Il segmento invisibile dello stato sociale

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Il segmento invisibile dello stato sociale
Author : Francesco Paolo Cazzorla
Categories : Metodo interdisciplinare
Date : feb 6, 2014
Negli ultimi anni si è assistito a degli importanti cambiamenti sul fronte sociale. L’importante
architettura del welfare state è andata in contro ad una crisi senza precedenti che, in un certo
qual modo, ha cercato di mantenere quelli che in principio erano i suoi obiettivi e le sue funzioni
caratterizzanti. Il problema principale, oggigiorno, è l’enorme squilibrio che si è venuto a creare
tra bisogni e risorse disponibili, soprattutto legato all’incapacità di fondo del sistema di adattarsi
ai nuovi bisogni che sono emersi e che si fanno sempre più pressanti.
Il fatto è che la società è in continuo cambiamento, e anche piuttosto velocemente. Alcuni dati
demografici, accompagnati da importanti fenomeni sociali, hanno determinato l’aumento a
dismisura della domanda di servizi e prestazioni. Solo per farsi un’idea si accenneranno, di
seguito, alcuni mutamenti sociali oltremodo evidenti:
L’invecchiamento della popolazione ha certamente determinato un aumento della
domanda sia di pensioni che di servizi sanitari e sociali; e questa domanda è legata alla
sempre meno autosufficienza degli anziani dettata dalle loro condizioni di salute;
i mutamenti delle famiglie e del loro ruolo, assieme all’aumento dell’occupazione
femminile, hanno consentito la crescita della domanda di servizi per l’infanzia e per il
lavoro di cura;
è presente un’inedita domanda di interventi proveniente da un fenomeno che si
consolida sempre di più e che appartiene al comparto delle nuove esigenze e dei nuovi
bisogni afferente l’immigrazione della popolazione extra UE;
la crisi del mercato del lavoro e la precarietà delle professioni, oltre a comportare un alto
livello di disoccupazione giovanile, mette in condizioni di “immobilità” numerosi nuclei
familiari, i cui componenti – per ragioni che si legano o alla perdita di lavoro o alle
difficoltà che si incontrano per trovarne uno nuovo – fanno richieste sempre maggiori in
termini di agevolazioni e contributi sociali.
Bisogna sempre ricordare che l’invecchiamento della popolazione viaggia assieme al calo della
natività, e tutto questo ha come conseguenza immediata la diminuzione del rapporto tra
persone in età lavorativa e anziani e minori. «La redistribuzione intergenerazionale vede cioè
calare coloro che producono ricchezza (le classi demografiche centrali) e aumentare coloro che
devono fruire di sostegni (i minori, ma soprattutto gli anziani)» (Franzoni, Anconelli, 2003: 21).
Esiste una realtà, un mondo variegato, che di rado raggiunge la visibilità che meriterebbe, una
visibilità fatta di attenzione, di comprensione e anche, perché no, di discussione costruttiva.
Questa importante realtà è una realtà fin troppo spesso trascurata nel nostro Paese, un mondo
fatto di localismi così specifici e così diversi tra di loro che è meglio lasciare ai “tecnici” le redini
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delle loro sorti, perché a quelli che dovrebbero informarsi, e a tutti cittadini che ne trarrebbero
beneficio, non è dato sapere.
I servizi alla persona in Italia, lo dice il nome stesso, sono stati istituiti per tutelare i diritti di
cittadinanza delle persone. È lo stesso diritto di cittadinanza che dovrebbe, con la parallela
nascita dello Stato Sociale, legittimare l’erogazione di prestazioni di benessere.
I diritti soggettivi (diritti umani) erano già sanciti nella nostra Costituzione del ’48; solo negli anni
’70 e ’80, però, si sono sollevate delle rivendicazioni e dei movimenti politico-culturali che
hanno portato all’attenzione della collettività tante e diverse situazioni in cui quegli stessi diritti
dichiarati non venivano assolutamente garantiti, o poco più.
Ecco perché, quelle poche volte in cui si parla di servizi alla persona, si fa subito riferimento alle
molteplici condizioni del disagio più che alle garanzie che dovrebbero salvaguardare: le persone
vengono trattate secondo principi e criteri collegati a ciò che li differenzia, invece che
permettere loro di entrare in una dimensione dove si vede garantito ciò di cui tutti dovrebbero
godere per diritto: dignità, rispetto, salute, istruzione, partecipazione, ecc. “I diritti soggettivi
infatti non vengono garantiti da sanzioni come accade per il diritto di proprietà; sono tutelati solo
se si creano le condizioni che consentono di esercitarli: i servizi sono stati chiamati a
promuovere e mantenere queste condizioni” (Manoukian, 2013).
A fronte di cambiamenti prima riportati, e degli acclamati problemi che ne derivano, si è cercato
di mettere in campo degli aggiustamenti che, in base ai casi, non andassero ad intaccare gli
obiettivi e l’impostazione generale dello Stato Sociale (2003): ridefinizione di vecchi e nuovi
obiettivi; ritorni sperimentali alla selettività degli utenti; nuovi mix tra copertura pubblica e
privata, obbligatoria e volontaria, occupazionale, nazionale, locale ecc.; nuovi mix tra servizi
pubblici e privati. A seguito di ciò, per quanto riguarda per l’appunto l’elargizione di prestazioni
e servizi sociali, si sono venute a creare delle linee di tendenza che hanno disegnato, sul
territorio italiano, una geografia a “macchia di leopardo”; ovvero si sono venute a creare delle
situazioni di marcata differenza da regione a regione (e a volte anche all’interno di una stessa
regione), che hanno condotto a luci e a punti di eccellenza in alcuni luoghi e a mancanze e a
zone d’ombra in altri. Questi cambiamenti significativi (per dove sono effettivamente avvenuti)
possono essere rintracciati nei seguenti punti (2003):
la collaborazione ormai consolidata tra pubblico e privato, con una particolare attenzione
al privato sociale, in cui operano e agiscono diversi soggetti sociali come
l’associazionismo di promozione sociale e non, il volontariato, e le cooperative sociali;
la riscoperta e la “rimobilitazione” della comunità e delle sue relazioni di mutuo-aiuto,
che hanno permesso, e permettono tutt’ora, a famiglie e a singoli individui di costruirsi
autonomamente risposte ai propri bisogni, puntando su un insieme di risorse e di
relazioni di scambio che si fondano sulla fiducia reciproca e che migliorano la qualità
della convivenza (community care) [1. La cosiddetta community care (Colombo, 2008),
consiste in un sistema di cura e di organizzazione di servizi alla persona regolato da
servizi sociali di vario tipo e natura (pubblici, privati, terzo settore), e dai cittadini che
usufruiscono di tali servizi. In questo modo, chi ha bisogno di un sostegno e/o di un
aiuto lo riceve rimanendo nel proprio ambiente di vita, nel presupposto che gli interventi
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vengano concepiti e praticati come empowerment, ovvero mettendo i soggetti
destinatari nelle condizioni di collaborare alla costruzione interattiva di un bene comune,
tenendo conto del contesto relazionale in cui sono inseriti (Mittini, 2008). ]
un equilibrio inedito tra servizi per tutti (secondo il principio universalistico) e la
limitazione dell’accesso alle prestazioni in base a specifiche condizioni di bisogno e
reddito (selettività).
Benché queste ri-definizioni portino al consolidarsi nei territori di innovativi approcci di rete rivolti
ai servizi, rimangono ancora inevasi tanti bisogni sociali, e tutto questo perché le attese e le
risposte vengono ricercate in sistemi lenti e ultra-burocraticizzati, dove la miopia del nonintervento (soprattutto per mancanza di risorse) dipende da sistemi di pensiero desueti e non
più rispondenti alla sfuggente e veloce realtà. Quindi, proprio per questo motivo, spesso ci si
trova di fronte a Istituzioni più focalizzate sui loro adempimenti che realmente predisposte
all’incontro con le persone. Ad esempio. In alcuni zone del nord Italia operano dei servizi nido
per l’infanzia altamente innovativi, dove vi è una certa attenzione alle relazioni con i bimbi e
con le famiglie. Alle volte però (non sempre) si rischia «di essere esclusivi, e i bambini che ne
avrebbero più bisogno non è detto che li possano utilizzare. Poi abbiamo nidi che sono molto
centrati sulla propria eccellenza, per cui accade un po’ come con i genitori affidatari: per
mettere in evidenza e per confermare che sono dei bravi genitori o che i nidi sono eccezionali,
si può anche fare in modo che il bambino venga indirizzato e trattato in modo da dimostrare
queste prerogative, al di là delle sue esigenze e delle sue difficoltà»(Manoukian, 2013: 33).
Occorre invece un pensiero fluido, laterale, che possieda un bagaglio ben accessoriato di
disparate competenze che possano essere spendibili nelle singole situazioni e che, in un’ottica
inter-disciplinare, cerchino il modo di lavorare assieme in maniera complementare. Lo spirito di
collaborazione dunque farà la rete, pazientemente la tesserà, e tutti sapranno gestire, nei loro
singoli saperi, la cultura comune del coordinamento necessario. «Questo è possibile se gli
operatori riescono a prendere un po’ di distanza dal proprio servizio e forse anche dalla propria
posizione professionale. [...] Perché l’integrazione richiede un parziale allontanamento dalla
propria collocazione stretta, dalla collocazione a cui ci si sente più legati e appartenenti. Non
dico distaccarsi totalmente, ma allontanarsi» (Manoukian, 2013: 37).
Dunque si parla di spostamenti più che di veri e propri cambiamenti, che permettono il
realizzarsi di “organizzazioni temporanee” orientate all’obiettivo, delle task force per intenderci:
un gruppo dinamico non più operativo su singoli progetti (perché di progetti nel sociale se ne
fanno tanti e rischiano così di essere dei soli e meri adempimenti), ma un’equipe di lavoro
organizzata in rete verso una progettualità. E dunque sarà presente il consueto livello della
quotidianità, della gestione dei singoli casi, e un altro livello più innovativo, più necessario, dove
«l’attivazione di un coordinamento tra tutti i soggetti istituzionali [e non] permette un confronto
serrato non solo sulle pratiche sociali […], ma anche e soprattutto sulle metodologie da attivare e
sul metodo dei processi di rete da condividere […], con l’intento di poter costruire, all’interno
delle differenze, una progettualità comune e condivisibile» (Amodio, 2006: 9). Dunque, la ricerca
costante di modi di lavorare, di comunicare, di coordinarsi e controllarsi reciprocamente per
situazioni ricorrenti e per tipologie di casi permetterà il riconoscersi, il ri-sperimentarsi, entro dei
codici operativi e di senso che saranno un po’ diversi da quello di cui siamo abituati. Quindi, in
ultimo, non basta definire solo i ruoli e le competenze istituzionali. Si tratta piuttosto di
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esaminare quello che c’è di operativo sul territorio in termini di vincoli e risorse, ciò che
contraddistingue una situazione nel suo specifico assieme al complesso degli attori sociali
implicati e che, proprio per questo, possono agire inter-attivamente (2013). Questo per
consentire infine l’implementazione di interventi sociali mirati – e più rispondenti – alle reali
istanze e necessità riscontrate e/o invocate nei singoli territori.
Certo, una maggiore consapevolezza e un continuo scambio su questi temi aiuterebbe non solo
a far circolare le eccellenze e i tanti esempi di buone prassi che già si sperimentano in zone
“motivate” del nostro Paese, ma questo stesso impulso conoscitivo potrebbe gettare una luce
di speranza proprio su quelle tante altre zone d’ombra in cui è necessario, oltre che di una
pratica consolidata e di uno spirito di intraprendenza sociale, prima di tutto di una paziente
quanto rinnovata bonifica del senso civico.
Bibliografia:
Amodio G. (a cura di),
2006, Tra virtuale e reale: itinerari attraverso le adolescenze, Roma, Carocci.
Bifulco L. (a cura di),
2005, Le politiche sociali: temi e prospettive emergenti, Roma, Carocci.
Carrà Mittini E.,
2008, Un’osservazione che progetta. Strumenti per l’analisi e la progettazione relazionale di
interventi nel sociale, Milano, Led.
Colombo M., (a cura di),
2008, Cittadini nel welfare locale: una ricerca su famiglie, giovani e servizi per i minori, Milano,
Angeli.
Franzoni F., Anconelli M.,
2003, La rete dei servizi alla persona: dalla normativa all’organizzazione, Roma, Carocci.
Olivetti Manoukian F.,
gennaio 2013, La tutela in un’ottica di territorio, Torino, Rivista Animazione Sociale, Gruppo
Abele.
Note
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