LA RIFORMA MODERATA DI TIBERIO Anteprima tratta dal libro I GRACCHI Le riforme e l’utopia dell’impero repubblicano Autore Mauro Pasquini Voce narrante Saverio Mazzoni Edizione digitale Area51 Publishing © Edizione audio Audible La riforma proposta dal tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco nel 133 a.C., la lex Sempronia agraria, centrava perfettamente il cuore della crisi agraria e del diffuso malcontento popolare nei confronti della classe dirigente. Il principio di base consisteva in un processo di redistribuzione della terra pubblica. Lo Stato, avrebbe recuperato il pieno possesso di quella parte di ager publicus che i grandi proprietari terrieri avevano occupato illegalmente, allo scopo di ridistribuirlo in lotti individuali ai cittadini delle classi meno abbienti che erano privi di terra. La concentrazione di enormi proprietà terriere nella mani di pochi grandi proprietari, non era solo il risultato della politica accentratrice propugnata dalla nobiltà senatoriale, ma anche il frutto dell’appropriazione indebita di terra pubblica da parte dei latifondisti. Al prevedibile entusiasmo popolare corrispose una feroce opposizione da parte della nobiltà senatoriale, dominata dall’elite latifondista. Nella riforma era previsto che la quota di ager publicus occupata illegalmente da un singolo privato, ovvero quella eccedente al limite di 500 iugeri pro capite, fissato dalla lex Licinia-Sextia de modo agrorum del 367 a.C., tornasse nella piena disponibilità dello Stato. Diversamente, la parte inclusa entro il limite di 500 iugeri avrebbe cessato di essere parte dell’ager publicus, e la proprietà sarebbe passata dallo Stato al privato occupante, al quale, in aggiunta, sarebbe stata concessa un quota di terra pubblica pari a 250 iugeri per ogni figlio maschio, anche questa in forma di proprietà privata, con un limite massimo di 1000 iugeri per ogni capofamiglia. Tutta la terra che invece era calcolata come eccedente, e che pertanto dal possesso abusivo del singolo privato rientrava nella disponibilità dello Stato, sarebbe stata cumulata e destinata a nuove assegnazioni individuali per i cittadini romani bisognosi, in ragione di 30 iugeri procapite non alienabili. In pratica lo Stato avrebbe recuperato una parte di terra occupata illegalmente dai latifondisti, e l’avrebbe suddivisa in lotti da redistribuire individualmente a cittadini bisognosi. Analizzando la riforma punto per punto, nella sua chiarezza e semplicità, si evince come alla base del lavoro dei riformatori vi fosse un assoluto realismo, da cui la ferma convinzione che fosse necessario procedere con cautela e in modo pragmatico, tenendosi lontani da qualunque approccio facilmente accusabile di populismo. Ad esempio, fissare a 500 iugeri il limite della superficie di ager publicus che gli occupanti abusivi potevano trattenere, diventandone addirittura proprietari, aveva un duplice significato, che andava incontro alle aspettative del popolo affamato di terra, ma ancor di più agli interessi dei latifondisti. Vediamo perché. I 500 iugeri di cui parla la lex Sempronia agraria quale limite massimo di ager publicus occupabile da un singolo, in realtà rappresentavano già da più di due secoli il limite di legge corrente, che nessuno dei grandi proprietari terrieri però, da almeno un secolo, rispettava più. Pertanto, in quella cifra, più che una nuova e più stringente restrizione per i latifondisti rei di occupazione abusiva di ager publicus, vi era un richiamo simbolico al passato, al 367 a.C., anno nel quale furono varate le rivoluzionarie leges Liciniae-Sextiae. Una di queste, la lex Licinia-Sextia de modo agrorum, fissava appunto a 500 iugeri il limite massimo di ager publicus occupabile da un singolo capofamiglia. Le leges Liciniae-Sextiae furono un pacchetto di riforme il cui effetto si concretizzò in un decisivo impulso alla risoluzione del conflitto degli ordini, in quanto costituirono un momento di svolta nella formazione della nobilitas, la nuova classe dirigente patrizio-plebea. Tale passaggio rappresentò l’inizio dell’equiparazione giuridica fra patrizi e plebei. Così ebbe inizio la luminosa età mediorepubblicana. In questo modo, Tiberio assegnava una forte carica evocativa alla propria riforma, nell’auspicio di renderla percepibile come un provvedimento partorito da un fermento progressista simile in tutto e per tutto a quello che centotrentaquattro prima produsse le leggi sovra-citate, recanti il nome dei mitici tribuni plebei Gaio Licinio e Lucio Sesto. In realtà, la lex Sempronia agraria, tecnicamente non costituiva un superamento dell’esistente, bensì un ripristino del passato. Da un punto di vista politico e ancor di più sociale, la riforma agraria di Tiberio rappresentava piuttosto il ragionevole recupero di un sistema che garantiva almeno un minimo di prospettive per il futuro per la popolazione, e conseguentemente pace sociale. Al contempo, la riproposizione di quella preesistente limitazione di 500 iugeri per l’occupazione dell’ager publicus, decantata con i toni gravi e accorati della propaganda riformista, riuscì a far passare il messaggio che la riforma rappresentasse il ritorno a un passato virtuoso, nel quale vigeva il rispetto delle regole e dove lo Stato era in grado di imporre senza incertezze la propria suprema autorità, anche nei confronti dei cittadini più ricchi e influenti. La suggestione che le capacità oratorie di Tiberio e il carisma del personaggio sapevano creare era tangibile, e soprattutto faceva molti proseliti. Vediamo come Plutarco, nelle Vite parallele, riportando il tenore tipico dei suoi discorsi, fotografa efficacemente la capacità del giovane riformatore di toccare le corde giuste: Le fiere che abitano l’Italia, soleva dire, hanno ciascuna una tana, un covile in cui riposare; coloro che per l’Italia combattono e muoiono, non hanno che l’aria, la luce, nient’altro. Senza una casa, senza una fissa dimora, vagano con la moglie e i figli. I comandanti li ingannano, questi soldati, quando li esortano a difendere il proprio focolare e la tomba degli avi dagli attacchi jhdel nemico, perché nessuno di questi romani, e sono tantissimi, ha il suo altare familiare, nessuno ha un sepolcro avito. Ma combattono per difendere il lusso e la ricchezza altrui; e vengono chiamati padroni del mondo, ma non hanno una sola zolla di terra che sia loro. A queste parole, nate da un animo grande, dettate da un sentimento sincero, e che cadevano in mezzo ad un popolo già eccitato e profondamente consenziente, gli avversari non trovavano nulla da opporre. Ma al di là del racconto che Plutarco ci fa dell’emozione popolare che andava sempre più raccogliendosi intorno al magnetismo del giovane tribuno, vi era l’altro significato della riforma, ovverosia la colossale operazione di condono e di regalo da parte dello Stato in favore dei latifondisti. La terra occupata non eccedente i 500 iugeri, come abbiamo detto, passava dalla proprietà dello Stato alla proprietà privata, gratuitamente. Questa era la vera novità della riforma. In primo luogo, veniva effettuato automaticamente un condono totale su tutti i reati di occupazione abusiva commessi dai latifondisti nell’ultimo secolo, in violazione, ricordiamo ancora, del limite massimo di 500 iugeri per la terra occupabile da un singolo privato, imposto della lex Licinia-Sextia de modo agrorum del 367 a.C., e ancora formalmente in vigore. In sostanza, la riforma imponeva ai latifondisti una limitazione che già avrebbero dovuto rispettare in base alle leggi vigenti. Quindi veniva presentato come esproprio da parte dello Stato la doverosa restituzione di terra che era stata occupata illegalmente. Infine, quale congruo risarcimento per quello che tutto era tranne che un esproprio, ai latifondisti veniva regalata una quota di ager publicus fino a un massimo possibile di ben 1000 iugeri (circa 250 ettari) a testa. Decisamente non si trattava di una riforma rivoluzionaria, né si poteva sospettare, sulla base dei contenuti, che Tiberio e i suoi sostenitori covassero progetti eversivi. L’altro punto della riforma, la redistribuzione della terra eccedente in ragione di 30 iugeri pro capite non alienabili, rappresentava certamente un provvedimento particolarmente gradito per i tanti che ne avrebbero beneficiato. Ottenere nuova terra, e in lotti di dimensioni maggiori rispetto a quelli normalmente assegnati in passato, era quanto chiedevano i piccoli proprietari terrieri, spodestati dalla crisi agraria e dalle intimidazioni dei latifondisti. Ma il condono sui reati di occupazione abusiva dell’ager publicus, e soprattutto il regalo di terra pubblica per una quota fino a 1000 iugeri per capofamiglia, faceva si che la componente della società maggiormente favorita dalla riforma di Tiberio, sarebbe stata proprio la grande proprietà latifondista. Questa era la strategia di Tiberio Gracco: realizzare una riforma che esprimesse il cambiamento ma che al contempo non avesse i tratti di una rivoluzione. Per Tiberio e i suoi collaboratori, il cambiamento era rappresentato fattivamente dal ripristino del quadro socio-politico precedente, e quindi, non da una rivoluzione, bensì, tecnicamente, da una restaurazione. La condizione da restaurare e ripristinare era in primo luogo la coesione sociale, ovvero quel tessuto connettivo che teneva insieme lo Stato garantendo stabilità al regime senatoriale. Ma la nobilitas non volle intendere ragioni. A una riforma assolutamente moderata, che prima di tutto avrebbe garantito il mantenimento sostanziale dei privilegi dell’elite latifondista, tutt’al più riducendone l’entità, ma solo quantitativamente e non in modo significativo, la maggioranza conservatrice del senato oppose lo stesso uno sdegnato e feroce rifiuto. L’abitudine allo sfruttamento abusivo dell’ager publicus da parte dei grandi proprietari terrieri si era trasformato in un vero automatismo. E così, quella terra della quale i nonni e i padri si erano impossessati illegalmente, veniva considerata dai figli, dai nipoti e dai pronipoti, come una proprietà privata legittimamente acquisita per usucapione. Pertanto, non erano disposti a cederne una sola zolla. Questa politica miope ed egoista, ci dice come la programmazione del futuro, il pragmatismo di fondo nelle scelte strategiche, l’attenzione agli umori delle diverse componenti della società, erano attività dalle quali la nobiltà senatoriale aveva definitivamente abdicato. Sallustio, nella sua Guerra Giugurtina, esemplifica questa condizione di dissolutezza della classe dirigente, individuandone le cause nella schiacciante egemonia della superpotenza romana sul resto mondo, ovvero, nell’assenza di reali minacce dall’esterno: Il timore dei nemici tratteneva i cittadini nel rispetto della virtù. Ma non appena quel timore svanì dal loro animo, comparvero naturalmente quelle cose che la prosperità porta con sé, superbia e dissolutezza. Tiberio si trovò davanti a quello che oggi definiremmo un muro di gomma. Ma ritenne di dover procedere senza indugi, in quanto temeva che il protrarsi della situazione di grave instabilità sociale rappresentasse un grave pericolo per la stessa sopravvivenza della repubblica.