Odissea Musicale: marce circensi da ragazzo, opere attuali e

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8 ottobre 2008
Odissea Musicale: marce circensi da ragazzo,
opere attuali e superbe nella maturità
di Charles McGrath
Il compositore Milton Babbitt, uno dei mandarini dell’atonalismo, una volta ha scritto un articolo intitolato Who Cares if You Listen? Affermava che l’assenza di un ampio pubblico per la musica classica
moderna non era davvero un gran problema, perché la maggior parte delle persone non erano comunque in grado di comprenderla. In alcuni ambienti del mondo musicale contemporaneo il successo commerciale è ancora un elemento negativo, e nessuno induce maggior sospetto (e segretamente
maggiore invidia) di John Adams che, insieme a Steve Reich e Philip Glass, è uno dei pochi compositori
contemporanei a essere realmente riusciti ad attrarre un folto pubblico.
Adams è conosciuto soprattutto per le sue cosiddette opere della CNN: Nixon in China, The Death of
Klinghoffer e Doctor Atomic, ma ha scritto anche partiture da camera, opere sinfoniche e oratori, oltre a
On The Trasmigration of Souls, un memoriale profondamente coinvolgente dedicato alle vittime degli
attentati dell’11 settembre. La sua musica unisce il minimalismo di Glass e Reich – piccole figurazioni
ripetute più volte – all’armonia e alla musica tonale romantica.
Il risultato, come suggerisce il sottotitolo della sua nuova autobiografia, Hallelujah Junction, suona particolarmente americano. La sua musica è al contempo lussureggiante e austera, grandiosa e precisa.
Per fare un’analogia con due poeti le cui opere ha messo in musica, è insieme Walt Whitman ed Emily
Dickinson.
Il modo in cui Adams, oggi sessantunenne, è giunto a questo particolare linguaggio armonico costituisce in gran parte l’argomento di questo libro avvincente, talvolta una sorta di narrazione di ricerca
che attraversa l’intero panorama musicale del Ventesimo secolo. I suoi dischi preferiti da bambino
sono l’Ouverture “1812” e un album intitolato Bozo the Colwn Conducts Favorite Circus Marches. Nel suo
dormitorio di Harvard ascolta musica classica e jazz, ma anche Hendrix e i Beatles per ore intere.
Negli anni in cui è un giovane compositore vaga nel deserto dell’atonalismo e poi, seguendo l’esempio di John Cage, fa una deviazione nel territorio selvaggio della musica fondata sull’estetica del caso
e dell’anarchia. Negli anni Settanta, in California, si costruisce un sintetizzatore con cui inizia a suonare
musica elettronica agli ‘happening’. In questo periodo ama utilizzare i suoni dell’ambiente circostante,
e una volta incide il ronzio delle mosche che volteggiano su feci di cane.
La svolta, il momento di conversione, avviene nella primavera del 1976, mentre guida ai piedi delle
montagne della Sierra e ascolta Il crepuscolo degli Dei di Wagner. Ciò che lo colpisce, dichiara, è la profondità espressiva del sentimento musicale, la sua «sincerità».
«Questa non è musica sul desiderio» scrive. «È il desiderio stesso». Gli ci vorranno ancora parecchi anni
per trovare il vocabolario adatto a esprimere i propri, di desideri, ma capisce all’improvviso che la musica atonale, ben lungi dall’essere la terra promessa che Schoenberg e Babbit avevano preannunciato,
è un vicolo cieco.
Adams non è parente degli Adams di Boston. Il nonno era uno svedese che aveva cambiato il proprio
nome da Adamson, la madre era di origine irlandese e cattolica, ma come per la sua musica, il libro rappresenta un’esperienza profondamente americana: la storia del ragazzo sognatore e d’indole artistica,
proveniente dalla provincia, che dopo qualche sbandata raggiunge il successo, una storia che incomincia con un’infanzia nel New England e assomiglia a un film di Capra. Il padre suonava il clarinetto
jazz, la madre cantava nelle big band, anche se nessuno dei due è mai stato in grado di mantenersi con
la musica. Adams cresce nei sobborghi di Concord, New Hampshire, in una casa senza riscaldamento
e dai servizi igienici approssimativi. È un talento musicale, si inventa un alter ego alla Sibelius di nome
Bruce Craigmore che vive in solitudine in un’immaginaria casetta di legno e scrive musica famosa in
tutto il mondo. Alle elementari è talmente bravo con il clarinetto da suonare in orchestre di adulti; una
di queste è sponsorizzata dall’ospedale psichiatrico del posto, e durante i concerti un internato talvolta
si alza e improvvisa.
Durante gli studi universitari a Harvard con una borsa di studio, Adams fuma erba, si impasticca e
protesta contro la guerra del Vietnam. Evita la chiamata di leva aumentandosi il battito cardiaco e la
pressione sanguigna con pillole eccitanti e spray contro la sinusite. Dopo il trasferimento in California
attraversa una specie di periodo beat, in cui si aggira per le librerie di Berkeley e tracanna vino a buon
mercato.
L’autobiografia racconta in modo toccante, e talvolta piuttosto divertente, la depressione, la solitudine
e i blocchi creativi prima che l’autore trovi una strada per uscire dall’inanità e dalle incertezze su se
stesso. Il che conferisce al libro la stessa «sincerità» wagneriana che il musicista tanto ammira, ma senza
il sussiego di Wagner.
Adams scrive così bene da lasciare leggermente costernato chiunque si attenga all’idea che scrivere,
come comporre, sia un mestiere che si sviluppa negli anni, e non un passatempo che si può iniziare a
cinquant’anni. È un sollievo cogliere qua e là qualche dilettantismo che lui stesso (o il suo editor) si è
lasciato sfuggire. E per quanto la prosa sia valida, si vorrebbe che il libro fosse accompagnato da una
colonna sonora che illustri le tesi dell’autore e fornisca un’antologia dei pezzi più famosi. Anche i lettori
che conoscono la musica di Adams sarebbero felici di girare le pagine ascoltando un frammento di Hallelujah Junction, per esempio, il pezzo per due pianoforti che dà il titolo al libro, o di Grand Pianola Music,
così scandalosamente eccessivo da far trattenere il fiato mentre si scoppia sonoramente a ridere.
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