www.gliamicidellamusica.net Pubblicato il 04 Ottobre 2010 Benjamin Britten Death in Venice di Roberta Pedrotti Interpreti: Miller, Hendricks, Riga. Direttore Bruno Bartoletti, regia, scene, costumi Pierluigi Pizzi. Venezia, Gran Teatro la Fenice, giugno 2008, DVD Dynamic 33608, 2010. A midsummer night dream , The turn of the screw , Billy Budd e Peter Grimes a Torino, ancora Grimes, The rape of Lucrecia , The turn of the screw e War Requiem fra Modena, Reggio Emilia e Parma, Billy e Lucrecia a Genova, a Venezia Midsummer , Death in Venice e Turn of the screw , quest’ultimo anche nel circuito lombardo, a Bologna e a Bari, Phaedra a Lugo, Albert Herring a Montepulciano, Midsummer e fra pochi mesi Death in Venice alla Scala. Sono solo alcune delle più importanti produzioni britteniane degli ultimi vent’anni in Italia, le prime a riemergere alla memoria facendo in breve mente locale. Il motivo della relativa fortuna anche italiana del compositore britannico, di certo il più rappresentato fra gli autori teatrali - già l’esistenza di altri operisti potrebbe essere dibattuta - del secondo dopoguerra, è da riconoscersi, più ancora che nella drammaturgia, nella capacità di lavorare per la scena e di interpretare la modernità attraverso la sottigliezza psicologica dei suoi personaggi, nella propensione a scrivere per le voci. Billy Budd, Claggart, il capitano Vere, l’Istitutrice, Peter Quint, Lucrecia, Grimes, Ellen Oxford sono tutte creature, più che ruoli, ambiti dalle primedonne, dai tenori, dai baritoni e dai bassi, che possono trovarvi immense soddisfazioni. Scrivere per il teatro, per il pubblico, per la voce e per gli artisti (ivi compresi direttori e registi, tale è il valore di musica e libretti) è la chiave del successo di Britten. Lo conferma anche questa bella realizzazione di Death in Venice, nella quale più ancora della direzione ipnotica di Bruno Bartoletti, alfiere italiano di questo repertorio, e dell’allestimento onirico firmato da Pierluigi Pizzi sono i cantanti a brillare. In primis l’Aschenbach di Marlin Miller, già Peter Quint di riferimento in questi ultimi anni e ormai da considerarsi a buon diritto nella storia dell’interpretazione britteniana. Il suo scrittore immaginato da Thomas Mann appare come un professorino ordinario che sembra uscito da un college anglosassone, infastidito dal volgo profano, impacciato, a disagio. Non ci stupiremmo se lo ritrovassimo al fianco di Russel Crowe in A beautiful Mind , di Kevin Kline in Il club degli imperatori o di Anthony Hopkins in Viaggio in Inghilterra. In effetti la recitazione è cinematografica, non indulge né sulla crisi di mezz’età né sulla sessualità repressa, bensì rivela un’angoscia più profonda, che emerge lentamente, quasi esplode, come lo stesso morbo che assedia la laguna. La mediocrità dimessa con cui si presenta all’inizio rende ancor più forte la sua metamorfosi: Miller freme, si asciuga nervosamente il sudore, l’afa è una condizione dell’anima più che realtà climatica, la stessa Venezia in cui s’aggira è la proiezione da incubo della sua lacerazione fra essere e apparire, fra forma e senso, fra aspirazione apollinea e richiamo dionisiaco. Il viso giovane del tenore si trasfigura, non s’invecchia artificialmente ma riesce a rendere credibile la scena del trucco dal barbiere proprio perché non ne emerge il grottesco, bensì l’espressione di una deriva psichica senza scampo. Ovviamente ciò non sarebbe possibile se il canto non rispondesse a tutte le esigenze della partitura e anche da questo punto di vista Miller è perfetto per tenuta (Aschenbach è in scena dall’inizio alla fine dell’opera), per il fascino timbrico venato d’inquietudine, per duttilità e sicurezza in tutte le pieghe della scrittura britteniana. Una grande prova cui risponde quella parimenti convincente di Scott Hendricks, specialista del Novecento storico, caleidoscopico, sardonico interprete delle voci provocatorie della tentazione e dell’allucinazione, di un cupio dissolvi che è cavalcata verso il nulla e l’abisso: sensuale, violento, ambiguo e misterioso, ombra mitologica, presagio o evocazione dei sensi e delle angosce represse, è il viaggiatore, il vecchio gondoliere, il direttore dell’hotel, barbiere, vecchio azzimato, attore e voce di Dioniso. Molto bravi anche i cantanti nei numerosi ruoli minori (Sabrina Vianello, Liesbeth Devos, Julie Mellor, Marco Voleri, Yijie Shi, William Corrò e Luca dell’Amico), con una riserva solo sulla vocalità asprigna del controtenore Razek-François Bitar come voce di Apollo. Tadzio nell’opera non canta, è pura immagine, pura fisicità che non può comunicare con il mondo sonoro e verbale di Aschenbach e dello stesso Dioniso. Eppure è lui che lo risveglia, rimanendo tuttavia forma ideal purissima e apollinea: ottima è dunque l’idea di Pizzi di ampliare il ruolo dell’altro ballerino, l’amico Jaschiu, che di Tadzio diviene una sorta di alter ego, simile per corporatura, ma più mediterraneo e abbronzato, doppio quindi dionisiaco, a fronte dell’incarnato marmoreo del giovane polacco. Non si tratta, peraltro, di un fanciullo efebico, ma di un ragazzo dal fisico statuario e dal profilo greco che permette al regista di riprendere l’amato effetto di silouette in controluce evocando immagini di ceramiche attiche a figure nere. Questo Tadzio danzante (il bravissimo Alessandro Riga, e non meno bravo è lo Jaschiu di Danilo Palmieri) astrae il turbamento di Aschenbach, che diviene esistenziale, più che sessuale (sottraendolo anche all’ambiguità della passione per l’efebo). Anzi, nella scena del sogno è il giovane polacco a dominare nel mondo superiore dell’ideale, mentre sotto di lui la camera nella quale lo scrittore giace è invasa da corpi nudi di baccanti, uomini e donne, mescolati in un’orgia. Una scena di grande effetto, quasi pittorica, che corona una visione in soggettiva distorta di cui è permeata tutta la messa in scena. Un grande spazio nero, immagini veneziane immerse nella nebbia, incombenti cipressi cimiteriali: l’iconografia classica di Pizzi si ricompone dando corpo all’incubo di Aschenbach, alla morte incombente che alfine trionfa. Come si è già accennato la direzione di Bartoletti, nella sua sinuosa lucidità, nella precisione assoluto, nel perfetto equilibrio fra tutte le suggestioni timbriche e tematiche celebra solennemente, disperatamente, il viaggio verso il caos e la morte di Aschenbach, sviluppando tutti i meandri della partitura - che come in The turn of the screw vive in perfetta simbiosi con il libretto di Myfanwy Piper - senza illuminarli artificialmente, anzi, esplorandone le ombre. DVD eccellente per gli amanti di Britten, corredato dalle note sintetiche e puntuali di Stefano Olcese. I sottotitoli sono in inglese, italiano, francese, tedesco e spagnolo.