LE OPINIONI LA RESPONSABILITÀ NEL MONDO DELL'IMPRESA DOPO LA RIFORMA DEL DIRITTO SOCIETARIO (25) La responsabilità civile di amministratori e sindaci (26) La responsabilità derivante dagli “interessi degli amministratori” nella società per azioni L'attuale formula dell'art. 2391 c.c. si ispira al generale dovere di correttezza e trasparenza imposto alla gestione sociale, secondo le direttive impartite dalla legge delega. Nella versione novellata non è più contemplato l'obbligo di astensione dell'amministratore. A tale dovere di disclosure si affianca quello, introdotto dalla riforma, di motivazione del provvedimento adottato. In caso di inosservanza dell'obbligo di informazione, nell'ipotesi di danno potenziale alla società, la delibera assunta è impugnabile. Qualora, addirittura, il pregiudizio si riveli effettivo, l'amministratore sarà responsabile nei confronti dell'ente. Sempre il gestore in conflitto è, infine, chiamato a rendere conto degli eventuali danni derivanti alla società, nel caso di sfruttamento a favore proprio o di terzi di informazioni privilegiate apprese nell'esercizio del suo incarico (c.d. corporate opportunities). Nell'attuale versione, il dovere di informativa incombe ogni qual volta l'amministratore vanti un interesse in una vicenda societaria, sia esso in contrasto, compatibile o, persino coincidente con quello sociale. L'interesse medesimo può essere proprio o di terzi. In questo secondo caso può derivare, sia da un obbligo giuridico assunto 25 Questo articolo si propone di riassumere gli atti del Convegno sul tema “La responsabilità nel mondo dell'impresa dopo la riforma del diritto societario”, svoltosi a, Como, Villa Olmo, il 2 dicembre 2004 ed organizzato dall'ALUB, dal Centro Studi Giuridici Corporate Lawyers & Consultants Network e dall'Ordine dei Dottori Commercialisti di Como. 26 Sintesi della relazione dell'avv. Massimiliano Nicodemo. dall'organo di gestione, sia da un suo legame connesso a rapporti societari o personali. Può, altresì, essere patrimoniale o non e, per far scattare il relativo dovere di disclosure, deve superare una soglia minima di rilevanza quantitativa e qualitativa, tale da perturbare il giudizio dell'amministratore. Il soggetto, nella circostanza, investito deve comunicare l'esistenza del proprio interesse a tutti i componenti del consiglio di cui fa parte ed all'organo di controllo. La nuova norma definisce il contenuto dell'informazione: devono essere specificati natura, termini, origine e portata dell'interesse, assicurando, dunque il full disclosure. Non è richiesta una forma solenne di comunicazione, né una a fini probatori; deve, comunque, essere garantita la completa conoscenza a tutti i destinatari. Ciò rileva ai fini del requisito di legittimazione all'impugnazione ai sensi del terzo comma dell'art. 2391 c.c.. Recepita l'informativa, il consiglio deve “motivare le ragioni e la convenienza per la società dell'operazione”. La motivazione deve essere esaustiva e logica, idonea a chiarire tutti gli interessi in gioco ed a specificare la ragione che determini al compimento o non della data operazione. Devono, nella stessa, essere, altresì, segnalati i vantaggi per l'ente, nonché spiegato il perché l'interesse dell'amministratore non abbia interferito sulla deliberazione. Quest'ultima, se assunta con voto determinate del soggetto interessato, è annullabile qualora risulti potenzialmente dannosa per la società, sia se l'operazione venga disposta, sia in caso contrario. Inoltre, il membro del consiglio che non si astenga ed esprima un voto contrario all'interesse sociale è revocabile dall'assemblea e passibile di denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c.. L'inosservanza del dovere di informativa di cui al primo comma dell'art. 2391 c.c. rende la delibera, se suscettibile di provocare un danno alla società, impugnabile dagli amministratori o dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla sua data, indipendentemente dalla partecipazione o non all'adozione della stessa da parte dell'interessato (art. 2391, terzo comma, c.c.). Il difetto di informazione non permette agli aventi causa di conoscere la situazione di interferenza, dunque, il requisito del danno è in re ipsa. Anche il mancato rispetto dell'obbligo di motivazione da parte del consiglio rende annullabile la delibera. Non è, comunque, ammessa l'impugnazione del membro consenziente del consiglio, una volta che gli obblighi informativi siano stati adempiuti. Il membro dell'organo gestorio cointeressato, qualora la sua posizione prevalga su quella della società con conseguente danno a carico di quest'ultima, può votare, a condizione che il suo voto non sia determinante per la delibera, pena l'invalidità della stessa. Ai fini dell'impugnazione della delibera, il terzo comma dell'art. 2391 c.c. richiede il configurarsi di un danno per la società. L'esistenza di un interesse extrasociale in capo all'amministratore genera di per sé un danno potenziale. In questo caso, a differenza che per l'esperimento dell'azione di responsabilità nei confronti del membro coinvolto, non occorre la prova concreta del pregiudizio, ma è sufficiente la sua ragionevole evidenza. Legittimati all'impugnativa della delibera sono, in presenza di violazione dell'obbligo di disclosure, tutti gli amministratori, a prescindere dalla loro partecipazione alla procedura di assunzione della delibera ed al voto. È, pertanto, legittimato pure il soggetto interessato, anche laddove abbia votato a favore dell'operazione, nel caso in cui, successivamente, reputi la stessa potenzialmente nociva per la società o, comunque, voglia limitare la sua responsabilità. Qualora, invece, egli abbia assolto l'obbligo di informativa, possono impugnare il provvedimento solo i membri del consiglio assenti, dissenzienti o astenuti. Legittimato è, anche, il collegio sindacale. La delibera può, infine, essere attaccata dai soci, se lesiva dei loro diritti alla luce del disposto dell'art. 2388, quarto comma, c.c., introdotto dalla riforma. Data esecuzione alla decisione, l'amministratore interessato risponde nei confronti della società, qualora si sia verificato un danno effettivo a carico di quest'ultima a causa della sua azione od omissione. Si configura, pertanto, un'ipotesi riconducibile alla generale fattispecie di cui agli artt. 2392 e 2393 c.c., che non diverge, nella sostanza, da quella precedentemente prevista, secondo la quale l'amministratore rispondeva “delle perdite che siano derivate alla società dal compimento dell'operazione”. L'organo gestorio deve rendere conto del suo operato anche se non ha preso parte all'iter che ha condotto all'adozione della delibera, non ha dato esecuzione direttamente all'attività decisa o non si è trovato in una condizione di conflitto di interessi. Nel caso il comportamento imputabile al membro del consiglio coinvolto sia omissivo, deve essere dimostrato il nesso di causalità tra detta inerzia ed il danno arrecato. Ciò al fine di scongiurare la responsabilità oggettiva. L'ultimo comma della norma in commento prevede che il soggetto interessato sia, altresì, chiamato a rispondere dei danni derivati all'ente di appartenenza dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di opportunità di affari apprese nell'esercizio delle sue funzioni. La disposizione deve essere coordinata con la lettera dell'art. 2391 c.c.. In quest'ottica, l'amministratore che venga a conoscenza di una corporate opportunity potenzialmente sfruttabile per fini extrasociali deve comunicarlo agli altri che decideranno se sia la società a doverne o meno approfittare. In questo secondo caso, il membro interessato del consiglio può liberamente cogliere l'opportunità sottesa all'affare. La responsabilità derivante dal conflitto di interessi dell'amministratore di s.r.l. e la figura dell' “amministratore di fatto” La nuova disciplina (art. 2475-ter c.c.) è fondata sul diritto, accordato alla società, di invocare l'annullamento di contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi con la stessa, per conto proprio o di terzi, per scongiurare il danno eventualmente derivante dall'esecuzione dei negozi in parola. È, comunque, richiesta la condizione per cui tale situazione sia nota o, per lo meno, conoscibile dal terzo (art. 2475-ter, primo comma, c.c.) all'atto della stipula. Il disposto dell'articolo in esame conferisce, altresì, ai singoli membri del CdA e — ove nominato — al collegio sindacale, la legittimazione ad impugnare, entro il termine di decadenza di novanta giorni, le decisioni adottate dal consiglio con voto determinante del componente in conflitto di interessi, qualora le delibere medesime possano cagionare un danno patrimoniale alla società (art. 2475-ter, secondo comma, c.c.). Il rimedio non è esperibile ove siano stati scelti modelli di governance che non prevedano l'istituzione dell'organo gestorio tradizionale. Il legislatore richiede, comunque, quale presupposto di ogni iniziativa ammessa, la configurabilità di un danno effettivo e non meramente potenziale. In ogni caso, sono fatti salvi i diritti acquisiti in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione. Nella s.r.l. l'organo gestorio risponde per “i danni derivanti dall'inosservanza dei doveri (…) imposti dalla legge e dall'atto costitutivo per l'amministrazione della società” (art. 2476, primo comma, c.c.). Manca, a differenza di quanto prescritto per la S.p.A, il riferimento alla diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalla specifica competenza posseduta. In ogni caso, in assenza di una previsione espressa, può ritenersi operante, per le s.r.l., il dovere sotteso alle regole generali imposte in tema di adempimento delle obbligazioni (art. 1176, primo comma, c.c.). La responsabilità degli amministratori si configura sempre in presenza di un fatto personale e non deriva mai dalla sola carica rivestita. È, inoltre, necessario che chi sia chiamato a dare conto del suo comportamento abbia personalmente partecipato al compimento dell'atto cagione del danno, o, in mancanza, che non possa dimostrare di essere esente da colpa e non abbia manifestato il proprio dissenso, pur essendo a conoscenza dell'operazione (art. 2476, primo comma, c.c.). Qualora il gestore sia a conoscenza dell'atto pregiudizievole, se non vuole incorrere in responsabilità, ha l'onere di manifestare il proprio dissenso, che dovrebbe, in ogni caso, risultare dal libro delle decisioni degli amministratori. La legittimazione ad esperire l'azione spetta innanzitutto ai soci, indipendentemente dalla qualifica o meno di amministratori (art. 2476, terzo comma, c.c.). Il socio la esercita in nome proprio e per conto dell'ente. Ciascun membro della compagine è legittimato ad agire, qualunque sia la sua partecipazione al capitale sociale. L'entità della quota detenuta rileva, invece, per quanto riguarda la rinuncia o la transazione dell'azione (art. 2476, quinto comma, c.c.). Il socio che promuove l'azione può, altresì, chiedere, in presenza di gravi irregolarità gestorie, la revoca dell'amministratore a cui le stesse sono ascritte. Il provvedimento cautelare presuppone, comunque, che un danno si sia già verificato. Legittimata attiva è, anche, la società. Quest'ultima può, inoltre, rinunciare o transigere l'azione. In assenza di un'apposita previsione, il termine di prescrizione è quello dettato dall'art. 2949, primo comma, c.c.. È di cinque anni ed inizia a decorrere dal momento della produzione del danno a carico della società. La norma di cui all'art. 2476, settimo comma, c.c. prevede un'estensione della responsabilità ai “soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi ”. La previsione di una responsabilità a carico di chi eserciti effettivamente il potere di governance, pur in assenza di una qualifica formale, è tesa ad evitare che tale potere sia oggetto di abusi. La responsabilità ha natura contrattuale, discendendo dal contratto sociale e dal complesso di diritti ed obblighi che ne conseguono. Primo requisito è il concorso della stessa con quella degli amministratori ufficialmente investiti. Secondo è l'intenzionalità del comportamento. Sul significato da attribuire a tale ultimo termine impiegato dal legislatore, gli interpreti non sono concordi. La nozione sembra debba correlarsi all'evento cagionato dalla condotta e rappresentato dal danno per la società. Aderendo a tale interpretazione, non sarebbe sufficiente, ai fini della configurazione della responsabilità a carico del membro della compagine che non rivesta cariche gestorie formali, il fatto che egli abbia agito con colpa grave, ma si richiederebbe l'intento di arrecare un danno all'ente o addirittura l'animus nocendi. La tesi espressa pare quella più aderente allo spirito della previsione normativa. La responsabilità amministrativa delle società (27) Il D.Lgs. n. 231/2001 prevede la « responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società, nonché delle associazioni prive di personalità giuridica » quale conseguenza di determinati fatti-reato compiuti dai legali rappresentanti a beneficio dell'ente. La norma è scollegata dal sistema nel suo impianto strutturale e, inoltre, non segue una logica sistematica degli illeciti conforme con quella del sistema stesso. Infatti, la responsabilità dell'ente è prevista, dagli artt. 24 e 25 del decreto, solo per i reati di corruzione, concussione, malversazione, truffa aggravata e frode informatica in danno dello Stato o di altri enti pubblici, reati questi, quasi tutti sì di formulazione postcodicistica, ma inseriti in Capi differenti del Codice. Definire la responsabilità degli enti come responsabilità amministrativa tout court, dando luogo di fatto ad una figura atipica di responsabilità, quasi un tertium genus, più vicina a quella penale che non a quella amministrativa tipica, di certo non aiuta a perseguire quelle finalità di chiarezza e determinatezza della fattispecie cui ogni ordinamento liberal-democratico dovrebbe mirare. La recente produzione normativa in argomento è permeata da un vizio di fondo: l'incapacità del legislatore di orientarsi verso una 27 Sintesi della relazione del prof. avv. Fabio Foglia Manzillo. scelta decisa a favore o meno della responsabilità penale della persona giuridica con il risultato di creare un ibrido normativo quale la sanzione all'ente definita sì amministrativa, ma comminata dal giudice penale in forza di regole sostanziali e processuali proprie del diritto e della procedura penale. L'art. 2 dispone che la responsabilità dell'ente e le relative sanzioni debbono osservare il principio di stretta legalità. La disciplina dell'art. 3 è un logico corollario di quanto sancito dalla norma appena citata. Infatti, se l'irretroattività della legge penale è una delle necessarie conseguenze del principio di legalità, ovviamente non potrà sopravvivere la responsabilità dell'ente, una volta che la legge sia abrogata. Ulteriore corollario della legalità è il divieto di ultrattività della legge penale, con il conseguente divieto di ultrattività della sanzione amministrativa in ipotesi di abrogazione della norma incriminatrice e di quella contenente la sanzione nei confronti dell'ente stesso. Il principio di legalità, in ogni caso, diviene garanzia imprescindibile di libertà per il soggetto al quale sono imputabili fatti illeciti, e nei confronti del quale sono applicabili sanzioni restrittive della libertà personale e patrimoniale. Infatti, il sacrificio di tali libertà insopprimibili dell'individuo può essere giustificato unicamente in forza di precise e predeterminate scelte legislative. È da notare che, invece, l'appiattimento sulla disciplina penalistica è del tutto evidente nell'art. 4, che richiama gli artt. 7, 8, 9 e 10 del codice penale riguardo la perseguibilità dei reati commessi all'estero. Poiché l'intera disciplina della perseguibilità dei reati commessi all'estero è strutturata sull'illecito penale, non vi sono altre ragioni che consigliano l'uniformità di trattamento se non la chiara volontà di rendere il più possibile omogenee le modalità di applicazione delle sanzioni all'ente con quelle dell'illecito penale presupposto della responsabilità della persona giuridica. L'art. 4 prevede che l'ente che abbia la sede in Italia risponde anche dei reati commessi all'estero. A tal riguardo, è da evidenziare che la disciplina dovrà confrontarsi con il noto fenomeno della globalizzazione dell'economia e, conseguentemente, con la presenza di una pluralità di sedi di una società commerciale localizzate in più nazioni, nonché con l'operatività della stessa in differenti parti del globo. Organo competente a giudicare il reato commesso dal soggetto che agisce nell'interesse dell'ente è il giudice penale, secondo le modalità previste dal relativo Codice di rito; l'art. 38 dispone l'obbligatoria riunione dei procedimenti, aventi ad oggetto le due ipotesi di responsabilità, avvenuta la quale, il processo per l'accertamento della “responsabilità amministrativa” perde la sua autonomia. La riunione dei procedimenti, ai sensi del citato art. 38 è obbligatoria e il giudice penale deve compiere un duplice accertamento riguardo la responsabilità dell'agente persona fisica e dell'agente persona giuridica, nonché comminare la relativa sanzione alla persona giuridica. Altro evidente segnale di “penalizzazione” delle modalità di accertamento processuale è rappresentato dall'art. 40 che statuisce l'obbligatorietà della nomina del difensore di ufficio. Infatti, l'istituto in esame non trova alcun riscontro nel diritto amministrativo e nella relativa procedura. Senza meno la difesa di ufficio ha la propria genesi nel processo penale, quale strumento per garantire il diritto di difesa all'imputato, diritto, questo, sancito costituzionalmente dall'art. 24. La necessità di garantire in ogni caso il diritto di difesa all'imputato ha reso tale istituto tipico del processo penale, con riferimento alle posizioni processuali proprie dell'accusato. È da segnalare che l'esigenza di rendere effettiva l'applicazione del menzionato diritto, ha motivato il legislatore ad emanare la legge n. 60/2001 sulla difesa di ufficio. Altro evidente segnale di adeguamento degli strumenti di accertamento della responsabilità dell'ente alla responsabilità penale, per il relativo illecito commesso, è la previsione dell'incompatibilità dell'ufficio di testimone sia per l'agente del reato-base, sia per la persona fisica che rappresenta l'ente in giudizio. La veste di testimone è incompatibile con quella di imputato, alla pari diviene incompatibile con l'autore dell'illecito dal quale si genera la responsabilità dell'ente, e con chi rappresenta lo stesso nella fase del suo accertamento. Il parallelismo diviene ancor più stringente allorquando il capoverso dell'art. 44 dispone la possibile audizione del rappresentante della persona giuridica nelle forme e nei modi previsti dal Codice di procedura penale per l'imputato di reato connesso. Rilevante è anche l'estensione della disciplina dell'art. 513 c.p.p. con riguardo alla lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini o dell'udienza preliminare. Peraltro, appare abbastanza singolare che tale eventualità non sia prevista esplicitamente per l'autore dell'illecito penale, per il quale è stabilita, invece, la stessa incompatibilità sancita per il legale rappresentante della persona giuridica, a meno di non voler ritenere che la responsabilità dell'ente non sia del tutto appiattita sull'illecito penale commesso dalla persona fisica. Quest'ultima condizione è ancora più macroscopica se si analizzano le prescrizioni contemplate nelle sezioni del decreto, che attengono alle misure cautelari, alle indagini preliminari ed ai procedimenti speciali. La misura cautelare è sì uno strumento utilizzato anche nei procedimenti tesi ad accertare la responsabilità amministrativa o civile, ma la disciplina degli artt. 45, 46, 47, del decreto è evidentemente ispirata a quella penale. I criteri di scelta delle misure, previsti dall'art. 45, sciolgono ogni residuo dubbio in argomento riguardo l'uniformità della disciplina a quella processual-penalistica; il giudice, infatti, deve tener presente tre criteri: — la proporzionalità della misura al fatto compiuto e alla prevedibile sanzione che sarà applicata; — la specifica idoneità della misura alle esigenze di prevenzione; — la residualità della misura più grave dell'interdizione dall'attività per l'ente, rispetto le altre misure più gradate. I mezzi di impugnazione avverso i provvedimenti applicativi delle ordinanze custodiali sono, altresì, indubbiamente riferibili al sistema processuale penale, nel quale sono previsti specifici strumenti di garanzia per il cittadino imputato o indagato, che subisce pressanti restrizioni alla sua libertà personale o patrimoniale. L'art. 52 individua l'appello al Tribunale del riesame e il conseguente ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del Tribunale. Sempre in termini di garanzia per l'ente indagato, devono essere affrontati gli istituti delle indagini preliminari sia per quanto attiene l'invio dell'informazione di garanzia all'ente (art. 57), sia per i termini di durata delle indagini stesse (art. 56) equivalenti a quelli penalistici, il superamento dei quali, evidentemente, comporterà l'inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza degli stessi, infine, per la disciplina che prevede l'obbligatorietà, la precisione e la determinatezza della contestazione dell'illecito (art. 59). La Sezione VI introduce, inoltre, i riti alternativi propri del codice di procedura penale anche nei procedimenti a carico della persona giuridica. In particolare, l'art. 63 prevede l'applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. Il c.d. patteggiamento introdotto dal Codice del 1989, consiste nell'applicazione, ad opera del giudice della pena concordata tra le parti, pertanto non si comprende come si possa, poi, identificare la sanzione dell'ente come amministrativa, lì dove l'istituto in discussione ha quale oggetto tipico quella penale. È da notare, altresì, che la norma in esame presenta lacune, poiché non menziona eventuali limiti massimi di pena per l'applicabilità del patteggiamento, così come disposto dall'art. 444 c.p.p., che prevede che l'accordo tra le parti processuali riguardo la sanzione irrogata non superi i due anni. Dal breve esame di alcuni punti qualificanti del D.Lgs. n. 231/2001, emerge come la definizione legislativa di responsabilità dell'ente quale amministrativa tout court possa suscitare perplessità, tenendo presente i risvolti che la qualificazione di tale modello in un senso o nell'altro presenta nell'applicazione della norma. Sarebbe auspicabile, pertanto, una rimeditazione della scelta, alla quale segua l'armonizzazione della materia con il sistema sanzionatorio nel suo complesso. Purtroppo è da notare che i successivi passi del legislatore, anche se de iure condendo, si muovono in senso opposto. Silvia Petruzzino avvocato in Como AVVOCATI, NOTAI, CARROZZIERI: LA RITENZIONE 1. Il Far-West forense 150.000 avvocati: un numero enorme, destinato ad aumentare a ritmi vertiginosi, e divenuto incontrollabile anche per la statistica, visto che la stessa avvocatura non è in grado di contare i propri componenti su tutto il territorio nazionale se non a distanza di mesi, ed ancora con qualche approssimazione. Tutto ciò, come era stato ampiamente previsto e denunciato da molti anni e da tutta l'avvocatura, ha comportato uno scadimento della qualità deontologica che si riflette nei comportamenti segnalati ai Consigli dell'Ordine per l'esercizio della funzione disciplinare. Spesso i colleghi si lamentano del comportamento dei loro pari con le classiche frasi di rito, una delle quali dà il titolo a questo paragrafo. Il diffuso malumore per i comportamenti che diventano sempre più ricorrenti ci dà l'occasione per sviluppare alcuni aspetti relativi ad un tema tipico del Far-West forense: l'accaparramento del cliente sottratto, in corso di causa, al precedente difensore. La questione, come vedremo, è descritta con toni più misurati nel nostro codice deontologico; ma l'esame dei casi pratici e l'approfondimento delle norme applicabili riservano alcune sorprese. 2. Diritto di ritenzione e divieto di ritenzione Il paragone tra avvocati e carrozzieri che affrontiamo in questo paragrafo sembra paradossale, ed in effetti nasconde una provocazione. Chi ha la ventura di frequentare le sale d'attesa degli ispettorati sinistri delle compagnie di assicurazione sa bene che quei luoghi consentono di incontrare una umanità assai varia: c'è il danneggiato che tratta il sinistro da solo, ci sono i professionisti (avvocati, praticanti, periti, geometri ed altri) che trattano le pratiche per i clienti, e ci sono i carrozzieri che talvolta ricevono il mandato di trattare la liquidazione del sinistro e qualche altra volta sono più abili e veloci dei professionisti sopra citati. Il paragone con i carrozzieri è particolarmente suggestivo perché questi prestatori d'opera godono del diritto di ritenzione sui beni loro affidati, e probabilmente il conferimento dell'incarico per la trattazione del sinistro rinviene le radici proprio in questo privilegio. In particolare, la norma di riferimento è l'art. 2756 cod. civ. che prevede: “I crediti per le prestazioni e le spese relative alla conservazione o al miglioramento di beni mobili hanno privilegio sui beni stessi, purché questi si trovino ancora presso chi ha fatto le prestazioni o le spese. Il privilegio ha effetto anche in pregiudizio dei terzi che hanno diritto sulla cosa, qualora chi ha fatto le prestazioni o le spese sia stato in buona fede. Il creditore può ritenere la cosa soggetta al privilegio finché non è soddisfatto del suo credito e può anche venderla secondo le norme stabilite per la vendita del pegno”. Si tratta di una ritenzione privilegiata (28) la cui giustificazione è da ricercare nel vincolo di inerenza economica che induce a far prevalere il creditore sul proprietario della cosa e persino sui terzi, a condizione che si provi la buona fede (29). Oltre che ai carrozzieri, e agli artigiani in genere, in dottrina si ritiene che il diritto di ritenzione spetti anche allo spedizioniere doganale (30) nonché al vettore, al mandatario, al depositario e al sequestratario, ex art. 2761 cod. civ. Al contrario il prestatore d'opera intellettuale (pur essendo spesso, come nel caso degli avvocati, un mandatario particolarmente qualificato) subisce il trattamento opposto, tant'è che l'art. 2235 cod. civ. prevede l'esplicito divieto di ritenzione: “Il prestatore d'opera non può ritenere le cose e i documenti ricevuti, se non per il periodo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti secondo le leggi professionali”. La distinzione tra il trattamento che il codice riserva ai due prestatori d'opera, manuale ed intellettuale, è tradizionalmente giustificata con la maggiore nobiltà della professione intellettuale, che nelle intenzioni del legislatore comporta anche un certo distacco dal vile denaro. 28 29 30 Così P. CENDON, Commentario al cod. civ., sub art. 2756. V. ANDRIOLI, Commentario al cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, sub art. 2756.. P. RESCIGNO, Commentario al cod. civ., sub art. 1740. Infatti, per quanto riguarda gli avvocati, la norma codicistica è integrata dall'art. 66 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (31), che espressamente fa divieto di ritenere gli atti della causa e le scritture ricevute dai clienti per il mancato pagamento degli onorari e dei diritti loro dovuti o per il mancato rimborso delle spese da essi anticipate. Anzi, proprio l'anteriorità della legge professionale rispetto al codice ha fatto affermare in dottrina (32) che il legislatore, con il codice civile, avrebbe esteso alle altre professioni il principio già fissato per gli avvocati fin dal 1933 con l'art. 66 della legge professionale. 3. Avvocati e Notai Fino ad oggi la disparità di trattamento tra avvocati e carrozzieri è stata serenamente accettata proprio in nome dei supremi principi ai quali abbiamo accennato. Tali principi subiscono però un duro colpo quando paragoniamo la disciplina dettata per gli avvocati a quella prevista per una categoria di professionisti molto vicina, e certamente non meno nobile: stiamo parlando dei Notai. Per questi professionisti il divieto di ritenzione per il periodo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti è inteso come un riconoscimento alla ritenzione stessa con una funzione cautelare, che non confligge con il carattere eccezionale dell'autotutela privata. Secondo una recente dottrina (33) la tutela dei diritti a cui fa riferimento l'art. 2235 è quella relativa al compenso del professionista, mentre il riferimento codicistico alle singole leggi professionali serve soltanto per verificare l'entità dei compensi suddetti, senza altre limitazioni. Lo stesso Autore afferma che la ritenzione, per il Notaio, è pienamente legittima fino al momento del pagamento, e che solo in tale momento sorge l'obbligo immediato di consegnare i documenti. 31 È la legge professionale forense che, peraltro, è cronologicamente anteriore rispetto al codice civile. 32 L. RIVA-SANSEVERINO, Commentario al cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, sub art. 2235. 33 G. PETRELLI, Tutela del diritto del Notaio a compensi e rimborsi e diritto di ritenzione di atti e documenti, in www.federnotizie.org L'Autore conclude affermando che il più rigoroso divieto di ritenzione previsto per gli avvocati costituisce una parziale deroga al disposto dell'art. 2235, e tale deroga, trattandosi di norma speciale, non è estensibile ad altre fattispecie nè ad altre professioni. Se così è, la nostra indagine non può fermarsi a ragioni etiche o di decoro, che dovrebbero essere valide ed uniformi per tutti i professionisti; evidentemente l'art. 66 della legge professionale deve essere riletto alla luce delle norme costituzionali e comunitarie, per verificare se la sua disciplina, così come fino ad oggi unanimemente interpretata, sia ancora accettabile. 4. L'art. 66 della legge professionale forense e il codice deontologico Come è noto, il codice deontologico costituisce l'esemplificazione dei comportamenti più ricorrenti (così espressamente recita l'art. 60) ed ha una natura regolamentare integrativa della legge professionale (34). L'art. 66 più volte citato vieta agli avvocati di trattenere gli atti della causa e le scritture ricevute dai clienti per il mancato pagamento degli onorari e delle spese; prevede la possibilità di una composizione amichevole, con eventuale verbale di conciliazione, e stabilisce che gli atti e le scritture debbano essere depositati presso il consiglio dell'Ordine e non possano essere ritirati prima che il Consiglio stesso abbia accertato le spese e liquidato gli onorari. Il quinto comma, nel prevedere uno specifico potere del Presidente del Consiglio dell'Ordine di adottare provvedimenti per i casi di urgenza, manifesta l'ipotesi di contrasto tra diritti opposti, indicando la necessità di conciliare i legittimi interessi dell'avvocato con quelli del cliente. Il regolamento di attuazione (35), all'art. 73, prevede che in casi urgenti il Consiglio può permettere che gli atti e le scritture depositati nella sua sede siano ritirati contro il rilascio di una ricevuta particolareggiata del nuovo avvocato, il quale assume impegno personale di riconsegnarli al Consiglio non appena ne sia richiesto. 34 35 Cass., sez. unite, 6 giugno 2002 n. 8225; Cass., sez. unite, 12 febbraio 2004, n. 5776. R.d. 22 gennaio 1934, n. 37. Le norme indicate ci mostrano il clima idilliaco di quegli anni, nei quali non era ipotizzabile un contrasto tra avvocato revocato e avvocato subentrante, ma anzi era prevista la piena collaborazione tra entrambi e con il Consiglio dell'Ordine. Nel 1933 non esistevano le fotocopiatrici, e trattenere atti e documenti serviva all'avvocato per dare la prova della prestazione effettuata. Nei giorni nostri il problema della dimostrazione dell'attività svolta dal professionista non si pone, poiché è possibile realizzare fotocopie degli atti con costi assai ridotti. Per questa ragione l'art. 42 del codice deontologico, dopo aver ribadito l'obbligo di restituzione alla parte assistita della documentazione, prevede che l'avvocato possa trattenerne soltanto la copia e solo quando ciò sia strettamente necessario ai fini della liquidazione del compenso, e non oltre l'avvenuto pagamento. Qui occorre precisare che, qualora vi sia sostituzione nell'attività difensiva a processo in corso, la disposizione può riguardare soltanto alcuni documenti che l'avvocato detenga in originale nel proprio studio; per quanto riguarda gli atti processuali, invece, è sufficiente che l'avvocato revocato non ritiri il fascicolo di parte depositato in tribunale, giacché l'art. 76 disp. att. cod. proc. civ. stabilisce che gli atti e i documenti inseriti nei fascicoli possono essere esaminati dalle parti o dai loro difensori muniti di procura. Con la revoca del mandato cessa ogni potere del difensore revocato sul fascicolo, e quindi basterà comunicare al cliente le indicazioni necessarie per individuarlo, in modo da garantire la prosecuzione dell'attività difensiva. Il divieto di ritenzione per gli avvocati è confermato dalla unanime giurisprudenza disciplinare, che considera la sua violazione come illecito (36). L'ipotesi di conflitto tra avvocato revocato e avvocato subentrante in corso di causa è invece regolata indirettamente dall'art. 33 del Codice Deontologico che prevede la necessità di un 36 Consiglio dell'Ordine di Milano, 4 aprile 1968; Consiglio dell'Ordine di Roma, 11 ottobre 1988, n. 35; CNF 7 marzo 1959; CNF 27 maggio 1978; CNF 7 ottobre 1992 n. 103; Consiglio dell'Ordine di Bergamo, 6 giugno 1995; CNF 28 aprile 1998 n. 32; CNF 23 ottobre 2000 n. 125; CNF 11 settembre 2001 n. 168; tutti casi riferiti da R. DANOVI, Commentario del Codice Deontologico Forense, sub art. 42. contatto tra i due avvocati ed una leale cooperazione del nuovo avvocato affinché siano pagate le prestazioni svolte dal precedente difensore. La giurisprudenza disciplinare ha visto in questi ultimi anni un mutamento di indirizzo; infatti in precedenza era considerato obbligatorio, prima di accettare l'incarico, un contatto con il collega per conoscere se vi fossero motivi contrari all'assunzione del mandato (37). Anzi, dobbiamo qui rilevare che probabilmente la regola deontologica insita nella coscienza degli avvocati è diversa da quella oggi dettata dall'art. 33, poiché fino a qualche anno fa si riteneva obbligatorio non solo contattare il precedente difensore, ma anche assicurarsi che egli fosse stato saldato. Il pagamento dei compensi al precedente difensore era quindi una condizione per poter assumere l'incarico, mentre oggi esso può essere assunto immediatamente e l'avvocato subentrante, secondo l'art. 33, deve soltanto adoperarsi affinché siano soddisfatte le legittime richieste del collega. Come dicevamo, in passato il CNF ha sanzionato chi ha accettato l'incarico senza il consenso del collega (38); chi lo ha accettato prima che il cliente saldasse la parcella dell'avvocato sostituito (39); in altre ipotesi, invece, è stato ritenuto sufficiente l'invito rivolto al cliente a definire la pendenza (40) con il predecessore. L'evoluzione del Codice Deontologico e della giurisprudenza disciplinare è confermata anche dal Codice Deontologico Europeo, che fino al dicembre 2002 prevedeva l'obbligo per l'avvocato che subentrasse nel mandato di assicurarsi dell'avvenuto pagamento del predecessore o quantomeno che quest'ultimo avesse accettato un regolamento delle spese e degli onorari a lui dovuti. L'articolo in questione è stato però abrogato dal C.C.B.E. nella data sopra indicata (41). 37 38 39 op. cit. 40 41 CNF 2 dicembre 1991 n. 116; CNF 13 luglio 2001 n. 149. CNF 23 maggio 1985. CNF 11 febbraio 1987 n. 13; parere Consiglio dell'Ordine di Milano, 1980, in R. DANOVI, CNF 28 ottobre 1999 n. 186. Cfr. R. DANOVI, op. cit., 492. La suddetta abrogazione è stata probabilmente dettata dalla necessità di evitare canoni deontologici di natura corporativa. Un accordo tra avvocati che prevede l'impossibilità per il cliente di cambiare difensore se prima non salda il precedente potrebbe portare ad abusi e certamente potrebbe essere inteso, per usare un'espressione mutuata dal diritto comunitario, come un accordo di cartello tra imprese. 5. La concorrenza tra avvocati e il diritto comunitario La modifica delle regole deontologiche che abbiamo appena indicato è da ritenersi senz'altro in linea con la normativa comunitaria, nonché con l'art. 24 della nostra Costituzione che garantisce la difesa come diritto inviolabile e che non consente accordi tra professionisti che possano in qualunque modo limitarne l'effettivo esercizio. A questo punto però dobbiamo chiederci, anche alla luce delle stesse norme comunitarie, se ciò possa legittimare il Far-West forense. Dobbiamo, in altri termini, accertare se sia legittimo il comportamento di un avvocato che subentri nella difesa di un altro, che è costretto a restituire i documenti senza indugio, mentre il subentrante ha soltanto un generico e indefinibile dovere di “adoperarsi” per le spettanze del suo predecessore. La questione assume una particolare rilevanza nell'ipotesi in cui il predecessore abbia condotto brillantemente un giudizio, ottenendo una sentenza esecutiva, ed il cliente si rivolga ad un altro avvocato per l'esecuzione del titolo senza pagare colui che, con il proprio lavoro, ha reso possibile tale esecuzione. Nella nozione di atti e documenti per i quali vige il divieto di ritenzione è infatti compresa anche la sentenza esecutiva, che in caso di richiesta deve essere consegnata al cliente senza alcuna condizione (42). Non è questa la sede per affrontare in modo compiuto la questione dell'assimilazione dell'avvocato all'imprenditore. Basterà solo accennare che, secondo la giurisprudenza delle Corti Europee, i professionisti sono equiparati alle imprese 42 Consiglio dell'Ordine di Roma, 11 ottobre 1988, n. 35; CNF 27 giugno 1985. soprattutto per quanto riguarda la tutela della concorrenza, con regole che però sono adattate alle peculiari caratteristiche delle singole professioni. La nozione di impresa abbraccia infatti qualsiasi entità che eserciti un'attività economica, e quest'ultima è qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi su un mercato determinato (43). Una lettura dell'art. 81 (ex art. 85) del trattato sulla comunità europea ci chiarisce la ragione per cui, come dicevamo, una regola deontologica che consenta ad un avvocato di assumere la difesa del cliente solo dopo il saldo del predecessore sarebbe illegittima: “sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che... abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza...”. In questo senso, e solo in questo senso, l'avvocato può essere visto come un'impresa e il CNF, che detta le regole disciplinari, come un'associazione d'imprese; e se quindi è da salutare con favore la modifica deontologica che elimina ogni restrizione corporativa ai diritti del cliente, è certamente da rivedere, per le medesime ragioni di tutela della concorrenza, il testo dell'art. 33 del Codice Deontologico. Tra le circostanze e le normative astrattamente lesive della libera concorrenza rientrano, infatti, anche le condizioni poste alle forme di esercizio dell'attività stessa (44); e tra tali condizioni rientrano senz'altro le norme di comportamento concernenti il subentro nella difesa. Il comportamento di un professionista che subentra nella difesa di un cliente dopo che il predecessore ha ottenuto un titolo esecutivo e prima che le spettanze di quest'ultimo vengano pagate, o almeno garantite, compie un atto di concorrenza sleale, a meno che sussistano validi e particolari motivi che abbiano incrinato il rapporto fiduciario tra la parte e il difensore. Infatti, in queste ipotesi il cliente non ha nulla da rimproverare al proprio difensore, che anzi ha ottenuto un risultato favorevole 43 Corte di giustizia UE, causa C-309/99, Wouters; UE e concorrenza nelle libre professioni, in La previdenza forense, n. 2/2004. 44 Cfr. R. DANOVI, La giustizia in parcheggio, 1996, 233. grazie al proprio impegno professionale; e spesso l'unica ragione di contrasto è economica, nel senso che il cliente ingrato preferisce cambiare avvocato e non pagare il precedente, piuttosto che fare il proprio dovere e lasciar completare l'opera a chi l'ha iniziata. Nella pratica, assistiamo anche a situazioni nelle quali il subentrante, lungi dall'adoperarsi per far conseguire al revocato le proprie spettanze, addirittura difende il cliente nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo! L'ipotesi appena indicata manifesta la debolezza, sul punto specifico, delle attuali norme deontologiche e soprattutto della loro più autorevole interpretazione. Secondo la Commissione Pareri del CNF, infatti, la causa di opposizione a decreto ingiuntivo richiesto da un collega non rientra nelle “azioni giudiziarie penali e civili” per le quali gli avvocati, a norma dell'art. 22 del codice deontologico, sono obbligati ad effettuare una preventiva comunicazione al Consiglio dell'Ordine, affinché quest'ultimo possa tentare la conciliazione (45). Questa interpretazione appare in contrasto con il testo dell'art. 22, che al canone II fa espresso riferimento al caso in cui l'avvocato ritenga infondata la pretesa del collega; questa dicitura sembra volersi riferire proprio all'ipotesi di compensi richiesti in misura eccessiva, e quindi di opposizione a decreto ingiuntivo. Insomma, seguendo la tesi che emerge dal parere, si giungerebbe al paradosso per cui l'avvocato deve informare il Consiglio dell'Ordine delle iniziative da assumere contro un collega per questioni attinenti alla vita privata (ad esempio: sfratto per morosità), ma non deve farlo per questioni attinenti all'attività professionale, che invece sono proprio quelle nelle quali il Consiglio può meglio esplicare la sua funzione conciliativa. Sembra quindi che, mentre la Corte di Cassazione amplia la nozione di concorrenza sleale, estendendola (46) a quei comportamenti non previsti dalla legge, ma “connotati dallo stesso disvalore di quelli espressamente regolati”, i custodi della nostra disciplina non valutino che la concorrenza tra avvocati deve essere oggetto di regolamentazione proprio in ossequio a quella stessa 45 46 Parere n. 2, 11 luglio 2001, in Attualità forensi n. 3/2001. Cass., sez. I, 27 aprile 2004 n. 8012. disciplina comunitaria che tutela il diritto del cittadino all'immediata restituzione dei documenti. Ed allora ben venga “l'Europa che bussa, invade e mescola”, ma “non possiamo ridurci a pedine/oggetto di un mercato sempre più senza regole” (47). È vero che l'avvocato revocato ha a disposizione i mezzi di tutela individuati dal codice di procedura civile; ma è anche vero che una efficace tutela della concorrenza si dispiega attraverso misure preventive, e che il ricorso all'autorità giudiziaria deve essere, se possibile, evitato. Occorre quindi modificare l'art. 33 del Codice deontologico al fine di evitare i comportamenti più clamorosi, esplicitando il divieto di assistere il cliente nella causa che ha per oggetto i compensi del precedente difensore; ed inoltre occorre rileggere l'art. 66 della legge professionale forense alla luce dei principi che abbiamo appena ricordato, e riempire di nuovo contenuto quel potere del presidente del Consiglio dell'Ordine di adottare tutti i provvedimenti che valgano a conciliare i legittimi interessi dell'avvocato con quelli del cliente. Il Consiglio dell'Ordine potrebbe quindi valutare, secondo l'ipotesi qui sostenuta, le ragioni della revoca del mandato, e cioè se esse dipendano effettivamente dalla fine del rapporto fiduciario o da semplici e vili questioni economiche; potrebbe valutare se le richieste dell'avvocato revocato siano conformi all'attività prestata, o se siano esagerate; potrebbe valutare se le condizioni economiche del cliente siano disagiate o meno; potrebbe infine valutare se l'atteggiamento dell'avvocato subentrante sia quello di chi soccorre un inerme cittadino indifeso o quello di chi addenta una grossa torta senza curarsi dei diritti del pasticciere. A proposito: ma il pasticciere avrà un diritto di ritenzione? (48) Antonino Ciavola avvocato in Catania 47 Sono parole di E.N. BUCCICO, Editoriale di Attualità Forensi, n. 3/2001. Questo articolo non sarebbe stato scritto senza il fondamentale apporto dei miei colleghi: A. BONACCORSI, G. CALTABIANO, L. CANNIZZARO, A. CASTRO, S. CHIARENZA, N. D'ALESSANDRO, R. MENZA, G. SCUTO, S.A. SPINA, V. VITELLO, che ringrazio. 48 TAMPOCO Credo che in nessuna professione si usi negli scritti un fritto misto di anticaglie linguistiche come quello diffuso nelle professioni legali (avvocati, notai, ma anche giudici). Noi parliamo più o meno normalmente e di solito la gente ci capisce, ma quando ci mettiamo a scrivere invecchiamo di alcuni secoli, ci trasformiamo in personaggi del '600 e una pulsione incontenibile ci induce ad usare un lessico desueto, ridondante, ermetico e brutto. In un atto che ho letto recentemente ho trovato, tra le altre, queste espressioni: tampoco, conclamato, al contempo, del pari, prodromico, prefato. In un mio atto ho scoperto: declaranda, attoreo, onde, inficiato, pretensivo. In una sentenza compaiono: eziologicamente, giocoforza, suddetto, delibanda, pregnanza. Per non parlare del latino, del quale basterà ricordare i diffusissimi salvis juribus e contrariis rejectis. Io mi domando perché se parlo con un giudice gli chiedo qualcosa, ma se gli scrivo rivolgo rispettosa istanza? Perché dico a mia moglie quanto ho pagato una cosa, ma in giudizio mi riferisco all'ingente esborso?. Io non ripeto: reitero, non verifico: appuro. Io menziono, denego, acclaro, tengo indenne o manlevo, opino e confuto. Poi c'è il malvezzo (malvezzo!) di enfatizzare tutto: dalla ostentata considerazione verso l'illustrissimo Tribunale (che non trova alcun riscontro nei giudizi poi espressi nell'atto d'appello che contro di esso rivolgiamo alla eccellentissima Corte), alla ineccepibile condotta del nostro assistito, cui si contrappone la pretensiva e assurda richiesta di controparte, affidata a suggestive quanto irrilevanti rappresentazioni e a tesi giuridiche inaudite, audaci, di macroscopica infondatezza. Non so se siamo indotti a questi eccessi da un istinto mimetico e conformistico o dalla irrazionale fiducia che un linguaggio esoterico e aulico ci nobiliti e ci renda degni di rispetto, oppure se stemperiamo in questa rassicurante verbosità la depressione che ci induce la banalità di troppe questioni. Il fatto è che, dopo un po' , anche volendo non si riesce a scrollarsi di dosso il “legalese” ed è persino difficile esprimere gli stessi concetti o raccontare gli stessi fatti senza utilizzarlo. L'unica consolazione è la consapevolezza di padroneggiare un linguaggio che sarebbe ben compreso da un redivivo don Ferrante (Azzeccagarbugli mi pareva poco rispettoso). « ... è quindi giocoforza rapportare eziologicamente i prefati assunti onde trarne il pregnante convincimento che una siffatta conclusione consegue, prima facie, dalle suddette allegazioni, e tampoco varrebbe ad inficiarne l'ineccepibile consequenzialità la risibile asserzione afferente l'opinabilità del nesso, smentita causalmente dal perdurante riscontro fattuale ». E valga il vero! Guido Salvadori del Prato avvocato in Milano