VALERIA DEPLANO La madrepatria è una terra straniera Libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960) 00I_X_principi.indd 3 14/02/17 16:06 1 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia Nel corpo bianco della nazione. Sudditi coloniali nel Regno d’Italia Incontri coloniali Il colonialismo implica sempre, necessariamente, il contatto tra persone, storie, società, e ha come esito la loro contaminazione. Questo fatto lo rende un fenomeno fortemente contraddittorio: esso, infatti, si fonda su una netta contrapposizione tra colonizzatori e colonizzati e sull’imposizione dei primi sui secondi; all’interno della società coloniale i rapporti sono concepiti in maniera gerarchica, in termini di oppressione, di disuguaglianza e di differenza incommensurabile. D’altra parte, in ogni sua manifestazione l’espansionismo coloniale si è reso responsabile della produzione di realtà nuove, diverse e in fondo incompatibili con l’idea di identità forte e monolitica sulla base della quale, dalla fine dell’Ottocento, gli europei avevano legittimato le aggressioni militari e le occupazioni di territori altrui. Tale attitudine è particolarmente evidente se si guarda agli incontri privati e intimi tra colonizzatori e colonizzati: frutto di questo genere di unioni, il più delle volte anch’esse diseguali e violente, sono persone che portano sul proprio corpo e nelle proprie vite la prova evidente della capacità trasformatrice degli incontri coloniali. Allo stesso modo l’innesto di popolazioni bianche ed europee nelle società africane ha determinato ibridazioni culturali, linguistiche e sociali1. Tra tutti gli incontri, quello che i colonizzatori temevano maggiormente, la contaminazione che cercarono di evitare il più possibile, fu quella che poteva modificare dall’interno le loro, di società, attraverso l’ingresso di persone provenienti dai territori colonizzati. Anche in questo caso le resistenze si dimostrarono inutili. L’imperialismo fu responsabile della creazione di un nuovo spazio di mobilità reale e immagi23 023_086_cap_1.indd 23 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera nato, destinato a sopravvivere al crollo degli imperi, che facilitò i flussi migratori dall’Asia e dall’Africa verso il vecchio Continente2. Fu solo dopo il 1945 che le migrazioni coloniali portarono in Europa gruppi consistenti di persone, che penetrarono in maniera evidente i confini territoriali e le barriere identitarie degli ormai ex colonizzatori. Ma fin dalla prima metà del Novecento la possibilità di percorrere i corridoi creati dal colonialismo in senso inverso, dalla supposta periferia verso il centro coloniale, aveva consentito l’insediamento sul territorio europeo delle prime comunità di colonizzati. Fu allora che si manifestarono per la prima volta le difficoltà di alcune società del vecchio Continente a fare i conti con «l’altro» in casa propria. Sopratutto nei casi inglese e francese la marginalizzazione dei migranti è come un fenomeno di lunga durata, ben radicato nella storia novecentesca. In Francia ad esempio, durante la prima guerra mondiale, gli uomini impiegati nel conflitto furono in parte sostituiti con lavoratori provenienti dal Maghreb, tra cui circa 119.000 algerini sbarcati nel Paese nel 1919. Il numero dei migranti crebbe tra le due guerre; oltre al Nord Africa gli spostamenti iniziarono a coinvolgere anche gli altri possedimenti, al punto che nel 1946 risultavano sul suolo francese circa tredicimila persone provenienti dall’Africa subsahariana, senza contare i numerosi «clandestini» che negli anni avevano potuto raggiungere la madrepatria in maniera non ufficiale senza troppe difficoltà. Da subito queste comunità dovettero fronteggiare una diffusa ostilità da parte delle popolazione e delle autorità francesi3. Anche in Gran Bretagna, dove negli anni Ottanta dell’Ottocento era stato eletto il primo indiano alla Camera dei Comuni4, tra le due guerre mondiali si erano formate le prime comunità di marinai di origine africana e orientale, insediate in alcune zone portuali. In queste aree nel 1919 si verificarono attacchi e sollevazioni di natura razzista, che ebbero come vittime i migranti accusati di essere una minaccia per l’occupazione dei locali5. Invece in Italia, nel periodo tra i due conflitti mondiali, mancavano consistenti comunità di migranti coloniali. Se guardato con gli occhi di uno dei suoi colonizzati, alla vigilia dell’entrata in guerra del 1940 il Paese appariva anzi come una fortezza quasi impenetrabile: steccati giuridici e culturali erano stati innalzati negli anni, prima dai governi liberali e poi da quello fascista, rendendo il territorio italiano progressivamente impermeabile alle popolazioni sottoposte al dominio coloniale. La presenza degli africani, già rara già nei primi trent’anni del secolo, divenne assolutamente eccezionale dopo la proclamazione dell’Impero, nel 1936, quando il pregiudizio razzista fu assunto come base della le24 023_086_cap_1.indd 24 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia gislazione nazionale. A quel punto per il regime diventò fondamentale preservare una omogeneità interna, che era presentata come un tratto distintivo della comunità nazionale: nell’idea di Mussolini tanto il corpo della nazione quanto il suo territorio erano e dovevano restare bianchi. Vedremo nel prossimo capitolo come, mentre affinava gli strumenti giuridici per evitare definitivamente che africani e degli italo-africani ottenessero la cittadinanza italiana, allo stesso tempo il regime scoraggiava l’accesso nel Paese di persone provenienti dalle colonie. La negazione ai sudditi del suolo italiano colpì anche i militari nativi delle colonie: gli ascari, che pure avevano combattuto tutte le guerre condotte dall’Italia dall’occupazione della Libia in poi, non furono mai utilizzati sulla Penisola e la loro presenza nel territorio della madrepatria – a parte alcuni casi eccezionali – fu limitata alle cerimonie e ai cambi della guardia. Il tentativo di mantenere il territorio «bianco e omogeneo» non impedì, tuttavia, che anche in Italia e anche sotto il regime fascista alcune decine di sudditi coloniali giungessero nel Paese, per forza o per scelta, di passaggio o per restarvi. È nel corso di questi primi incontri coloniali che alcuni italiani, al pari del governo, dovettero fare i conti con «l’impero che tornava indietro», misurando sia le proprie reazioni sia le possibilità di coesistenza, situazioni e problemi che sarebbero stati affrontati, in maniera più ampia, dopo il 1945. La visita del 1912 a Roma e Napoli del V battaglione ascari, reduce dalla guerra di Libia, rappresenta forse il primo e il più eclatante incontro degli italiani con i sudditi coloniali. La visita, organizzata dal governo italiano, era stata pensata non solo per celebrare la vittoria libica, ma anche per contribuire al processo di nazionalizzazione degli italiani, suscitando in loro, attraverso la celebrazione delle conquiste coloniali, un senso di orgoglio patriottico. In questo caso l’intento del governo non era di creare una identità ‘per contrasto’, che esaltasse l’italianità contrapponendola all’«alterità» degli ascari. L’obiettivo era invece quello di insistere sui punti di contatto tra la nazione e quei valorosi e ‘civilizzati’ soldati eritrei6. Gli ascari furono sovraesposti mediaticamente, e l’ondata di simpatia sollecitata nei loro confronti trascinò nelle strade, ad accoglierli, una folla effettivamente entusiasta. Negli stessi anni approdarono in Italia, in maniera ovviamente molto più silenziosa e triste, i primi deportati coloniali. Si trattava degli oltre tremila libici che furono confinati nel Paese durante e dopo la guerra di occupazione del territorio nordafricano7. La pratica di rendere permeabili i confini della nazione ai sudditi in stato di prigionia, di depor25 023_086_cap_1.indd 25 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera tarli in Italia cioè, proseguì anche col fascismo. In quel caso colpì circa duecento etiopici appartenenti alle famiglie più in vista dell’ex impero di Haile Selassie, compreso un cugino dell’imperatore. Ritenuti da Rodolfo Graziani e da Mussolini responsabili delle cospirazioni che avevano portato all’attentato contro il viceré ad Addis Abeba, nel febbraio del 1937, furono deportati in Italia e confinati per due anni nei pressi di Roma, all’Asinara, a Ponza, a Mercogliano, a Longobucco, a Torre del Greco, a Palermo e a Torino8. Solo nel 1939 ad una parte di loro fu concesso il rimpatrio dal nuovo viceré Amedeo d’Aosta, mentre gli altri furono trattenuti in Italia sino al crollo del regime. La vicenda dei deportati, che si trovavano in Italia per costrizione governativa e in un regime di prigionia, risulta evidentemente eccentrica rispetto alla storia delle migrazioni tra Africa e Europa, e a quelle delle comunità di migranti che abbiamo visto crearsi in Francia e Gran Bretagna. Essa ebbe, ovviamente, anche un impatto limitato dal punto di vista sociale e praticamente nullo da quello mediatico. Ciò premesso, durante il periodo di permanenza forzata in Italia anche i confinati e i deportati sperimentarono con le popolazioni residenti nelle aree in cui erano costretti una quotidianità che era nuova sia per loro, sia per gli italiani. È esemplare in questo senso ciò che racconta nella sua biografia romanzata Martha Nasibù, che insieme alla sua famiglia trascorse in Italia otto anni di confino, tra il 1936 e il 19449. I Nasibù, parenti del deggiac a capo delle truppe di Haile Selassie nel conflitto del 1935-1936, fuggirono dall’Etiopia prima della deportazione ordinata da Graziani, ma sino alla liberazione di Roma restarono in balia del controllo e delle volontà del generale e delle autorità italiane. Nel loro peregrinare obbligato vissero tra Tripoli, Rodi, Napoli, le Dolomiti, Firenze e Roma. Martha e i suoi fratelli, allora bambini, sperimentarono sulla propria pelle sia l’empatia di una parte degli italiani sia il razzismo presente nella società e negli ordinamenti. Accanto ad atteggiamenti accoglienti – ad esempio nei collegi che ospitarono lei e la sorella – a causa del colore della pelle durante il loro soggiorno Nasibù e la sua famiglia dovettero subire delle «consuete, snervanti, aggressioni verbali, seguite in genere da sguaiate risate e da coloriti apprezzamenti dei giovani simpatizzanti del regime». Il varo della legislazione razziale comportò per loro un peggioramento della situazione: l’ossessione per la bianchezza rese problematica per il regime, infatti, la presenza di «quei neri abissini» in Italia, e per questo motivo nel 1939 la famiglia fu trasferita in Libia. Una volta tornati in Italia, nel 1940, la madre dovette registrare diversi rifiuti, di natura evidentemente razzista, alla richiesta di iscrivere i propri figli a scuola e a 26 023_086_cap_1.indd 26 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia quella di poter sostenere gli esami di riparazione. Il loro particolare status di appartenenti ad una famiglia di notabili etiopici offrì comunque ai Nasibù alcune scappatoie: godendo dell’appoggio del Pontificio Collegio Etiopico, pur di fronte ad un regime che negava l’istruzione ai neri i figli del deggiac poterono contare sugli spazi di manovra e di relativa libertà di cui godevano gli istituti ecclesiastici. Fu così che riuscirono non solo a sopravvivere ma anche a studiare in un Paese fascista e razzista. Un caso senza dubbio eccezionale quello della famiglia Nasibù, sia per le ragioni della loro presenza in Italia sia per la condizione sociale dei protagonisti della vicenda. Allo stesso tempo si tratta di un caso esemplare, capace di mettere in luce la crudeltà e le contraddizioni di un progetto, come quello fascista, che imponeva di considerare la bianchezza come un segno e uno strumento di difesa dell’italianità. Questa linea ma anche le contraddizioni si rivelarono in maniera prograssivamente più netta ed evidente nel corso del Ventennio, come emerge dalle storie degli altri sudditi, né esuli né deportati, che vivevano in Italia. Si trattava di persone giunte nella Penisola per scelta e in una condizione riconducibile a quella dei migranti, intendendo questo termine nella sua accezione più ampia: chi, cioè, soggiorna per un periodo ragionevolmente lungo in un Paese di cui non è cittadino. Se non esistevano comunità strutturate e circoscritte, le fonti registrano la presenza in Italia di un centinaio di persone provenienti dai territori coloniali: un primo censimento fatto dal governo nel 1938 riuscì a contare settantadue persone, cui se ne aggiungevano delle altre che riuscirono a sfuggire alla ricerca condotta dalle autorità10. Il censimento preludeva infatti alla loro espulsione e al rimpatrio, in osservanza di un ordine di Mussolini, ormai deciso a difendere da contaminazioni razziali il corpo della nazione. La ricognizione fatta in quell’occasione dal ministero dell’Interno e da quello dell’Africa Italiana descrive già con sufficiente chiarezza una piccola comunità, composta in gran maggioranza da uomini che erano partiti dai territori colonizzati e avevano raggiunto la «madrepatria», alcuni fin dal primo dopoguerra, ma la maggior parte durante gli anni Venti e la metà degli anni Trenta. L’ordine di espulsione fece emergere diverse contaminazioni che il colonialismo portava con sé, nonostante l’impegno del governo ad evitare ogni commistione tra colonizzatori e colonizzati. Contaminazioni di tipo ideologico, innanzitutto. Nel 1939, ad esempio, il regime dovette fare i conti con tre eritrei, arrivati in Italia tra il 1915 e il 1923, e due libici bengasini, giunti nella Penisola rispettivamente nel 1922 e nel 1937. Erano tutti lavoratori, e tutti iscritti al Partito nazionale fascista da cui, secondo le leggi razziali entrate ormai in vigore, dovevano però essere espulsi11. Il partito tentò 27 023_086_cap_1.indd 27 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera dapprima di controbilanciare l’espulsione invitandoli ad iscriversi all’Associazione musulmana del Littorio, istituita quello stesso anno, ma tale soluzione risultò praticabile soltanto per Mohamed Sala, meccanico residente a Chieti. Gli eritrei erano infatti di fede copta e l’altro libico, Giovanni Maria Gasseri, si era convertito pochi anni prima al cattolicesimo. Proprio la storia di Gasseri, mentre mette in luce gli spazi di mobilità di cui i sudditi libici potevano godere sotto il regime fascista, rivela allo stesso tempo il carattere di eccezionalità degli spostamenti dalle colonie verso la madrepatria. Nato a Barce nel 1916, e rimasto orfano a dieci anni, Gasseri fu raccolto da un reparto di truppe italiane e poi assegnato ai Fratelli delle scuole Cristiane di Bengasi che lo spinsero a compiere gli studi elementari e a seguire un primo corso di avviamento professionale. Convertitosi al cattolicesimo prese il nome di Giovanni Maria, mentre la versione italianizzata del suo paese di nascita (Gasr el Lebia) ne divenne il cognome. Dopo aver ottenuto il diploma di avviamento professionale a Tripoli, sempre con l’appoggio del tenente del reparto che l’aveva preso in cura nel 1937, si trasferì a Roma, dove trovò lavoro come ascensorista e fattorino d’albergo. Servì per tutta la durata della guerra mondiale nella difesa costiera, e nel 1945 tornò a Roma dove, dopo qualche tempo, sposò una donna italiana12. La possibilità di sposare una italiana, certo facilitata dal crollo del regime, era osteggiata ma non totalmente preclusa anche negli anni precedenti, in particolar modo ai libici. Un’altra contaminazione rilevata dal censimento del 1938 era infatti l’esistenza di alcuni matrimoni «interrazziali», che riguardavano cinque libici sposati con donne italiane, contro un solo eritreo e una donna eritrea13. Che anche in questo caso probabilmente al regime sfuggisse qualcosa è dimostrato dalla storia di Hanna Gonnicé, donna eritrea, e Ugo Bolsi, italiano. Tornati dall’Eritrea, i due riuscirono dopo il 1937 a tenere nascosto al governo il proprio matrimonio per evitare il provvedimento di rimpatrio14. Dopo il 1938 era infatti questo il destino che spettava ai colonizzati in Italia, anche se sposati. Riuscì a sfuggire al provvedimento e a restare nel Paese anche Ali el Gariani, nato a Bengasi nel 1913 e trasferitosi in Italia nel 1927. Nel 1933 l’uomo si era arruolato nella Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale e nel 1940 si era fatto battezzare. La conversione, pure frequente tra i libici che si trasferivano in Italia, non gli evitò, due anni dopo, di essere radiato dal corpo a causa delle disposizioni che vietavano «l’appartenenza di gente di colore dell’Impero e delle Colonie ai Corpi Armati metropolitani». Nel 1935, l’anno dell’inizio della guerra d’Etiopia, El Gariani aveva sposato una donna italiana, Laura Petrignani, 28 023_086_cap_1.indd 28 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia da cui aveva avuto due figli: quando l’uomo fu espulso dalla milizia la prima ipotesi presa in considerazione dalle autorità fu quella di inviare l’intera famiglia nella colonia nordafricana. «Di fronte ad altre situazioni similari, si è preferito allogare in Libia le famiglie formatesi in seguito a matrimoni misti, che attualmente contrastano con i postulati della nostra etica razzista», spiegava il ministro dell’Africa Italiana Attilio Teruzzi. Il ministero poi diede ordine di rimpatriare il solo Gariani, ma alla fine anche a lui fu concesso di rimanere in Italia come civile insieme alla moglie e ai figli15. Vantava una lunga permanenza in Italia e un matrimonio «misto» anche Mohamed Taurghi, giunto a Roma nel 1921 al servizio della principessa di Villafranca, che dalla moglie Rosalia Rocaforte ebbe anche una bambina, Maria. Le singole vicende personali rivelano uno scenario in cui esistevano spazi e modi attraverso cui una minoranza di individui provenienti dalle colonie poteva riuscire a costruirsi una vita nella «madrepatria». Se pure qualche eritreo giunse nelle penisola a ridosso o durante il primo conflitto mondiale, il trasferimento era decisamente più semplice per i libici, che costituivano la quasi totalità degli «immigrati coloniali». Sino alla proclamazione dell’impero e alla promulgazione delle leggi razziali gli abitanti della colonia nordafricana avevano maggiori possibilità di porre le basi per una normale vita familiare: il colore della pelle, e anche lo status giuridico di cittadini (per quanto «speciali», e dunque limitati nei loro diritti pubblici16) consentivano loro uno spazio di mobilità e una possibilità di integrazione nella società italiana inconcepibile per gli africani provenienti dal Corno d’Africa. Studiare in Italia. Libici, eritrei ed etiopici tra politica dei capi e contestazione L’assunzione del pregiudizio razzista da parte del diritto italiano della fine degli anni Trenta rese più complicati sia l’arrivo, sia l’integrazione di quei pochi migranti coloniali che riuscivano ad arrivare nella madrepatria. Anche in questo caso, però, a dimostrazione delle tante contraddizioni che segnano la storia in generale e che in particolare caratterizzarono quella del fascismo, in questi stessi anni per i nordafricani si aprirono altri canali di ingresso nella Penisola. Nello specifico, negli ultimi anni Trenta, per la prima volta fu istituzionalizzata l’ammissione di studenti libici negli istituti italiani di istruzione superiore e universitaria. Si trattava di numeri irrisori, non sufficienti per sovvertire la ratio generale della po29 023_086_cap_1.indd 29 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera litica educativa italiana nei confronti dei colonizzati, ma rappresentava comunque un cedimento nella politica di separazione voluta dal regime. Anche prima dell’arrivo al governo di Mussolini la politica coloniale italiana non aveva mai investito nell’educazione di nuove élite africane né sulla formazione di mediatori da utilizzare per meglio imporre il proprio dominio sulle società dei colonizzati. Tra l’indirect rule britannico o il modello assimilazionista francese l’Italia scelse una strada propria, che ebbe come suo tratto distintivo proprio il rifiuto di avvicinare a sé, in qualunque prospettiva, le popolazioni colonizzate. Per radicarsi nei territori occupati l’amministrazione italiana cercò l’appoggio delle élite tradizionali, quindi di capi che potevano mettere a disposizione degli occupanti relazioni di potere già consolidate. Per i sudditi di tutti i territori coloniali fu concepito un sistema di istruzione che prevedeva una frequenza scolastica estremamente limitata nel tempo, ridotta alla sola scuola elementare, e finalizzata ad una formazione pratica dei giovani libici, eritrei e somali17. Nonostante l’enfasi retorica sulla «elevazione» degli africani il regime fascista non modificò, ma anzi rese più rigido questo approccio. Il risultato fu che, diversamente da ciò che accadeva negli Imperi francese e britannico, al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale nei territori del Corno d’Africa sottoposti alla dominazione coloniale italiana non era presente neanche un laureato tra la popolazione locale. Una situazione, questa, che avrebbe influito in maniera tutt’altro che secondaria sugli eventi successivi alla fondazione dei nuovi Stati indipendenti. Ancora una volta diverso il caso della Libia, in cui capitava che le famiglie più in vista del notabilato spingessero i propri giovani verso l’università. Anche in questo caso si trattava però di casi eccezionali e numericamente limitatissimi; inoltre, i pochissimi libici che si iscrivevano all’università sceglievano perlopiù di recarsi in Egitto piuttosto che in Italia18. Gli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale videro però, per la prima volta, la concessione di speciali facilitazioni governative ad alcuni studenti provenienti dalla colonia nordafricana, che furono così iscritti a spese dello Stato italiano in istituti di istruzione superiore ed universitaria della Penisola. Come detto non è certo il dato numerico – risicatissimo – a modificare il quadro d’insieme, bensì il principio che si scorge dietro questo fatto nuovo. «Fin dagli anni precedenti il recente conflitto», scriveva Martino Mario Moreno, arabista, etiopista e funzionario ministeriale dagli anni Dieci sino alla Repubblica19, «questo Ministero – per ovvi motivi di opportunità politica – provvedeva ad incoraggiare e favorire per quanto possibile l’ingresso di giovani libici anche nelle scuole italiane metropolitane, avviandoli nelle scuole superiori». Moreno esplici30 023_086_cap_1.indd 30 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia tava un fatto di per sé evidente, guardando i nomi e la provenienza degli studenti in questione: la decisione di accettarne la presenza in Italia non nasceva da un ripensamento nell’organizzazione dell’istruzione in colonia, quanto piuttosto era il risultato di una particolare contingenza politica20. Nel 1940 erano cinque gli studenti libici ospitati dal Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II a Roma. Il primo ad arrivare era stato Shifau Cherbish, figlio di quel Yusuf Cherbish, capo berbero, che per venti anni era stato un fedelissimo sostenitore degli italiani. Nel marzo del 1937, durante la cerimonia allestita da Balbo in occasione della visita di Mussolini a Tripoli per consacrare la «politica filoaraba» del regime, era stato Yussuf a consegnare al capo del fascismo la celeberrima «spada dell’Islam»21. La possibilità data a Shifau, allora non ancora ventenne e non ancora diplomato, e al più giovane fratello Ahmed che lo seguì a Roma due anni dopo, rientrava probabilmente in quella serie di privilegi che i mediatori acquisivano e contrattavano in virtù della loro posizione di tramite tra colonizzatori e colonizzati22. Sembrano confermare questa ipotesi i nomi degli altri ospiti libici dello stesso convitto romano, tutti in vario modo collegati a famiglie appartenenti al notabilato libico. Tra coloro che si trovano a Roma o comunque in Italia prima della guerra, in qualità di studenti assistiti dal governo italiano c’erano sia Abdullatif Kikhia, del clan bengasino dei Kikhia, che nel dopoguerra avrebbe dato il primo ministro al governo del re Idris I; sia Taufik el-Seqizli, il figlio del suo successore, Mohamed el-Seqizli, ex scrivano pubblico. A Roma si trovava poi Mohamed Khaled, figlio del capitano libico Kalefa Khaled, ufficiale decorato con quattro medaglie al valor militare per aver combattuto al fianco degli italiani fin dai tempi della «riconquista» fascista della Libia. Se il privilegio dei figli nasceva dalla posizione dei genitori, la presenza degli studenti in Italia dipendeva anche dalla particolare congiuntura politica, nello specifico dalla già citata «svolta filoaraba» del regime. Per quanto si trattasse in gran parte di una mossa propagandistica, da parte di Mussolini esisteva una effettiva volontà di presentarsi a tutte le popolazioni arabe con un volto nuovo. Senza elaborare davvero un nuovo sistema di gestione del potere in colonia, dunque, il regime nella seconda metà degli anni Trenta prese iniziative isolate che volevano suggerire una nuova considerazione nei confronti dei musulmani in generale e più in particolare dei notabili libici. Per questo, e anche per le pressioni del governatore della Libia Italo Balbo, alla fine di quel decennio era stata introdotta una nuova cittadinanza libica speciale, che in teoria avrebbe dovuto consentire a chi la possedeva l’accesso agli uffici amministrativi in Tripolitania e Cirenaica23. L’apertura nei confronti dei 31 023_086_cap_1.indd 31 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera rampolli di alcune famiglie libiche costituiva dunque un ulteriore strumento di avvicinamento al regime di quella parte della società colonizzata: la riconoscenza che questi provvedimenti avrebbero portato al regime consolidava infatti il rapporto con famiglie considerate strategiche o comunque utili per il controllo della colonia. L’istruzione dei giovani notabili libici in Italia poteva poi risultare vantaggiosa per il governo anche da un altro punto di vista: attraverso il sovvenzionamento dell’istruzione si coltivavano nuove generazioni, sempre legate alle vecchie élite, sulla cui fedeltà e sui cui sentimenti filoitaliani si sperava di poter contare anche in futuro. Detto questo, il governo italiano dimostrò però un certo imbarazzo nel gestire la presenza nel Paese degli studenti libici. La loro condizione sociale avrebbe dovuto garantire loro uno status di privilegio, mentre quella ‘razziale’ li poneva in uno stato di inferiorità, rispetto agli italiani ma anche agli altri stranieri. Indicativa di queste contraddizioni è la reazione del ministero dell’Africa Italiana alla richiesta fatta nel novembre del 1939 da un gruppo di studenti musulmani (egiziani, libanesi, siriani e palestinesi) residenti a Roma, che chiedevano alle autorità italiane di poter costituire un’associazione culturale. In considerazione della politica filoaraba il ministero inizialmente diede un parere positivo, dal momento che «ai fini della nostra azione e penetrazione politica nei Paesi arabi più progrediti una tale associazione potrebbe, non è dubbio, svolgere un’opera proficua»24. Si escludeva, però, che all’associazione potessero aderire anche gli studenti libici: «il solo fatto che essi non siano cittadini», recitava il documento, escludeva che essi potessero partecipare «ad una società formata, come è detto nella proposta, ‘su basi di egualità tra europei e arabi’». L’ultima parola spettò al ministro Teruzzi, che proprio in virtù della presenza nella Penisola degli studenti sudditi italiani decise di sconsigliare del tutto la costituzione del sodalizio. «Ove l’associazione fosse costituita, non si reputerebbe opportuno autorizzare a farne parte i libici ed i nostri sudditi di religione musulmana che vivono nel Regno e che dovessero chiedere di iscriversi ad essa. […] È d’altra parte evidente – proseguiva – che non sarebbe gradito agli stessi nostri sudditi il dover constatare l’esistenza del Regno di una associazione islamica a carattere religioso culturale dalla quale essi sarebbero per principio esclusi, mentre vi dovrebbero poter essere ammessi i loro correligionari purché sudditi di altri stati»25. Ancora più problematica era la presenza in Italia dei sudditi del Corno d’Africa, per i quali la madrepatria restava una terra straniera. Tra le pochissime eccezioni erano gli etiopici ammessi a studiare nelle struttu32 023_086_cap_1.indd 32 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia re delle Santa Sede, in primo luogo nel Pontificio Collegio Etiopico26. Il collegio nel 1919 era stato trasformato in modo da accogliere non più pellegrini, come accadeva in passato, ma appunto studenti provenienti dal Corno d’Africa. Dopo l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’Italia la presenza di questi giovani a Roma, seppure al riparo delle mura vaticane, fu la causa di alcuni contrasti tra il regime e lo Stato Pontificio: per legge, infatti, quest’ultimo concedeva la cittadinanza vaticana a chiunque si stabilisse, per un periodo più o meno lungo, a vivere nel suo territorio. La cittadinanza valeva per tutta la durata del soggiorno, ma i Patti Lateranensi a loro volta stabilivano che, uno volta che il cittadino vaticano avesse spostato la propria residenza dallo Stato Pontificio allo Stato italiano, divenisse cittadino di quest’ultimo. Poco prima dell’inizio della guerra il governo italiano presentò formali rimostranze alla Santa Sede per la pratica di concedere la cittadinanza vaticana agli etiopi, nel frattempo diventati sudditi italiani. Il governo temeva che, concluso il periodo di studi e tornati in colonia, gli studenti avrebbero approfittato dello status guadagnato in Vaticano per accedere alla cittadinanza italiana. Eludendo in questo modo, scriveva Teruzzi, la «integrale applicazione dei principi generali del nostro diritto in materia di razza»27. Come se non bastasse, sul breve periodo il ministero dell’Africa Italiana paventava un altro rischio. Uscendo dalle mura dello Stato Pontificio per brevi vacanze, i giovani etiopici avrebbero potuto girare per Roma protetti dalla loro cittadinanza vaticana. Si trattava di uno scenario particolarmente sgradito alle autorità fasciste, in primo luogo perché rendeva permeabile la barriera innalzata per mantenere le popolazioni sottoposte al dominio italiano lontane dal territorio nazionale. L’eventualità di avere gli studenti etiopici in giro per la capitale, tutelati dalla cittadinanza straniera, rappresentava inoltre un rischio politico. L’OVRA, la polizia segreta fascista, aveva infatti segnalato già da tempo al ministero degli Interni e a quello dell’Africa Italiana quanto fossero diffusi, fra gli studenti del Collegio Etiopico in Vaticano «i soliti sentimenti antitaliani». Tra i trentadue collegiali ospitati dalla struttura nel dicembre 1940 furono segnalati due diciassettenni, Tesfaghiorghis Tigiar e Uolde Johannes Habtemariam, prossimi a conseguire la laurea e a rientrare in Africa Orientale per iniziare il ministero di sacerdoti. «In linea fiduciaria risulta effettivamente che i predetti non tralasciano occasione per criticare ogni provvedimento del nostro Governo e in particolare del regime, svolgendo tra gli altri seminaristi una dannosa propaganda antitaliana», scriveva il ministro Teruzzi, disponendo nei confronti loro e dei loro compagni un serra33 023_086_cap_1.indd 33 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera to controllo e la censura della corrispondenza. «Tra l’altro» aggiungeva «essi dimostrano di rimpiangere la ‘libertà di un tempo della loro terra’, auspicandone il ritorno»28. Già dagli ultimi anni del regime, insomma, si trovava in Italia uno sparuto ma articolato nucleo di persone provenienti dalle colonie, che nutrivano sentimenti e avevano posizioni decisamente differenti verso la società italiana e il governo di Roma. Quest’ultimo, a sua volta, aveva nei loro confronti atteggiamenti diversi, che andavano dalla tolleranza al controllo sociale, e comprendevano un sostegno anche finanziario. Nello stesso modo il governo gestì un altro gruppo di sudditi coloniali: uomini e donne che dall’Africa Orientale erano giunti in Italia, immediatamente prima dell’ingresso del Paese nella seconda guerra mondiale, per partecipare come figuranti alla Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare. Prigionieri in madrepatria. Gli africani della Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare L’idea di una esposizione che fosse la vetrina della civiltà italiana e della sua potenza imperiale era nata nel 1937, appena dopo la proclamazione dell’impero29. La Triennale era l’ultima delle iniziative pensate e realizzate nel Paese fin dall’Ottocento, sulla scia delle grandi esibizioni coloniali allestite in tutta Europa che mostravano territori, prodotti e, soprattutto, le popolazioni delle colonie, allo scopo di consolidare non soltanto un immaginario e una «coscienza coloniale», ma come strumento anche per la creazione di specifiche identità culturali collettive e nazionali30. In particolare la pratica di portare in madrepatria «esemplari umani» provenienti dai territori coloniali era diffusa in Italia dal XIX secolo, e anche il fascismo vi aveva già fatto ricorso in più occasioni: la più famosa era stata l’Esposizione coloniale organizzata a Torino nel 1928, che vide la ricostruzione di tre villaggi africani – cirenaico, somalo ed eritreo – e per il quale le suore missionarie avevano portato in Italia trenta bambini provenienti dalle colonie31. Per realizzare la Mostra Triennale, tra il 1938 e il 1940 il regime aveva provveduto a sgomberare ed edificare un’enorme area nelle vicinanze di Napoli, individuata anche per la sua posizione nel Mediterraneo come espressione della attitudine espansionista della nazione. Nei progetti dello stesso Mussolini il capoluogo campano avrebbe dovuto ospitare permanentemente, nell’area della mostra, manifestazioni ed iniziative finalizzate ad esaltare il ruolo dell’Italia in Africa e nell’Oriente. 34 023_086_cap_1.indd 34 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia L’esposizione, con i suoi trentasei padiglioni, fu inaugurata alla presenza del re Vittorio Emanuele III in occasione del quarto anniversario della proclamazione dell’impero, il 9 maggio del 1940, ma fu costretta a chiudere i battenti dopo appena un mese a causa dell’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale. Gli eritrei, i somali e gli etiopici che erano stati trasportati fin là per animare il cosiddetto «villaggio indigeno», attraverso cui i visitatori della mostra si sarebbero dovuti fare un’idea della vita nel Corno d’Africa, rimasero bloccati nella penisola32. Si trattava di cinquantasette persone, soprattutto artigiani e operai, in larga maggioranza uomini ma anche diciassette donne e sette bambini, appartenenti a diverse religioni (copti e musulmani) e gruppi etnici (eritrei, somali, amara, scioiani, galla, hararini, uolama e sidama). Erano stati scelti e ingaggiati dal governo dell’Africa Orientale – «quasi a titolo di premio», scriverà il ministro dell’Africa italiana Teruzzi – per dare nel corso della mostra dimostrazione dell’esercizio dei rispettivi mestieri, e per mettere in scena ad uso e consumo dei visitatori la vita di un villaggio dell’Africa orientale. Con le stesse finalità l’Ente mostra aveva deciso la creazione anche di un padiglione libico, sempre con figuranti provenienti dalla colonia: il destino dei libici, però, sarebbe stato molto diverso, e decisamente meno sfortunato di quello dei sudditi provenienti dal Corno d’Africa. Rispetto alle precedenti esibizioni che prevedevano la presenza di esseri umani, la legislazione razzista in vigore nel 1940 aveva posto dei problemi del tutto nuovi. Per la preoccupazione di difendere la «razza italica» dal contagio delle «razze inferiori», era stata perfino messa in discussione l’opportunità stessa di portare nel territorio nazionale dei sudditi coloniali neri. Si temeva che la prolungata permanenza nella penisola degli eritrei, dei somali e degli etiopici (mentre nulla si ritrova a proposito dei libici) comportasse il «pericolo di gravi inconvenienti nel campo razzistico»33. Fu alla fine lo stesso Teruzzi ad annunciare a Mussolini di aver autorizzato la permanenza temporanea degli africani del Corno destinati al villaggio indigeno: a patto, questo, che li si mantenesse sotto stretto controllo, in modo da evitare qualunque contatto con gli italiani. A questo scopo fu creata una apposita stazione della Polizia dell’Africa italiana, che avrebbe accolto un gruppo di militari – sia italiani sia africani – specificamente preposti alla sorveglianza del personale coloniale34. Anche la presenza di ascari della PAI sul territorio nazionale era una novità: per la mostra ne furono inviati in tutto 55, la maggior parte dei quali era destinata al servizio d’onore. Alla chiusura dell’esposizione il loro destino corse parallelo a quello dei «figuranti» del villaggio, del cui inquadramento e controllo sarebbero stati incaricati35. 35 023_086_cap_1.indd 35 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera Gli africani, divisi sulla base del gruppo etnico di appartenenza, furono sistemati in un campo speciale costruito nella zona della Triennale, in alloggiamenti di legno che erano stati in precedenza utilizzati dai bersaglieri. Ad ognuno di loro era destinata una paga giornaliera, fissata tra le venticinque e le trenta lire per gli uomini, dodici per le donne e sei per i bambini. La situazione della piccolissima comunità iniziò a complicarsi dopo la chiusura della mostra. Già ora la posizione dei libici si rivelò più semplice, poiché qualche giorno prima dell’inizio delle ostilità si riuscì ad imbarcarli per la vicina «quarta sponda»36. Il contesto bellico rendeva invece impossibile il rimpatrio verso il Corno d’Africa, cosicché eritrei, somali ed etiopici rimasero bloccati in Italia. Il rapido crollo delle truppe italiane nei territori dell’impero li costrinse poi ad un esilio dalla durata indefinita, senza che il rigido controllo imposto su di loro si allentasse in alcun modo. Anzi, come ha scritto Abbattista, «il controllo temporaneo dei loro corpi fisici in quanto oggetti da esposizione, destinati però a tornare in patria nel volgere di sei mesi, si era rapidamente mutato […] in un vero e proprio disciplinamento poliziesco permanente»37. I sudditi coloniali – il cui numero nel frattempo cresceva: tra il 1940 e il 1943 nacquero cinque bambini – continuarono ad essere costretti in uno spazio angusto, con la consegna di allontanarsi al massimo due volte alla settimana e soltanto dietro accompagnamento di un poliziotto. La limitazione dei movimenti era esplicitamente giustificata come una profilassi per preservare la nazione da un contatto ritenuto pericoloso con le cosiddette «razze inferiori»: per questo motivo il comando generale respingeva ogni richiesta che, anche per periodi limitati, e anche dietro controllo delle forze Polizia dell’Africa Italiana, comportasse una qualsiasi interazione tra africani e italiani all’esterno del campo. Trovandosi a valutare la richiesta di due somali, Islao Omar e Aden Scirè, di trascorrere alcuni giorni ospiti di un connazionale momentaneamente a Roma, il direttore generale del corpo PAI, Matteo Gallimberti giustificò il proprio rifiuto affermando che: «I detti somali, seppure opportunamente accompagnati durante la loro permanenza in Roma – non mancherebbero, con ogni probabilità, a compenso del lungo periodo di limitata libertà in cui sono stati e sono tuttora costretti – di rendersi causa di riprovevoli azioni con conseguenti spiacevoli incidenti»38. Per lo stesso motivo, nonostante le pressanti richieste non fu consentito che i sudditi coloniali lavorassero al di fuori del campo. Fu rigettata anche la domanda presentata dalla Banca d’Italia, tre dipendenti della quale erano stati inviati dal Corno d’Africa a Napoli per lavorare al pa36 023_086_cap_1.indd 36 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia diglione dell’Istituto. A causa del richiamo di molti impiegati alle armi, la filiale di Napoli si era trovata con il personale drasticamente ridotto, per cui chiese di poter usufruire dell’aiuto dei suoi tre dipendenti africani alloggiati nel campo. Anche in questo caso il comandante ritenne opportuno negare il proprio consenso per non contravvenire alle stringenti norme relative ai sudditi inviati per la mostra. Fecero eccezione i permessi accordati ai tre sudditi trasferiti a Roma nel 1941 per contribuire alle radiotrasmissioni di propaganda in lingua tigrina e amarica, realizzate per il Corno d’Africa dal ministero dell’Africa Italiana insieme a quello della Cultura Popolare. Tra questi era una donna eritrea, Abeba Bisset, scelta poiché in grado di leggere e scrivere anche l’italiano39. Il controllo cui erano sottoposti gli africani della Mostra d’Oltremare avvicinava sempre di più il loro stato a quello dei confinati politici, e rese il clima interno al campo sempre più teso. Oltre alle complesse dinamiche che si creano normalmente all’interno dei gruppi umani costretti alla convivenza per lungo tempo (gelosie, creazione di gruppi antagonisti, intemperanze) e ai problemi dati dal dover affrontare il clima invernale in baracche non adeguatamente riscaldate, il malcontento si diresse verso il comando italiano del campo e in qualche caso contro l’Italia in generale. L’insofferenza emerse in alcune occasioni: ad esempio, rischiò un provvedimento giudiziario un etiope, Hailù Uoldejesus che, dopo un’uscita a Bagnoli, fu denunciato per offese all’Italia e agli italiani. Contro di lui la testimonianza di un oste, che sosteneva di essere stato aggredito verbalmente dall’uomo. «Avete paura che non paghiamo?», avrebbe urlato questi. «Noi etiopi siamo ricchi e potremmo pagare anche in oro. Voi italiani stare meschini e miserabili ma gli inglesi vi strozzeranno e vi metteranno un chiodo nel cuore»40. Più spesso le lamentele venivano espresse per iscritto alla dirigenza del campo e riguardavano le razioni alimentari, considerate non adeguate, o le paghe, considerate insufficienti e troppo irregolari per mantenere un livello di vita dignitoso. A queste si aggiunsero le denunce di violenze e soprusi commessi da alcune guardie. Il sistema imposto dal controllo del campo imponeva una rigida gerarchia, con i capi di ogni gruppo a controllare gli altri e i poliziotti dell’Africa Italiana a capo di tutti. Un poliziotto italiano fu allontanato e rispedito in Etiopia perché riconosciuto come inadatto al lavoro di sorveglianza a causa dei suoi modi «brutali e a volte anche violenti» nei confronti degli africani41. In altri casi i contrasti tra guardie e coscritti si risolvevano con la punizione di questi ultimi, ma alla direzione generale degli Affari Politici giungevano diverse segnalazioni a proposito di violenze perpetuate dai capi 37 023_086_cap_1.indd 37 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera africani e coperte dai responsabili italiani della PAI con minacce e arresti. «Al solo titolo di informazione diciamo che dal giorno in cui siamo giunti in Italia non abbiamo trovato che dei soprusi e dei mali per noi nocivi, cosa che da noi in patria non succedeva», scrivevano i due etiopici Scifarrà Aba Dico e Aba-Bulgur Aba Garic. I dirigenti del ministero dell’Africa Italiana guardavano con una certa attenzione ai disagi lamentati dagli ospiti del campo. Moreno, allora a capo della direzione Affari Politici, consigliò di soddisfare le loro richieste, sia per evitare disordini sia perché, con una certa lungimiranza, riteneva che quelle persone sarebbero state utili dopo la fine del conflitto per ristabilire l’ordine nei territori coloniali attraversati dalla guerra42. Diverso l’atteggiamento sia dei responsabili dell’organizzazione della mostra, sia dei vertici del comando della PAI, che consideravano esagerati i problemi denunciati degli africani, frutto di una tendenza naturale (dovuta alla «attitudine razziale» delle popolazioni africane, si diceva) alla lamentela. Una evidente interiorizzazione del discorso razzista emergeva in una lettera spedita nel gennaio del 1943 dalla direzione Servizi di guerra. Secondo l’autore: ozio volontario, costrizione in accampamento – resa necessaria da avvenute intemperanze – la coabitazione di nuclei differenti per razza e religione, la nostalgia dell’Africa, la difficoltà di acclimatazione e quelle derivanti dalla situazione di guerra, aggiunte ai tipici difetti della razza, hanno fatto di questi nativi degli elementi insofferenti, litigiosi, ipercritici, neghittosi, incontinenti, in costante sollecitudine dei miglioramenti più disparati, scontenti di tutto, privi di ogni comprensione per le non comuni provvidenze adottate dagli organi governativi nei loro confronti, pronti ad avanzare ogni giorno con petulanza tipicamente orientale reclami e pretese, la cui inconsistenza e falsità è bene nota a chiunque abbia esperienza delle genti d’Africa43. Il disinteresse per le condizioni di vita degli africani da parte degli amministratori desiderosi di liberarsi di «quei neri» il prima possibile crebbe nel corso degli anni, traducendosi in un sempre meno celato razzismo e in una crescente incuria per il benessere degli assistiti. Alla fine del 1942 il ministero scoprì anche che i dirigenti del campo avevano arbitrariamente ridotto le razioni alimentari destinate ai sudditi. Per questi motivi, e perché i continui bombardamenti costringevano sempre più spesso gli africani e le loro guardie a trovare riparo in un rifugio poco distante dal campo, alla fine del gennaio 1943 si iniziò a valutare la possibilità di trasferire degli africani in un luogo più sicuro. 38 023_086_cap_1.indd 38 14/02/17 16:07 (Ex) sudditi. Libici, eritrei, somali ed etiopici in Italia La ricerca durò qualche mese e portò poi alla scelta di villa Spada, di proprietà della famiglia Vannuttelli, che si trovava a Treia, in provincia di Macerata. Villa Spada era stata precedentemente utilizzata come campo di concentramento per cittadine straniere e poi chiusa nel gennaio del 1942 per inagibilità dell’edificio44. Inizialmente la villa era stata scartata proprio perché considerata inadatta ad ospitare gli africani, sia per le sue condizioni, sia per la sua collocazione in uno dei luoghi più freddi della zona. Ciononostante la direzione generale del ministero decise di assumersi l’onere di alcune migliorie e tra l’8 e il 9 aprile trasportò comunque là i sudditi della mostra. Furono spostati da Napoli cinquantatré africani45, e con loro anche il comando di polizia della PAI, di cui però non è dato conoscere l’esatta consistenza. Anche qua, come già nel campo, non tardò a manifestarsi una certa tensione tra le guardie africane e italiane della PAI e quelli che erano, ormai a tutti gli effetti, dei confinati. Rispetto al periodo precedente gli incidenti assunsero ben presto un carattere politico: una relazione del comando PAI riporta ad esempio di uno scontro, causato da un ritardo, tra uno degli etiopici della mostra, Abdissà Agà, e uno sciumbascì eritreo di guardia. «Zitto tu, schiavo figlio di schiavi», pare avesse detto l’etiopico. «Tu sei eritreo ed io scioano, per cui tu sei un venduto e quando io tornerò alla mia terra sarò come bandiera, a casa mia e tu invece sarai un ruffiano che si fa fottere come una donna». Quello che a prima vista può apparire come un semplice scontro, forse anche dovuto alla diversa provenienza – e quindi alla diversa storia – dei due sudditi, assume un diverso significato alla luce degli eventi che sconvolsero la vita della villa pochi mesi dopo, quando il 6 di ottobre tre degli africani della mostra, Scifarrà Abbadicà, Ambagirù Abbuagi, Mahamud Abbascimbò, fuggirono dal campo, seguiti il 25 dallo stesso Abdissà Agà. Tre giorni dopo, il 28, la villa fu attaccata da un gruppo di partigiani: era infatti quella la zona di operazione di alcune bande, tra cui la «banda Mario» della brigata Garibaldi, che erano state informate della villa proprio dai fuggitivi. L’operazione aveva l’obiettivo di fare incetta delle armi automatiche là custodite e di liberare gli africani46. Circa trenta uomini tra slavi, inglesi e italiani fecero irruzione a villa Spada e, dopo aver ferito il proprietario e altre due persone, oltre alle armi si «portarono via alcuni indigeni». La prima relazione inviata al ministero parlava di dieci persone mancanti, mentre l’elenco stilato dal comando generale del PAI a gennaio ne indicava solo otto, tra cui una donna, tutti membri non del gruppo degli ascari PAI, bensì del nucleo di africani inizialmente giunti a Napoli per dare vita al villaggio indige39 023_086_cap_1.indd 39 14/02/17 16:07 La madrepatria è una terra straniera no47. Tra questi erano Nurù Tahar, Aden Scirè e Abbabuglù Abbamegal, che si unirono, con altri, alla guerra partigiana nella zona48. Dopo l’assalto la direzione generale degli Affari Politici manifestò le proprie, crescenti preoccupazioni per la sicurezza della zona, tanto che Enrico Cerulli nel novembre di quell’anno arrivò a pianificare un nuovo trasferimento a Roma. L’ordine però non fu mai realizzato e di lì a poco la villa venne a trovarsi nell’area liberata dagli Alleati sfuggendo così al controllo delle autorità fasciste. Furono gli Alleati, nel luglio 1944, a trasportare nel campo di Carbonara a Bari gli africani ancora presenti, e a disporne il rimpatrio dopo quattro anni dalla partenza dalle loro case49. Presumibilmente per la maggior parte degli «africani della Mostra d’oltremare» la vicenda italiana si concluse in quel momento. Almeno uno di loro però, Gheresellassè Maconnen, capo del gruppo eritreo a Treia, non fu rimpatriato subito ma nel 1946 si trovava ancora in Italia ospite del campo di Aversa, dopo essere passato per quello di Santa Maria di Leuca. Da qua scrisse più volte al ministero dell’Africa Italiana per ottenere aiuti economici e materiali in modo da affrontare meglio le avversità della permanenza in Italia prima dell’atteso rimpatrio per l’Eritrea50. La sua richiesta, che faceva leva sul proprio comportamento sempre corretto nei confronti dell’Italia, e sui diritti accumulati nei confronti del Paese durante gli anni precedenti, rende immediatamente evidente come la fine della guerra e quella (all’epoca non ancora accettata dai governi italiani) dell’impero non potevano chiudere, da sole, la questione coloniale. Ai governi postfascisti e alla Repubblica spettava ora farsi carico non solo delle questioni di mantenimento materiale, ma anche delle responsabilità morali nei confronti di persone il cui destino per decenni era stato segnato dal rapporto coloniale con l’Italia. Ritorno in madrepatria. Africani nell’Italia del dopoguerra Assisterli e rimpatriarli. Gli ex sudditi civili dopo il 1945 Alla fine della guerra i governi di Francia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio, oltre a gestire materialmente l’afflusso degli ex sudditi coloniali nei loro Paesi, dovettero fronteggiare le ricadute sociali della presenza dei migranti coloniali. La loro accettazione non era semplice, all’interno di società da secoli educate a percepirsi come incommensurabilmente superiori alle popolazioni africane e asiatiche. L’Italia invece, primo tra tutti gli stati imperialisti a dover gestire la fine del colonialismo, 40 023_086_cap_1.indd 40 14/02/17 16:07