Lectio magistralis del Prof. Giovanni Puglisi al Convegno internazionale di studi – Lucca, 9 marzo 2013 Lectio magistralis del Presidente della Commissione Nazionale Italiana per l'UNESCO Prof. Giovanni Puglisi al Convegno internazionale di studi a Lucca, sabato 9 marzo 2013 Il linguaggio universale della musica e dell’arte per un’etica globale Convegno internazionale di studi – Lucca, 9 marzo 2013 C’era un colle, e sul colle una radura perfettamente piana che un prato colorava di verde. Non c’era ombra in quel luogo; ma quando il poeta divino si sedette lì e toccò le corde sonanti, l’ombra venne in quel luogo: venne la pianta della Caònia, non mancò il bosco delle Elìadi, non il rovere dalle alte fronde, né i molli tigli né il faggio e il vergine alloro, né i fragili noccioli e il frassino buono per le lance, e l’abete senza nodi e il leccio che s’incurva per le ghiande, e il platano festoso e l’acero che trascolora, insieme ai salici che vivon sui fiumi […] Con questo vivido elenco arboricolo – cui di seguito si aggiungeranno ancora il bosso sempre verde e le tamerici tenui, le palme snelle e il pino dall’ispido capo – Ovidio descriveva, nel decimo libro delle Metamorfosi, il pubblico naturale che si radunava intorno ad Orfeo, il poeta di Tracia, che con il suo canto ammaliava le selve e l’animo delle bestie, e attirava anche le pietre. Ho voluto richiamare, in apertura del mio intervento, il mito di Orfeo, giacché esso costituisce senza dubbio una delle narrazioni che fondano, almeno nell’immaginario degli uomini e delle donne, figli – come sono io – della cultura greco-romana, l’idea che la musica possieda un linguaggio universale, in grado di superare qualsiasi barriera e di colmare qualsiasi differenza, non solo quelle che dividono gli esseri umani tra loro, ma persino quelle che li separano dai mondi animale, vegetale e minerale. D’altra parte, però, l’arduo e lusinghiero compito che mi è stato affidato, quello di aprire il convegno internazionale di oggi con una mia riflessione introduttiva, esige che io mi distacchi – per quanto possibile – dalle radici classiche del mio immaginario e consideri il tema proposto alla nostra attenzione, ovvero Il linguaggio universale della musica e dell’arte per un’etica globale, da molteplici punti di vista: addirittura, richiede che ne metta in discussione gli assunti di base, con la speranza – così facendo – di offrire più di uno spunto al dibattito. In effetti, il titolo scelto dalla Federazione mondiale club e centri UNESCO, all’apparenza così rassicurante e benevolo – incentrato com’è sull’assunto tutto unescano per cui la cultura, in questo caso declinata come musica ed arte, costituisce un elemento fondamentale per la costruzione di un’etica condivisa e condivisibile – merita a mio parere una riflessione più approfondita, nel tentativo di mettere in luce i singoli elementi che ne compongono la complessità. Metterò a frutto, dunque, la mia passione per la destrutturazione del linguaggio e cercherò di scomporre il nostro titolo - Il linguaggio universale della musica e dell’arte per un’etica globale – nelle sue diverse componenti. Innanzitutto, il titolo del Convegno odierno individua due ambiti specifici della creatività umana, la “musica” e l’“arte” (intendendo quest’ultima nella sua accezione più ristretta di “arti figurative”), i quali ambiti – loro e non altri – sarebbero caratterizzati dal possesso di un codice espressivo, ovvero di un linguaggio, “universale”, comune cioè a tutti gli essere umani e per tutti gli esseri umani comprensibile. L’esistenza di un simile “linguaggio universale” è ciò che giustifica, nel nostro titolo, l’estrapolazione di queste due “singole arti” dal più ampio insieme dell’“arte”, che comprenderebbe ad esempio anche la letteratura, nonché dall’amplissimo settore della “cultura”, che comprende – oltre a tutte le espressioni artistiche – anche tutte le espressioni intellettuali (filosofiche, morali ecc) e scientifiche prodotte dall’essere umano. In realtà, a ben vedere, nel mondo antico la distinzione tra i diversi settori della vita artistica ed intellettuale dell’uomo non era affatto così netta: nell’antica Grecia l’aggettivo μουσικός/mousikos indicava non esclusivamente la “musica” bensì tutto ciò che apparteneva alle Muse; il termine μουσική/mousiké, ovvero “musica”, è derivato dall’unione del suddetto aggettivo μουσικός/mousikos con il sostantivo τέχνη/techne, che evidenzia la componente “scientifica” della composizione e dell’esecuzione musicale; la fama del cantore Orfeo, dal cui mito abbiamo preso le mosse, era connessa tanto alle sue abilità di musico, quanto a quelle di poeta; lo stesso Platone, che pure ne La Repubblica condannava ogni forma di arte in quanto “imitazione della realtà” che a sua volta sarebbe “imitazione del mondo delle idee”, salvava da tale condanna la musica, i cui caratteri scientifici secondo il filosofo la ponevano nell’ambito della ragione, fino a farla identificare con le più alte vette – filosofia altissima scriveva - della filosofia. Per quel che riguarda le arti figurative, poi, chi di noi potrebbe mai negare la profonda compenetrazione tra tecnica, arte, scienza, letteratura e pensiero filosofico, quando si fermi a considerare l’opera di artisti come Leonardo da Vinci, Michelangelo, William Blake o René Magritte? Da questo punto di vista, la scelta odierna di concentrare l’attenzione del dibattito esclusivamente su musica e arti figurative può apparire riduttiva; e non sarà sufficiente un generico richiamo all’ancestralità delle pitture murali nelle caverne o al “ritmo del cuore” che scandisce intimamente le nostre coscienze fin dalla fase prenatale dell’esistenza umana, per giustificare l’espulsione di tutte le altre Muse dal monte Elicona. In altre parole, non possiamo dimenticare che l’arte e la musica – come ogni creazione dell’essere umano – vivono in una dimensione geografica e storica precisa; che il loro linguaggio si evolve, si modifica e si differenzia nello spazio e nel tempo, codificandosi di volta in volta in forme e modi spesso difficilmente accessibili per chi appartenga a una diversa epoca o latitudine. Ciò è dimostrato, se non altro, dalla difficoltà con cui un lettore moderno – le cui facoltà cognitive abbiano perso la capacità di distinguere tra vocali lunghe e brevi – si accosta alla metrica quantitativa della tradizione classica, o dalla fatica che comporta per un ascoltatore occidentale identificare come “musica” i suoni staccati dello shamisen che accompagnano le interpretazioni del teatro Nô giapponese. Ciò che è “universale” nell’arte e nella musica, dunque, non è il linguaggio, ché anzi è storicamente determinato, bensì la necessità dell’essere umano di comunicare i propri sentimenti e stati d’animo e di esprimere la propria visione del mondo e della realtà attraverso le immagini e i suoni, ivi compresi il suono e il ritmo della parola: a questa universale necessità dobbiamo fare riferimento – a mio parere – nei seguiti del nostro dibattito, allo scopo di non mortificare la diversità delle espressioni culturali dei popoli del pianeta e, contemporaneamente, di non tradire la ormai profonda complessità culturale dei sistemi espressivi utilizzati dall’homo sapiens. Detto ciò possiamo tornare al complesso titolo della Lectio ed avviare l’analisi della sua seconda parte, nella quale si trova un’asserzione che è contemporaneamente un’esortazione e un auspicio: che il linguaggio universale della musica e dell’arte sia utilizzato per la promozione di un’etica globale! Di certo, la storia è ricchissima di episodi che dimostrano come l’immediatezza del linguaggio musicale e artistico – di nuovo: immediatezza all’interno di un codice espressivo e di un’estetica delimitate nel tempo e nello spazio – abbia saputo esprimere, veicolare, diffondere e rafforzare precise posizioni etiche: come dimenticare il ruolo di Guernica nella condanna della violenza della guerra e dei regimi totalitari? Una condanna che - espressa tanto dalla scioccante violenza delle immagini quanto dalla posizione di Picasso, che rifiutò di esporre Guernica in Spagna fino a che fosse sopravvissuto il regime franchista - pesa ancora oggi in modo potentissimo sulle coscienze di ognuno di noi, e finanche dei vertici delle Nazioni Unite. Non a caso, nel 2003, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, gli amministratori del Palazzo di Vetro a New York hanno scelto di coprire l’arazzo che riproduce il celebre dipinto con un velo azzurro, in modo che esso non fosse inquadrato durante le conferenze stampa che annunciavano la guerra! Essi sapevano, come sappiamo noi, che l’opinione pubblica sarebbe stata inevitabilmente colpita dal monito di Guernica e avrebbe smascherato la patente contraddizione insita nello slogan della “guerra giusta” che l’allora Segretario di Stato americano Colin Powell declamava dai microfoni della sede ONU. La storia della musica, poi, è costellata di momenti nei quali movimenti o singoli protagonisti della scena musicale hanno saputo interpretare le istanze etiche di intere generazioni e gruppi sociali, contribuendo alla costruzione di vere e proprie “narrazioni” nazionali, sociali, generazionali. Penso, ad esempio, al modo in cui la lirica italiana si è fatta – in particolar modo attraverso le partiture di Giuseppe Verdi, del quale in questo 2013 l’UNESCO festeggia il duecentesimo anniversario della nascita – portavoce delle istanze del Risorgimento italiano. Ecco il racconto che fece di quel momento, con gli accenti patetici che un altro dopoguerra, quello successivo alla Liberazione, imponeva, il musicologo Massimo Mila: “Il risveglio politico dell’Italia a ideali di libertà trasformò, intorno al 1830-40, gli orientamenti del melodramma. […] Dalla propria musica l’Italia aspettava confusamente qualche cosa di nuovo, un accento più virile ed eroico che rispondesse all’entusiasmo patriottico della gioventù liberale”. S’incarnarono “questi nuovi accenti” nell’opera di Giuseppe Verdi, attraverso cui – scrive ancora Mila – “ la musica italiana, aulica e aristocratica per lunga tradizione, scoprirà il popolo” e, nel grido “Viva V.E.R.D.I.!” con cui i nostri risorgimentali inneggiavano a Vittorio Emanuele re d’Italia, si cristallizzò la nuova indissolubile unione tra Opera e identità nazionale italiana. Penso al modo in cui il Blues prima, e soprattutto, il Jazz poi – che dall’anno scorso l’UNESCO celebra ogni anno attraverso l’istituzione della Giornata mondiale del jazz il 30 aprile - non a caso esiste la giornata mondiale – hanno saputo incarnare la ferma volontà di emancipazione e dare voce alla protesta di milioni e milioni di donne e uomini afroamericani. Penso al modo, ancora, in cui la musica Jazz ha saputo non solo comunicare, ma finanche favorire il processo di emancipazione degli afroamericani nella società occidentale, con la sua peculiare capacità di mettere in contatto e far dialogare tra loro culture diverse, attraverso la fusione tra la melodia e l’armonia della musica strumentale di tradizione europea e i ritmi propri della musica africana. Penso, poi, al ruolo che i Beatles hanno ricoperto nella nascita del movimento di contestazione giovanile negli anni Sessanta, o a quello assunto dai “cantautori della protesta” degli Settanta, e mi riferisco ad esempio a Bob Dylan e Fabrizio De Andrè, i quali – attraverso l’unione di musica e testo, dei ritmi folk dei cantastorie e del lessico e dell’elaborazione rimica di una tradizione lirica centenaria – hanno raggiunto intere generazioni, educandole niente di meno che all’espressione poetica della propria rabbia, critica sociale, volontà di cambiamento. Penso, infine, al suono spensierato di quelle chitarre che – con la nascita del rock and roll – hanno saputo interpretare i sogni e le speranze della gioventù post bellica negli Stati Uniti e in Europa, e contemporaneamente penso al modo in cui l’erede di quelle stesse chitarre ha espresso simbolicamente la fine di quelle speranza, frantumate dalla morte di centinaia di migliaia di giovani americani in Vietnam. Era il 1969, e dal palco di Woodstock Jimi Hendrix distorceva con la sua chitarra elettrica l’inno degli Stati Uniti d’America, quello stesso inno che pochi decenni prima aveva rappresentato per interi popoli la liberazione dall’oppressione nazionalsocialista e fascista, mostrando, ad un’intera generazione e iscrivendo a caratteri di sangue nella storia dell’umanità, come la prima vittima della guerra in Vietnam fosse stata lo spirito del popolo americano. Se dopo questa lunga carrellata di esempi vi fossero ancora dubbi sul rapporto strettissimo che lega espressioni artistico-musicali e costruzione e promozione di un pensiero etico (secondo l’interessante e provocatoria tesi di un dottorando in filosofia dell’Università di Torino, Leonardo Caffo, addirittura sarebbe “artistico solo ciò che rappresenta istanza etiche”), invito il pubblico qui presente a riscoprire la vera e propria “funzione educativa” nei confronti dei giovani che intere civiltà hanno attribuito alla musica: dalla “dottrina dell’ethos” di matrice pitagorica, secondo la quale i diversi “modi” della musica erano in grado di produrre diversi effetti sull’animo degli esseri umani e pertanto erano utili nell’indirizzare gli animi dei giovani verso il bene, alla tradizione filosofica cinese, secondo cui la musica era considerata parte di un complesso sistema cosmologico (dalla e nella perfetta esecuzione musicale dipendono e si rispecchiano – secondo tale filosofia - i delicati equilibri tra cielo e terra, tra potere imperiale e popolo) e, come tale era destinata a perfezionare l’educazione delle giovani menti; fino al ruolo – certo non esclusivamente nozionistico – che la musica ricopriva nel tardo antico e medievale sistema delle “arti liberali”: secondo Sant’Agostino esse – tra le quali, nel Quadrivio, la musica – avevano il compito di preparare alla conoscenza dell’anima e di Dio. Ma eccoci arrivati finalmente all’ultimo elemento in cui ho scelto di scomporre il titolo di questa Lectio: in effetti, esso non è incentrato sul ruolo che “il linguaggio universale della musica e dell’arte” possono avere per la promozione di un generale pensiero etico, bensì sulla loro capacità di sostenere “un’etica globale”. Sul senso di tale espressione dobbiamo intenderci, giacché essa ha assunto negli ultimi anni diversi significati, dei quali oggi scelgo di segnalare, paradossalmente insieme, solo il più esteso e il più circoscritto. Nel suo significato più ampio, l’espressione “etica globale” fa da contraltare alla “globalizzazione economica” e rimanda all’insieme di questioni etiche che essa pone: in un mondo fortemente interconnesso, in cui le economie sono interdipendenti, lo sfruttamento delle risorse energetiche e ambientali del pianeta si ripercuote su tutti i suoi abitanti, in cui il progresso scientifico e tecnologico crea nuove opportunità di sviluppo e al tempo stesso di distruzione, i movimenti migratori di massa e la “connettività” delle nuove tecnologie mettono sempre più spesso a contatto culture diverse, anche le posizioni etiche – come quelle economiche, politiche, di sicurezza – devono essere valide a livello mondiale. Vi è poi, come accennavo prima, una seconda accezione dello stesso termine, che rimanda a un significato più specifico: con “etica globale” ci si riferisce, infatti, all’insieme delle posizioni etiche espresse dal sistema dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e delle diverse Agenzie che ne fanno parte, in particolar modo – secondo alcuni – l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Esso costituirebbe un sistema etico globale non solo per la dimensione planetaria delle questioni che affronta, ma soprattutto perché alla sua elaborazione concorrono le rappresentanze della stragrande maggioranza dei popoli del pianeta (195 sono ad esempio gli Stati membri dell’UNESCO). A tale “etica globale” – in continua trasformazione ed evoluzione – appartengono i concetti che ci sono ormai familiari di sviluppo sostenibile, dialogo interculturale, coinvolgimento della società civile nei processi democratici, di volta in volta elaborati o adottati nelle sedi del dibattito internazionale come strumenti privilegiati per il raggiungimento dello scopo ultimo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: la costruzione e il mantenimento di una pace duratura e giusta. Ecco quindi che l’asserzione, l’auspicio, l’invito enunciati nel titolo del Convegno che si appresta ad iniziare – Il linguaggio universale della musica e dell’arte – acquista dei contorni più precisi, e si può tradurre con le seguenti domande: con quali mezzi le espressioni creative dell’uomo, e in particolare la musica e le arti visive, possono contribuire alla diffusione e alla realizzazione degli ideali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, e in particolare della loro Agenzia dedicata all’Educazione, alla Scienza e alla Cultura? In che modo l’arte e la musica possono contribuire davvero alla costruzione della pace? Sono certo che, nel dibattito che seguirà, ascolteremo risposte a queste domande e valuteremo proposte. Ma il rischio che la discussione odierna si mantenga su posizioni astratte è alto: per scongiurarlo almeno in parte, vorrei chiudere questa mia Lectio, raccontandovi una storia. Questa ha inizio nel maggio del 2006 a Reggio Calabria, dove il grande Direttore d’orchestra Riccardo Muti si trovava per un concerto. La sera, trovandosi a cena con un esponente delle Amministrazioni locali, il Maestro avrebbe chiesto al commensale – un po’ provocatoriamente, come del resto suo costume – di individuare due eccellenze del territorio calabrese. Vi leggo il resoconto che fanno - della cena e dei suoi seguiti - alcune testate giornalistiche calabresi on line: La risposta fu secca: il bergamotto. E una banda di un paese dell'Aspromonte, Delianuova. Il Maestro non conosceva il bergamotto. Mentre l'Aspromonte - quello sì - era conosciuto. Come luogo di malaffare e rifugio di persone attigue alla criminalità organizzata. Muti fu incuriosito dalla grande iniziativa di un farmacista di Delianuova, Scerra, che, raccolti molti giovani, li aveva affidati a due musicisti, Managò e Pisano, costituendo un complesso molto affiatato. Al Teatro Francesco Cilea, qualche mese dopo, durante le prove dell'orchestra Cherubini, Muti fece salire sul palco i giovani di Delianova, per ascoltarli suonare. Erano emozionati, ma eleganti e composti. Un brano, due. Il maestro esclamò: "Ma questi sono musicisti!". Li ascoltò a lungo, li applaudì e con lui tutti i giovani della Cherubini. Commovente. I giovani del famigerato Aspromonte. Da quel momento Muti rilasciò interviste al Corriere, a Repubblica, descrivendo quei ragazzi come "talentuosi ed eleganti tanto da sembrare venuti fuori da Oxford". Si innamorò anche del bergamotto, tanto che - per sua stessa ammissione - "non salgo sul podio se non ne ho quattro gocce sul fazzoletto, è diventato il mio portafortuna". La scintilla ormai scoccata: tra il ricordo della tradizione e la gioia dell'innovazione, da paese in paese, cominciarono a riprendere vigore le vecchie bande. Ma il bello doveva ancora arrivare. Un giorno squillò il telefono: "Sono Riccardo Muti, ho deciso di dirigere i ragazzi di Delianuova. A giugno, a Ravenna vorrei che inaugurassero il Festival in una serata intitolata Omaggio alle bande d'Italia". Ha inizio da lì quello che oggi è conosciuto come il "fenomeno Muti". Non c'è paese della provincia di Reggio che non abbia un suo complesso di fiati. Si organizzano scuole, concerti, festival. La musica popolare bandistica riprende gli spazi che gli competono in ogni dove. Da ultimo, nel luglio dello scorso, le bande musicali giovanili – di antica tradizione e recente costituzione – del territorio calabrese si sono riunite per un concerto, nel corso del quale Riccardo Muti ha diretto oltre mille giovani calabresi. Giovani che hanno trovato nella musica, nell’espressione artistica, nel lavoro di squadra – e nell’attenzione riservata loro da uno dei massimi esponenti della cultura e dell’arte italiane nel mondo – un’alternativa valida alla disoccupazione e all’affiliazione. Giovani che hanno imparato e continuano ad imparare ogni giorno a “stare eticamente nella musica” – per usare le parole di Riccardo Muti – e “a vivere in un contesto di socialità, perché l'orchestra è un'articolazione di vita sociale in miniatura. [In un orchestra] - spiega ancora Muti - non si può esprimere la propria individualità senza legami con quella di chi sta accanto in concordia, alla latina cum corde: ci si arricchisce insieme per raggiungere l'Armonia”. Nella nostra storia, non è stata solo la passione per la musica a cambiare la vita dei ragazzi dell’Aspromonte: è stato l’impegno individuale dei professionisti del mondo della musica – non solo Riccardo Muti, ma anche i maestri Managò e Pisano – che hanno messo la propria competenza e passione a servizio del “linguaggio universale della musica” e se ne sono fatti interpreti e portavoce, anche dove quel linguaggio poteva far fatica ad essere ascoltato. Di certo, la vicenda biografica di un gruppetto di giovani calabresi non cambierà le sorti dell’Umanità o del Pianeta, ma ci ricorda un fatto importante. Alla base dell’“etica globale” del sistema delle Nazioni Unite c’è l’etica individuale di ognuno di noi, singoli uomini e donne che abitano la Terra. Prima ancora dell’Armonia “universale” esiste una “più piccola e misurata, anch’essa intaccata dal limite, armonia umana”[1], che è compito di ognuno di noi ricercare. Solo concentrando il nostro impegno e la nostra passione in questa ricerca tutti noi - artisti e musicisti, ma anche semplici appassionati di musica e di arte - potremo fornire il nostro contributo alla costruzione di un futuro diverso, nel quale l’etica trovi finalmente il giusto spazio. Perché l’arte, come scriveva Kandinskij “indica il contenuto del futuro”. Perché, come si legge sulla folgorante didascalia del frontone del Teatro Massimo di Palermo: “L’arte rinnova i popoli/ e ne rivela la vita/ vano delle scene il diletto,/ ove non miri a preparar l’avvenir”. Prof. Giovanni Puglisi Presidente Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO Lucca, Palazzo Ducale, 09.03.2013 [1] Corrado Bologna, Introduzione, in Leo Spitzer, L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, Bologna, il Mulino, 2006. Scarica la Lectio magistralis del Presidente della Commissione Nazionale Italiana per l'UNESCO Prof. Giovanni Puglisi