riguardare solo alcuni quartieri della città, come è avvenuto a Catania e Genova. Ragioni di opportunità e il timore di disordini nei quartieri esclusi hanno poi fatto propendere per l’estensione della sperimentazione all’intera città, senza però adeguare proporzionalmente il budget. Nel biennio a Napoli sono stati spesi circa 46 milioni di Euro, su un totale di spesa per le regioni meridionali di circa 201 milioni di Euro: a Napoli quindi è stato speso il 22,8% del totale destinato al Sud ma vi risiede il 51,8% della popolazione complessiva dei comuni che hanno testato il RMI. Ci sembra quindi evidente che a Napoli è stato necessario procedere ad una selezione più rigorosa che altrove. 43 Tanto per avere qualche termine di paragone, per assegni e pensioni sociali nel 1999 sono stati spesi € 2,1 miliardi, per il trattamento minimo delle pensioni € 21,5 miliardi nel 2000. Per l’innalzamento delle pensioni integrate al minimo, previsto dalla legge finanziaria 2002, sono stati destinati € 2,17 miliardi. 29 Tab. 3.5. Beneficiari RMI (persone di riferimento del nucleo familiare) per posizione sul mercato del lavoro Occupati In cerca di prima Disoccupati Non forze Totale occupazione lavoro Nord 16,9 4,0 36,7 42,5 100 Centro 8,6 8,3 64,2 18,9 100 Sud 12,4 18,5 53,5 15,9 100 Generale 12,2 15,7 53,0 19,0 100 Fonte: CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles Negli snodi istituzionali dell’implementazione del RMI hanno giocato un fortissimo ruolo alcuni condizionamenti esterni alla misura ma connessi agli “stili” locali di riproduzione sociale e al rapporto tra cittadini e istituzioni. In particolare, intendiamo qui sottolineare i fattori di contesto, soprattutto la qualità del capitale umano e sociale e quella del mercato del lavoro, e la forte persistenza di un uso distorto della politica, in quanto condizionato da pratiche clientelari. Questi fattori hanno esercitato forti pressioni sulla gestione della misura che, va ricordato, in molti comuni è stata la prima esperienza di sostegno del reddito di tipo “moderno”, fondata cioè su una concezione della cittadinanza come diritto piuttosto che come concessione. Prevedibilmente, l’introduzione di una così grossa innovazione nei contesti sociali più “deboli” ha creato significative difficoltà di percezione e gestione della domanda. Ne sono una prova gli episodi di protesta organizzata contro le amministrazioni in alcuni comuni calabresi e siciliani per la formazione delle graduatorie – che sono in contraddizione, per altro, con lo spirito del RMI – e i ritardi nell’erogazione degli assegni. Ma, soprattutto, l’attivazione della Guardia di Finanza nella provincia di Enna (Sicilia) ha portato alla denuncia di 859 beneficiari su 7.969 (11%) in sei comuni per truffa allo Stato e falsità nella documentazione personale. Si tratta di un episodio estremo che esprime chiaramente le difficoltà di implementazione di una misura come il RMI in contesti che sintetizzano diffusa povertà economica, elevata disoccupazione e lavoro nero, rudimentali sistemi assistenziali, una lunga tradizione di uso clientelare della politica e, non ultimo, una storica presenza della malavita organizzata. Qui il RMI è soggetto ad una serie di condizionamenti che rischiano di tradirne lo spirito e di trasformarlo in un generico indennizzo economico, dimenticando l’impegno per il reinserimento dei beneficiari, la parte cioè attiva e innovativa del RMI. Il tipo di nuclei familiari maggiormente favoriti dal RMI in questa fase sono stati soprattutto le coppie con figli, di dimensioni sensibilmente superiori rispetto alla media nazionale. Questo sbilanciamento è dovuto a due fattori legati tra di loro. Da una parte la diffusione della povertà in Italia colpisce soprattutto le famiglie di dimensioni maggiori, soprattutto quelle con 5 o più componenti, dall’altra parte queste stesse famiglie sono tipiche delle regioni meridionali, dove si sono concentrate le risorse della sperimentazione. Ne consegue che la sperimentazione fornisce minori indicazioni sulla sua efficacia per altri profili di povertà più diffusi al Nord, quali le persone sole44 e le coppie senza figli. Tab. 3.6. Confronto tra famiglie beneficiarie RMI e famiglie italiane per tipologia e ampiezza (%) RMI Italia RMI Italia 1 componente 13,6 22,9 Persona sola 13,6 22,9 2 componenti 13,5 25,8 Coppia con figli 64,2 44,2 3 componenti 24,6 23,2 Monogenitore 14,6 7,7 4 componenti 28,4 20,8 Coppia senza figli 5,4 19,5 5 o più componenti 19,1 7,3 Altro 2,2 5,7 Totale 100,0 100,0 Totale 100,0 100,0 Fonte: Istat, Indagine sui consumi della famiglie, 1997, nostre elaborazioni. 44 In realtà si tratta soprattutto di anziani che hanno beneficiato molto poco della misura in quanto sono già “protetti” dall’assegno e dalla pensione sociale. 30 3.3. I programmi di inserimento e gli esiti Uno dei presupposti per un efficace funzionamento del RMI è la capacità degli enti locali di elaborare e realizzare interventi attivi a favore della popolazione, di gestire e amministrare cioè strumenti che accompagnino l’individuo in un percorso di miglioramento della propria situazione e di superamento dei fattori di deprivazione. Come abbiamo mostrato in precedenza, l’Italia soffre storicamente di un notevole deficit nel campo degli interventi attivi di sostegno agli individui, un deficit che peraltro è fortemente diversificato sul territorio nazionale. A parte la diffusa debolezza su questo fronte dei Comuni, che detengono la titolarità di queste funzioni45, questa frammentazione territoriale viene amplificata dalla diversa diffusione e radicamento degli organismi del terzo settore (vedi tab. 3.7), in una fase politica di forte incoraggiamento della sussidiarietà. Tab. 3.7. Organizzazioni di volontariato e volontari per ripartizioni geografiche (1999) Popolazione N. organizzazioni % N. volontari % Nord 44,7 9.257 61,4 386.973 57,7 Centro 19,3 3.018 20,0 162.186 24,2 Sud 36,0 2.796 18,6 121.667 18,1 Italia 100,0 15.071 100,0 670.826 100,0 Fonte: Istat Pur prescindendo dalle conseguenze che un welfare che delega ampiamente l’organizzazione e l’erogazione delle prestazioni al terzo settore può produrre sul sistema di diritti soggettivi all’assistenza, permangono perplessità anche dal punto di vista del dialogo tra soggetti pubblici e soggetti del privato sociale. In breve, per i comuni meno attrezzati e che possono riferirsi ad un tessuto di organizzazioni no profit meno folto tende ad amplificarsi la difficoltà ad organizzare sistemi di servizi adeguati alla domanda. In questo senso risulta problematica la capacità di molti comuni, singoli o associati, di superare la cronica difficoltà di realizzare servizi alle persone. Quindi, anche in questo caso le zone meridionali, che soffrono per la maggiore presenza di soggetti bisognosi di intervento e che evidenziano la minore capacità di government, sono le stesse che possono riferirsi ad un tessuto meno ricco di iniziative provenienti dal terzo settore. Questo vale a maggior ragione per il RMI, la cui insistenza sull’aspetto dell’inserimento sociale dei beneficiari richiede sia una forte capacità organizzativa per coinvolgere tutti i soggetti attivi sul territorio nella erogazione di prestazioni specialistiche, sia una non indifferente capacità gestionale per evitare usi impropri o fraudolenti della misura. Come in altri studi è stato rilevato (Kazepov, 1996, 2000; Fargion, 1997; Kazepov e Orientale Caputo, 1998; Mingione, 1999), la capacità programmatoria e gestionale degli enti locali è altamente diseguale, in modo particolare nel campo dei servizi assistenziali, laddove molti comuni dispongono di strutture rudimentali quando non inesistenti. Nel caso del RMI, quindi, molti comuni meridionali evidenziano un doppio ordine di difficoltà – la debolezza del settore assistenziale e la rarefazione degli attori del terzo settore – che si somma alle difficoltà discusse precedentemente – la maggiore incidenza della domanda di protezione e promozione sociale e la maggiore diffusione di difficoltà occupazionali. La conseguenza di questo stato di cose è la scarsa partecipazione dei beneficiari nei comuni meridionali ai programmi di inserimento sociale, il punto qualificante del RMI. Così, se il 43,2% del totale dei beneficiari ha partecipato a programmi di inserimento, osserviamo una diversa incidenza nel Sud rispetto al Centro-Nord, soprattutto se escludiamo Napoli dove la totalità dei membri dei nuclei familiari beneficiari è stata coinvolta46. 45 Confermata e rafforzata dalla recente legge quadro di riforma dei servizi sociali (328/00). Una performance così elevata oltre che da Napoli con 17.336 partecipanti è stata raggiunta solamente da Monterosi con 14 partecipanti e da Isernia con 202. 46 31 Tab. 3.8. Beneficiari inseriti in programmi di inserimento al 31.12.2000 Beneficiari Beneficiari in % in programmi programmi di inserimento su totale beneficiari Nord 2.415 1.549 64,1 Centro 3.406 1.985 58,3 Sud 79.997 33.553 41,9 Senza Napoli 62.661 16.217 25,9 Totale 85.818 37.087 43,2 Fonte: CIES (2001:27) su dati Irs, Zancan e Cles Tab. 3.9. Distribuzione % beneficiari per tipo di programma47 e ripartizioni geografiche Nord Centro Sud Italia Occupazionale 21,7 7,8 15,1 14,9 Pubblica utilità 9,6 4,4 10,0 9,6 Formativo 3,9 19,1 11,5 11,6 Scolastico 17,9 28,3 13,5 14,5 Riabilitativo 12,8 12,4 1,2 2,3 Cura e sostegno familiare 12,6 12,1 21,4 20,5 Integrazione sociorelazionale 1,5 9,8 26,5 24,5 Altro 19,9 6,1 1,0 2,1 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: nostre elaborazioni su CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles I dati sulle persone inserite in programmi di inserimento (tab. 3.8. e 3.9.) mostrano chiaramente questo scarto tra dimensioni della domanda e capacità dell’offerta48. Si pone quindi un problema di efficienza amministrativa dei Comuni a fronte di situazioni sociali degradate, che solleva non poche perplessità rispetto alla capacità di gestire una misura complessa come il RMI. Questo aspetto, per altro, non dipende meramente né dalla ricordata debolezza istituzionale italiana nella gestione delle dinamiche sociali, né dalle disuguaglianze Nord/Sud nell’efficienza amministrativa. Il caso francese, infatti, è emblematico in quanto si tratta di un sistema amministrativo altamente centralizzato ed efficiente, nel quale tuttavia si manifestano diversità territoriali del tutto paragonabili a quelle italiane. L’evidenza empirica riconducibile all’esperienza del Revenu Minimum d’Insertion, gestita secondo uno schema di policy top-down, mette in chiaro come anche in Francia si producano esiti differenziati in relazione alla quantità e qualità dei percorsi di inserimento attivati e alla quota di beneficiari dell’assegno che vi partecipa49. In breve, la variabilità 47 Esemplificazione dei tipi di programmi: occupazionale Æ orientamento, tirocinio, apprendistato; pubblica utilità Æ manutenzione del verde, segretariato presso uffici comunali; formativo Æ formazione di base e professionale; scolastico Æ alfabetizzazione, recupero dell’obbligo; riabilitativo Æ percorsi per tossicodipendenti, disabili, alcolisti; cura e sostegno familiare Æ accudimento di anziani o minori, sostegno alle responsabilità genitoriali; integrazione sociorelazionale Æ volontariato sociale, aggregazione. 48 Siamo consapevoli del fatto che si tratta di dati non definitivi e di difficile interpretazione, ci sembra tuttavia che esprimano una diversa capacità gestionale ed amministrativa nei diversi comparti territoriali. Inoltre, la valutazione della qualità e delle attività effettivamente svolte non è, al momento, possibile per la mancanza di informazioni puntuali città per città. È però legittimo guardare con una certa diffidenza ad alcune attività di “reinserimento” di tipo occupazionale o formativo quando si è trattato di alcune ore di lavoro per attività di utilità pubblica, come la cura del verde, o di affiancamenti di tre mesi al personale comunale. 49 Vedi le considerazioni su Rennes e Saint-Etienne in Saraceno (2002:61-2) dove viene chiarita l’importanza delle condizioni locali sulle quali si innesta il RMI: a Rennes un’antica tradizione di intervento e di collaborazione tra pubblico e terzo settore, un sistema economico dinamico e terziarizzato, una scarsa incidenza dei problemi di povertà ed esclusione sociale; a Saint-Etienne una lunga e profonda crisi industriale che ha creato problemi occupazionali a generazioni di lavoratori e ha disgregato le vecchie forme di mutualità su base locale. Ne deriva che a Rennes ben il 75% dei beneficiari del RMI firma un contratto di inserimento, mentre a Saint-Etienne vi giunge solo il 24% (Saraceno, 2002:77n). 32 locale degli esiti delle politiche permane assai evidente anche in sistemi istituzionali diversi da quello italiano, suggerendo di evitare semplicistiche spiegazione fondate sulla passività o la negligenza dei soggetti istituzionali. I dati relativi alla sperimentazione del RMI in Italia non appaiono univoci e rendono particolarmente complesso formulare interpretazioni del loro andamento al di là del rimando alle peculiarità locali. Questo punto è messo chiaramente in luce dalle informazioni sui beneficiari usciti dalla misura, benché il periodo di sperimentazione del RMI sia ancora troppo breve per una valutazione accurata dell’impatto della prestazione e dei programmi di inserimento50 (vedi anche tab. 3.15. in appendice). Tab. 3.10. Nuclei familiari presi in carico e successivamente usciti dalla misura e beneficiari secondo alcune misure di esito, per ripartizioni territoriali Domande accolte Nord Centro Sud Italia 1.466 1.789 31.475 34.730 % nuclei usciti 32,0 28,3 7,5 9,7 Motivo uscita (v.a.) Beneficiari per esiti (v.a.) Superamento Abbandono Altro* Trovato Diploma Diploma bisogno occupazione scolastico professionale 252 285 1.181 1.718 113 134 198 445 104 87 820 1.011 232 114 527 873 59 28 2.257 2.344 101 43 3.444 3.588 * cambio di residenza, decesso, … Fonte: CIES (2001) su dati Irs, Zancan e Cles Anche questi dati vanno nella direzione dei precedenti, mostrando le maggiori difficoltà nei comuni meridionali a risolvere le situazioni di povertà: qui infatti solo il 7,5% dei nuclei beneficiari è uscito dalla misura, contro quasi un terzo nei comuni del centro-nord. Facciamo nostra l’osservazione della CIES (2001:35) secondo la quale “dato che il RMI seleziona individui e famiglie in situazione di grave deprivazione economica e in generale con un ridotto capitale sociale, non è sorprendente che la maggior parte dei suoi beneficiari fruisca ancora della misura a due anni dall’inizio, tanto più per la concentrazione nelle aree del paese economicamente meno dinamiche”. È emblematico il fatto che oltre un quarto di coloro che hanno trovato un’occupazione sia residente in uno dei comuni settentrionali, dove però è concentrato meno del 3% dei beneficiari. Al contrario, va interpretato in termini decisamente positivi il fatto che quasi il 20% (5.701) dei beneficiari meridionali abbia ottenuto un diploma scolastico o professionale, innescando quindi un processo di arricchimento del proprio capitale culturale spendibile sul mercato del lavoro. Si tratta di dati provvisori in quanto al termine della finestra di valutazione (31.12.00) erano inseriti in un percorso di recupero scolastico più di 900 persone; a questo vanno aggiunte le attività di contrasto all’evasione dell’obbligo scolastico e di sostegno alla frequenza per i minori in età scolare. Questo è, insieme al rientro dalla morosità abitativa, probabilmente il risultato di maggiore rilievo ottenuto nel primo biennio di sperimentazione in relazione all’impatto del RMI sulla vita dei beneficiari. Si tratta, infatti, di un segnale altamente positivo che conferma la possibilità di avviare percorsi di promozione sociale e di (ri)conquista dell’autonomia socio-economica. 50 A questo si aggiunga che la valutazione non ha previsto analisi di tipo longitudinale sui beneficiari, di modo che non è possibile riflettere in modo puntuale sull’impatto del RMI e dei programmi di inserimento sulle condizioni di bisogno soggettivo. 33 4. Note conclusive: valutazioni e prospettive 4.1. Valutazioni sulla sperimentazione del RMI I risultati della sperimentazione permettono solamente alcune limitate e parziali considerazioni sugli outcomes del RMI, sui quale ci soffermeremo nella prima parte di queste conclusioni. Nella seconda parte cercheremo di discutere alcuni spunti critici sulla prospettiva di generalizzare il RMI a tutto il territorio nazionale. Tra gli esiti positivi della sperimentazione va sottolineato il fatto che sono state risolte numerose situazioni di povertà: nuclei familiari che versavano in condizioni di grave scarsità di risorse monetarie51 e che non ricevevano alcuna forma di sostegno hanno visto elevato il proprio tenore di vita. Soprattutto nel meridione, dove spesso i Comuni non sono in grado di offrire un contributo al reddito (minimo vitale) di consistenza più che simbolica, l’introduzione del RMI costituisce un significativo passo avanti anche solo in direzione di fornire una “ultima” sponda assistenziale52. Questo è un aspetto delle misure di reddito minimo certamente prioritario rispetto alle considerazioni critiche che possono essere sollevate. Le annotazioni in CIES (2001:VI-VII) rilevano altri importanti segnali positivi emersi durante il biennio di sperimentazione, legati prevalentemente all’effetto del RMI sull’organizzazione dei servizi e sul rapporto cittadini-istituzioni, nonché ad alcune aree problematiche specifiche (evasione scolastica, morosità, indebitamento). I fattori critici, segnalati sempre dalla CIES (2001:VII), riguardano soprattutto problemi gestionali (individuazione degli ambiti territoriali, strumenti di controllo), le difficoltà di collaborazione inter-istituzionale, i problemi di integrazione tra RMI e altre politiche sociali (lavoro e sviluppo locale). Significativamente, poco o nulla emerge sulla soluzione effettiva delle situazioni di povertà, sulla rimozione cioè delle cause che producono povertà a livello individuale o familiare. Ma questo è il principale obiettivo di fondo del RMI: l’insistenza sulla dimensione dell’inserimento tramite la definizione di contratti vincolanti tra l’ente locale (che si impegna ad attivare percorsi individuali di riqualificazione, di formazione, educativi, sanitari, etc.) e il beneficiario (che si impegna a rispettare le attività previste nel contratto) costituisce uno degli elementi qualificanti del RMI. Il periodo di sperimentazione è stato troppo breve per consentire di giungere ad una vera e propria valutazione di efficacia dello strumento, della sua capacità cioè di risolvere in modo definitivo situazioni di povertà legate non solamente alla dimensione monetaria ma più in generale alla capacità soggettiva di soddisfare le necessità di una vita dignitosa. Anche da una esperienza parziale e limitata nel tempo, come quella della sperimentazione italiana, emergono comunque timidi segnali positivi sugli effetti dell’attivazione del RMI sugli assetti organizzativi del welfare locale. L’implementazione del programma infatti promuove importanti mutamenti nella struttura organizzativa dell’assistenza locale: una più elevata professionalità degli operatori per poter passare dalla valutazione standardizzata dei mezzi alla elaborazione dei programmi di inserimento; l’attivazione e il potenziamento degli accordi con istituzioni private e del terzo settore, il che comporta anche qui sia la promozione di nuovi attori sia un aumento di professionalità rispetto alle forme tradizionali dell’intervento caritativo e di solidarietà sociale; la promozione di attori istituzionali intermedi che rappresentino gli interessi e i bisogni di una platea differenziata di beneficiari; lo sviluppo di capacità complesse di coordinamento da parte dell’ente locale per mantenere sotto controllo un apparato complicato. Su questo fronte oltre ai timidi segnali positivi ci sono anche notevoli indicazioni di difficoltà che andranno prese in seria considerazione al momento di mettere a regime il programma. Sia i piccoli comuni sia quasi tutti i comuni 51 Gravi perché, come abbiamo visto, la soglia di reddito prevista per accedere alla prestazione era decisamente severa: € 268,6 nel 2000 per una famiglia composta da 1 persona, € 421,6 per una composta da 2 persone e così via. 52 Si veda nel riquadro sui livelli dell’assistenza comunale preesistenti nei Comuni soggetti alla sperimentazione la consistenza estremamente esigua dei minimi vitali corrisposti (là dove esistono) nel meridione. Nella ricerca Esopo (Saraceno, 2002) il caso di Cosenza è risultato particolarmente difficile da comparare proprio perché il minimo vitale è di un ammontare irrisorio (tra i 100 e i 200 Euro) e viene corrisposto una volta all’anno a pochi richiedenti, spesso selezionati con criteri altamente discrezionali. 34 meridionali denunciano un deficit considerevole nella adeguatezza e professionalità degli uffici e nella sponda delle istituzioni ausiliarie di intermediazione e attuazione dei programmi di inserimento. Se il RMI risolve le distorsioni tipiche dell’autonomia e della ciclicità del finanziamento locale non è invece in grado di affrontare meccanicamente altri problemi come l’inadeguatezza delle risorse professionali e la diseguale presenza del terzo settore esistenti su scala locale o la capacità di coordinamento tra istituzioni pubbliche, come il ruolo delle Regioni o la formazione di consorzi tra piccoli comuni. Quest’ultimo elemento non è emerso da una sperimentazione che ha avuto un carattere poco sistematico e sporadico anche nelle Regioni meridionali - dove si è concentrato l’intervento - ma andrà senz’altro affrontato nella messa a regime del programma. 4.2. Le prospettive del RMI all’interno del sistema di welfare italiano Venendo alla questione dell’integrazione del RMI all’interno del sistema di welfare italiano, le indicazioni emergenti dall’implementazione sollevano un punto delicato in vista della possibile messa a regime: essendo concepito come strumento di ultima istanza destinato a ristabilire condizioni di vita accettabili, il RMI non dovrebbe essere gestito come mero sostegno del reddito per soggetti e nuclei familiari deboli dal punto di vista occupazionale. Il RMI non può, cioè, supplire le politiche dell’occupazione e la debolezza degli ammortizzatori lavorativi e degli itinerari di formazione professionale. Alcuni fatti di cronaca legati alla sperimentazione, per esempio l’occupazione di alcuni municipi meridionali, sembrano segnalare invece un diverso significato attribuito alla prestazione in contesti locali ad elevata incidenza di disoccupazione e lavoro nero. Qui, il RMI rischia di assumere la valenza di un indennizzo per la condizione di sostanziale inoccupabilità di alcuni soggetti con responsabilità familiari53, un uso che rischia di snaturare lo spirito del RMI e di creare un’aspettativa assistenzialistica generalizzata. Per evitare un rischio di questo tipo e la riproduzione di vecchie logiche clientelari e personalistiche nella regolazione del welfare italiano, l’ambito assistenziale deve mantenersi quindi chiaramente distinto da quello delle politiche del lavoro, costruendo però dei collegamenti istituzionali che consentano l’attivazione di percorsi di (ri)costruzione delle capacità soggettive di lavorare54. L’applicazione del RMI presuppone dunque, innanzitutto, un rafforzamento del sistema di interventi e indennizzi di taglio occupazionale, di modo che giungano al RMI solamente le situazioni che non possono ricorrere a sostegni fondati su un diverso rapporto tra individuo e istituzioni. Inoltre, nell’implementazione della misura va prestata molta attenzione al versante dei programmi di inserimento, e a tutto ciò che questo comporta, per non riprodurre aspettative assistenzialistiche tipiche di altre prestazioni55. Quindi la prima considerazione critica sulle prospettive del RMI è che la messa a regime del programma non può costituire un alibi per non affrontare altri tipi di deficit nel sistema di welfare italiano - soprattutto nelle regioni meridionali travagliate da una cronica crisi occupazionale - quale la debolezza delle politiche del lavoro, degli ammortizzatori a favore dei disoccupati (dove, come abbiamo visto nel primo e nel secondo capitolo, l’intervento pubblico è estremamente modesto rispetto a quello di tutti gli altri grandi paesi europei) e della formazione professionale. Anzi, la messa a regime del programma senza un contestuale rafforzamento di questi comparti di welfare rischia di produrre una degenerazione del programma, a partire soprattutto dalle regioni meridionali. Se proprio nel meridione è più urgente l’introduzione di una misura di reddito minimo che supplisca alla incapacità finanziaria e operativa delle autonomie comunali di implementare programmi minimamente significativi su questo fronte, è sempre qui che si deve evitare che una misura 53 Potrebbe insomma ripetersi la storia del vecchio assegno di invalidità ante-lege 222/84, che veniva concesso a chi non era in grado di lavorare per ragioni sociali (Boccella, 1982). 54 Ovviamente per coloro che conservano capacità lavorative. Un discorso del tutto diverso deve essere fatto per coloro che non sono più in grado di lavorare, per i quali il percorso di inserimento riguarda il recupero delle capacità di affrontare autonomamente, o nel modo migliore possibile, le esigenze quotidiane. 55 Si pensi alla vicenda, socialmente e politicamente delicatissima, del lavori socialmente utili. 35 assistenziale si trasformi in un palliativo cronico alle storiche difficoltà di un mercato del lavoro poco dinamico e con elevati livelli di informalità e precarietà. Una seconda questione critica riguarda l’architettura istituzionale del programma, e particolarmente il ruolo che dovrebbero svolgere le Regioni. La sperimentazione si è basata su un asse stretto tra governo centrale, che finanzia e fissa le regole e gli standard di attuazione, e Comuni, che implementano l’intervento. In termini giuridici, questa architettura è stata superata sia dalla legge di riforma dell’assistenza sia, soprattutto, dalla devolution costituzionale delle competenze assistenziali alle Regioni approvata dal Parlamento nel 2001. A partire da questi due provvedimenti legislativi nel ridisegnare l’impostazione istituzionale della messa a regime si dovrà fissare un ruolo per la Regione. Da un punto di vista sostantivo, il ruolo intermedio della Regione potrebbe permettere di articolare maggiormente le caratteristiche di base del programma per venire incontro ai bisogni specifici del territorio, prestando però attenzione a non perdere di vista il suo significato di misura universalistica. L’importanza del locale, anche nella programmazione dell’architettura istituzionale di governo del RMI, si conferma centrale, in quanto una corretta amministrazione della misura presuppone la capacità di tararlo in base alle necessità e alle risorse locali. Ma restano aperti alcuni problemi di non facile soluzione: il ruolo da attribuire alle regioni; l’organizzazione di consorzi di Comuni che supplisca alle difficoltà di attuazione nei contesti di piccola dimensione; le modalità con le quali il controllo dello Stato centrale garantisce l’attivazione universalistica del diritto fondamentale a un tenore di vita minimo, pur in contesti locali con caratteristiche e profili di povertà molto diversi. In sintesi, quindi, si deve riconoscere agli enti locali un certo grado di autonomia a un doppio livello (le Regioni e i Comuni) nella definizione del quadro locale e dei dettagli di attuazione del RMI – per esempio nel calcolo di determinati aspetti del reddito, come l’affitto, o nella gestione dei rapporti con gli organismi del terzo settore – accompagnata però da una attenta, e severa, opera di controllo da parte di organi nazionali. La terza area critica è data dalla possibile polarizzazione tra circuiti virtuosi e viziosi nell’attuazione del programma, laddove i Comuni di media dimensione del Centro-nord sono avvantaggiati e molti Comuni meridionali sono penalizzati. Nel primo caso la valorizzazione ulteriore di competenze amministrative pubbliche, lo sviluppo degli accordi con enti privati e del terzo settore, che a loro volta risultano potenziati, e il governo efficace di un processo complesso e articolato di itinerari di inserimento finisce per aumentare risorse e capacità di intervento già abbondanti, mentre nel secondo caso può avvenire esattamente l’inverso. In questo senso la messa a regime del RMI va anche accompagnata da misure che permettano un arricchimento delle potenzialità organizzative, professionali e del terzo settore in quei contesti che oggi risultano deficitari. Analogamente, lo abbiamo accennato più volte, i Comuni di piccole dimensioni vanno messi in grado di operare attraverso consorzi o associazioni tra Comuni, che in Italia però si sono sempre rivelate difficili e complicate a causa della forte identità campanilistica. Anche in questo caso ci sono alcuni contesti multi-comunali organizzati, come le Comunità montane o i distretti sanitari, ma in generale il problema va affrontato, probabilmente utilizzando il ruolo dell’Autorità regionale per consolidare rapidamente efficaci ed omogenee aggregazioni di Comuni e dotarle degli strumenti operativi necessari per implementare efficacemente il RMI. In conclusione l’introduzione del RMI in Italia può avere degli effetti molto positivi ad alcune condizioni: 1) che sia accompagnato e non alternativo a misure di rafforzamento del welfare occupazionale (politiche del lavoro e dell’inserimento lavorativo, ammortizzatori sociali e formazione professionale); 2) che l’architettura istituzionale sia calibrata sia per garantire sufficienti margini di autonomia ai due livelli locali dell’implementazione comunale e del controllo organizzativo regionale, senza pregiudicare tuttavia l’omogeneità universalistica del diritto a uno standard di vita che permetta l’inserimento nella propria comunità; 3) che l’attuale deficit organizzativo, professionale e di supporto del terzo settore nei comuni piccoli e, soprattutto, nella grande maggioranza dei comuni meridionali sia colmato prima di tramutarsi in un circuito vizioso di degenerazione del programma stesso. 36 La lezione generale che, in conclusione, possiamo trarre dalla sperimentazione del RMI è che esso non produrrà gli effetti desiderati se verrà introdotto meccanicamente all’interno di una struttura di welfare pubblico debole, sbilanciata, iniqua ed inefficace come quella italiana56. Il RMI può svolgere un’efficace funzione di difesa del benessere dei segmenti più svantaggiati della popolazione solamente a patto che venga incorporato e sostenuto da una nuova visione del welfare, nella quale siano affermati contemporaneamente la responsabilità nazionale nelle scelte di fondo e la centralità degli attori istituzionali locali nella declinazione dei principi generali. In questa direzione si muove la legge di riforma dell’assistenza. Nei propositi del legislatore il sistema assistenziale è destinato ad una profonda ristrutturazione sia del panorama delle prestazioni, sia dell’approccio al governo e alla programmazione, sia infine del sistema di finanziamento. È una legge che delinea articolati meccanismi istituzionali di governo del settore assistenziale nei quali intervengono in fasi e con funzioni diverse i vari livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni), riconoscendo inoltre formalmente il ruolo del terzo settore sia in fase programmatoria sia in fase erogativa. Si tratta, certamente, del giusto approccio ai nuovi bisogni di protezione sociale espressi in questi anni dalla popolazione, che trovano nel RMI una risposta necessarie e, potenzialmente, efficace. Le indicazioni che emergono dalla sperimentazione, però, ci sembra impongano alcuni adeguamenti della disciplina della misura, sia in direzione di una maggiore flessibilità a vantaggio degli enti locali nella declinazione dei dettagli del RMI, sia in direzione di un maggiore controllo di efficacia57 da parte delle istituzioni centrali. 56 57 Come tante analisi hanno sottolineato; tra i tanti vedi Ascoli (1984), Paci (1989), Ferrera (1984; 1998). E non solamente burocratico e contabile, come fino ad oggi è avvenuto. 37 Riferimenti bibliografici. Alber, J. 1986 Dalla carità allo Stato sociale, Il Mulino, Bologna Andreotti, A. 2002 Le reti come vincolo e risorsa. Le donne in condizione di bisogno economico a Milano, Tesi di Dottorato, Università di Trento Andreotti, A. and E. 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