Avvocati di Famiglia n. 1 del 2012 - Osservatorio nazionale sul diritto

ISSN 2039-6503
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 1 - gennaio-marzo 2012
Anno V - n. 1 - gennaio-marzo 2012 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
Avvocatidifamiglia
La normativa sulla professione forense
dopo le recenti riforme
L’adempimento degli obblighi parentali
e l’art. 709 ter c.p.c.
Infedeltà coniugale e risarcimento dei danni
Tutela della riservatezza e diritto di famiglia
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno V, n. 1 - gennaio-marzo 2012
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
Sommario
Editoriale
Avvocati di famiglia: l’esigenza di un nuovo
paradigma professionale 2
(Gianfranco Dosi)
Il processo senza avvocato 2
(Emanuela Comand)
Professione forense
Il testo coordinato della normativa sulla professione
forense dopo le recenti riforme 4
Studi e ricerche
L’adempimento degli obblighi parentali. Luci
ed ombre dell’art. 709-ter c.p.c. 7
(Rosaria Capozzi)
Privacy ed istruttoria nel processo di famiglia 11
(Matteo Santini)
Giurisprudenza commentata
Due sentenze a confronto sul risarcimento
per infedeltà coniugale (Cass. 15 settembre 2011,
n. 18853, Corte App. Genova 20 maggio 2006) 19
(Cesare Fossati)
I nonni non hanno diritto di intervento e non hanno
diritti autonomi (Cass. 27 dicembre 2011, n. 28902
e Cass. 11 agosto 2011, n. 17191) 41
(Domenico Maduli)
Corte costituzionale
L’impugnazione di riconoscimento non ha
termini di decadenza (Corte cost. 12 gennaio
2012, n. 7) 46
Il termine per il disconoscimento non è sospeso
per l’incapacità naturale (Corte cost. 25 novembre
2011, n. 322) 49
Lo straniero può sposarsi anche senza
permesso di soggiorno (Corte cost. 25 luglio 2011,
n. 245) 51
Cassazione
Disconoscimento e opponibilità agli eredi
(Cass. 16 gennaio 2012, n. 430) 53
La violazione della promessa di matrimonio
(Cass. 2 gennaio 2012, n. 9) 54
Audizione del minore (Cass. 19 ottobre 2011,
n. 21651) 55
Convivenza more uxorio e assegno di divorzio
(Cass. 11 agosto 2011, n. 17195) 57
In libreria
Tassazione e famiglia 60
(Paola Aglietta)
Il giusto processo e la protezione del minore 60
(a cura di Alessandra Pè e Antonella Ruggiu)
Manuale di diritto di famiglia 62
(Michele Sesta)
Minori in giudizio. La convenzione di Strasburgo 62
(a cura di Giulia Contri)
La separazione personale dei coniugi 64
(a cura di Gilda Ferrando e Leonardo Lenti)
Dossier
La sottrazione internazionale di minori 27
(Rossella Atzeni)
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
Avvocati di famiglia: l’esigenza di un nuovo paradigma
professionale
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
l coordinamento dell’Osservatorio - formato dai presidenti
delle settanta sezioni
territoriali e dai responsabili delle Regioni - avvierà
nei prossimi mesi una riflessione sul futuro della
professione forense nel
diritto di famiglia.
Dopo la messa a punto
che abbiamo fatto di un nuovo modello processuale
unitario per le cause nelle materie del primo libro
del codice civile, conclusasi con la presentazione di
un vero e proprio progetto di legge presentato nell’aula magna della Cassazione lo scorso 16 dicembre e ora portato all’attenzione dei parlamentari, abbiamo deciso di puntare l’obiettivo sulla nostra professione.
Si tratta di un tema quasi inevitabile dal momento
che la riflessione che abbiamo fatto sul processo ci
ha aiutato a capire che a nuove regole nelle proce-
I
dure devono seguire una nuova deontologia e soprattutto un nuovo paradigma professionale.
I paradigmi tradizionali, sia quello contenzioso
(l’avvocato che combatte la causa nell’asserito
esclusivo interesse del suo cliente) ma anche quello
più avanzato che considera necessario uno sforzo
professionale teso soprattutto alla mediazione dei
conflitti anziché alla loro risoluzione contenziosa,
non sono più sufficienti.
Intendo riferirmi alla necessità che gli avvocati acquisiscano una nuova competenza professionale in questo sta il nuovo paradigma - consistente nella
capacità di utilizzare i modelli contrattuali per la
soluzione dei conflitti nell’area dei diritti disponibili. La mia opinione è che i tribunali saranno fatalmente e inevitabilmente impegnati in futuro nel
contenzioso su diritti indisponibili, mentre il contrasto sui diritti disponibili avrà come sede compositiva principale la mediazione o l’arbitrato. L’auspicio dell’avvocatura nel suo complesso oggi sembra
andare nella direzione opposta ma temo che i fatti
porteranno nella direzione che ho indicato. Una ri-
Il processo senza avvocato
in pericolo perché non esiste libertà laddove la funzione giurisdizionale sia condizionata dal denaro
e dal potere economico.
Consentire l’ingresso all’interno di uno studio legale ad un socio non avvocato, anche riducendo la
misura del suo apporto economico ed estromettendolo dall’attività squisitamente forense, non offre adeguate garanzie di rispetto delle nostre
norme di deontologia.
La deontologia non è un corollario superfluo della
nostra professione, ma la linfa che alimenta ogni nostra azione e dà un senso al nostro lavoro quotidiano. L’avvocato è non fa. Nel momento in cui una
persona si rivolge all’avvocato per essere assistita si
affida completamente al suo operato, consegna
nelle sue mani i suoi segreti, lo investe del potere di
decidere al suo posto. Esistono poche professioni
che mettano due essere umani a così stretto contatto, che consentano al difensore di offrire ad un
imputato, ad un detenuto la speranza del riscatto o
della ribellione se ha subito un ingiustizia.
La libertà di essere difesi caratterizza la democrazia: nei regimi dittatoriali scompare la figura
dell’avvocato, spesso lui stesso vittima del sistema.
Il processo senza avvocato è un processo senza
regole ed un processo senza regole è un processo
che non tutela i diritti delle persone.
L’art. 24 della Costituzione sancisce l’inviolabilità
del diritto ad un difensore. Ciò significa che nel nostro ordinamento non è ipotizzabile un processo penale, una causa civile senza la nostra partecipazione.
E poiché il processo è frutto di un meccanismo complesso, non solo la parte deve essere assistita da un
avvocato, ma l’avvocato deve essere competente.
Dove manchi un avvocato o l’avvocato sia incompetente, il rischio di carenza di giustizia è alto.
È vero che i nostri contraddittori naturali sono i
magistrati e che spetta loro applicare il diritto al
caso concreto, ma senza la contemporanea presenza delle tesi contrapposte promosse dagli avvocati all’interno di un processo, i magistrati finirebbero per esercitare non più una funzione, ma un
potere assoluto. Gli avvocati debbono recuperare la
loro dignità e la consapevolezza del ruolo che la
Costituzione ha riservato loro. Gli avvocati hanno il
dovere di informare i cittadini che la loro libertà è
2 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
EDITORIALE
meditazione serena del sacrosanto diritto di difesa
(art. 24 cost.) sarà comunque necessaria dopo la decisione della Corte costituzionale e l’avvocatura non
potrà eludere questa riflessione.
Vedremo la Corte costituzionale nei prossimi mesi
quale direzione imprimerà a questa prospettiva. A
prescindere però da quello che sarà lo scenario generale nel quale l’ordinamento giudiziario si collocherà in futuro (se lo scenario della prevalente soluzione contenziosa oppure quello della composizione residuale dei conflitti nelle aule di giustizia) è
però necessario, subito, valorizzare la funzione dell’avvocato di famiglia garantendogli una formazione
indirizzata all’uso competente degli strumenti contrattuali.
Si tratta di una abilità ulteriore rispetto a quella
tradizionale agita nella rappresentanza in giudizio.
Ed ulteriore anche rispetto alla sensibilità mediativa
che pure contraddistingue le competenze professionali di molti colleghi, anche di quelli che non
hanno una specifica formazione nella mediazione
familiare.
L’avvocato combatte quotidianamente per gli altri e per tutelare gli interessi di una persona diversa
da sé. Smettiamola di considerarci degli “optional”
all’interno del sistema della giustizia.
Cominciamo a pretendere il rispetto che ci è dovuto, ma facciamo di tutto perché questo rispetto
ci venga riconosciuto per la nostra lealtà, il nostro
coraggio, la nostra capacità di rappresentare la difesa massima per ogni diritto violato.
Noi avvocati di famiglia più di altri conosciamo
l’empatia che ci lega alla parte. Molto spesso parliamo di clienti, ma sono pochi gli avvocati che
considerano le persone che assistono solo clienti.
In realtà sono persone che chiedono il nostro
aiuto, che reclamano la nostra attenzione, che ci
usano come zattere per superare momenti difficili.
Noi ci occupiamo di diritti, ma dietro ai diritti di
una famiglia spezzata, violata, o semplicemente divisa si nascondono dolore, rabbia, frustrazione.
Quando tutto il mondo sembra crollare, gli avvocati sono lì pronti a sostenere, difendere, aiutare.
Non è solo il codice che ci consente di aiutare le
persone che soffrono perchè hanno perso un figlio
o non possono avere un figlio o pur avendolo se lo
Alla capacità di negoziare una soluzione dovrà accompagnarsi quella di trovare lo strumento negoziale adeguato, s’intende ove possibile al momento
che l’uso degli strumenti negoziali presuppone l’esistenza di una ricchezza da negoziare: accordi prematrimoniali, contratti tra conviventi, convenzioni
matrimoniali, trasferimenti di ricchezza in funzione
compensativa di squilibri patrimoniali, trascrizione
di vincoli di destinazione, accordi di separazione e di
divorzio o comunque postconiugali, testamento, sistemazioni successorie, patti di famiglia. Uno spettro ampio di soluzioni contrattuali da adeguare ad
ogni specifica situazione.
Un avvocato competente, quindi, nell’uso degli
strumenti contrattuali.
La formazione tradizionale dell’avvocato non è
quella degli atti e dei contratti. Per questo è necessario un grande sforzo di formazione. In questo sta
il nuovo paradigma professionale.
Una sfida che nel momento difficile che l’avvocatura sta attraversando non possiamo non accettare.
sono visti strappare. È la capacità di ascoltare, di
recepire le sofferenze altrui che ci rende indispensabili. Perchè dove esiste la sofferenza quasi sempre c’è un diritto negato o inespresso.
Ma l’avvocato è anche quel soggetto scelto dalla
Costituzione per superare il pathos e razionalmente,
con distacco saper valutare la situazione dal punto
di vista tecnico giuridico, dare corpo alle istanze affettive ed umane, trasformare una generica domanda di giustizia in un’azione legale concreta.
L’alto valore sociale della nostra professione è
proprio la capacità di dare risposte, trovare soluzioni, proporre alternative, individuare il punto di
equilibrio tra diverse pretese.
Il giudice giudica, decide. Ma l’avvocato è quello
che, a monte, individua la soluzione di un problema ed utilizza degli strumenti tecnici per dare
risposte ad istanze squisitamente umane.
Gli avvocati non vogliono essere costretti a vendere il loro sapere al miglior offerente ed al prezzo
più basso. È vero: non solo non siamo merce, ma
non vogliamo neppure diventare solo i venditori di
noi stessi.
Emanuela Comand
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 3
PROFESSIONE FORENSE
IL TESTO COORDINATO
DELLA NORMATIVA
SULLA PROFESSIONE
FORENSE DOPO
LE RECENTI RIFORME
(Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per
lo sviluppo) con le modifiche apportate dalla legge di
conversione 14 settembre 2011 n. 148)
TITOLO II
LIBERALIZZAZIONI, PRIVATIZZAZIONI ED ALTRE
MISURE PER FAVORIRE LO SVILUPPO
Art. 3
Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso
e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche
5. Fermo restando l’esame di Stato di cui all’art.
33 quinto comma della Costituzione per l’accesso
alle professioni regolamentate, con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto per recepire i seguenti principi:
a) l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del
professionista. La limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono
titolate ad esercitare una certa professione in tutto
il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda
a ragioni di interesse pubblico tra cui in particolare
quelle connesse alla tutela della salute umana e non
introduca una discriminazione diretta o indiretta
basata sulla nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della
società professionale;
b) previsione dell’obbligo per il professionista di
seguire percorsi di formazione continua permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti
4 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
emanati dai consigli nazionali, fermo restando
quanto previsto dalla normativa vigente in materia
di educazione continua in medicina (ECM). La violazione dell’obbligo di formazione continua determina un illecito disciplinare e come tale è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento
professionale che dovrà integrare tale previsione;
c) la disciplina del tirocinio per l’accesso alla professione deve conformarsi a criteri che garantiscano
l’effettivo svolgimento dell’attività formativa e il suo
adeguamento costante all’esigenza di assicurare il
miglior esercizio della professione.
e) a tutela del cliente, il professionista è tenuto a
stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti
dall’esercizio dell’attività professionale. Il professionista deve rendere noti al cliente, al momento
dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata per la responsabilità professionale e
il relativo massimale. Le condizioni generali delle
polizze assicurative di cui al presente comma possono essere negoziate, in convenzione con i propri
iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti;
f) gli ordinamenti professionali dovranno prevedere
l’istituzione di organi a livello territoriale, diversi da
quelli aventi funzioni amministrative, ai quali sono
specificamente affidate l’istruzione e la decisione
delle questioni disciplinari e di un organo nazionale
di disciplina. La carica di consigliere dell’Ordine territoriale o di consigliere nazionale è incompatibile
con quella di membro dei consigli di disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le
quali resta confermata la normativa vigente;
g) la pubblicità informativa, con ogni mezzo,
avente ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è
libera. Le informazioni devono essere trasparenti,
veritiere, corrette e non devono essere equivoche,
ingannevoli, denigratorie.
5-bis. Le norme vigenti sugli ordinamenti professionali sono abrogate con effetto dall’entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma.
6. Fermo quanto previsto dal comma 5 per le professioni, l’accesso alle attività economiche e il loro
esercizio si basano sul principio di libertà di impresa.
7. Le disposizioni vigenti che regolano l’accesso e
l’esercizio delle attività economiche devono garantire il principio di libertà di impresa e di garanzia
della concorrenza. Le disposizioni relative all’introduzione di restrizioni all’accesso e all’esercizio delle
attività economiche devono essere oggetto di interpretazione restrittiva.
8. Le restrizioni in materia di accesso ed esercizio
delle attività economiche previste dall’ordinamento
vigente sono abrogate quattro mesi dopo l’entrata
in vigore del presente decreto.
PROFESSIONE FORENSE
9. Il termine “restrizione”, ai sensi del comma 8,
comprende:
a) la limitazione, in forza di una disposizione di
legge, del numero di persone che sono titolate ad
esercitare una attività economica in tutto il territorio
dello Stato o in una certa area geografica attraverso la
concessione di licenze o autorizzazioni amministrative per l’esercizio, senza che tale numero sia determinato, direttamente o indirettamente sulla base
della popolazione o di altri criteri di fabbisogno;
b) l’attribuzione di licenze o autorizzazioni all’esercizio di una attività economica solo dove ce ne
sia bisogno secondo l’autorità amministrativa; si
considera che questo avvenga quando l’offerta di
servizi da parte di persone che hanno già licenze o
autorizzazioni per l’esercizio di una attività economica non soddisfa la domanda da parte di tutta la
società con riferimento all’intero territorio nazionale o ad una certa area geografica;
c) il divieto di esercizio di una attività economica al
di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione a
esercitarla solo all’interno di una determinata area;
d) l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio della professione o di una attività economica;
e) il divieto di esercizio di una attività economica
in più sedi oppure in una o più aree geografiche;
f) la limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti
di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti;
g) la limitazione dell’esercizio di una attività economica attraverso l’indicazione tassativa della
forma giuridica richiesta all’operatore;
h) l’imposizione di prezzi minimi o commissioni
per la fornitura di beni o servizi, indipendentemente
dalla determinazione, diretta o indiretta, mediante
l’applicazione di un coefficiente di profitto o di altro
calcolo su base percentuale;
l) l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta.
10. Le restrizioni diverse da quelle elencate nel
comma 9 precedente possono essere revocate con
regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17,
comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato
su proposta del Ministro competente entro quattro
mesi dall’entrata in vigore del presente decreto.
11. Singole attività economiche possono essere
escluse, in tutto o in parte, dall’abrogazione delle restrizioni disposta ai sensi del comma 8; in tal caso,
la suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma 9, può essere concessa, con decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta
del Ministro competente di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, sentita l’Autorità per
la concorrenza ed il mercato, entro quattro mesi
dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, qualora:
a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico;
b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è
destinata;
c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o,
nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa.
LA LEGISLAZIONE DEGLI ULTIMI MESI
- Decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) (GU n. 155
del 6 luglio 2011) convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 (GU n. 164 del 16 luglio 2011), “MANOVRA D’ESTATE”.
- Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per
lo sviluppo) (GU n. 188 del 13 agosto 2011) convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (GU n. 216
del 16 settembre 2011), “MANOVRA BIS”.
- Decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione ai sensi dell’art. 54
della legge 18 giugno 2009, n. 69) (GU n. 220 del 21. settembre 2011).
- Legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato) (GU n. 265 del 14 novembre 2011) LEGGE DI STABILITÀ 2012, ex legge finanziaria).
- Decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici, GU n. 284 del 6 dicembre 2011) convertito con modificazioni dalla legge 22
dicembre 2011, n. 214 (GU n. 300 del 27 dicembre 2011) “LEGGE SALVA ITALIA”.
- Decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 (Disposizioni urgenti in materia di composizione delle crisi
di sovraindebitamento e disciplina del processo civile) (GU n. 297 del 22 dicembre 2011).
- Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) (GU n. 19 del 24 gennaio 2012, Suppl. Ordinario n. 18).
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 5
PROFESSIONE FORENSE
Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività)
Art. 9
Disposizioni sulle professioni regolamentate
1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.
2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1,
nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante. Con decreto del Ministro
della Giustizia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze sono anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali
e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe.
L’utilizzazione dei parametri nei contratti individuali
tra professionisti e consumatori o microimprese da
luogo a nullità del contratto ai sensi dell’art. 36 del
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 2061.
3. Il Compenso per le prestazioni professionali è
pattuito per iscritto al momento del conferimento
dell’incarico professionale. Il professionista deve
rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa
gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento
1
alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare
i dati della polizza assicurativa per i danni provocati
nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso
la misura del compenso, previamente resa nota al
cliente anche in forma scritta se da questi richiesta,
deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va
pattuita in modo onnicomprensivo. L’inottemperanza di quanto disposto nel presente comma costituisce illecito disciplinare del professionista.
4. Sono abrogate le disposizioni vigenti che per la
determinazione del compenso del professionista,
rinviano alle tariffe di cui al comma 1.
5. La durata del tirocinio previsto per l’accesso alle
professioni regolamentate non potrà essere superiore a diciotto mesi e per i primi sei mesi, potrà essere svolto, in presenza di un’apposita convenzione
quadro stipulata tra i consigli nazionali degli ordini
e il ministro dell’istruzione, università e ricerca, in
concomitanza col corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Analoghe convenzioni possono essere stipulate tra i Consigli nazionali degli ordini e il Ministro per la pubblica amministrazione e
l’innovazione tecnologica per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche amministrazioni, all’esito
del corso di laurea. Le disposizioni del presente
comma non si applicano alle professioni sanitarie
per le quali resta confermata la normativa vigente.
DECRETO LEGISLATIVO 6 settembre 2005, n. 206
Codice del consumo,
Art. 36. Nullità di protezione
1. Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.
2. Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del
consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;
b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte
in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.
3. La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
4. Il venditore ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive.
5. È nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione
di un Paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal
presente capo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato
membro dell’Unione europea.
6 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
STUDI E RICERCHE
L’ADEMPIMENTO DEGLI
OBBLIGHI PARENTALI.
Luci ed ombre dell’art.709
ter c.p.c.
ROSARIA CAPOZZI
Premessa
L’art. 709 ter c.p.c. è stato introdotto dalla legge
54/06 art. 2, comma 2, c.d. sull’affidamento condiviso.
Il legislatore, con l’inserimento di tale normativa, ha
voluto introdurre nel nostro ordinamento uno strumento di tutela per il minore. Questo può essere invocato da quel genitore che vuole osteggiare comportamenti omissivi o gravi inadempienze dell’altro
genitore in danno del minore, o vuole correggere
comportamenti che ostacolano l’esercizio della potestà genitoriale o lo svolgimento delle modalità di affidamento. La norma ha la funzione di assicurare la
corretta esecuzione di preesistenti provvedimenti
emessi in materia di esercizio della potestà genitoriale o dell’affidamento della prole minore di età.
L’applicazione della normativa presuppone la pronuncia di un provvedimento da parte dell’autorità
giudiziaria che regoli l’affidamento della prole minore di età e l’esercizio della potestà genitoriale,
nonché la presenza di una controversia tra i genitori. I provvedimenti possono essere: provvedimenti
provvisori ed urgenti del Presidente del Tribunale separazione/divorzio in una fase dilatata del processo,
prevista dall’art. 155 sexies c.c. riformato, quando la
fase presidenziale non si risolve in una sola udienza
in quanto, con la nuova normativa, sono stati ampliati i poteri istruttori del Presidente; provvedimenti del G.I. negli stessi procedimenti; sentenza di
separazione e di divorzio; provvedimenti modificativi della separazione del divorzio: decreto ex art.
710 c.p.c./art. 9 L. div.; provvedimenti del Tribunale
per i Minori ex art. 317 bis c.c. e di nullità di matrimonio con applicazione al matrimonio putativo.
Normativa precedente a quella inerente l’art. 709
ter c.p.c.
Prima della entrata in vigore della normativa lo
strumento di tutela per l’applicazione dei provvedi-
menti di affidamento dei minori era l’art. 6, 10 co, L.
div. estensibile anche alla separazione, che attribuisce al giudice del merito l’attuazione dei provvedimenti inerenti l’affidamento della prole. Pertanto
giudice dell’esecuzione sarà lo stesso giudice del
merito in caso di pendenza di lite; mentre in caso di
sentenza passata in cosa giudicata, l’esecuzione
verrà assegnata alla sezione dell’ufficio giurisdizionale a cui apparteneva il giudice che ha pronunciato
la sentenza. Tale normativa da luogo ad un’esecuzione diretta in via breve, che non ha trovato seguito
in quanto le forme utilizzabili della esecuzione per
consegna o rilascio, e quella della esecuzione in
forma specifica degli obblighi di fare, sono procedure entrambe assolutamente inadatte per l’esecuzione di provvedimenti riguardanti la prole e spesso
inapplicabili in caso di resistenza del minore.
Legge 54/06
Alla luce di quanto detto, con la legge 54/06 il legislatore ha voluto dare uno strumento più adatto ai
provvedimenti inerenti i figli minorenni. Ha infatti
preferito utilizzare con l’art. 709 ter c.p.c., visto i fallimenti della normativa precedente, l’esecuzione indiretta per una più sicura tutela del minore. Procedura questa che non va certamente a suo danno, ma
funge da deterrente al genitore inadempiente, il
quale potrà vedersi modificato il precedente provvedimento di affidamento, oppure applicata una sanzione al fine di ottenere la cessazione di quei comportamenti che arrechino grave pregiudizio al minore. Tali condotte ineriscono l’esercizio della potestà
genitoriale e l’affidamento dei figli minori di età. Ne
sono un esempio non occuparsi del mantenimento,
dell’istruzione, dell’educazione o della cura del minore, come non rispettare le modalità di affidamento
stabilite dal giudice, che possono sia produrre negazioni o difficoltà nel vedere i propri figli, o creare difficoltà nell’altro genitore o nel figlio stesso nell’organizzazione della propria vita, oppure controversie
inerenti il tipo di scuola che il minore dovrà frequentare o conflitti sull’educazione religiosa del minore.
“In dottrina (Casaburi) si è affermato che l’articolo
in commento disciplina due distinti procedimenti: il
primo, relativo alla «soluzioni delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà
genitoriale o delle modalità dell’affidamento» (es.
scelta della scuola per il figlio minore: cfr tribunale di
Napoli, decr. 21.02.07); il secondo invece è relativo al
caso di «gravi inadempienze o di atti che comunque
arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento»”.1
La giurisprudenza sulle controversie oggetto della
normativa riguardano l’attuazione dei provvedimenti relativi ai figli minori, diversi da quelli di natura economica, almeno che le questioni di carattere economiche siano connesse all’esercizio della
potestà, alle modalità di affidamento o al mantenigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 7
STUDI E RICERCHE
mento dei figli. Diversamente altra giurisprudenza,
a cui ci associamo, trova possibile la sua applicazione anche in caso di inosservanza degli obblighi
di carattere patrimoniale2.
Competenza
Relativamente alla competenza per materia, l’art.
709 ter c.p.c statuisce il giudice competente a risolvere le controversie tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento. Al 1° comma stabilisce che la competenza
per le controversie insorte lite pendente sarà quella
del giudice del procedimento in corso, mentre in
caso di liti sorte quando la sentenza di separazione
è già passata in cosa giudicata, la competenza spetterà al giudice del procedimento di revisione ex art.
710 c.p.c. Riguardo invece i figli naturali la situazione è più complessa. Subito dopo l’emanazione
della legge 54/06 si sono susseguite sentente diverse
(Trib. Milano 12 maggio 2006 che stabiliva la competenza omnicomprensiva del tribunale ordinario).
Tale orientamento riteneva che la nuova normativa
avesse abrogato l’art. 317 bis c.c. La questione fu sottoposta alla Corte di Cassazione che con la sentenza
n. 8362/07 (regolamento di competenza) ha definitivamente escluso che la L. 54/06 abbia voluto abrogare l’art. 317 bis che rimane in vita e ne viene arricchito. Pertanto, in caso di provvedimenti sulla
sola potestà genitoriale, emessi dal tribunale per i
Minori per figli minori di ex-coppie di fatto, disattesi da uno dei genitori, l’altro potrà ricorrere nelle
forme dell’art. 737 c.p.c., proponendo ricorso ex art.
709 ter innanzi allo stesso tribunale per la tutela degli interessi del minore. Sarà ugualmente competente il T.M. per violazioni di provvedimenti emessi
ex art. 317 bis cc, inerenti sia l’affidamento che il
mantenimento. Mentre sarà competente il T.O. per
le sole violazioni di provvedimenti inerenti mantenimento del minore emessi ex art. 148 c.c.
In riferimento alla modalità della domanda, il codice prescrive che la domanda debba essere fatta
con ricorso, anche se ormai nella prassi processuale
“dinanzi al giudice istruttore potrebbe invece essere
sufficiente una semplice istanza orale resa in
udienza e riportata a verbale, fermo restando il diritto di replica di controparte”.3
In caso di pendenza della lite il ricorso ex 709 ter
può essere presentato in qualsiasi fase del giudizio
innanzi al Giudice Istruttore. In tal caso il giudice ordina la comparizione delle parti, e avendone i poteri, “può modificare il provvedimento già reso, ove
detto provvedimento non si sia rivelato idoneo a dirimere la conflittualità tra le parti”.4 Può inoltre, se
del caso, instaurare un procedimento istruttorio, alla
fine del quale provvede con ordinanza, che sarà
sempre revocabile o modificabile dallo stesso giudice in caso di fatti e circostanze nuovi e intervenuti. Ordinanza non reclamabile.5 Trattasi, pertanto,
8 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
di un sub procedimento incidentale a quello introdotto dalla domanda principale.
Il procedimento ex art. 709 ter poi, secondo una recente giurisprudenza, può essere richiesto non solo
in via incidentale rispetto al procedimento di revisione ex art. 710 c.p.c., ma anche in via autonoma6.
Riguardo alle sentenze definitive, anche se l’articolo in questione cita esclusivamente l’art. 710 c.p.c.
tale competenza dovrà estendersi anche ai procedimenti modificativi delle sentenze di divorzio ex art. 9
L. divorzio, o a quelli inerenti il Tribunale per i Minorenni per le ex-coppie di fatto con figli minori. Pertanto, la normativa viene applicata sia agli affidamenti stabiliti in via definitiva con sentenza di separazione o di divorzio, sia a quelli disposti in via provvisoria dal Presidente del Tribunale o in caso di modifica, dal giudice istruttore sempre nelle cause di separazione o divorzio. Riguardo poi la procedura, questa è identica a quella sopra decritta ma, naturalmente, dovendosi instaurare un nuovo giudizio la domanda deve essere proposta con ricorso. In ogni caso
il giudice, prima di emettere ogni provvedimento,
deve spingere le parti ad addivenire ad un accordo
suggerendo quelle risoluzioni che ritiene più consone
all’interesse dei figli, così come anche previsto dalla
norma corrispondente disposta dall’art. 316 c.c.7 Non
vi è dubbio, quindi, che la normativa sull’affidamento
condiviso trova applicazione anche riguardo all’affidamento giudiziale dei figli di genitori non sposati,
regolato dall’art. 317 cc, sia per i procedimenti in
corso, sia per quelli conclusi. Il ricorso verrà proposto al Presidente del Tribunale - Ordinario o per i Minorenni a seconda delle circostanze - che deciderà in
Camera di Consiglio con ordinanza reclamabile innanzi alla Corte di appello sezione famiglia per i genitori sposati e innanzi alla Corte di Appello sezione
Minorenni per i genitori non coniugati.
Inoltre, l’art. 709 ter c.p.c. prescrive, come competenza territorialmente inderogabile, quella del luogo
di residenza del minore per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c., cioè per le cause passate in giudicato. Invece, per i procedimenti in corso, la competenza è dello stesso giudice del luogo presso il quale
è pendente la causa.
Riguardo ai procedimenti intrapresi ex ar. 710, per
residenza del minore deve intendersi quella effettiva ed abituale. Pertanto, in caso di trasferimento
del minore unitamente al genitore collocatario,
quando manca il consenso dell’altro genitore, risulterà competente il tribunale del luogo della precedente abituale residenza del minore, in quanto
luogo dove egli coltiva i suoi rilevanti legami affettivi8. Ciò anche in analogia al dettato del Regolamento CEE 2201/2003, il quale all’art. 10 specifica
che, in caso di illecito trasferimento del minore, si
conserva la competenza giurisdizionale dell’autorità giurisdizionale dello Stato in cui il minore aveva
la residenza abituale antecedentemente all’illecito
STUDI E RICERCHE
trasferimento, almeno che il genitore non collocatario accetti tale cambio di residenza9.
Il comma 2° del summenzionato articolo, stabilisce
concisamente che la domanda deve essere fatta con
ricorso, e che il giudice convoca le parti ed adotta i
provvedimenti opportuni. Tale giudice, dopo aver accertato se i comportamenti di uno dei genitori rientrano nella fattispecie delle gravi inadempienze o di
atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, può a suo giudizio emettere due tipologie di
provvedimenti: modificare i provvedimenti in vigore,
finalizzando il proprio intervento alla soluzione delle
controversie intervenute tra i coniugi; oppure emettere, anche congiuntamente al provvedimento sopracitato, altri provvedimenti a carattere sanzionatorio e/o risarcitorio che vanno dalla semplice ammonizione del genitore inadempiente, di cui al n. 1, al
risarcimento del danno, a carico di uno dei genitori,
in favore del minore o dell’altro coniuge, di cui ai numeri 2 e 3, o alla condanna del genitore inadempiente
a una sanzione amministrativa in favore della Cassa
ammende al n. 4. Pertanto, tale modalità sanzionatore può avere sia funzione preventiva che mira a
scoraggiare comportamenti illeciti; sia funzione repressiva in quanto punisce illeciti già commessi.10
La modifica dei provvedimenti in vigore, prescritta
al comma 2° del citato articolo, può essere chiesta
dalle parti, senza incorrere in preclusioni processuali applicate per le domande nuove, in qualunque
stato e grado del giudizio, quindi anche per la prima
volta in appello e in pendenza di ricorso per Cassazione, dove la competenza spetterà alla Corte d’appello che ha emesso la sentenza impugnata. In ogni
caso, è da tener presente che nei procedimenti di diritto di famiglia (separazione, divorzio ecc.) anche
prima dell’uscita di tale articolo, l’istruttore ha sempre avuto, sia ad istanza di parte, che di ufficio, il potere di modificare o revocare i provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale
o da lui stesso.11
Il fondamento costituzionale dei poteri attribuiti
al Giudice dall’art. 709 ter c.p.c, è dato dall’art. 30
della Costituzione.
Natura della sanzione prevista dall’art. 709 ter
c.p.c.
Si discute in dottrina e in giurisprudenza sulla natura della sanzione prevista dall’art. 709 ter c.p.c.
Sembra prevalere la tesi del risarcimento sanzionatorio che fa parte del c.d. danno punitivo che svolge la
funzione pubblicistica della deterrenza e della punizione volta a prevenire la reiterazione dell’illecito. Istituto questo del tutto nuovo nel nostro ordinamento.
Non si tratterebbe, pertanto, di un risarcimento di natura compensativa commisurato al danno subito ma
sanzionatorio12. Infatti, non è contemplato nel nostro
ordinamento il caso di un provvedimento ex officio per
la condanna al risarcimento del danno ex art. 2043,
mentre invece con l’art. 709 ter si prevede l’applicazione ex officio della sanzione punitiva da parte del
giudice. Comunque, la dottrina e la giurisprudenza, in
riferimento ai danni provocati dall’inosservanza dei
provvedimenti inerenti la potestà genitoriale e l’affidamento dei figli, si sono espresse in modo diverso.
Alcuni hanno catalogato il risarcimento del danno in
termini di pene private, danni punitivi o punitive damage (di origine anglosassone), che non hanno niente
a che vedere con il risarcimento di cui agli artt. 2043 e
2059, altri alle funzioni delle astreintes (di origine francese), che mirano all’osservanza della norma, tale tipo
di sanzione è quella più vicina a quella del 709 ter in
quanto è commisurata alla gravità della inadempienza e calata sul caso concreto. Altri ancora, li ritengono danni in re ipsa soggetti a valutazione equitativa, e non ad un accertamento effettivo. Infatti tali
azioni, contrariamente a quelle richieste ex art. 2043
non mirano al ristoro dei danni personali e patrimoniali ma solo al pregiudizio sofferto dal minore per
l’inadempimento di uno dei genitori in ordine all’esercizio della potestà. In ordine ai danni punitivi
parte della dottrina fa rilevare che la cassazione civile
con sentenza della terza sezione del 19 gennaio 2007
ha respinto la domanda di delibazione di una sentenza straniera, che prevedeva il pagamento di danni
punitivi per contrarietà all’ordine pubblico. Infatti tali
danni sono caratterizzati dalla sproporzione tra l’importo liquidato e il danno effettivamente subito13. In
ogni caso, la giurisprudenza, concordemente ritiene
che tali tipi di danni debbano avere natura sanzionatoria con funzione pubblicistica.
La prima sanzione menzionata all’art.709 ter è
una semplice ammonizione il cui obbiettivo è quello
di far desistere il genitore dalla condotta inadempiente e spingerlo ad osservare i provvedimenti stabiliti dal giudice a tutela dei minori. La quarta sanzione a carattere pubblicistico, è amministrativa pecuniaria e andrebbe versata alla Cassa delle Ammende, ente con personalità giuridica istituito
presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con legge del 9 maggio1932, poi riformata
dall’art.44 bis della legge 27 febbraio 2009 n. 14. Sanzioni che afferiscono alla dotazione patrimoniale
dell’ente. Al momento la legge affida la riscossione
all’ufficio apposito del Tribunale, tuttavia la regola
generale prevede che le somme iscrivibili a ruolo
siano oggetto della riscossione dei concessionari,
per il solo fatto di avere provenienza da amministrazioni dello Stato. I relativi fondi servono a finalizzare i progetti dell’amministrazione penitenziaria ed interventi in favore delle famiglie dei detenuti
e del risarcimento degli stessi. Tale ammenda, anche se irrogata, fino ad oggi, non è stata mai riscossa
per disfunzione del sistema14. I numeri 2 e tre riguardano il risarcimento del danno in favore del minore o dell’altro genitore.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 9
STUDI E RICERCHE
Altro problema esaminato dalla giurisprudenza è
stato quello di stabilire quale fosse il giudice competente a emettere i provvedimenti sanzionatori, se
solo il collegio o anche il giudice istruttore. Alcuni
ritengono che le misure sanzionatorie possano essere anche applicate dal giudice istruttore in corso
del giudizio, ritenendo sufficiente un giudizio sommario. In tal caso la decisione sarà emessa con ordinanza e la sanzione sarà calcolata in via equitativa. Si anticiperebbe così in sede cautelare, la liquidazione del danno, consentendo di dare soddisfazione al creditore del risarcimento lite pendente. In
ogni caso, lo stesso codice di procedura civile prevede all’art. 179 che le pene pecuniarie sono pronunciate dal giudice istruttore. Altri invece ritengono che spetta solo ed esclusivamente al collegio
l’emissione dei provvedimenti sanzionatori e risarcitori di cui sopra in quanto solo un procedimento di
cognizione offre le garanzie di un giusto processo15
Mezzi di impugnazione
L’art. 709 ter parla genericamente di mezzi di impugnazione secondo i mezzi ordinari richiamati
dall’art. 323 cpc. Riguardo ai mezzi di impugnazione, anche qui bisogna fare una distinzione a seconda se trattasi di provvedimenti emessi in un
procedimento insorto lite pendente, oppure provvedimenti contenuti in sentenze o decreti del Tribunale. Nel primo caso, se ci troviamo di fronte a
provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale (separazione o divorzio) tale
ordinanza è reclamabile ex art. 708, ult. co. innanzi
alla Corte d’appello; se invece trattasi di provvedimenti emessi in corso di causa dal GI questi non
sono reclamabili, anche se qualche opinione isolata
in dottrine li ritiene impugnabili ex art. 669 - terdecies c.p.c., in analogia al modello cautelare16 o reclamabili al collegio ex art. 178 c.p.c ult. co. Nel secondo caso i decreti emessi ex art. 710 cpc o ex art.
9 L. divorzio, contenenti l’irrogazione di sanzioni
prescritte nell’art. 709 ter. cpc saranno impugnabili
con reclamo innanzi alla corte d’appello ex art. 739
cpc. I decreti ex art. 317 bis c.c. sono impugnabili
con reclamo Corte d’Appello sezione minorile, i
provvedimenti ex art. 148 c.c. innanzi al T.O.; la sanzione amministrativa con opposizione ai sensi della
L. 689/81 innanzi al GdP; le sentenze innanzi alla
Corte di Appello.
Non sono, invece, ricorribili per Cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost. i decreti della
Corte d’Appello in quanto in tale ambito non hanno
efficacia definitiva.
Note
1
AA.VV., Codice di Procedura Civile operativo. Annotato con dottrina e giurisprudenza. Aggiornato alla L. 18.06.2009, n. 69, Napoli 2009, p.1739.
2
Cfr., in tal senso, Trib. Modena, 7 aprile 2006, in Giur. Merito, 2007, 2527, con nota di Casaburi, Art. 709 ter c.p.c: una
prima applicazione giurisprudenziale.
3
CASABURI, I nuovi istituti del diritto di famiglia (norme processuali e affidamento condiviso): prime istruzioni per l’uso, relazione
svolta all’incontro di studio CSM, Firenze, 31 marzo 2006, in Giur. Mer., suppl. 3, p. 5. Trib. Modena, ord. 7.04.06.
4
Cfr. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e divorzio, Ed. Giappichelli, Torino 2006, p.272
5
Cfr. art. 177 c.p.c.
6
Cfr. ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI VICENZA, 15 aprile 2010, in Famiglia e diritto, 2010, p. 705 ss.
7
Cfr. NAPOLITANO, op.cit. p. 273
8
Cfr. TRIBUNALE MINORI DI ROMA, 16 novembre 1992, in Dir. Fam.,1993, p. 1143 ss.
9
Cfr TRIBUNALE DI BARCELLONA P.G., ord.15 novembre 2010, in Famiglia e diritto,n. 10, 2011, p. 929 ss. In tale ordinanza il
collegio ha accolto la preliminare eccezione di incompetenza territoriale della resistente, dichiarando competente il
tribunale di Busto Arsizio nella cui circoscrizione si trovava il comune della nuova residenza del minore in quanto il
marito, nella separazione consensuale, aveva espresso il suo consenso affinché la moglie, collocataria del minore, potesse trasferire la propria residenza.
10
Cfr. TRIMARCHI, “Illecito (dir. priv.)” in Enc. Dir., XX, Milano 1970, 108.
11
Cfr. Art. 709, 4°co, c.p.c. e art. 4, 8 co, L divorzio.
12
Cfr. TRIBUNALE DI PADOVA, 3 ottobre 2008, in Famiglia e diritto, 2009, pp 609 e ss con nota di Farolfi, L’art. 709 ter; sanzione
civile con funzione preventiva e punitiva?
13
Cfr. DE FILIPPIS-MASCIA-MANZIONE-RAMPOLLA, La mediazione familiare e la soluzione delle controversie insorte tra genitori separati, Cedam, Lavins (TN) 2009, p. 196.
14
A nostro parere, le somme raccolte dalla riscossione di tale tipo di ammenda potrebbero essere utilizzate per la costituzione di un fondo a favore delle persone disagiate a causa della dissoluzione della loro famiglia, gestito dal Comune del luogo in cui si è svolto il giudizio. Un esempio potrebbe essere dato dalla costruzione ad opera del Comune,
con l’utilizzazione dei fondi raccolti per l’applicazione della sanzione, di abitazioni utilizzabili dal genitore non affidatario e/o non domiciliata rio impossidente, per un tempo non superione a 2 anni dalla emanazione della sentenza
di separazione, divorzio ecc, per dargli la possibilità di poter vedere e tenere con sé il figlio in una abitazione idonea e
potersi riorganizzare in termini logistici, lavorativi ed economici al fine di conservare la propria dignità.
15
Cfr. TRIBUNALE DI PISA, 19 dicembre 2007, in Famiglia e diritto, 2009, p. 43 ss con nota di Vullo, Competenza e oggetto delle
controversie promosse es art. 709 ter.
16
Cfr. http://www.claudiocecchella.it/?id=20080329-Convegno_Osservatorio_di_Paler-Claudio_Cecchella—-ARTICOLO.
Accesso del 01/06/2011, alle ore 11.
10 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
STUDI E RICERCHE
PRIVACY ED ISTRUTTORIA
NEL PROCESSO DI
FAMIGLIA
MATTEO SANTINI
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Il Decreto Legislativo 196/2003 (principi generali e
deroghe in ambito giudiziario)
Il diritto alla riservatezza è un diritto fondamentale della persona, tutelato dalla Carta costituzionale stessa. In particolare, tale matrice costituzionale è rinvenuta nell’articolo 2 della Costituzione,
che “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
Accanto a tali norme di portata generale, il diritto alla riservatezza è indirettamente tutelato anche da ulteriori disposizioni a carattere specifico,
come l’articolo 13 sulla libertà personale, l’articolo
14 sull’inviolabilità del domicilio, l’articolo 15 sulla
inviolabilità della corrispondenza e l’articolo 21 sul
diritto di libera manifestazione del proprio pensiero.
È indubbio, quindi, che lo stesso si collochi tra i diritti fondamentali dell’individuo, ancorati alla Costituzione.
Il diritto dell’individuo a manifestare il proprio
pensiero deve anche essere inteso come diritto di
decidere e di scegliere i soggetti destinatari delle nostre manifestazioni del pensiero e come diritto di
escludere, i soggetti non graditi, dalle nostre conversazioni.
Conseguenza logica è che un diritto di tal rango
non può subire compressioni o limitazioni neanche
in caso di rapporto di coniugio e/o convivenza. In altre parole, il matrimonio (a cui si deve equiparare
una convivenza stabile, come ormai pacificamente
riconosciuto dall’unanime dottrina e giurisprudenza) non vale ad escludere il rispetto della privacy
dei singoli coniugi; il diritto alla riservatezza, in
quanto diritto personalissimo, permane in capo a
ciascuno di essi.
Come ha opportunamente rilevato la Cassazione,
la disponibilità del domicilio da parte di più soggetti
non vale ad escludere il diritto alla riservatezza di
ciascun convivente (cfr. Cass. Pen. 9827/06, in tema
di reato ex art. 615 c.p.). Se il matrimonio è unione
materiale e spirituale, comunque ciascun coniuge
ha il diritto di conservare la propria privacy.
Ciò premesso dal punto di vista teorico, nella pratica, accade molto spesso che un coniuge cerchi di
precostituirsi elementi di prova a carico del partner
da usare nei giudizi di separazione e di divorzio, oppure faccia uso di dati già costituiti (parliamo quindi
prove precostituite o costituende).
La questione assume contorni problematici quando
tali elementi probatori siano stati ottenuti o comunque trattati in violazione della normativa sulla privacy.
Il testo di riferimento è il Decreto Legislativo
196/2003 (cd. Testo Unico Privacy). Per trattamento
di un dato personale, intendiamo sia l’acquisizione
sia la rivelazione del dato a terzi sia la diffusione
dello stesso.
Per integrare una condotta di “trattamento dati”
di cui al D.Lgs. Cit. è sufficiente anche la mera diffusione dei dati (cfr. art. 4 T.U. Cit.), da intendersi anche come produzione degli stessi in giudizio. Pertanto, anche tale condotta, laddove effettuata in
spregio alle norme del Testo Unico citato, potrebbe
integrare una condotta punibile.
Quindi, ben potrebbe considerarsi responsabile il
coniuge che diffonda dati personali del consorte
(producendoli in giudizio) in violazione delle norme
di cui al D.Lgs. 196/03, se dal fatto deriva nocumento
per il soggetto passivo (cfr., in particolare, art. 167
D.Lgs. Cit.).
A questo punto è necessario, un accenno agli steps
da seguire per trattare i dati “lecitamente”, laddove
si vogliano poi usare in ambito giudiziario.
In relazione ai dati personali, l’art. 13 T. U. Privacy
introduce una deroga all’obbligo di preventiva informativa all’interessato, prevedendo l’esonero dalla
stessa quando i dati personali devono essere trattati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per
tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro
perseguimento”.
In questo caso, quindi, venendo in considerazione
un diritto anch’esso costituzionale, il diritto di difesa, e di pari rango rispetto al diritto alla privacy, il
legislatore ammette una compressione di quest’ultimo, purché l’esplicazione del diritto di difesa sia
effettuata secondo correttezza.
In particolare, si richiede che:
- i dati oggetto del trattamento siano esatti, da intendersi come precisi e rispondenti al vero;
- i dati stessi siano completi, e cioè tali da fornire
esatte informazioni, senza estrapolare solo i
contenuti utili per una parte;
- il trattamento e l’uso degli stessi sia pertinente
e non eccedente, e cioè strettamente necessario
e non sproporzionato in relazione al diritto che
si intende far valere in giudizio;
- il trattamento avvenga per il tempo strettamente
necessario per fare valere il diritto in giudizio;
- il trattamento avvenga privilegiando quelli strumenti che garantiscono la minore compromissione possibile della privacy altrui; nel senso che,
se lo stesso risultato può essere raggiunto attraverso due differenti metodi di indagine, deve essere privilegiata l’indagine che determina il minore grado di compromissione dell’altrui riservatezza.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 11
STUDI E RICERCHE
Normalmente i dati sensibili (e cioè i dati personali idonei a rilevare l’origine razziale ed etnica, le
convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le
opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali
idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale)
sono oggetto di una tutela rafforzata. Di fatti, per poter trattare dati sensibili occorre, oltre al consenso
dell’interessato e all’informativa (come per i dati
personali), anche l’autorizzazione preventiva del Garante per la Protezione dati personali (art. 26 D.Lgs.
196/03).
Il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario
L’art. 26 cit. prevede al comma 4 la possibilità di
trattare dati personali sensibili senza consenso dell’interessato (come da autorizzazione preventiva del
Garante della Privacy, la n. 4/2009) “quando il trattamento è necessario per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto, sempre che i dati siano stati trattati
esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto
deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero
consistere in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Ancora, l’articolo 60 T.U. Privacy, applicabile al caso di dati sensibili idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale contenuti in atti amministrativi, confermando
la rafforzata tutela riconosciuta ai dati sensibili, ribadisce che, laddove manchi il consenso scritto dell’interessato, è possibile richiedere l’accesso agli atti
amministrativi che contengono tali dati solo se “la
situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro
diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Anche per
gli atti giudiziari non è richiesto il consenso dell’interessato, quando il trattamento degli stessi sia
strettamente indispensabile per eseguire prestazioni professionali richieste dai clienti per scopi determinati e legittimi e nel rispetto del diritto alla difesa (aut. Gen. 7/2002). In pratica per le finalità sopra
descritte non è necessario né il consenso dell’interessato, né l’autorizzazione del Garante per trattare
dati semplici o sensibili relativi a terzi, ove ciò sia
necessario per far valere un diritto in giudizio e
sempre nel rispetto dei principi di verità, completezza dei dati, pertinenza e non eccessività. La ratio
di tali deroghe all’obbligo di rispetto della privacy
appare evidente: se devo compiere delle attività investigative per acquisire delle prove da utilizzare nel
corso di un giudizio di separazione o di divorzio, se
la controparte fosse informata della mia intenzione
da un lato cambierebbe il proprio comportamento,
proprio nella consapevolezza di essere stata atten12 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
zionata, dall’altro negherebbe comunque il consenso al trattamento dei suoi dati personali, ma soprattutto, tenterebbe di celare e di rendere il più difficile possibile per la controparte, la ricerca delle informazioni necessarie per far valere il diritto.
Ricapitolando: in relazione al trattamento lecito
di dati personali da usare quali prove costituite o costituende:
- se trattasi di dati personali occorre il consenso e
l’informativa; si può procedere senza informativa solo nelle ipotesi di cui all’articolo 13,
comma 5, lett. b) D.Lgs. 196/03;
- se trattasi di dati sensibili occorre il consenso,
l’informativa e la previa autorizzazione del Garante; si può procedere senza il consenso dell’interessato solo nell’ipotesi di cui all’articolo 26
D.Lgs. 196/03.
I dati personali trattati in violazione del Decreto Legislativo 196/2003
Ciò premesso, a quale sorte vanno incontro i dati
trattati in violazione delle disposizioni su indicate?
L’articolo 11 D.Lgs. 196/03 sancisce l’inutilizzabilità
di tutti quei dati trattati in violazione delle norme
di cui al Decreto citato.
Tuttavia, in relazione alla possibilità di utilizzazione di tali dati in ambito giudiziario, il legislatore
ha introdotto una disciplina particolare, contenuta
nell’articolo 160, comma 6, T.U. Privacy, secondo cui
“la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e
provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di
legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti
disposizioni processuali nella materia civile e penale”.
È evidente che l’intento del legislatore è stato
quello di evitare caducazioni automatiche di atti e
documenti introdotti in un processo, temperando la
sanzione di cui all’articolo 11 D.Lgs. 196/03.
Tuttavia, in materia penale la sanzione dell’inutilizzabilità è confermata; di fatti, il rinvio è all’articolo 191 c.p.p., che sancisce l’inutilizzabilità delle
prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla
legge (con le uniche eccezioni di cui all’articolo 189
c.p.p. per le prove cd atipiche e all’articolo 234 c.p.p.
per le prove documentali).
In materia civile, invece, è difficile delineare una
regola generale. Si deve di fatti rilevare che, mentre
in ambito penale è il legislatore che ha disposto preventivamente la sanzione dell’inutilizzabilità delle
prove acquisite in violazione delle disposizione di
leggi, in ambito civile manca una regola di tal tipo.
La valutazione circa l’ammissibilità delle prove è
pertanto lasciata al giudice, salvo che disposizioni
speciali prevedano diversamente. In altri termini, se
nel processo penale si può affermare con certezza
che prove assunte violando la normativa Privacy si
debbano considerare inutilizzabili, nel processo civile ciò non è disposto preventivamente dalla legge
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e l’inutilizzabilità non è automatica conseguenza;
sarà il giudice a dover valutare circa la loro utilizzabilità, caso per caso e usufruendo del potere discrezionale che gli è concesso dalla legge (art. 116 c.p.c.).
Alcune categorie professionali, in particolare gli
avvocati, utilizzano dati di carattere personale per
svolgere attività investigative e difensive o comunque per far valere un diritto in sede giudiziaria. L’utilizzo di questi dati è imprescindibile per garantire
una tutela piena ed effettiva dei diritti, con particolare riguardo al diritto di difesa e al diritto alla prova:
un’efficace tutela di questi due diritti non è pregiudicata, ed anzi è rafforzata, dal principio secondo
cui il trattamento dei dati personali deve rispettare
i diritti, le libertà fondamentali e la dignità delle persone interessate, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e alla protezione
dei dati personali.
È opportuno analizzare nello specifico, la portata
e l’estensione del diritto di difesa di rango costituzionale che legittima la compromissione della privacy altrui; è doveroso altresì sottolineare che, per
diritto di difesa non si intende solo la difesa da un
accusa di un terzo (possa trattarsi della magistratura inquirente o della controparte), ma anche il diritto di agire in giudizio, quindi di far valere un giudizio nei confronti di un terzo (come attore o ricorrente).
Le indagini patrimoniali e l’attività investigativa di
parte
Le disposizioni che agevolano il compito dell’avvocato per effetto del bilanciamento operato dal codice della privacy tra diritto alla difesa e gli altri diritti e libertà fondamentali delle persone interessate, non operano solo durante lo svolgimento di un
giudizio necessariamente già instaurato. Le disposizioni del Codice della Privacy possono essere utilmente applicate anche (e soprattutto) nella fase propedeutica all’instaurazione del giudizio, se l’attività
è finalizzata effettivamente ed esclusivamente a verificare l’esistenza di un diritto da tutelare in giudizio. Anzi è proprio in questa fase che è necessario
acquisire degli elementi di prova su cui poi fondare
il proprio ricorso introduttivo (ad esempio per separazione o divorzio giudiziale) o la propria comparsa
di costituzione (allegando se del caso i documenti
relativi alle prove raccolte).
Al contrario, l’esenzione dall’obbligo di notifica al
garante o dall’obbligo di ottenere il consenso dell’interessato, non opera per tutto ciò che concerne
l’attività puramente stragiudiziale, cioè quell’attività non finalizzata all’instaurazione di un giudizio
(come chiarito dal Garante con parere del 3 giugno
2004).
Le prove che le parti intendono raccogliere nel
corso dei giudizi di separazione e divorzio sono sostanzialmente di due tipi:
1) Le notizie dirette ad accertare il patrimonio e lo
stile di vita della controparte.
2) Le notizie dirette a provare eventuali situazioni
di infedeltà del coniuge o del convivente o di
grave violazione agli obblighi matrimoniali.
In effetti, il problema è quello di comprendere
quali sono le prove che posso essere raccolte degli
avvocati (e per loro conto dagli investigatori) nel
corso della loro attività di indagine volta all’acquisizione di elementi da introdurre nel procedimento
(già instaurato o da instaurarsi) ed in che modo tali
informazioni possano “entrare” nel processo.
Certamente, è ammissibile l’acquisizione e la produzione di report investigativi diretti a dimostrare
l’eventuale infedeltà coniugale; report supportati da
fotografie che come ormai pacificamente accettato,
sono pienamente ammissibili ove vengono effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Mentre,
nel caso di fotografie scattate in luoghi privati, il
problema si fa più delicato e sarà risolto di volta in
volta dal singolo tribunale, venendo in questo caso
in rilievo il diritto alla privacy ed il diritto alla non
intrusione nell’altrui proprietà privata. Può accadere, ad esempio, che il documento raccolto, venga
ammesso e valutato come prova dal giudice civile
(della separazione) ma che, contemporaneamente,
il soggetto ritratto che si ritiene leso nel proprio diritto alla privacy, presenti una querela in sede penale, per interferenze illecite nella vita privata. Ed
in questo caso i due procedimenti seguiranno percorsi e sorti diverse. Certamente, se un dato è acquisito e trattato violando la norma penale, e se tale
violazione viene accertata tramite una sentenza irrevocabile, il dato non potrà essere utilizzato in un
processo civile di separazione o di divorzio; d’altro
canto appare evidente che, in considerazione del
fatto che i due giudizi (civile e penale) seguono percorsi con tempi differenti, il giudice civile non possa
attendere, al fine di giudicare ammissibile o meno,
a fini probatori, un documento, l’esito del giudizio
penale (può avvenire anche l’opposto e cioè che il
giudice penale reputi il comportamento del soggetto
che si asserisce aver violato la privacy come penalmente irrilevante, all’esito del processo, mentre il
giudice civile, ritenga la prova raccolta violando la
privacy come non ammissibile in sede civile).
Per ciò che concerne la corrispondenza, se essa
(ordinaria, elettronica, ecc) è diretta ad entrambi i
coniugi, ciascuna parte potrà tranquillamente produrla in giudizio; altrimenti si può configurare il
reato di cui all’articolo 616 cp (violazione, sottrazione o soppressione di corrispondenza) ovvero il
comportamento di chi prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa (violazione), a
lui non diretta, oppure sottrae o distrae, al fine di
prenderne o di farne da altri prender cognizione,
una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non digennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 13
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retta (sottrazione), oppure, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime (soppressione).
Il secondo comma afferma che se il colpevole,
senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, con la reclusione fino a tre anni. A giudizio dello scrivente dovrebbe essere considerata come giusta causa
(quindi come scriminante), il diritto della parte di
far valere il proprio diritto dinnanzi al giudice civile
per la dimostrazione di un comportamento illegittimo della controparte.
Il concetto sopra indicato si estende alla corrispondenza elettronica. Quindi alle email, ma anche
alla cosi detta MESSAGGISTICA ISTANTANEA (messanger, skype, ecc), ma anche ai sociali network (FACEBOOK), e cioè a tutti gli strumenti informativi protetti da password e da nome utente, all’interno dei
quali il soggetto, titolare del profilo, interagisce con
il mondo esterno esternando fatti e circostanze private o che non desidera che vengano diffuse o conosciute dalla generalità degli utenti.
Altro problema è quello dell’utilizzabilità della corrispondenza elettronica, sotto il profilo dell’autenticità delle stesse, delle genuinità e della riconducibilità del messaggio, al presunto autore. Se per la corrispondenza ordinaria, il problema può essere facilmente risolto procedendo ad una perizia sul documento ai fine di accertarne la genuinità della firma,
per il documento informatico il problema si complica. Da un lato perché non tutti i sistemi di messaggistica istantanea consentono di reperire la cronologia delle conversazioni (e questo diventa anche
un problema nel caso in cui sia necessario disporre
delle intercettazioni per l’accertamento della commissione di reati). Ad esempio sistemi quali SKYPE
creati per esigenze di difesa nazionale e muniti di sistemi di difesa particolarmente sofisticati contro le
intrusioni, rendono quasi impossibile, una volta cancellata, la ricostruzione della cronologia delle conversazioni (ad esempio skype utilizza un sistema, costituito da algoritmi che creano una criptazione di
tutto ciò che viene scritto, nei confronti dell’esterno).
Per quello che riguarda i social network è invece
più facile ricostruire la cronologia delle conversazioni; però il contenuto delle conversazioni non costituisce una prova certa circa la provenienza delle
stesse e la riconducibilità delle stesse al presunto
autore. Non sono presenti infatti firme elettroniche
e la parte, alla quale la conversazione è imputata,
potrebbe benissimo difendersi affermando che
qualcun altro è entrato nel suo profilo personale ad
ha agito a suo nome. Certo questo non esclude che
il giudice nel lambito del suo libero convincimento
possa valutare tale prova e convincersi che in realtà
l’ipotesi dell’intrusione di terzi nel profilo appare inverosimile.
Resta poi il problema della violazione della privacy, relativamente all’accesso abusivo nel profilo
14 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
altrui, con conseguente commissione del reato di
violazione, sottrazione, di corrispondenza; problema
che come affermavo prima deve essere valutato
caso per caso, per accertare quale sia il diritto prevalente (diritto alla privacy o diritto alla difesa).
Il Garante della Privacy con parere del 03 giugno
2004 ha stabilito che, in relazione alle banche dati
relative alla solvibilità economica, non è necessaria
notificazione (anagrafe tributaria).
Potranno certamente essere prodotti documenti
relativi alla situazione patrimoniale delle parti (visure immobiliari, visure PRA, dichiarazioni dei redditi nelle parte esente la privacy e cioè i dati oggettivi sull’imponibile; si tratta di informazioni per le
quali non potrebbe mai parlarsi di violazione della
privacy da parte di un avvocati e ciò per tre ragioni
fondamentali:
1) l’art. 13 T. U. Privacy introduce una deroga all’obbligo di preventiva informativa all’interessato, prevedendo l’esonero dalla stessa quando
i dati personali devono essere trattati “per far
valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali
finalità e per il periodo strettamente necessario al
loro perseguimento)”.
2) depositare la dichiarazione dei redditi della
controparte non è una violazione della privacy
per il semplice fatto che la controparte è obbligata (per legge) a depositarla nel primo atto difensivo (è lo stesso giudice che con il provvedimento di fissazione di udienza obbligala parte
depositare le dichiarazioni dei redditi).Quindi
quando la controparte si lamenta perché abbiamo violata la privacy, dice una grande sciocchezza.
3) producendo la dichiarazione dei redditi della
controparte (nella parte esente da privacy) io
non diffondo il dato a terzi ma unicamente lo
comunico al giudice (secondo la forma protetta
dell’allegazione al fascicolo processuale). E se ci
pensate questa allegazione è il presupposto
perché io possa agire in giudizio con cognizione
di causa, quantificando con cognizione di causa
l’importo dell’assegno di mantenimento da richiedere nei confronti dei figli; valutando con
cognizione di causa se richiedere o meno l’assegno di mantenimento o divorzile al coniuge.
Senza tali dati (finanziari o patrimoniali) sarebbe impossibile farsi un quadro obiettivo e vi
sarebbe un aumento indiscriminato di azioni,
nelle quali una parte prova ad agire nei confronti del coniuge (magari con ricorso per modifica delle condizioni di separazione), nella
speranza, basata su dati inesistenti, che vi è
stato un mutamento delle condizioni reddituali
ed economiche della controparte. Una sorta di
tentativo di sparare nel mucchio, sperando di
prendere qualche cosa.
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Maggiori perplessità sussistono per la produzione
degli estratti dei conti correnti bancari, dei quali la
parte sia venuta a conoscenza ed in possesso mediante l’ausilio di agenzie che si avvalgono di banche dati dirette a reperire conti correnti o tramite
incaricati della banca. Per quanto riguarda tale documentazione, sarebbe opportuno che si pronunciasse il garante della privacy anche se un’eventuale
pronunzia non risolverebbe tutti i problemi; nel
senso che, il giudice civile sarebbe sempre libero
nell’ambito dei suoi poteri di valutare quel documento come elemento che concorre a determinarne
il convincimento oppure di disporne lo stralcio e la
non ammissione; mentre, il giudice penale in caso
di querela continuerà a dover valutare caso per caso
se vi è stata o meno una violazione della privacy e se
essa è motivata o meno dalla necessità di far valere
un diritto di pari rango o di rango superiore.
Nessun dubbio invece sussiste circa l’utilizzo di
mezzi di prova o di mezzi di ricerca e di acquisizione
della prova che sono ritenuti illegittimi ai sensi del
nostro ordinamento o la cui ammissione è sottoposta a regole e limiti precisi (intercettazioni telefoniche, ecc).
Un problema che si presenta molto spesso nell’ambito dei giudizi di separazione e di divorzio è
quello relativo all’utilizzabilità delle riprese audiovisive in un procedimento civile. La norma principale sotto il profilo processuale è l’art. 2712 c.c. che
sancisce quanto segue:
“Le riproduzioni (Cod. Proc. Civ. 261) fotografiche o
cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in
genere, ogni altra rappresentazione meccanica di
fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle
cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle
cose medesime”.
Sul punto la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che:
“il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di cui
all’art. 2712 c.c. (tra le quali sono da includere le riprese
adiovisive), che fa perdere alle stesse la loro qualità di
prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità
di cui all’art. 214 c.p.c., deve, tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra
realtà fattuale e realtà riprodotta) e… deve essere tempestivo, cioè avvenire nella prima udienza o nella prima
risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette
riproduzioni dovendo per ciò intendersi la prima difesa in
cui la parte sia stata posta in condizione di rendersi immediatamente conto del contenuto della riproduzione”.
(Cass. 9526/2010).
Alla luce del citato orientamento, il suddetto articolo va temperato con un fondamentale principio
espresso dal codice di rito. Infatti, ai sensi dell’art.
116 c.p.c. “il giudice deve valutare le prove secondo
il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge
disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno
o dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”.
Orbene, secondo la Corte di Cassazione
“il disconoscimento, che fa perdere alle riproduzioni
meccaniche la loro qualità di prova e va distinto dal mancato riconoscimento - diretto o indiretto - che non esclude
il libero apprezzamento da parte del giudice delle riproduzioni legittimamente acquisite, deve essere chiaro e circostanziato ed esplicito con allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà
riprodotta” (Cass. n. 8998 del 2001).
anche di recente la Suprema Corte, in un procedimento vertente in materia lavoro, ha avuto modo di
precisare che “Pur non ignorando altro indirizzo secondo
cui il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche non
consente la formazione della prova piena, ciò non può precludere al giudice la ricostruzione del contenuto della registrazione contestato in modo generico, attraverso elementi gravi, precisi e concordanti” (Cass. 10430/2007).
Quindi se pure la parte ha disconosciuto il documento, il giudice può comunque, nell’ambito del
proprio libero convincimento, valutare il fatto, sostanzialmente come provato.
Reati connessi alla violazione del diritto alla privacy
Ciò posto, è opportuno sotto il profilo del diritto
sostanziale, valutare se le riprese audiovisive e la
loro esibizione nel corso di un procedimento civile
possano integrare gli estremi di un reato connesso
alla tutela della riservatezza, dell’immagine o del
domicilio della persona.
Infatti, la suddetta condotta potrebbe integrare il
reato di violazione di domicilio, o di violazione della
segretezza delle comunicazioni private, o ancora
con la violazione di un diritto all’immagine altrui, o
quello di trattamento illecito di dati personali (art.
35 L675/1996 oggi art. 167 Codice privacy del 2003).
E opportuno premettere che, quanto segue è
frutto di studi effettuati in materia penalistica, ed
in relazione al regime probatorio del procedimento
penale. É scarsa la giurisprudenza e la dottrina in
sede di processo civile.
Esaminando preliminarmente la tutela della riservatezza, come già accennato in precedenza, l’art.
24 del Codice Privacy, da coordinarsi con l’art. 13 del
medesimo testo normativo, prevede che il consenso
non è richiesto quando l’attività è volta a far valere
o difendere n diritto in sede giudiziaria.
Detto articolo affronta il delicato problema del bilanciamento tra diritto di difesa e diritti della privacy dell’interessato e prevede la possibilità che la
controparte di un procedimento giudiziale non sia
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 15
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informata previamente della raccolta di informazioni sul suo conto da parte di terzi.
Pertanto, non è soggetto al preventivo consenso,
la raccolta di informazioni effettuata al fine esercitare le azioni di tutela e difesa delle proprie ragioni.
Sul diritto all’immagine, il Tribunale di S. Maria
Capua Vetere, chiamato a pronunciarsi in relazione
alla producibilità di immagini fotografiche che ritraevano scene di un adulterio, ha stabilito che “le finalità della giustizia (di cui all’art. 4 L. 675/1996), impongono una legittima violazione anche dell’immagine altrui - pena l’impossibilità di far valere un proprio diritto dinnanzi al giudice”.
Sulla tutela del domicilio (art. 615 c.p.), in tema di
videoriprese in luoghi privati, aperti o esposti al
pubblico, la giurisprudenza penalistica ha più volte
affermato che la ripresa di aree comuni non può ritenersi indebitamente invasiva della sfera privata
dei condomini ai sensi dell’art. 615 c.p. giacchè l’indiscriminata esposizione alla vista altrui di un’area
di pertinenza domiciliare non deputata a manifestazioni di vita privata è incompatibile con la tutela
penale della riservatezza.
La stessa Corte Costituzionale, con sentenza 149
del 16.05.2008 ha sancito che “il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza
se l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, possa essere liberamente osservata dagli
estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti
(ad es. chi si ponga su un balcone prospiciente la
pubblica via), negli stessi limiti, l’attività così liberamente osservata può essere videoregistrata, per confluire, successivamente, nel coacervo probatorio”.
Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che una normale ripresa in un ambiente
esterno può diventare illecita quando si adottano sistemi per superare quei normali ostacoli che impediscono di intromettersi nella vita privata altrui.
Per questo, la Corte aggiunge “è necessario bilanciare
l’esigenza di riservatezza (che trova presidio nella normativa costituzionale quale espressione della personalità
dell’individuo nonchè la protezione del domicilio, pur esso
assistito da tutela di rango costituzionale, che dispiega
severa protezione dell’immagine), e la naturale compressione del diritto, imposta dalla concreta situazione di fatto
o, ancora, la tacita, ma inequivoca rinuncia al diritto
stesso, come accade nel caso di persona che, pur fruendo
di un sito privato, si esponga in posizione visibile da una
pluralità indeterminata di soggetti”. (Cass. Pen. 47165/
2010).
È opportuno tuttavia segnalare che la giurisprudenza ha elaborato la così detta categoria del “quasi
domicilio” ovvero, può ritenersi domicilio penalmente tutelato quel luogo, destinato all’esplicazione
anche di un solo atto della vita privata, in cui la persona si senta al riparo da sguardi indiscreti e abbia
lo ius excludendi alios (es. abitacolo autovettura, camera d’albergo, androne di un condominio).
16 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
La Corte Costituzionale, ha comunque affermato che “stabilire quando la ripresa visiva
possa ritenersi finalizzata alla captazione di
comportamenti a carattere comunicativo e
determinare i limiti entro i quali le immagini
concretamente riprese abbiano ad oggetto
tali comportamenti, è questione che spetta al
giudice a quo risolvere”. Concludendo: ogni
ripresa audiovisiva, da chiunque effettuata in
aperto luogo pubblico, è ammissibile e probatoriamente utilizzabile sotto forma di “documento” ex art. 234 c.p.p., se eseguita al di
fuori del contesto procedimentale, o, se contestualizzata come atto del procedimento,
alla stregua di “documentazione” a norma
dell’art. 134, quarto comma c.p.p., oppure ai
sensi del combinato disposto degli artt. 189 e
190 c.p.p., nel contraddittorio delle parti, in
quanto non vietata dalla legge e nella misura
in cui sia funzionale all’accertamento dei
fatti. La prova verrà così veicolata nel giudizio attraverso la semplice riproduzione del filmato o, se del caso, mediante perizia.
Gli stessi argomenti valgono per le immagini
e suoni captate in luoghi privati (siano essi
aperti, recintati o anche chiusi tra “pareti finestrate”), ma comunque agevolmente osservabili dall’esterno senza l’impiego di particolari strumenti tecnologici (vedi, da ultimo, la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 149 del 2008). Le relative videoregistrazioni sono assolutamente legittime,
pienamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari e validamente acquisibili.
Anche le videoregistrazioni in ambienti domiciliari (si rimanda a quanto precedentemente esposto per l’individuazione del concetto di domicilio) comunque effettuate dal
titolare del relativo diritto e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria sono pienamente ammissibili ed utilizzabili come prova
documentale ex art. 234 c.p.p. (si pensi, ad
esempio, alle immagini estrapolate da un sistema di videosorveglianza installato in un
appartamento e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria dal proprietario dello
stesso).
Le videoregistrazioni in ambienti domiciliari,
occultamente effettuate dagli inquirenti previo decreto autorizzativo emesso dall’autorità giudiziaria a norma del combinato disposto degli artt. 266, secondo comma, e 267
c.p.p., saranno legittime ed utilizzabili alla
stregua di intercettazioni di comunicazioni
tra presenti, soltanto se riproducano comportamenti di tipo comunicativo.
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In assenza di una normativa che le consenta,
disciplinandone casi e modi, sono costituzionalmente vietate, e quindi inammissibili,
le riprese audiovisive eseguite nell’altrui domicilio e che contengano immagini di comportamenti non comunicativi.
Le videoregistrazioni eseguite nel “quasi domicilio” siano esse rappresentative di qualunque comportamento, sono ammissibili e
quindi veicolabili come prova atipica nel giudizio, a norma dell’art. 189 c.p.p., soltanto se
precedentemente autorizzate con decreto
motivato dell’autorità giudiziaria (pubblico
ministero o giudice), in guisa da soddisfare il
livello minimo di garanzie costituzionali sopra tratteggiato.
Istruttoria processuale (informazioni patrimoniali;
attività e facoltà delle parti; poteri del Giudice)
È opportuno ora individuare la fase processuale
in cui gli elementi probatori raccolti dalla parte debbano essere prodotti in giudizio. La fase introduttiva
del procedimento è senza dubbio, il momento in cui
le parti (ricorrente e resistente) devono indicare gli
strumenti di prova, dei quali si vogliono avvalere nel
corso del giudizio, per far valere i propri diritti. L’articolo 706 del codice di procedura civile, è piuttosto
scarno circa le indicazioni sul contenuto del ricorso
e sulle allegazioni documentali delle parti. L’unico
obbligo specifico è quello relativo all’allegazione,
unitamente al deposito del ricorso e della memoria
difensiva, delle ultime dichiarazioni dei redditi delle
parti (e questo come ho detto prima ci fa chiaramente comprendere che la parte che deposita le informazioni circa la dichiarazione dei redditi di controparte non commette una violazione della privacy
e ciò proprio sul presupposto che la controparte è
tenuta nel primo atto difensivo a produrre tali dichiarazioni).
Sul contenuto del ricorso è opportuno rilevare che
esso dovrà contenere l’esposizione dei fatti sui quali
la domanda è fondata. La facoltà concessa dalla
legge al ricorrente, di presentare una memoria integrativa, contenente le indicazioni di cui ai numeri 2,
4, 5 e 6 comma 3 dell’articolo 163 c.p.c., palesa la non
necessità che nel ricorso introduttivo siano presenti
tutti gli elementi sui quali è fondata la domanda (incluse le allegazioni probatorie).
Sull’obbligo di deposito in sede di ricorso o di memoria difensiva, delle dichiarazioni dei redditi delle
parti, va rilevato che la mancata allegazione agli atti
introduttivi, è priva di sanzione, non comportando
alcuna ipotesi di nullità. L’unica conseguenza potrà
essere quella della valutazione sfavorevole, da parte
del Presidente, del comportamento della parte che
ha omesso di depositare le dichiarazioni dei redditi.
L’articolo 706 c.p.c. si riferisce genericamente alle
“ultime” dichiarazioni dei redditi. In dottrina si è dibattuto se tale indicazioni implichi un obbligo di depositare l’ultima dichiarazione dei redditi presentata dalle parti o se l’obbligo si estenda anche alle
precedenti dichiarazioni. In assenza di una specifica
disposizione di legge, la questione è stata risolta,
come spesso avviene, dalla prassi giudiziaria, dove
nei provvedimenti di fissazione di udienza, è indicato l’obbligo di depositare le ultime “tre” dichiarazioni dei redditi. Rispetto all’articolo 5 della legge 1
dicembre 1970, vi è una riduzione dei documenti fiscali che la parte deve allegare al ricorso; tale norma
prevedeva infatti l’obbligo per le parti di allegare la
dichiarazione dei redditi e ogni documentazione relativa ai redditi e al patrimonio personale. Ciò equivaleva ad imporre a carico di ciascuna delle parti,
l’obbligo di allegare tutta la documentazione afferente il patrimonio, come ad esempio le visure del
PRA, i certificati della Conservatoria dei Registri Immobiliari, gli estratti dei conti correnti bancari.
Oggi, proprio in considerazione della necessità di
allegare le solo dichiarazioni dei redditi, saranno le
stesse parti che, nell’ambito della loro attività di indagine, potranno acquisire le informazioni e la documentazione diretta a provare la reale situazione
reddituale della controparte. Si tratta certamente di
una facoltà e non di un obbligo. D’altro lato, nel caso
in cui le informazioni o le dichiarazioni dei redditi
delle parti, dovessero apparire non verosimili o in
contrasto con il tenore di vita del soggetto o se le informazioni di carattere economico fornite dai coniugi non risultino sufficientemente documentate,
il Giudice potrà disporre d’ufficio (magari dietro richiesta di una delle parti) le opportune indagini patrimoniali anche a mezzo della Polizia Tributaria. Solitamente le indagini di polizia tributaria vengono
espletate secondo due criteri fondamentali: il primo
è rappresentato dalla richiesta ed acquisizione di
tutta la documentazione relativa al patrimonio mobiliare ed immobiliare del soggetto coinvolto nell’accertamento. Saranno richiesti i certificati presso
le Conservatorie dei Registri Immobiliari, presso il
Pubblico Registro Automobilistico; verranno effettuate le opportune ricerche volte alla ricerca di conti
correnti bancari e alla disponibilità di titoli azionari
ed obbligazionari. Saranno altresì oggetto di valutazione ed indagine, le eventuali società di cui il soggetto è socio. Un’attenzione particolare verrà rivolta
all’analisi delle dichiarazioni dei redditi, anche al
fine di valutarne la correttezza e congruità rispetto
al tenore di vita del soggetto. L’indagine potrà poi
estendersi alla verifica delle singoli voci indicate
nella dichiarazione dei redditi, con particolare riferimento alla verifica sulla veridicità delle singole
fatture emesse e di quelle di acquisto, specie sotto il
profilo dell’esistenza della prestazione sottostante
la fattura.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 17
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Il secondo criterio di indagine è rappresentato
dall’acquisizione di informazioni, per mezzo di soggetti quali dipendenti, datori di lavoro e soggetti che
possano essere a conoscenza di informazioni utili
dirette ad ricostruire ed accertare il patrimonio ed il
tenore di vita del soggetto.
Certamente il limite delle indagini di polizia tributaria, espletate nel corso dei procedimenti di separazione e divorzio, è rappresentato dalla difficoltà
di individuare quella parte di patrimonio, eventualmente intestata in modo fittizio a terzi soggetti. Per
i patrimoni cosiddetti “occulti” dovranno essere le
stesse parti, magari più informate sulla situazione
economica del coniuge, ad effettuare attività di indagine, all’esito della quale potranno richiedere al
Giudice di estendere le indagini a terzi soggetti, suggerendo quegli elementi che inducano l’organo giudicante a ritenere verosimile l’esistenza di una
quota di patrimonio occultato. È agevole comprendere che le indagini effettuate dalla parte possono
essere tanto più complete, quanto più alte sono le
disponibilità economiche del soggetto.
Assistiamo pertanto a due forme di attività istruttoria, caratterizzate l’una dall’intervento di organi
di polizia attivati dietro impulso del giudice, nell’ambito dei suoi poteri di introduzione d’ufficio di
mezzi prova, dall’altro dall’attività investigativa
delle parti, svolta nell’ambito e nei limiti delle facoltà attribuite ai soggetti in causa di far valere i
propri diritti, avvalendosi di strumenti non illeciti,
pur in apparente violazione di norme, che sono
state concepite per garantire il rispetto della privacy
dell’individuo; diritto alla privacy, che come ampiamente illustrato nel corso della nostra esposizione,
può subire delle legittime compressioni nel corso di
un giudizio di separazione o divorzio, qualora ciò sia
necessario per far valere un contrapposto diritto di
pari rango o di rango addirittura superiore.
È doveroso segnalare in questa sede come, ai sensi
dell’articolo 155 c.c. le indagini di Polizia Tributaria
possono estendersi anche a terzi soggetti che si ritiene detengano o siano intestatari (come prestanome) di beni o attività direttamente o indirettamente riconducibili ad una delle parti in causa. (“ove
le informazioni di carattere economico fornite dai
genitori non risultino sufficientemente documentali, il giudice dispone una accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”).
18 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
Sempre con riferimento alla fase istruttoria, l’articolo 709 c.p.p., stabilisce che davanti al Giudice
istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articolo 180 e 183, incluso quindi il sesto comma n. 2
di quest’ultimo articolo, a mente del quale il Giudice
concede alle parti un termine di 30 giorni per l’indicazione dei mezzi di prove a per le produzioni documentali.
Possiamo pertanto affermare che nel corso dei
giudizi di separazione e di divorzio, esistono tre fasi
processuali previste dal codice civile e di procedura,
che consentono alle parti di produrre documenti o
di indicare mezzi di prova, da individuarsi la prima,
nell’allegazione documentale che avviene al momento del deposito del ricorso introduttivo o della
memoria difensiva, la seconda dal deposito in cancelleria della memoria integrativa di cui all’articolo
709 c.p.c. e la terza dal deposito della memoria ex
articolo 183, VI comma n. 2.
Merita altresì di essere affrontato in questa sede,
il problema dell’ammissibilità di un’attività istruttoria, finalizzata all’emanazione da parte del Presidente del tribunale dei provvedimenti temporanei
ed urgenti ex articolo 708 c.p.c.. Per quanto riguarda i provvedimenti da emanarsi nell’interesse
della prole, la soluzione si rinviene nel dettato normativo dell’articolo 155 sexies c.c., il quale prevede
che “prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155 c.c., il
giudice, può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova”. La natura pubblicistica degli
interessi in gioco, giustifica l’intervento istruttorio
del giudice anche in questa fase. Ritengo personalmente che pure in assenza di una specifica norma,
tale potere possa estendersi anche ai provvedimenti temporanei ed urgenti da emanarsi nell’esclusivo interesse dei coniugi, consentendo ai
Giudice di acquisire prove precostituite e costituende, purchè ciò sia compatibile con la natura urgente del rito.
Sulla tipologia delle prove costituende ammissibili nel giudizio di separazione e divorzio è certamente ipotizzabile il ricorso al giuramento, all’interrogatorio formale, alla confessione. Anche sulla
prova per testi, non vi sono particolati limitazioni,
se non quelle legate alla necessità di adottare una
particolare prudenza nell’assumere testi che siano
parenti o amici stretti dei coniugi, anche in considerazione del rischio di parzialità degli stessi.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
DUE SENTENZE
A CONFRONTO
SUL RISARCIMENTO
PER INFEDELTÀ
CONIUGALE
relazione da lui intrattenuta con altra donna, anch’essa sposata. Il convenuto si costituì chiedendo
che la domanda fosse dichiarata inammissibile, trovando la violazione dei doveri coniugali tutela unicamente attraverso il procedimento di separazione
personale, e comunque infondata. Istruita la causa
anche con CTU sulle condizioni di salute dell’attrice,
il tribunale respinse la domanda. L’attrice propose
appello e il convenuto propose appello incidentale
relativamente alla compensazione delle spese di
primo grado. La Corte di Appello di Genova, con sentenza depositata il 20 maggio 2006, rigettò entrambi
gli appelli. La sig.ra (…) ha proposto ricorso per Cassazione con atto notificato il 29 giugno 2007 alla controparte, formulando due motivi, ai quali il sig. (…)
resiste con controricorso notificato il 4 settembre
2007, entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
(omissis)
I
Il risarcimento non
è precluso dalla mancanza
di una pronuncia di
addebito della separazione
Cass. civile Sez. I,
15 settembre 2011, n. 18853
Presidente Luccioli, Relatore Felicetti
I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio
hanno natura giuridica e la loro violazione non trova
necessariamente sanzione unicamente nelle misure
tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura
giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni
non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.
senza che la mancanza di pronuncia di addebito in
sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni
(omissis)
Svolgimento del processo
1. La sig.ra (…) con citazione del 22 giugno 2001
convenne dinanzi al tribunale di Savona il marito
chiedendone la condanna al risarcimento dei danni
(biologico ed esistenziale) causatile dalla violazione
dei doveri nascenti dal matrimonio e, in particolare,
dall’obbligo di fedeltà, avvenuto con modalità per lei
particolarmente frustranti, stante la notorietà della
2. Con il primo motivo si denuncia insufficiente
e/o illogica e/o contraddittoria motivazione su fatto
controverso e decisivo per il giudizio. Si deduce al
riguardo che la Corte di appello, dopo avere affermato di condividere la tesi secondo la quale le regole che disciplinano la materia familiare non costituiscono un sistema chiuso che impedisca alla
violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio
l’applicabilità delle norme generali in tema di responsabilità aquiliana, ha poi affermato che, nel
caso di specie mancherebbe il presupposto per il diritto al risarcimento. Tale mancanza emergerebbe
dall’avere la ricorrente in un primo tempo proposto
domanda di separazione con addebito, successivamente abbandonando la procedura per addivenire
alla separazione consensuale. Secondo la ricorrente
detta motivazione sarebbe incongrua, non comprendendosi in che cosa consista quel “presupposto”, né perché mancherebbe la prova di esso.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione o
falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2043 - 2059
- 151 cod. civ.), Si deduce al riguardo che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere non risarcibile il
danno ove non vi sia, come nella specie, una pronuncia di addebito in sede di separazione. Il diritto al
risarcimento, infatti, trova fondamento nel caso di
specie nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto e sarebbe indipendente dalla pronuncia di addebito in sede di separazione personale.
Avrebbe pertanto errato la Corte d’appello nel ritenere che l’abbandono della domanda di addebito presupporrebbe la volontà, da parte dei coniugi, di non
accertare la causa della crisi coniugale “così erroneamente trasponendo in un giudizio risarcitorio le regole e i limiti specificamente, ad altro fine dettati dall’art. 151 cod. civ.”. Regole e limiti validi per la pronuncia di separazione con addebito e comportanti il
divieto di mutamento del titolo, ma non la proponigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 19
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
bilità di una domanda di risarcimento, come quella
proposta dalla ricorrente. L’addebito, infatti, comporta conseguenze del tutto peculiari e limitate, e in
certi casi può essere anche privo di conseguenze pratiche, come lo sarebbe stato nel caso di specie per la
ricorrente la quale, rinunciando al giudizio di separazione, non aveva espresso alcuna rinuncia al diritto
al risarcimento dei danni, l’azione di risarcimento
pertanto, secondo la ricorrente, era comunque esercitabile, in relazione ad una condotta dell’altro coniuge posta in essere nella consapevolezza della sua
attitudine a recarle pregiudizio, in quanto contraria
ai doveri nascenti dal matrimonio e produttiva di un
danno ingiusto. Ciò troverebbe conferma sia nei principi affermati da questa Corte nella sentenza n 9801
del 2005, circa la concorrente rilevanza di determinati comportamenti sia ai fini della separazione o
della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia quale
fatto generatore di responsabilità aquiliana; sia nella
dottrina la quale ha evidenziato la frequente sussistenza, nella disciplina codicistica e della legislazione
speciale, di tutele concorrenti con l’azione risarcitoria. Il motivo si conclude con il seguente quesito: “Posto che la ricorrente ha proposto domanda giudiziale
nei confronti del coniuge al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto dei di lui comportamenti violativi dei doveri nascenti dal matrimonio
e lesivi di diritti assoluti e costituzionalmente protetti (salute, immagine, riservatezza, relazioni sociali,
dignità del coniuge, ecc.) affermi la Corte il principio
che la mancanza di addebito in sede di separazione
per mutuo consenso non è preclusiva di separata
azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla
violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti”.
2.2. Deve premettersi che la “ratio” della decisione
impugnata va ravvisata nella statuizione in essa
contenuta secondo la quale la domanda di risarcimento proposta in relazione alla violazione di un
dovere nascente dal matrimonio “non può trovare
accoglimento” in mancanza della pronuncia di addebito in sede di giudizio di separazione. In relazione a tale “ratio” va esaminato con precedenza il
secondo motivo.
2.3. In proposito deve muoversi dai principi già affermati da questa Corte nella sentenza quali la
stessa sentenza 10 maggio 2005 n. 9801, ai quali la
stessa sentenza impugnata si richiama condividendoli. Secondo quella sentenza i doveri che derivano
ai coniugi dal matrimonio non sono di carattere
esclusivamente morale ma hanno natura giuridica,
come si desume dal riferimento contenuto nell’art.
143 cod. civ. alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto e dall’espresso riconoscimento nell’art. 160 cod.
civ. della loro inderogabilità, nonché dalle conse20 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
guenze di ordine giuridico che l’ordinamento fa derivare dalla loro violazione, cosicché deve ritenersi
che l’interesse di ciascun coniuge nei confronti dell’altro alla loro osservanza abbia valenza di diritto
soggettivo. Ne deriva che la violazione di quei doveri non trova necessariamente la propria sanzione
solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la sospensione del diritto all’assistenza
morale e materiale nel caso di allontanamento
senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi
dell’art. 146 cod. civ., l’addebito della separazione,
con i suoi riflessi in tema di perdita del diritto all’assegno e dei diritti successori, il divorzio e il relativo assegno, con gli istituti connessi. Discende infatti dalla natura giuridica degli obblighi su detti che
il comportamento di un coniuge non soltanto può
costituire una causa di separazione o di divorzio, ma
può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un
illecito civile. In proposito si è rilevato che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti accordati dall’ordinamento per porre rimedio a situazioni
di impossibilità di prosecuzione della convivenza o
di definitiva dissoluzione del vincolo; che l’assegno
di separazione e di divorzio hanno funzione assistenziale e non risarcitoria; che la perdita del diritto
all’assegno di separazione a causa dell’addebito può
trovare applicazione soltanto in via eventuale, in
quanto colpisce solo il coniuge che ne avrebbe diritto e non quello che deve corrisponderlo.
La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno dei su
detti istituti rendono evidente che essi sono strutturalmente compatibili con la tutela generale dei diritti,
tanto più se costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della
cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti
statuizioni di natura patrimoniale, la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana.
Anche nell’ambito della famiglia i diritti inviolabili
della persona rimangono infatti tali, cosicché la loro
lesione da parte di altro componente della famiglia
può costituire presupposto di responsabilità civile.
Fermo restando che, la mera violazione dei doveri
matrimoniali, o anche la pronuncia di addebito della
separazione, non possono di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i
presupposti ai quali l’art. 2059 cod. civ riconnette
detta responsabilità, secondo i principi da ultimo affermati nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972
delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti
i danni risarcibili non aventi contenuto economico e,
quindi, entrambi i tipi di danno in relazione ai quali
è stata formulata la domanda dell’odierna ricorrente.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
2.4. Dovrà pertanto considerarsi al riguardo - in
conformità à quanto statuito in detta sentenza delle
Sezioni Unite - che l’art 2059 cod. civ. non prevede
un’autonoma fattispecie di illecito, distinta da
quella di cui all’art. 2043, ma si limita a disciplinare
i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi
non patrimoniali di ogni tipo, sul presupposto della
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 cod. civ. e cioè la condotta
illecita, l’ingiusta lesione di diritti tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda,
la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal
titolare dell’interesse leso. L’unica differenza tra il
danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un
fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge. Cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 2059 cod, civ: a)
quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato: in tal caso la vittima avrà diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle
fattispecie in cui la legge espressamente consente
il ristoro del danno non patrimoniale anche al di
fuori di una ipotesi di reato: in tal caso la vittima
avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della
persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento; c) quando, al di fuori delle due ipotesi precedenti, il fatto illecito abbia violato in modo grave
diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di
tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale
scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati
ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati,
caso per caso, dal giudice. In tale ultima ipotesi il
danno non patrimoniale sarà risarcibile ove ricorrano contestualmente le seguenti condizioni: a) che
l’interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia
rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere
di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. o che il danno non
sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante.
2.5. Con specifico riferimento al caso di specie, in
cui la condotta illecita in relazione alla quale è chiesto
il risarcimento del danno è costituita dalla violazione
del dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, va specificamente osservato quanto segue. Nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun
coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe del-
l’altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all’art. 2 della
Costituzione, ciascun coniuge può legittimamente far
cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione, ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio,
infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus” - da
intendersi come comprensivo della correlativa sfera
affettiva valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un “diritto inviolabile” di ognuno nei confronti dell’altro, potendo far cessare ciascuno i doveri
relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge.
Nell’ottica di tale assetto normativo, se l’obbligo di
fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si
ponga come causa determinante della separazione
fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e
sufficiente di per sé a integrare una responsabilità
risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta, né
tanto meno del terzo, che al su detto obbligo è del
tutto estraneo. In particolare, quanto alla responsabilità per danni non patrimoniali, ai quali è limitato
il tema del decidere, sulla base dei principi già sopra
esposti, perché possa sussistere una responsabilità
risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell’ipotesi di reato dovrà accertarsi
anche la lesione, in conseguenza di detta violazione,
di un diritto costituzionalmente protetto. Sarà inoltre necessaria la prova del nesso di causalità fra
detta violazione ed il danno, che per essere a detto
fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà - di per sé
non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da
violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi
nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificarsi in casi
e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che
l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla
specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di
causalità). Ovvero ove l’infedeltà per le sue modalità
abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati
in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto.
2.6. In relazione ai su detti principi deve darsi risposta positiva al quesito posto dalla ricorrente, con
il quale si è chiesto a questa Corte di affermare che
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 21
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
la mancanza di addebito della separazione non è
preclusiva di separata azione per il risarcimento dei
danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti
dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti.
Deve intatti ritenersi incompatibile con i principi
sopra enunciati l’affermazione della sentenza impugnata (che ne costituisce la “ratio decidendi”) censurata con il motivo, secondo il quale la prova della
colpevole violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, ai fini dell’esperibilità dell’azione di risarcimento, sarebbe preclusa ove i coniugi, come nel
caso di specie, siano addivenuti a separazione consensuale, rinunciando il coniuge interessato alla
pronuncia di addebito, dovendosi tale rinuncia interpretare come rinuncia all’accertamento delle
cause della crisi del matrimonio, in quanto giudizialmente accertabili solo nel giudizio di separazione con specifica domanda di addebito.
Tale statuizione viene erroneamente collegata alla
giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la
dichiarazione di addebito della separazione può essere richiesta e adottata solo nell’ambito del giudizio di separazione, dovendosi escludere l’esperibilità di domande di addebito fuori da tale giudizio (ex
multis Cass. sez. un. 4 dicembre 2001, n. 15279; 29
marzo 2005, n. 6625).
Quella giurisprudenza pone a fondamento del su
detto principio la statuizione dell’art. 151, comma 2,
cod. civ., che attribuisce espressamente la cognizione
della domanda di addebito al giudice della separazione. Ma ai fini che qui interessano va rilevato che
l’art. 151 cod. civ. attribuisce al giudice della separazione la cognizione sulla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio unicamente in relazione alla
pronuncia sull’addebito, che in essi trova la “causa
petendi”. Cioè in relazione a quello specifico “petiturn”, costituito dalle conseguenze giuridiche che si
collegano alla pronuncia di addebito e che sono, per
il coniuge a carico del quale venga presa, l’esclusione
del diritto al mantenimento (con salvezza del solo
credito alimentare ove ne ricorrano i requisiti) e la
perdita della qualità di erede riservatario e di erede
legittimo, con salvezza del diritto ad un assegno vitalizio in caso di godimento degli alimenti al momento dell’apertura della successione (artt. 155, 549
e 585 cod. civ.). “Petitum” al quale si può non avere
interesse, avendo invece interesse, sussistendone i
presupposti, al diritto al risarcimento.
Non essendo rinvenibile una norma di diritto positivo, né essendo rinvenibili ragioni di ordine sistematico che rendano la pronuncia sull’addebito (inidonea di per sé a dare fondamento all’azione di risarcimento) pregiudiziale rispetto alla domanda di
risarcimento, una volta affermato - come sopra si è
fatto - che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di
22 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di
un illecito civile, la relativa azione deve ritenersi del
tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito ed esperibile a prescindere da
dette domande, ben potendo la medesima “causa
petendi” dare luogo a una pluralità di azioni autonome contrassegnate ciascuna da un diverso “petitum”. Ne deriva, inoltre, che ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito, o si
sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma, coprendo il dedotto e il deducibile,
unicamente in relazione al “petitum” azionato e non
sussiste pertanto alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei
doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna
preclusione si forma in caso di separazione consensuale.
Ciò trova ulteriore conferma sistematica per un
verso nella considerazione che, come sopra si è osservato con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di fedeltà, diverse sono anche la rilevanza
e le caratteristiche fattuali che tale violazione può
avere ai fini dell’addebitabilità della separazione rispetto a quelle che deve avere per dare fondamento
ad un’azione di risarcimento. Per altro verso, nella
considerazione che sarebbe del tutto al di fuori della
logica del sistema subordinare - risultato al quale
condurrebbe la “ratio” della decisione impugnata alla dichiarazione di addebito il risarcimento del
danno per violazione di obblighi nascenti dal matrimonio ove tale violazione costituisca reato e abbia
dato luogo a condanna penale.
Il secondo motivo del ricorso va pertanto accolto
- dichiarandosi assorbito il primo - e la sentenza va
cassata con rinvio anche per le spese alla Corte
d’appello di Genova in diversa composizione che
farà applicazione del principio secondo il quale: “I
doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio
hanno natura giuridica e la loro violazione non trova
necessariamente sanzione unicamente nelle misure
tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura
giuridica degli obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non
patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. senza che
la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento
relativa a detti danni”.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Accoglie il secondo motivo. Dichiara assorbito il
primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche
per le spese alla Corte di appello di Genova in diversa composizione.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
II
Il risarcimento
per infedeltà è precluso
dalla separazione
consensuale
Corte d’appello di Genova
20 maggio 2006
Presidente Rovelli, Relatore Sangiuolo
(omissis)
“A.” ha evocato in giudizio il coniuge separato “C.”
chiedendone la condanna al risarcimento del danno
biologico cagionatole, nella allegata misura di
£.1.000.000.000, con comportamenti gravemente
contrari ai doveri nascenti dal matrimonio.
Esponeva di avere contratto matrimonio col predetto nel maggio 1994 dopo otto anni di serena convivenza, che aveva fatto seguito al fallimento di una
precedente unione matrimoniale ; nel 1997 essa era
stata informata della esistenza di una relazione extraconiugale che da tempo il marito intratteneva
con altra donna.
Secondo la espositiva della attrice, a fronte delle
richieste di chiarimento formulate dalla consorte,
“C.” non aveva negato la circostanza, chiedendo
tempo per assumere le proprie decisioni; la situazione - che era divenuta di pubblico dominio - aveva
prostrato profondamente la donna, che era caduta
in depressione ed aveva interrotto ogni frequentazione ed attività.
Tanto premesso, sosteneva che il contegno del
“C.”, colpevolmente violatore dei doveri nascenti dal
matrimonio, le avesse arrecato grave pregiudizio, e
fosse stato fonte di “danno biologico conseguente
alla violazione del dovere di fedeltà, o danno psicologico, e di danno esistenziale e/o danno alla serena
vita familiare”, giacché l’avvio della relazione col “C.”
aveva pregiudicato anche la precedente situazione
coniugale della “A.”, che si era separata dal primo
marito.
Chiedeva il ristoro del pregiudizio come sopra subito, in somma che indicava in £.1.000.000.000.
“C.” costituendosi contestava il fondamento e la
ammissibilità della domanda; faceva presente che
il procedimento di separazione con addebito al marito era stato abbandonato dalla “A.” che era addivenuta a separazione consensuale; aggiungeva che i
doveri inerenti al matrimonio regolati dall’art. 143
c.c. erano incoercibili, e che la sanzione per la loro
inosservanza andava ricercata solo all’interno delle
previsioni dettate legislativamente per l’istituto matrimoniale.
Nel merito, contestava gli addebiti che gli erano
stati mossi, evidenziava di avere egli pure vissuto
con dolore la crisi del coniugio con la “A.”, denunziava la genericità del danno ex adverso lamentato.
La causa veniva istruita con documenti, testi e
CTU ed era infine definita con la sentenza impugnata che ha respinto la domanda, compensando le
spese di lite in ragione della peculiarità della vicenda e della natura dei diritti dedotti.
La “A.” ha impugnato la pronunzia con un primo
motivo denunziando la erroneità della ricostruzione
delle emergenze del processo resa dal primo Giudice, se del caso instando per la rinnovazione della
istruttoria.
Con un secondo motivo ha censurato la affermazione, contenuta in sentenza, secondo la quale la
violazione dei doveri nascenti dal matrimonio troverebbe la sua sanzione solo all’interno delle regole
che presidiano l’istituto matrimoniale, affermando
che non sussiste ragione di sorta per negare, al soggetto che abbia riportato danno a seguito del comportamento del coniuge che ne abbia violato i diritti
nascenti dal matrimonio, la medesima tutela che
sarebbe assentita a persona estranea al nucleo familiare.
Con un terzo motivo ha contestato l’affermazione,
munita di efficacia saliente quanto alle sorti del giudizio, resa quanto alla mancata indicazione del diritto costituzionalmente garantito o del diritto soggettivo che sarebbe stato violato, esplicitando che la
denunziata violazione atteneva al diritto alla salute,
all’immagine, alla riservatezza, alle relazione sociali,
diritti tutti pregiudicati dall’indebito comportamento tenuto nella fattispecie dall’obbligato.
Aggiungeva che il comportamento del “C.” era
stato realizzato con palese spregio delle esigenze
personali della moglie, della di lei dignità e sensibilità, circostanza che rendeva palese la violazione del
diritto e il conseguente pregiudizio subito; sosteneva che ciò fosse tanto più grave, per essere evento
del tutto inaspettato, nato all’interno di una relazione che appariva come piena ed appagante.
Evidenziava che il convenuto neppure si fosse offerto di provare che il coniugio fosse, all’epoca dei
fatti, già compromesso, circostanza che avrebbe potuto attenuare la antigiuridicità del proprio comportamento.
Chiedeva pertanto che, in riforma della pronunzia, riconosciuta la violazione del dovere di fedeltà
in capo al “C.”, costui fosse condannato a risarcire il
danno che con la proprio condotta aveva arrecato
alla coniuge, mediante versamento di una somma
da determinare, se del caso, in via equitativa.
Parte appellata ha preliminarmente eccepito la
inammissibilità del gravame, per genericità dei motivi, che non avrebbero individuato con sufficiente
chiarezza il nucleo della pronunzia colpito da impugnazione.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 23
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Con un secondo motivo ha eccepito la novità della
domanda, di risarcimento del danno esistenziale,
che la controparte avrebbe introdotto tardivamente
solo alla udienza di precisazione delle conclusioni
in primo grado e sulla quale egli non aveva accettato il contraddittorio.
L’appellato contestava comunque il fondamento
della domanda quanto al danno biologico e la fondatezza dei motivi di appello; sosteneva che il sistema di diritti-doveri nascenti dal matrimonio costituisce un sistema “chiuso” che trova solo al suo
interno la propria regolamentazione, sì che la responsabilità per la sua violazione non potrebbe venire sanzionata se non con le specifiche modalità
apprestate dalle norme speciali; in fatto sottolineava che le parti si erano comunque separate consensualmente, rinunziando a far valere cause di addebito quanto al verificarsi della crisi coniugale.
Censurava la pronunzia quanto alla compensazione delle spese di lite, delle quali chiedeva in via
di appello incidentale il ristoro integrale.
Precisate le conclusioni come sopra, alla udienza
del 19/1/2006 la causa è passata in decisione.
Motivi
Pregiudizialmente deve essere affermato che il
gravame possiede una specificità sufficiente a renderlo ammissibile, avendo l’impugnante indicato
con sufficiente chiarezza i punti che costituiscono
l’oggetto del devolutum.
Neppure può poi utilmente sostenersi la novità
della duplice prospettazione del danno lamentato
dalla “A.”, avendo essa già nell’atto di citazione in
primo grado chiesto il ristoro” del danno biologico
conseguente alla violazione del dovere di fedeltà del
coniuge (o danno psicologico) e del danno esistenziale e/o danno alla serenità familiare”, allegando
che la condotta del “C.” avrebbe “stravolto la esistenza della attrice”; la allegazione è stata poi specificata nelle difese successive sì che pretesa violazione del c.d. “danno esistenziale”- contrariamente
a quanto pretende la difesa appellata - è tutt’altro
che estraneo al novero delle domande tempestivamente sottoposte al vaglio giudiziale.
Nel merito, la Corte reputa che il rigetto della domanda sia sostanzialmente da confermare, ma che
la motivazione vada corretta.
Il primo Giudice ha affermato che:
Il comportamento del coniuge che violi i doveri
nascenti dal matrimonio è sanzionato dall’ordinamento con la pronunzia di addebitabilità della separazione;
- detta circostanza, in virtù del principio, di prevalenza della lex specialis induce a ritenere che, nel
caso di trasgressione di tali doveri, l’autore della
stessa non vada incontro a conseguenze ulteriori e
diverse, rispetto a quelle previste nel diritto familiare;
24 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
- anche a ritenere che per contro sia ipotizzabile la
risarcibilità del pregiudizio conseguente, in base ai
principi generali, si verterebbe nell’ambito delle previsioni dell’art. 2059 c.c., seppure nella lettura costituzionalmente orientata resa dalla S.C. che “superando
la tradizionale lettura restrittiva della norma, considera inoperante il limite della riserva di legge correlata
all’art. 185 c.p., ove la lesione abbia riguardato valori
della persona costituzionalmente garantiti”;
- anche aderendo a tale impostazione concettuale,
la “A.” neppure avrebbe indicato il diritto costituzionalmente garantito o il diritto soggettivo perfetto
che assume essere stato violato dal comportamento
del coniuge; essendo venuta meno al proprio onere
probatorio, ed avendo omesso di provare l’illecito civile subito, - che in virtù dell’art. 2059 c.c. può trovare riparazione non solo nei suoi aspetti patrimoniali ma anche in quelli non patrimoniali - la domanda non potrebbe che essere respinta.
La Corte rileva che la preliminare affermazione
dalla quale muove il Tribunale non è condivisibile,
e che la motivazione della decisione reiettiva vada
sotto detto profilo modificata.
Siccome il S.C. ha recentemente affermato, non
può ritenersi che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e
completo, tale da escludere che le violazioni delle
medesime siano passibili di sanzione, secondo i
principi che regolano la responsabilità aquiliana del
diritto comune.
In una pronunzia risalente (2468/1975), la applicabilità di tali previsioni anche a comportamenti
che costituivano violazione dei doveri inerenti ai
rapporti familiari veniva data quasi come cosa scontata, con la conseguenza che la concreta risarcibilità del danno derivante da tali condotte ai sensi dell’art. 2043 c.c. veniva rimandata ad un esame da eseguire caso per caso.
Con due successive pronunzie (3367 e 4108/1993)
la S.C. perveniva a diversa soluzione, con la prima
affermando che nel caso di addebito della separazione la tutela aquiliana non potrebbe essere invocata per mancanza del danno ingiusto, attesocché
l’addebito della separazione non nasce dalla violazione di un diritto dell’altro coniuge, mentre con la
seconda affermava che dalla separazione personale
dei coniugi può scaturire, sul piano economico, solo
il diritto all’assegno, sempre che ne sussistano i presupposti, e che il riconoscimento di tale diritto
esclude la possibilità di chiedere anche il risarcimento dei danni a qualunque titoli subiti in conseguenza della separazione imputabile all’altro coniuge, costituendo la separazione un diritto inerente
alla libertà della persona ed avendo il legislatore regolato le conseguenze delle violazioni “domestiche”
all’interno degli istituti del diritto familiare.
Da tale orientamento si è discostata la successiva
pronunzia 5866/1995, che ha ammesso in linea teo-
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
rica, oltre al diritto all’assegno, la risarcibilità del
danno conseguente al comportamento che costituisca motivo di addebito della separazione, ai sensi
dell’art. 2043 c.c. e la più recente 7713 del 2000, che
ha riconosciuto al figlio naturale tale dichiarato con
pronunzia giudiziale il diritto al ristoro del danno
subito per la colpevole inerzia del genitore, oltre al
diritto al mantenimento, osservando che una lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c. impone di ritenere che tale disposizione sia diretta a
compensare il sacrificio che detti valori subiscono a
causa dell’illecito, indipendentemente dalle ricadute patrimoniali che la lesione possa comportare.
Con la ulteriore 9801 del 10/5/2005, la Corte ha
proseguito il cammino intrapreso, escludendo apertis verbis la natura di chiuso microcosmo delle
norme che regolano l’istituto familiare, ed affermando che non sussiste ragione per ritenere che la
sanzione del comportamento violatore dei doveri
nascenti dal matrimonio debba esaurirsi nella affermazione dell’addebito, o nel riconoscimento di
un assegno di contributo al mantenimento, tanto
più che l’assegno disposto in sede di separazione e
più ancora di divorzio presenta una connotazione
marcatamente assistenziale, che esclude la sua utilizzabilità a fini meramente risarcitori.
“La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno degli istituti sopra richiamati rendono evidente che essi non sono
strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei
diritti costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire
ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana”
(così Cass. 8901/2005 cit).
Dette affermazioni paiono a questa Corte decisamente condivisibili, specie alla luce dell’evoluzione
giurisprudenziale che ha sottolineato la componente assistenziale dell’assegno, che pertanto non
offre più alcun ristoro al coniuge che lamenti le altrui inadempienze; ammessa la possibilità di chiedere giudiziale tutela per le conseguenze dell’illecito, la attenzione dell’interprete deve peraltro spostarsi sulla natura del diritto la cui violazione giustifica l’accoglimento della pretesa, giacché non è
certo la violazione dei doveri del matrimonio a poter costituire di per sé presupposto per il riconoscimento della domanda, pur costituendo uno dei presupposti necessari perché il comportamento, lesivo
di un diritto costituzionalmente protetto, possa venire sanzionato con la pronunzia risarcitoria.
Ed è proprio detto presupposto a mancare nella
fattispecie, circostanza che esime da ogni valutazione ulteriore.
La Corte rileva che, come evidenziato dal convenuto nella comparsa di costituzione e dimostrato per
tabulas dal medesimo, la “A.” aveva in un primo
tempo proposto domanda di separazione con addebito, successivamente abbandonando la procedura
per addivenire alla separazione per mutuo consenso.
Detta circostanza è munita di rilievo saliente,
giacché presuppone una valutazione, adottata dai
coniugi univocamente, di non volere accertare o indagare le cause che portarono alla crisi del coniugio, allegandosi la esistenza della intollerabilità
della prosecuzione della vita in comune o la sua suscettibilità di portare danno alla vita della prole, circostanza che costituisce elemento condizionante la
omologazione delle condizioni della separazione da
parte del Tribunale.
Come è noto, una volta che i coniugi abbiano definito come sopra le sorti del loro legame, è precluso
ogni ripensamento, né è ammissibile la successiva
indagine sulla responsabilità del fallimento del coniugio (in tal senso vedi Cass. 6625 del 29/3/2005 ma
già in precedenza Cass. 8272/99, 9317/97 e sez. un.
4/12/2001 n.15279); come la giurisprudenza di legittimità e di merito assolutamente prevalente ha evidenziato, è il giudice della separazione, ai sensi dell’art. 151 c.c. a dovere, eventualmente e se richiesto,
accertare a quale dei coniugi la separazione medesima sia addebitabile, e la lettera della norma preclude indagini postume, si reputa, anche in relazione a circostanze che fossero emerse dopo la pronunzia di separazione (come affermato espressamente da Cass. 17607/2003 e 6625/2005 già citata).
Nel caso di specie, è comunque assolutamente pacifico che, allorquando la “A.” sottoscrisse il verbale
di separazione consensuale essa era ben edotta
della infedeltà del coniuge, circostanza che aveva allegato nel ricorso per separazione giudiziale che
aveva presentato in precedenza; deve pertanto ritenersi che essa, acconciandosi alla separazione per
mutuo consenso, avesse inteso, re melius perpensa,
omettere ogni accertamento sulla radice causale
della crisi, per ragioni che non sono state allegate in
causa e che in oggi sarebbero del tutto sprovviste di
rilievo ai fini del decidere.
Ove tanto si ritenga, la domanda risarcitoria che
essa ha proposto in causa non può trovare accoglimento, attesocché prescindendo da ogni considerazione quanto alla individuazione del diritto soggettivo che sarebbe stato leso, il cui difetto sorregge la
motivazione della decisione reiettiva, è mancata la
prova del preminente presupposto, della colpevole
violazione del dovere nascente dal matrimonio da
parte del convenuto, che costituisce il primo presupposto fattuale per la prospettabilità della invocata pronunzia risarcitoria.
Ogni ulteriore questione resta assorbita; quanto
all’oggetto del gravame incidentale, la Corte reputa
che la peculiarità della materia e la natura dei diritti
coinvolti rendano opportuna la compensazione
delle spese dell’intero giudizio, con reiezione del
motivo formulato dalla difesa appellata.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 25
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
P.Q.M.
Definendo il procedimento nel contraddittorio
delle parti, ogni diversa istanza disattesa, così provvede giudicando in sede di gravame avverso la sentenza emessa inter partes dal Tribunale di Savona,
sezione di Albenga in data 8/2-1-2005:
respinge gli appelli e conferma per quanto di ragione la pronunzia gravata;
compensa tra le parti le spese di lite.
Così deciso in Genova, il 4/20 maggio 2006
IL PUNTO DI VISTA
di CESARE FOSSATI
AVVOCATO DEL FORO DI GENOVA
Una nuova pronuncia della Corte di legittimità
(Cass. 18853/2011 che cassa Corte App Genova 20
maggio 2006) in tema di responsabilità civile all’interno dei rapporti familiari, in una materia rispetto
alla quale il legislatore ha sempre mostrato insofferenza ad intervenire, nella convinzione di non poter giudicare ambiti così intimi e personali.
Per tutto il secolo scorso i comportamenti fonte di
sola responsabilità civile, con esclusione quindi
delle fattispecie aventi rilevanza penale, tenuti dai
componenti della famiglia in danno di un congiunto, sono rimasti per lo più ricompresi nelle
norme afferenti i diritti e doveri dei coniugi (artt. 143
e segg. c.c.), esclusi dalle norme che presidiano gli
illeciti civili, restando di fatto impuniti.
Nel testo originario del codice civile, nel regime di
indissolubilità del matrimonio, la separazione era
l’unica sanzione tipica prevista per il coniuge venuto meno ai suoi doveri matrimoniali.
L’art. 151 c.c. prevedeva che i comportamenti consistenti in: adulterio, abbandono, sevizie, eccessi,
minacce o ingiurie gravi, fossero punibili unicamente con l’istanza di separazione per colpa.
Dapprima la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 127 del 1968, quindi la riforma del diritto di famiglia del 1975, condussero alla modifica dei presupposti per giungere alla separazione, e sostituirono il concetto di “colpa” con quello di “addebito”.
Mutarono le stesse condizioni per addivenire alla
separazione, le quali vennero svincolate dal concetto di sanzione: si passò dalla separazione come
reazione a comportamenti personali pregiudizievoli,
alla separazione per fatti tali da rendere intollerabile la convivenza, ovvero da arrecare pregiudizio all’educazione della prole.
L’addebito restava tuttavia la sanzione ancora una
volta tipica ed esaustiva delle conseguenze dei comportamenti dei coniugi nel corso del rapporto matrimoniale.
Una sanzione tuttavia del tutto inadeguata a fornire tutela al coniuge debole, avendo riflessi solo in
negativo rispetto al coniuge responsabile del com26 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
portamento addebitato: il venir meno del diritto all’assegno di mantenimento (esclusi gli alimenti),
così come dei diritti successori.
Effetti invero modesti e spesso privi di concreta efficacia preventiva o punitiva, se solo si considera che
nella maggior parte dei casi il soggetto responsabile
è anche quello dotato di capacità economica, in genere indifferente alla domanda di mantenimento.
Per questo motivo per lungo tempo si è parlato del
diritto di famiglia come di un “sistema chiuso”: in
base a tale prospettazione i diritti e doveri che discendono dal matrimonio troverebbero tutela solo
all’interno delle norme che li disciplinano.
Dottrina e giurisprudenza hanno così avuto buon
gioco a sostenere che il legislatore avrebbe regolato
le conseguenze delle violazioni “domestiche” solo
all’interno degli istituti del diritto familiare.
Occorre dar conto che la giurisprudenza prevalente ha mantenuto forti resistenze all’ingresso nel
processo di famiglia di domande ulteriori, diverse
da quelle strettamente connesse agli status (in questo senso si pongono, ad esempio, le pronunce di
Cass. n. 3367/1993 e 4108/1993).
Siamo quindi in presenza di strumenti di reazione
diversificati e sostanzialmente difformi: alla cognizione del giudice della famiglia sono ricondotte le
misure tipiche del diritto di famiglia (separazione,
addebito, assegnazione della casa, affidamento dei
figli, etc.); al giudice ordinario le questioni patrimoniali e gli illeciti civili; al giudice penale le violazioni
più gravi.
È stato lento il cammino per il riconoscimento
della risarcibilità degli illeciti all’interno delle relazioni familiari; ancora lungi dal poter essere considerato un obbiettivo raggiunto.
Poche isolate pronunce hanno dapprima iniziato
a riconoscere astrattamente e solo potenzialmente
l’esercizio dell’azione per la responsabilità aquiliana
anche in ambito familiare (tra queste: Cass. 5866/
1995 e Cass. 10/5/2005 n. 9801).
Imprescindibile naturalmente il riferimento alla
pronuncia che ha costituito il paradigma per il riconoscimento del danno non patrimoniale, vale a dire
Cass. SS.UU. 26972/2008, in forza della quale l’art.
2054 c.c. è applicabile nei casi di: reato; danno non
patrimoniale espressamente previsto da leggi speciali; lesione grave a diritti inviolabili costituzionalmente garantiti.
Quest’ultima è la fattispecie utilizzata per dare ingresso alla risarcibilità di un danno, che non è da intendersi come elemento riparatorio, quanto piuttosto come deterrente e sanzionatorio.
Va segnalato come non sia ancora così diffuso e
pertanto riconoscibile come diritto acquisito quell’orientamento giurisprudenziale che ammette
l’azione di risarcimento danni all’interno del processo di famiglia (si possono segnalare: Trib. Venezia,
14/05/2009 n. 9234 in www.dirittoeprocesso.com;
DOSSIER
La Sottrazione
Internazionale di minori
ROSSELLA ATZENI
MAGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI GENOVA
1. La Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 - Rapporti col
Regolamento CE n. 2201/2003
Il fenomeno della sottrazione internazionale di minori è divenuto negli ultimi decenni viepiù importante in relazione all’incremento delle coppie miste, conseguenza dell’accresciuta
facilità di spostamenti e di stabilimento nell’ambito dell’Unione
europea e dei flussi migratori provenienti in Europa soprattutto
dai continenti Sudamericano, Africano ed Asiatico.
Questo studio ha lo scopo di mettere in relazione la tutela
approntata dalla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 con
il Regolamento CE n. 2201 del 2003 (Bruxelles II bis) relativo alla
competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni
in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che ha abrogato il regolamento (CE) n. 1347/2000. La finalità è quella di fornire un ausilio ai pratici del diritto anche tramite l’esame di casi concreti realmente verificatisi.
Occorre sottolineare che alla Convenzione dell’Aia hanno
aderito tutti gli Stati membri dell’Unione europea.
Tale Convenzione prevede un procedimento d’urgenza applicabile nel caso in cui sia avvenuto il trasferimento illecito di
un bambino all’estero, senza il consenso dell’altro genitore o
dell’affidatario (persona fisica o ente) ovvero quando il minore
sia lecitamente portato all’estero, ma sia ivi trattenuto e ne sia
impedito il rientro nel paese di residenza abituale.
La nozione di residenza abituale (art. 3 della Convenzione
dell’Aia) va definita con riferimento al luogo in cui il minore anche di fatto - ha il centro dei propri interessi e dei propri legami affettivi e come precisato dalla Corte di Cassazione è individuata “con riferimento al luogo in cui il minore, in virtù di
una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro
dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo
svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazione”.1
La Convenzione ha l’obiettivo di garantire il bambino leso dal
trasferimento illecito e di ripristinare la sua condizione di vita
preesistente.
A tal fine, il principio cardine su cui si fonda la disciplina convenzionale è correlato al riconoscimento ed all’esecuzione delle
decisioni relative all’affidamento del minore che, già rese prima
della sottrazione in uno degli Stati contraenti, avranno, appunto, esecuzione e riconoscimento anche negli altri Stati parte
della Convenzione.
È quindi evidente che la ratio cui si informa tale principio è
quella di porre rimedio all’ipotesi in cui un genitore ponga in
atto la sottrazione del figlio all’altro genitore, al fine di evitare
le statuizioni assunte, in tema di affidamento, dall’Autorità giudiziaria di un certo paese che considera a sé sfavorevoli2.
Per tale ragione la Convenzione dell’Aia nega all’Autorità giudiziaria dello Stato in cui il minore si trova illegalmente, di
emettere pronunce sul merito modificando il regime giuridico
dell’affidamento - immediatamente preesistente all’allontanamento forzato dal luogo di residenza abituale - in favore del genitore che ha posto in atto la condotta illecita.
Deve ricordarsi inoltre che la possibilità di applicazione della
Convenzione cessa allorché il minore compie 16 anni (art. 4
della Convenzione).
2. La nozione di custodia e l’esercizio effettivo del diritto di
affidamento
Il concetto di custodia, rilevante ai fini della Convenzione
dell’Aia del 1980, prescinde dalla presenza di un titolo giuridico
e si individua in una situazione di fatto comprensiva, da un lato,
della cura materiale ed affettiva del minore e, dall’altro, del potere di decidere della sua residenza.
La normativa convenzionale considera, pertanto, il diritto di
custodia in capo ai genitori anche per il solo fatto procreativo,
giacché tale diritto non deve derivare necessariamente da un
provvedimento o da un accordo, ma può trarre origine anche
dalla legge.
Peraltro, un dato indispensabile per l’applicabilità della Convenzione è che il diritto di custodia sia effettivamente esercitato al momento del trasferimento del minore o avrebbe potuto
esserlo se non si fossero verificate tali circostanze (art. 3 lett. b).
Tra le ipotesi legittimanti il diniego del ritorno del minore, è
stato oggetto di specifico chiarimento, da parte della Corte di
Cassazione, il caso di mancato esercizio dell’affidamento da
parte del genitore richiedente il ritorno.
Il caso deciso dalla Corte è quello di un cittadino messicano,
Reguera, che aveva inoltrato all’Autorità Centrale di Roma un
ricorso ai sensi della Convenzione dell’Aia assumendo l’illegittimità della decisione della madre affidataria dei figli, Cumming
Ortega, di stabilirsi nell’agosto 2003 con i minori in Italia3.
Il Tribunale per i Minorenni di Roma aveva accolto il ricorso
osservando che la scelta della madre di condurre con sé i figli
all’estero non era stata concordata con l’ex marito e non era
stata indotta dal fondato rischio per i minori di esser esposti a
situazioni intollerabili ovvero a pericoli fisici e psichici, derivanti dall’esercizio del diritto di visita riconosciuto al padre dall’autorità messicana, in sede di separazione giudiziale.
I giudici minorili romani avevano inoltre considerato che a
quest’ultimo veniva impedito di mantenere un rapporto costante con i figli, che il trasferimento non aveva determinato la
modifica della residenza abituale in Messico dei minori, non
potendosi ritenere mutato il centro principale dei loro interessi
quale conseguenza diretta ed automatica del reperimento di
un lavoro in Italia da parte della madre.
Infine i giudici minorili avevano ritenuto infondata la richiesta della madre di modificare le modalità di visita alla luce dell’intervenuto trasferimento in Italia, vertendosi in ipotesi di sottrazione internazionale di minori con la conseguente necessaria applicazione della Convenzione dell’Aia.
Avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni la Cumming
Ortega aveva successivamente proposto ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte, all’esito del giudizio, aveva cassato il decreto impugnato decidendo la causa nel merito. Aveva affermato, in particolare, che “per quanto nell’art. 1 della Convenzione dell’Aia si indichi espressamente tra le finalità della Convenzione quella di assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato contraente siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti, i meccanismi processuali diretti a garantire le celere ricostituzione della situazione preesistente alla sottrazione del minore sono destinati ad operare
esclusivamente in caso di violazione di un diritto di affidamento” (art. 8).
Sul piano dei presupposti dell’ordine di ritorno, infatti la
Convenzione attribuisce rilievo esclusivo alla violazione di un
diritto di custodia, con la sola condizione che esso sia effettivamente esercitato al momento del trasferimento o del non ritorno e che a sua volta, sia stato conferito da un’attribuzione legale, da una decisione giudiziaria o amministrativa o da un accordo, la cui sussistenza deve valutarsi secondo le norme dello
Stato di residenza del minore.
Pertanto, “il trasferimento di un minore all’estero, deciso legittimamente dal genitore affidatario, non potrebbe mai qualificarsi illecito ed essere disciplinato alla stregua delle disposizioni previste per il c.d. legal kidnapping, dato che la Convenzione ricollega l’illiceità del trasferimento o del mancato rientro del minore esclusivamente alla violazione di un diritto di
affidamento”.
Conseguentemente, quando è il genitore affidatario in via
esclusiva a “sottrarre” il minore all’altro genitore, quest’ultimo
non può domandare il ritorno immediato del figlio, stante la liceità del suo trasferimento a seguito di una decisione sulla
scelta della residenza che legittimamente spetta al genitore affidatario.
Alla luce di tale pronuncia della Suprema Corte ci si può
chiedere, peraltro, quali strumenti di tutela abbia il genitore che
voglia esercitare il suo diritto di visita nei confronti dei figli, ormai trasferitisi legittimamente all’estero. Ma ci si può interrogare altresì se analogo principio deve applicarsi se i genitori
siano contitolari del diritto di affidamento (affidamento condiviso).
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 27
DOSSIER
2a) Con riguardo al primo interrogativo occorre osservare che
l’art. 21 della Convenzione permette al genitore che vuole esercitare il diritto di visita dei figli trasferitisi legittimamente in un
altro Stato contraente di sollecitare l’Autorità centrale dello
Stato in cui i minori si trovano, affinché essa dia avvio ad un
procedimento teso ad ottenere una decisione dell’Autorità giudiziaria competente, in merito alla regolamentazione dei rapporti con i figli, necessaria in ragione del mutato assetto della
collocazione dei medesimi figli.
È tale il caso deciso dal Tribunale per i Minorenni di Genova
con riguardo al ricorso proposto da un padre, cittadino danese,
titolare di un diritto di affidamento condiviso con riguardo ai
due figli minori, trasferitisi in Italia con la madre. In questa ipotesi il padre adiva l’Autorità centrale al fine di veder regolata la
sua facoltà di incontro con i figli e metteva nel contempo in evidenza la necessità di suddividere tra le parti le spese di viaggio
relative ai necessari trasferimenti dei ragazzi.4
In questa ipotesi, l’istruttoria svolta permetteva di comprendere il regime di visita preesistente al trasferimento in Italia, nonché la situazione attuale dei bambini, i loro impegni scolastici e sociali, al fine di determinare un calendario d’incontri
col padre che tenesse conto delle loro esigenze di studio e di
relazione nel luogo di residenza.
Sotto il profilo della partecipazione di ciascun genitore alle
spese di viaggio dei figli, necessarie alle visite in Danimarca,
veniva svolta l’analisi dei documenti prodotti dalla convenuta
relativi alla determinazione degli obblighi alimentari di mantenimento dei figli, già decisi dall’Autorità danese sulla base di
parametri predeterminati con riguardo all’appartenenza a determinate fasce di reddito, cui ci si atteneva anche al fine di stabilire la partecipazione dei genitori agli oneri di trasferimento
dei figli.
2b) Con riferimento al secondo interrogativo circa l’applicazione della Convenzione dell’Aia nell’ipotesi in cui i genitori
siano contitolari del diritto di affidamento (affidamento condiviso) è possibile affermare che la Corte di Cassazione nella
stessa pronuncia citata indica che “in caso di violazione di un
diritto di custodia, attribuito al genitore in via esclusiva o congiunta, obiettivo della Convenzione è ripristinare la situazione
preesistente alla violazione, consentendo al minore di tornare
il prima possibile a vivere col genitore a cui è stato illecitamente
sottratto.
Nel caso in cui invece a esser compromesso con il trasferimento del minore all’estero sia il diritto di visita del genitore
non affidatario, l’obiettivo della Convenzione - difettando il presupposto della illiceità del trasferimento a norma dell’art. 5 - è
garantire a quest’ultimo, con l’ausilio dell’Autorità centrale, l’effettività dell’esercizio del suo diritto di visita o, in alternativa
una ridefinizione dei suoi rapporti col figlio alla luce del nuovo
contesto ambientale in cui il medesimo si è trasferito”.5
Con riguardo alla normativa europea è inoltre importante ricordare che l’art. 2 del Regolamento CE n. 2201/2003 stabilisce
che: “L’affidamento si considera esercitato congiuntamente da
entrambi i genitori quando uno dei titolari della responsabilità
genitoriale non può, conformemente ad una decisione o al diritto nazionale, decidere il luogo di residenza del minore senza
il consenso dell’altro titolare della responsabilità genitoriale”.
Quindi, ai sensi del Regolamento citato, l’affidamento condiviso implica necessariamente che la scelta del luogo di residenza del minore debba esser assunta congiuntamente dai genitori e comporta conseguentemente su tale aspetto l’illegittimità di eventuali decisioni assunte da un solo genitore unilateralmente.
Recentemente la Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito quali debbano esser gli approfondimenti necessari da parte
dei giudici di merito nell’ipotesi in cui nell’ambito del regime
dell’affidamento condiviso il trasferimento del minore all’estero sia non concordato con l’altro genitore.6
In particolare è stato affermato con maggior precisione che
anche nell’ipotesi in cui i genitori siano titolari dell’affidamento
condiviso di un minore - secondo la Convenzione dell’Aia del
1980 - il giudice ha l’onere di verificare in concreto l’effettività
del diritto di custodia del bimbo da parte del genitore che ne
domanda il ritorno.
La Corte di Cassazione, infatti, ha cassato con rinvio il decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano in applicazione
28 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
del principio secondo cui ciò che realmente conta - ai fini dell’applicazione della disciplina convenzionale per disporre il
rientro di un minore - è l’effettività dell’esercizio del diritto di
affidamento.
In particolare la Corte ha ritenuto inadeguata e insufficiente
la motivazione dei giudici milanesi in punto di effettività dell’esercizio del diritto previsto ex artt. 3 e 13 della Convenzione
dell’Aia del 1980, pronunciandosi sul ricorso della madre (cittadina italiana) che aveva assunto che il padre (cittadino tedesco), benché contitolare di un affidamento congiunto - a seguito
di separazione legale - esercitasse, in concreto, soltanto il diritto di visita dei figli.
Tale pronuncia appare particolarmente interessante laddove
traccia il percorso istruttorio cui il giudice di merito è tenuto a
seguire ai fini dell’accertamento predetto.
Con riguardo alla dimostrazione del mancato esercizio del
diritto di affidamento, cui è tenuta la persona che si oppone al
ritorno del minore, occorre infatti ricordare che “il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. non implica affatto
che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso
debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che
è gravato dal relativo onere”, vigendo il principio di acquisizione
per cui il giudice, per la formazione del suo convincimento,
deve utilizzare tutte le risultanze istruttorie comunque acquisite al processo.
Nella specie, tali sono state ritenute dalla Corte le dichiarazioni rese dal padre dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano in relazione alle specifiche modalità con cui in concreto
accudiva i suoi due figli nel periodo antecedente al loro espatrio, onde valutare se esse legittimassero o meno la tutela da
lui auspicata.
Inoltre, i giudici di merito non avevano provveduto all’ascolto
dei minori, asserendo che la loro audizione non pareva opportuna in relazione all’età.
Sul punto, pur trattandosi nel caso specifico di procedimento
per assunto mancato illecito rientro nella originaria residenza
abituale, in cui l’ascolto del minore non è imposto per legge in
ragione del carattere urgente e ripristinatorio di tale procedura,7
tuttavia la Corte ha altresì precisato in tale occasione che anche
in tale procedimento l’audizione dei minori è in genere opportuna, se possibile.
Si deve rammentare altresì che l’ascolto del minore è espressamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento CE
2201/2003.
3. Il diniego del ritorno
La Convenzione dell’Aia prevede le ipotesi in cui l’Autorità
giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto non è tenuta
ad ordinare il ritorno del minore.
Le ipotesi sono tassative ed individuate in specifiche circostanze che devono esser dimostrate dall’istante. Esse si realizzano quando:
a) il ricorrente non esercitava effettivamente il diritto di affidamento o aveva acconsentito al mancato rientro (come già
detto in precedenza, ex art. 13, lett.a);
b) è ravvisabile il fondato rischio che il minore sia esposto a pericoli psico-fisici o a situazioni intollerabili;
Inoltre il giudice può rifiutare il ritorno se:
- il minore vi si oppone ed ha un’età e un grado di maturità
tali che sia opportuno tenere conto del suo parere (art. 13, II
comma);
- sia già decorso un anno dall’illecito trasferimento e si dimostri che il minore si sia già integrato nel nuovo ambiente
(art. 12, II comma).
- infine l’art. 20 della Convenzione indica, in generale, il caso
in cui la domanda di ritorno sia incompatibile con i principi
fondamentali dello Stato richiesto.
3.1. Fondato rischio di pericoli fisici e psichici, o di una situazione
intollerabile, conseguenti al ritorno
Una ragione che legittima il diniego di rimpatrio come suaccennato è “il rischio grave di pericoli fisici e psichici, o di una situazione intollerabile che il minore possa correre per l’effetto
del rientro” (art. 13 lettera b della Convenzione dell’Aia).
È però necessaria la prova specifica (e non generica) di tale rischio.
DOSSIER
Un caso emblematico, al riguardo, è quello deciso dal Tribunale di Barcellona nel 2009, relativo ad una coppia di coniugi, di
cittadinanza spagnola (la moglie) e tedesca (il marito), che
aveva stabilito la residenza in Belgio ed aveva avuto due figli (al
momento della sottrazione di 4 e 6 anni).
Durante un soggiorno estivo in Spagna presso i familiari
della moglie, i coniugi avevano vissuto una grave crisi coniugale a causa della quale il marito aveva deciso di rientrare in
Belgio con l’accordo che il 31 agosto la moglie sarebbe ritornata
con i figli a Bruxelles.
Tuttavia la madre dei bimbi aveva deciso di rimanere in Spagna ed in settembre vi aveva iscritto i figli a scuola, senza darne
notizia al padre.
A seguito di questa decisione il marito aveva iniziato in Belgio una procedura tesa ad ottenere la custodia dei figli, ai sensi
dell’art. 10 del Regolamento CE 2003/2201.
Nello stesso tempo egli aveva richiesto il ritorno dei figli all’Autorità Centrale spagnola.
Tale Autorità aveva verificato che i bambini si trovavano effettivamente in territorio spagnolo, presso il domicilio della
nonna materna; quindi, il Rappresentante legale dello Stato
aveva instaurato una procedura orale dinanzi all’Autorità giudiziaria volta al ritorno dei minori, secondo quanto previsto dagli artt. 951-958 del codice di procedura civile spagnolo del 1881.
In detta procedura la madre si era opposta al ritorno dei figli
asserendo che in questo caso essi sarebbero stati esposti a un
grave rischio (secondo l’art. 13 lett. b) della Convenzione dell’Aia).
Al fine di provare l’esistenza di tale rischio la madre aveva
fornito due indicazioni:
a) i figli, al momento, erano in tenera età ed erano stati accuditi
in prevalenza dalla stessa convenuta, cosicché se essi fossero
tornati col padre avrebbero subito il trauma del distacco dalla
madre;
b) il padre, nel frattempo, aveva accettato un’offerta di lavoro
ad Abu Dhabi e vi era il rischio che egli vi si trasferisse con i
figli, senza l’accordo della madre.
Contemporaneamente nella procedura belga il giudice aveva
deciso concedendo la custodia esclusiva dei figli al padre.
Con riguardo a tale caso, conformemente alla giurisprudenza
spagnola, i giudici di Barcellona avevano affermato che il distacco dei bambini dalla madre non può costituire un motivo
ostativo al ritorno dei figli nello Stato d’origine.
Gli stessi giudici avevano ritenuto, inoltre, che il Tribunale
competente a decidere sulla facoltà del padre di condurre con
sé stabilmente i figli ad Abu Dhabi fosse solo quello belga, in
quanto Bruxelles era il luogo di residenza abituale dei minori.8
Peraltro è stato chiarito nel caso specifico che la madre potesse domandare al Tribunale belga delle misure cautelative
volte ad evitare l’allontanamento dei figli col padre per altra destinazione.
In particolare a questo proposito è stato evidenziato che il
giudice adito, in via cautelare, qualora vi è il rischio di sottrazione di un minore, possa - per impedirne l’espatrio - disporre
il ritiro del suo passaporto.
3.2. La recente giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’uomo
L’interpretazione della Convenzione dell’Aia del 1980 è stata
oggetto di differenti pronunce da parte della Corte dei Diritti
dell’uomo.
La Corte ha di recente indicato alle autorità nazionali l’obbligo di effettuare un esame approfondito della situazione dell’intera famiglia, nell’interesse superiore del bambino, considerando i suoi aspetti psicologici e materiali, conseguenti al ritorno.
In particolare, ad avviso della Corte, le autorità nazionali
dello Stato sul cui territorio risiedeva il minore prima che fosse
illecitamente sottratto da uno dei genitori devono valutare, in
primo luogo, l’interesse superiore del bambino.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto contrario alla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, e in particolare al diritto al rispetto della vita privata e familiare, il comportamento delle autorità nazionali che adottino un provvedimento di ritorno del
minore in modo automatico, senza considerare gli effetti e i
possibili danni, anche di carattere psicologico, sul bambino.
Tali indicazioni sono state svolte nella sentenza relativa al
caso Sneersone e Kampanella contro Italia9 che trae origine
dalla decisione del Tribunale per i Minorenni di Roma di disporre l’affidamento esclusivo al padre di un bambino nato da
una coppia, la cui madre era di nazionalità lettone.
In seguito alla separazione, il piccolo, che era stato affidato
alla madre, era stato portato dalla donna in Lettonia ove, a suo
dire, avrebbe goduto di migliori condizioni di vita, giacché il padre non contribuiva al suo mantenimento e le impediva così di
vivere in Italia.
Il padre aveva successivamente domandato al Tribunale per
i Minorenni di Roma l’affidamento esclusivo del figlio. La sua
domanda era stata accolta ed era stato altresì disposto il ritorno
del minore. Il decreto non era stato però riconosciuto dai giudici
lettoni che l’avevano ritenuto contrario all’interesse superiore
del bambino. Dopo l’esperimento di diversi ricorsi giudiziari, la
Lettonia aveva domandato alla Commissione europea l’avvio
di un procedimento d’infrazione contro l’Italia per l’inosservanza del Regolamento n. 2201/2003, domanda peraltro non accolta in ragione del parere motivato contrario della competente
autorità europea, che non ha rinvenuto violazioni del diritto Ue.
La Corte dei Diritti dell’uomo, adita successivamente, ha peraltro indicato che i giudici nazionali devono evitare ogni automatismo nelle decisioni di ritorno di un minore e procedere ad
un attento esame della situazione, fornendo un’adeguata motivazione sull’inesistenza di rischi per il bimbo in caso di rientro nel paese di residenza abituale, senza trascurare alternative
al ritorno.
Nel caso specifico ha affermato che non sono sufficienti le
sole assicurazioni del padre per ritenere che non sussistano tali
rischi.
Le autorità nazionali sono tenute ad esame approfondito
della situazione dell’intera famiglia e devono tener conto diversi fattori, tra i quali lo stato di fatto, gli aspetti psicologici,
materiali e medici.
Ciò, ad avviso della Corte trova conferma nella Convenzione
dell’Aia del 1980, il cui art. 13 b) esclude il ritorno del minore in
caso di fondato rischio che il bimbo sia esposto a pericoli psicofisici o a situazioni intollerabili.
Tale norma prevedendo però un’eccezione, deve esser applicata con rigore al fine di evitare che l’obiettivo della Convenzione sia frustrato.
Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali
non avevano tenuto in debito conto i danni che il bambino
avrebbe potuto subire al rientro in Italia poiché non parlava la
lingua italiana ed aveva avuto scarsi legami col padre. Inoltre il
distacco dalla madre, che l’aveva accudito stabilmente dalla nascita, avrebbe ulteriormente aggravato la sua situazione psicologica.
Già nella sua decisione relativa al caso Neulinger Shuruk
contro Svizzera, la stessa Corte10 aveva affermato la necessità di
tenere in debito conto quanto previsto dall’art. 3 c. 1 della Convenzione sui diritti del fanciullo e cioé che
Si osserva al riguardo, tuttavia, che la sussistenza del rischio
che il bimbo sia esposto a pericoli psico-fisici o a situazioni intollerabili, deve esser provata.
Non a caso l’art. 13 lett. b) della Convenzione richiede che
detto rischio sia fondato.
Inoltre è da sottolineare che in virtù dell’art. 11 del Regolamento Ce n. 2201/2003 il ritorno del minore può esser disposto
anche in caso di rischio per il minore, qualora nello Stato di origine siano adottate misure protettive, con un’evidente discrepanza tra il regolamento e la Convenzione (come si vedrà anche
in seguito).
La Corte dei Diritti dell’uomo indica comunque la necessaria
preminenza dell’interesse superiore del fanciullo.
3.3. Conclusioni e raccomandazioni adottate dalla Commissione
speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia
del 1980 e del 1996 nel corso della sua riunione del 01-10 giugno
2011
La Commissione speciale si è riunita a giugno in occasione
del sesto meeting sull’applicazione della Convenzione dell’Aia
del 1980 e del 1996.
I lavori della Commissione hanno dato luogo a delle Conclusioni e a delle Raccomandazioni per gli Stati contraenti.11
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 29
DOSSIER
Con riferimento all’aspetto della violenza domestica, la Commissione ha constatato che molti Stati trattano la questione
della violenza coniugale e familiare con alta priorità, in particolare attraverso la sensibilizzazione e la formazione. Tuttavia
le decisioni delle autorità giudiziarie dei diversi paesi aderenti
spesso non sono uniformi al riguardo.
Nel caso in cui sia invocata l’applicazione dell’articolo 13 b)
della Convenzione del 1980 in relazione ad atti di violenza coniugale o familiare, le accuse di violenza domestica e i potenziali rischi per il bambino dovrebbe essere esaminati in modo
rapido ed appropriato nella misura richiesta dagli obiettivi di
questa eccezione.
La Commissione Speciale ribadisce il suo sostegno alla promozione di una maggiore coerenza nel trattare le accuse di violenza coniugale e familiare in applicazione dell’articolo 13 b)
della Convenzione del 1980.
La stessa Commissione ha considerato le tre seguenti proposte per i lavori futuri volti a promuovere la coerenza nell’interpretazione e nell’applicazione dell’articolo 13 b), della Convenzione del 1980, e nel trattamento della questione della violenza coniugale e familiare sollevata nell’ambito delle procedure di ritorno ai sensi della Convenzione 1980:
(a) una proposta che comprende, tra le altre cose, lo sviluppo di
una guida di buone pratiche in merito all’applicazione dell’articolo 13 (1) b).
(b) la creazione di un gruppo di lavoro composto in particolare
dai membri della Rete Internazionale dei giudici dell’Aia, che
esaminerà la fattibilità di sviluppare uno strumento appropriato per aiutare nella valutazione dell’eccezione fondata
sul grave rischio di pericolo.
(c) l’istituzione di un gruppo di esperti, tra cui in particolare giudici, esperti delle Autorità centrali e altri esperti nelle dinamiche di violenza domestica, per sviluppare dei principi o
una guida relativi a pratiche riguardanti il trattamento di accuse di violenza domestica.
La Commissione speciale ha riconosciuto l’importanza dell’assistenza fornita dalle Autorità centrali e altre autorità competenti per ottenere informazioni dallo Stato richiedente, quali
i rapporti di polizia, degli operatori sanitari e sociali, e le informazioni sulle misure di protezione e modalità d’intervento disponibili nello Stato in cui il minore deve fare ritorno.
La Commissione Speciale inoltre ha ribadito l’importanza
della comunicazione giudiziaria diretta, in particolare attraverso le reti giurisdizionali, al fine di valutare se siano disponibili misure di protezione per il bambino e per il genitore che lo
accompagna nello Stato in cui il bimbo deve essere restituito.
3.4. La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo
esaminata dalla Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996 nel corso della
sua riunione del 01-10 giugno 2011
La Commissione speciale, nelle sue Conclusioni e raccomandazioni relative alla riunione tenutasi all’Aia dal 01 al10
giugno 2011, ha indicato che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nelle decisioni assunte da molti anni, ha espresso il
suo sostegno alla Convenzione del 1980, illustrato in particolare in una dichiarazione effettuata nella trattazione del caso
Maumousseau e Washington c. Francia (n. 39388/05, CEDU 2007
XIII) secondo la quale la Corte “sostiene in pieno la filosofia alla
base di questa Convenzione”.
Tuttavia la stessa Commissione speciale ha rilevato una serie preoccupazioni espresse in merito ai termini usati dalla
Corte nelle sue decisioni recenti e Neulinger Shuruk c. Svizzera
(Grande Chambre, n. 41615/07, 6 luglio 2010) e Raban c. Romania (n. 25437/08, 26 ottobre 2010) nella misura in cui potrebbero
essere interpretati “come esigenza che i giudici nazionali abbandonino la velocità e l’approccio rapido previsto dalla Convenzione dell’Aia e si discostino dall’interpretazione restrittiva
delle eccezioni di cui all’articolo 13 per orientarsi su una valutazione complessiva e autonoma sul merito della questione”.
La Commissione ha rilevato peraltro che un dato rassicurante è da individuare nella recente dichiarazione extragiudiziaria effettuata dal Presidente della Corte europea dei Diritti
dell’Uomo, in cui egli sostiene che la decisione Neulinger e Shuruk c. La Svizzera non segnala un cambio di direzione della
30 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
Corte in materia di sottrazione di minori, e che la logica della
Convenzione dell’Aia è che un bambino che è stato sottratto
dovrebbe essere riportato nello Stato della sua residenza abituale e che solo in tale Stato la sua situazione deve essere esaminata nella sua interezza.12
4. La richiesta di ritorno
Nell’ambito di un ricorso attivato ai sensi della Convenzione
dell’Aia per il ritorno di un bambino l’Autorità centrale deve assumere una posizione neutra.
È possibile ed auspicabile la comunicazione diretta tra autorità giudiziarie, che nell’esperienza concreta ha facilitato lo
scambio di informazioni e la celerità della procedura.
Il giudice della residenza abituale, ad esempio, può chiedere
al giudice, o anche all’Autorità centrale del paese di sottrazione,
notizie sulla condizione di salute psicofisica del minore od altre informazioni che lo concernono.
I soggetti legittimati a richiedere il ritorno del minore sono la
persona, l’istituzione o l’ente che, anche congiuntamente, abbiano il diritto di custodia, ossia di affidamento del minore, immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato
rientro. (art. 3 lett. a) Conv. Aia 1980)
La Commissione speciale per il funzionamento pratico della
Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, nel corso della sua
riunione del 01-10 giugno 2011, ha indicato che ai sensi della
Convenzione, il termine “custodia” deve essere interpretato tenendo conto della natura autonoma della Convenzione e alla
luce dei suoi obiettivi.
Per quanto riguarda il senso convenzionale e autonomo di
“diritto di custodia”, la Commissione speciale prende atto della
decisione della Abbott v. Abbott, 130 S.Ct. 1983 (2010), che sostiene ora l’approccio secondo cui un diritto di visita combinato
con un diritto di determinare la residenza del minore costituisce un “diritto di custodia” ai sensi della Convenzione dell’Aia
del 1980.
Questa indicazione è un contributo importante teso a garantire la coerenza a livello internazionale dell’interpretazione
della Convenzione.13 Il diritto di custodia può derivare dalla
legge, da una decisione giudiziaria o amministrativa o da un
accordo tra le parti. (art. 3 lett. b) Conv. Aja 1980)
Il consenso al trasferimento o al mancato ritorno del minore,
preventivo o successivo allo stesso, preclude l’accesso ad una
pronuncia ai sensi dell’art. 8 della Convenzione dell’Aia, difettando l’illiceità dello spostamento del bambino.
In caso di illecita sottrazione internazionale di minore, la
persona che è stata privata del figlio, in via complementare, può
denunciare il sottrattore sotto il profilo penale.
La competenza ad emettere l’ordine di ritorno ex art. 8 della
Convenzione Aja del 1980 è del giudice dello Stato di residenza
abituale o dello Stato dove il minore si trova, adito tramite l’Autorità centrale.
Deve quindi interpretarsi in questo senso l’art. 8 della Convenzione in esame, quando indica che, al fine di ottenere assistenza per assicurare il ritorno del minore, la persona legittimata può rivolgersi sia all’Autorità centrale della residenza abituale del minore, sia a quella di ogni altro Stato contraente.
Inoltre, qualora nel frattempo il minore venga trasferito in
un ulteriore Stato, l’Autorità centrale, che riceve una domanda
ex art. 8 della Convenzione, dovrà trasmettere direttamente la
domanda di ritorno indirizzandola all’Autorità centrale di ultima destinazione (v. art. 9 della Convenzione).
5. La Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 e il Regolamento CE Bruxelles II bis
Dal 1° marzo 2005 il Regolamento Bruxelles II (bis) è applicabile a tutti gli Stati membri dell’Unione europea, ad esclusione
della Danimarca.
La relazione tra le due normative è la seguente:
La Convenzione Aia del 1980 fornisce una procedura celere e
sicura per il ritorno del minore.
Il Regolamento Bruxelles II (bis) fornisce delle regole ordinarie da seguire circa la competenza giurisdizionale ed è complementare alla Convenzione.
Al contempo, ai sensi del suo articolo 60, il regolamento
stesso prevale sulla convenzione dell’Aia del 1980.
All’art. 8 il Regolamento prevede la regola generale in mate-
DOSSIER
ria di competenza nelle cause aventi ad oggetto la responsabilità parentale.
Il successivo art. 10 dello stesso Regolamento prevede un’eccezione in caso di trasferimento o ritenzione illecita del minore.
Tale articolo è di complemento all’art. 16 della Convenzione
dell’Aia.
In virtù del citato art. 10 del Regolamento il giudice dello
Stato di residenza abituale del minore immediatamente prima
della sottrazione o della ritenzione illecita, conserva la sua
competenza fino a che il minore non abbia acquisito un’altra
residenza abituale in un altro Stato e il titolare del diritto di custodia abbia dato il suo assenso al trasferimento, ovvero ancora
sia trascorso un periodo minimo di un anno in cui il minore abbia risieduto nel nuovo Stato e si sia ivi integrato. In quest’ultimo caso, inoltre, deve verificarsi una delle condizioni di cui ai
punti da i a iv della lettera b). Tali condizioni sono le seguenti:
i. che nel termine di un anno da quando il titolare del diritto
di affidamento ha avuto conoscenza (o avrebbe dovuto aver conoscenza) del luogo in cui il minore si trovava, non è stata presentata alcuna domanda di ritorno; o
ii. che sia stata ritirata una domanda di ritorno dal titolare
del diritto di affidamento e non sia stata presentata una nuova
domanda entro il termine di un anno; o
iii. che sia stata archiviata una domanda presentata dinanzi
ad un organo giurisdizionale dello Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del
suo trasferimento o del suo mancato ritorno illecito; o
iv. che l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale
il minore aveva la sua residenza abituale, immediatamente
prima del suo trasferimento o del suo mancato ritorno, abbia
emanato una decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore.
Con riguardo a tale ultima ipotesi ci si può chiedere se qualora il giudice della residenza abituale abbia emesso una pronuncia in tema di affidamento del minore in via provvisoria,
non includente l’ordine di ritorno, si possa ritenere avvenuto
uno spostamento di giurisdizione dall’Autorità giudiziaria dello
Stato membro di residenza abituale in favore del foro della
nuova residenza.
In proposito si è espressa di recente la Corte di Giustizia dell’Unione europea sul rinvio pregiudiziale (con richiesta di procedimento d’urgenza) effettuato dall’Oberster Gerichtshof (Austria).14
Il caso esaminato dalla Corte riguarda una bimba trasferita
in Austria dalla madre, in violazione di un precedente provvedimento del Tribunale per i Minorenni di Venezia che, in via
provvisoria, aveva disposto l’affidamento condiviso della piccola ai genitori. Tale provvedimento peraltro non aveva statuito
il ritorno della minore, ma anzi le consentiva di risiedere con la
propria madre in Austria fino all’adozione della decisione definitiva.
Nell’ambito del procedimento italiano erano state poi verificate reali difficoltà di visita del padre alla figlia, cosicché, successivamente, con decreto del 10.7.2009 il Tribunale per i Minorenni di Venezia aveva disposto l’immediato ritorno della minore.
Un ostacolo all’esecuzione del decreto suddetto, debitamente
certificata in guisa da beneficiare in Austria dell’efficacia automatica di cui agli articoli 40 e 42 del Regolamento (CE) n.
2201/2003, era costituito peraltro dalla successiva decisione austriaca di negare il ritorno della minore, resa ai sensi 13, lettera
b) della convenzione dell’Aia 25 ottobre 1980.
Al riguardo, si ricorda che l’art. 42 del Regolamento (CE)
n.2201/2003 prevede la possibilità di ottenere, dal giudice di origine, un titolo esecutivo nello Stato membro di trasferimento:
si tratta di un certificato che attesta che tutto il procedimento,
che ha dato luogo ad una decisione di ritorno esecutiva in uno
Stato membro, è avvenuto nel rispetto dei principi di legalità
indicati al capo 2 dello stesso art. 42.
Nel caso accennato, l’Autorità austriaca, successivamente al
decreto italiano, aveva attribuito in via provvisoria l’affidamento
della bambina alla madre. I giudici austriaci di prime cure avevano infatti manifestato il convincimento di esser divenuti competenti in virtù dell’art. 10 del Regolamento lettera b) iv.
Adito in merito a tali questioni, l’Oberster Gerichtshof (organo giudiziario austriaco di ultimo grado) aveva domandato
in via pregiudiziale l’interpretazione della Corte di Giustizia ponendo, in particolare, i seguenti quesiti (sinteticamente riportati in numero di quattro poichè una delle questioni è stata assorbita dalla soluzione fornita dalla Corte):
1) se il giudice italiano, a seguito della pronuncia della decisione
di affidamento provvisorio che non disponeva il ritorno della
minore, avesse perso ai sensi dell’art. 10 del Regolamento
(CE) 2201/2003 lettera b) punto iv, la giurisdizione attribuitagli dagli artt. 8 e 10 dello stesso Regolamento (sulla base del
criterio della residenza abituale originaria della minore in
Italia); in particolare il giudice del rinvio domandava se l’art.
10, lett. b), iv), del regolamento dovesse essere interpretato
nel senso che un provvedimento provvisorio va qualificato
come «decisione di affidamento che non prevede il ritorno
del minore» ai sensi di tale disposizione;
2) se il provvedimento dei giudici italiani che disponeva il ritorno ai sensi dell’art. 11, n.8 (che era emanato da un giudice
competente ed esecutivo) dovesse presupporre una decisione
definitiva sull’affidamento della minore; ed in caso di soluzione affermativa se nello Stato di esecuzione potesse essere
eccepita l’incompetenza del giudice dello Stato di origine o
l’inapplicabilità dell’art. 11, n. 8, del regolamento per opporsi
all’esecuzione della decisione certificata dal giudice di origine ai sensi dell’art. 42, n. 2, del regolamento;
3) se la decisione austriaca di affidamento provvisorio della
bambina alla madre resa successivamente al decreto italiano,
potesse impedire l’esecuzione in Austria della statuizione italiana di ritorno della bimba; in particolare il giudice del rinvio domandava se l’art. 47, n. 2, secondo comma, del regolamento dovesse essere interpretato nel senso che una decisione che attribuisca un diritto di affidamento provvisorio,
emessa in un momento successivo da un giudice dello Stato
membro di esecuzione e considerata esecutiva ai sensi della
legge di tale Stato, impedisca l’esecuzione di una decisione di
ritorno certificata, emessa anteriormente;
4) se, infine, l’esecuzione di una decisione certificata possa essere negata nello Stato membro di esecuzione adducendo un
mutamento delle circostanze, sopravvenuto dopo la sua
emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe ledere gravemente il superiore interesse del minore, o se invece un tale
mutamento debba essere dedotto dinanzi ai giudici dello
Stato membro di origine, il che implicherebbe, ad avviso dei
giudici austriaci, la sospensione dell’esecuzione della decisione nello Stato membro richiesto, nelle more del procedimento nello Stato membro di origine.
Sul primo quesito la Corte di Giustizia ha affermato che, nella
materia in esame, soltanto la decisione definitiva di affidamento è suscettibile di produrre lo spostamento di giurisdizione di cui all’art. 10 lett. b), iv.
Tale interpretazione restrittiva si fonda sull’analisi sistematica del regolamento 2003/2201 e sulla considerazione della sua
peculiare ratio, individuabile nelle finalità di prevenzione e dissuasione da azioni di sottrazione di minori tra Stati membri,
nonché - in caso di avvenuto trasferimento illecito - di predisposizione di un rapido ritorno del minore. Risponde a tale ratio il ruolo centrale, attribuito dal regolamento citato, al giudice
del foro di residenza abituale del minore e la necessità di ribadire il principio della conservazione di tale competenza.
Perciò la previsione di cui all’art. 10 lett. b), iv), deve esser interpretata in maniera restrittiva, nel senso che il richiamo contenuto alla “decisione di affidamento che non prevede il ritorno
del minore” deve ritenersi a una decisione definitiva « adottata
sulla scorta di una disamina completa dell’insieme degli elementi pertinenti».
La Corte ha ribadito che ogni eccezione al principio della giurisdizione dello Stato di residenza abituale d’origine del minore
- principio previsto nel regolamento n. 2201/2003 - deve esser
verificata ed applicata dall’interprete alla luce delle suindicate
finalità del Regolamento e dell’interesse superiore del fanciullo.15
Ha pertanto escluso, nel caso di specie, che rientri nella nozione di “decisione di affidamento che non prevede il ritorno
del minore” ai sensi dell’art. 10, lett. b), iv), del regolamento (…)
anche un provvedimento provvisorio con cui si dispone che fino
all’adozione della decisione definitiva sull’affidamento “le degennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 31
DOSSIER
cisioni relative al minore”, in particolare il diritto di stabilire il
luogo di residenza, spettano al genitore che ha sottratto il minore.
Infatti, qualora si ritenesse che una tale decisione provvisoria del giudice dello Stato membro della residenza abituale anteriore, potesse comportare la perdita della sua competenza ciò
contrasterebbe non solo con il principio di conservazione di tale
competenza del foro d’origine (e di limitazione delle eccezioni
ad esso) ma altresì con l’interesse del fanciullo.
Il giudice del foro di origine «potrebbe infatti essere dissuaso
dall’adottare una siffatta decisione provvisoria, quand’anche
essa fosse necessaria per tutelare gli interessi del minore».
Sul secondo quesito è interessante notare come la sentenza
citata abbia affrontato l’aspetto di cui all’art. 11 n. 8 citato, che
prevede, in particolare, che “nonostante l’emanazione di un
provvedimento contro il ritorno in base all’articolo 13 della convenzione dell’Aia del 1980, una successiva decisione che prescrive il ritorno del minore, emanata da un giudice competente
ai sensi del presente regolamento, è esecutiva conformemente
alla sezione 4 del capo III, allo scopo di assicurare il ritorno del
minore”.
Al riguardo l’indicazione della Corte è che la decisione sul ritorno di cui all’art. 11, n. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003
non presuppone, da parte dello stesso giudice che lo ha disposto, una decisione definitiva sull’affidamento.
In particolare, con la sentenza citata si è dunque ribadito
come non sia necessaria una pronuncia definitiva sull’affidamento per fondare il ritorno esecutivo.
Un’interpretazione contraria potrebbe andare a discapito di
una istruttoria ponderata ed esaustiva da parte del giudice del
foro d’origine competente, che potrebbe esser forzato “a prendere una decisione sul diritto di affidamento senza disporre di
tutte le informazioni e di tutti gli elementi pertinenti, né del
tempo necessario a valutarli in modo obiettivo e pacato”.
Sul terzo quesito secondo la Corte una decisione di affidamento provvisorio resa dallo Stato di nuova residenza del minore non rientra tra quelle in grado di impedire ai sensi dell’art.
47, paragrafo 2, l’esecuzione in tale Stato di una decisione sul ritorno resa in precedenza dal foro di origine e certificata conformemente all’art. 42.
L’analisi del regolamento citato permette di ritenere che, ai
sensi dei suoi art. 11 n. 8 e 42, possa esser dotata di esecutività
immediata, con l’adozione del previsto certificato, la « decisione
che prescrive il ritorno del minore» emanata da un giudice
competente ai sensi dello stesso regolamento, a condizione che
lo Stato di esecuzione abbia adottato un atto in senso contrario
al ritorno, prima del provvedimento del Paese d’origine.
La Corte, ribadendo la giurisprudenza già in passato
espressa, ha precisato che l’esecutività di una decisione che
prescrive il ritorno di un minore - successiva ad un provvedimento di diniego del rientro - beneficia dell’autonomia procedurale, al fine di non ritardare il ritorno di un minore illecitamente trasferito.16
Essa ha altresì confermato la finalità - sottesa agli artt. 11
n.8, 40 e 42) - di fornire una risposta celere all’istanza di ritorno
del genitore che ha subito la sottrazione del figlio e la priorità
riconosciuta alla competenza del giudice del foro di origine nell’ambito del capo III, sezione 4, del regolamento.
Una precisazione molto importante è stata poi ribadita nella
sentenza in argomento con riguardo al rapporto tra il regolamento 2003/2201 e la Convenzione dell’Aia del 1980. In particolare è confermato il primato del regolamento su tale convenzione, nei rapporti tra gli Stati membri.
Già in precedenza nella sentenza Rinau tale aspetto era stato
oggetto di approfondimento.
Infatti, alla luce del diciassettesimo considerando del regolamento 2003/2201, quest’ultimo integra le disposizioni della
Convenzione dell’Aia del 1980. Ma al contempo il regolamento
stesso prevale sulla convenzione dell’Aia del 1980, ai sensi del
suo articolo 60.
Più precisamente la sentenza del luglio 2010 in esame, riprendendo quanto a suo tempo affermato nel caso Rinau, chiarisce che (in base al meccanismo istituito dagli artt. 11, n. 8, 40
e 42 del regolamento) nel caso in cui il giudice dello Stato membro di illecito trasferimento abbia emesso una decisione contro
il ritorno ai sensi dell’art. 13 della Convenzione dell’Aia del
32 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
1980, il regolamento riserva comunque al giudice competente
in forza di questo stesso regolamento, e quindi a quello del foro
di residenza abituale d’origine, qualunque decisione in merito
all’eventuale ritorno del minore.
Ciò, come detto, sulla base del primato del regolamento sulla
convenzione nei rapporti tra gli Stati membri, ai sensi dell’art.
60 del regolamento stesso.
L’art. 11 n. 8 dispone che la decisione sul ritorno resa dal giudice competente è esecutiva conformemente alla sezione 4 del
capo III del regolamento, allo scopo di assicurare il rientro del
minore.17
In proposito tutta la giurisprudenza della Corte di Giustizia
fa riferimento ad un altro fondamentale principio sotteso al regolamento: quello di reciproca fiducia tra gli Stati membri.
In osservanza di tale principio, si può evidenziare che il giudice competente del foro di residenza abituale d’origine, prima
di adottare la decisione di ritorno del minore, deve tener conto
delle ragioni e degli elementi probatori sui quali sia stata fondata la decisione contro il ritorno. “Il fatto che egli abbia preso
in considerazione tali elementi contribuisce a giustificare l’esecutività della decisione, una volta che sia stata adottata”.18
Sempre con riguardo al terzo quesito, la Corte ha chiarito le
ragioni per cui ha escluso che una decisione di affidamento
provvisorio, resa dal foro dello Stato di nuova residenza del minore, possa esser in grado di impedire (ai sensi dell’art. 47 paragrafo 2) l’esecuzione in tale Stato di una decisione sul ritorno,
emessa dal giudice della residenza abituale, e certificata conformemente all’art. 42 del Regolamento.19 Ha precisato infatti
che ai sensi degli artt. 42 n. 1 e 43 n. 2 del Regolamento il rilascio di un certificato non è impugnabile dinanzi ai giudici dello
Stato membro del trasferimento, (vi è infatti solo la possibilità
di sua rettifica in caso di errore materiale) e la decisione certificata ha valore esecutivo con efficacia immediata, senza alcuna possibilità di opposizione al suo riconoscimento.
Di conseguenza, il riferimento che è contenuto nell’art. 47
paragrafo 2 alla possibilità che la decisione certificata non sia
eseguita “se è incompatibile con una decisione esecutiva
emessa posteriormente” va inteso soltanto con riferimento alle
eventuali decisioni pronunciate successivamente dai giudici
competenti dello Stato membro di origine.
Ciò quindi nel rispetto del principio della competenza del
giudice dello Stato di residenza abituale del minore.
Infine, in linea con tutti i principi finora enunciati, l’esecuzione di una decisione certificata non può essere evitata nello
Stato membro di esecuzione adducendo un mutamento delle
circostanze, successivo alla sua emanazione, tale per cui l’esecuzione potrebbe esser gravemente pregiudizievole per il minore.
A proposito del quarto quesito, la Corte ha affermato che “un
mutamento del genere deve essere dedotto dinanzi al giudice
competente dello Stato membro di origine, al quale dovrebbe
essere presentata anche l’eventuale domanda di sospensione
dell’esecuzione della sua decisione”.20
Questa osservazione è conforme ad una giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Giustizia. In tal senso, ad esempio, si era espressa la stessa Corte in una sua decisione del 23
dicembre 2009.21
Nella relativa sentenza è ribadita la necessità che i giudici
nazionali osservino il principio del reciproco riconoscimento
delle decisioni pronunciate dagli Stati membri, previsto nel Regolamento n.2201/2003, principio che (come si evince dal ventunesimo considerando dello stesso Regolamento) è a sua volta
fondato sul criterio giuda della reciproca fiducia tra gli Stati
membri.
Anche in questa sentenza si afferma, conformemente all’art.
28 n.1 del Regolamento, che i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale, emessi nello Stato membro ed esecutivi devono, in linea di principio, esser eseguiti nello Stato membro richiesto.
Il divieto di qualsiasi riesame nel merito di una decisione
esecutiva, da parte del giudice dello Stato membro di esecuzione, è altresì ribadito, ai sensi dell’art. 31, n. 3 del Regolamento stesso.
È evidente, dall’esame dei casi concreti oggetto di decisione
della Corte di Giustizia, come quest’ultima miri a garantire l’osservanza degli atti direttamente applicabili negli Stati membri
DOSSIER
da parte degli stessi, con interpretazioni, pur restrittive, ma giustificate dall’obiettivo di salvaguardare le finalità dell’Unione
ed al contempo l’interesse del minore.
Nello specifico evitare che, con interpretazioni aperte ad eccezioni sempre maggiori al principio della competenza del giudice dello Stato membro di residenza abituale del minore, lo
scopo del regolamento n. 2201/2003, di prevenire, dissuadere e
risolvere con celerità i casi di sottrazione internazionale di un
fanciullo, sia frustrato. Ciò nell’interesse di quest’ultimo a conservare ed esercitare in maniera regolata ed agevole valide relazioni affettive con entrambi i genitori, nell’ambiente in cui ha
sviluppato stabilmente relazioni parentali e sociali.
Come già detto, la Convenzione dell’Aia del 1980 indica delle
ipotesi tassative in cui il giudice del luogo ove si trova il minore
può negare il suo ritorno nello Stato di residenza abituale.
L’obiettivo perseguito dagli Stati firmatari della Convenzione
era la predisposizione di una procedura chiara e facilmente accessibile, atta a permettere il rientro del minore con la necessaria celerità.
Tuttavia, negli anni l’attuazione pratica del procedimento
istituito dalla Convenzione si è rivelata talvolta lenta e complicata.
Sulla base di questa considerazione, gli Stati membri dell’Unione europea nel predisporre uno strumento regolamentare che fosse in grado di superare i difetti della Convenzione,
hanno inteso inserire nel Regolamento Bruxelles II bis delle
norme volte ad assicurare che l’Autorità giudiziaria della residenza abituale, competente prima della sottrazione del minore,
mantenga in tema di decisioni sulla responsabilità genitoriale,
la competenza anche successivamente.
In tal modo, sulla base del Regolamento, il giudice del foro
d’origine è in grado di assumere una decisione che supera
quella eventuale di non ritorno, pronunciata dal giudice del
luogo ove si trova il minore dopo la sua sottrazione.
Ciò al fine di garantire l’efficace e celere rimpatrio del bambino.
Come si è accennato, pertanto, il Regolamento 2201/2003 ha
una valenza complementare rispetto alla Convenzione dell’Aia
del 1980, prevalendo su questa in virtù della disposizione contenuta nell’art. 60 dello stesso Regolamento.
6. Il termine per la decisione
L’Autorità giudiziaria adita è tenuta a pronunciarsi sulla domanda di ritorno entro il termine di sei settimane.
In proposito la Convenzione dell’Aia del 1980 prevede un
provvedimento d’urgenza stabilendo che qualora decorrano sei
settimane dalla data d’inizio del procedimento senza che una
decisione sia intervenuta, il richiedente può domandare una
dichiarazione che precisi le ragioni del ritardo.
Anche il Regolamento 2201/2003 si conforma al termine indicato dalla Convenzione prevedendo all’art. 11 punto 3 che
l’autorità giudiziaria, salvo il caso in cui circostanze eccezionali
non lo consentano, emana il provvedimento al più tardi sei settimane dopo aver ricevuto la domanda.
Detto termine non sempre viene rispettato nella pratica.
Peraltro si ritiene che la durata della procedura debba esser
il più possibile contenuta.
Al riguardo alcuni rallentamenti possono esser determinati
dalla stessa applicazione della Convenzione e dettati dall’esigenza di favorire la composizione amichevole della controversia.
In proposito, l’art. 7 lettera c) della Convenzione dell’Aia recita che le Autorità centrali devono cooperare reciprocamente
assumendo, direttamente o tramite intermediari, tutti i provvedimenti necessari per assicurare la consegna volontaria del
minore, o agevolare una composizione amichevole.
La mediazione è uno degli strumenti utilizzabili ai fini di una
consegna volontaria del minore.
Tuttavia la composizione del conflitto tra i genitori può dilatare i tempi della pronuncia del giudice sul ritorno.
Un esempio è quello di un caso occorso tra Spagna e Olanda
in cui l’Autorità centrale olandese tardò sette mesi nel presentare la domanda all’Autorità giudiziaria, malgrado vi fosse una
insistente istanza in tal senso da parte del ricorrente che non
intendeva più sottoporsi alla mediazione, stante il rifiuto della
madre, convenuta e autrice della sottrazione, a giungere ad un
accordo.22
Analogo ritardo è stato riscontrato in un procedimento che
ha coinvolto le Autorità centrali spagnola e tedesca. In tale caso
il padre, ricorrente, era titolare del diritto di affidamento della
figlia minore, grazie ad una decisione giudiziale, e la madre
esercitava, al momento della sottrazione, il diritto di visita della
figlia.
La bambina era partita in Germania per visitare la mamma
ed era stata ivi trattenuta.
Celebrata l’udienza, il Tribunale aveva rinviato la pronuncia
della decisione ad altra data per ben quattro volte. Al ricorrente
era stato proposto di partecipare ad una mediazione in Germania durante i fine settimana con un costo di 2.500 euro per
ogni genitore. Il ricorrente aveva invece domandato il ritorno
della minore chiedendo che la mediazione si realizzasse in Spagna.23
Alla luce di tali casi è evidente come il ricorso alla mediazione non debba snaturare l’urgenza del procedimento e comportare rilevanti ritardi nell’adozione della decisione.
La mediazione può costituire uno strumento di ausilio alla risoluzione del conflitto e alla gestione del ritorno del minore
nell’ambito di una composizione amichevole tra le parti, sempre peraltro nel rispetto del carattere di celerità della procedura.
Pur confermandosi gli indubbi vantaggi del ricorso alla mediazione - di cui si tratterà appresso - essa ha una valenza positiva qualora non determini una violazione della Convenzione,
e pertanto sia applicata quando le parti siano consenzienti e
seriamente motivate.
7. La mediazione
La sottrazione internazionale di minori potrebbe esser ritenuta da alcuni una materia non affrontabile con l’ausilio della
mediazione, in ragione del livello elevato del conflitto tra le
parti, della distanza geografica tra i paesi - che rende difficile la
realizzazione delle sessioni - e delle differenze culturali e religiose tra i genitori che acuiscono le tensioni.
Inoltre, il concorso di diversi sistemi legali e le differenze linguistiche complicano il procedimento e le comunicazioni. Occorre altresì tener presente che nei casi di sottrazione di minore le parti sono sottoposte a diversi fattori di stress rilevanti,
quali: la rottura delle relazioni personali, il timore della perdita
dei rapporti affettivi, le preoccupazioni economiche, il timore
di assumere delle decisioni fondamentali di ordine personale e
familiare.
Tuttavia vi sono numerose ragioni per far ricorso alla mediazione.
È opportuno astenersi sempre dal qualificare il genitore che
sottrae il figlio come “cattivo”, come colui che si disinteressa di
causare un danno all’altro e che non tiene in conto i diritti del
minore a relazionarsi con entrambi i genitori. Peraltro, guardando la sottrazione dal punto di vista del danno al minore le
conseguenze, nella maggior parte dei casi, sono irreparabili.24
Infatti gli studi svolti dall’Associazione “REUNITE”25 indicano
che i bambini perdono la confidenza col genitore e gli altri familiari da cui sono stati allontanati e ricordano l’esperienza di
sottrazione per anni.
Le difficoltà di ripristinare la relazione del bimbo con l’altro
genitore sono tanto maggiori quanto più lungo è il tempo trascorso dal momento della sottrazione.
Una di esse può esser conseguente alla perdita della lingua
della residenza abituale, che è più repentina quanto più piccolo
è il bambino; in tal modo il minore perde il veicolo essenziale
al mantenimento della sua relazione con l’altro genitore.
Inoltre maggiore è la distanza geografica tra i due genitori,
maggiore è la difficoltà di esercizio del diritto di visita, soprattutto per i bambini la cui età non consente loro di viaggiare soli.
Anche le condizioni economiche delle parti possono incidere
negativamente sulla possibilità di affrontare il viaggio.
7.1. La mediazione nella Convenzione dell’Aia e nel contesto europeo
La Convenzione dell’Aia contiene il riferimento alla mediazione in maniera implicita laddove, all’art. 7, dispone che le Autorità Centrali devono collaborare tra loro e promuovere la collaborazione tra le Autorità competenti dei rispettivi Stati - al
fine di consentire la restituzione immediata dei minori - nongennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 33
DOSSIER
ché di garantire la restituzione volontaria del bambino o facilitare una soluzione amichevole (punto c dell’art. 7).
L’art. 10 della Convenzione afferma che l’Autorità Centrale
dello Stato dove si trova il minore adotterà o farà in modo che
siano adottati tutti i provvedimenti adeguati per assicurare la
sua riconsegna volontaria.
Il ricorso alla mediazione in materia di sottrazione di minori
è stato dapprima sperimentato in Gran Bretagna e successivamente attuato anche in altri paesi come la Francia. L’esigenza
di un procedimento teso alla conciliazione stragiudiziale delle
parti è stata progressivamente sentita da tutti i paesi dell’Unione europea.
In tale contesto, in seno al Consiglio d’Europa è stato elaborato, dalla Commissione per l’Efficienza della Giustizia, un rapporto sull’utilizzo della mediazione, che ha rilevato, nei paesi
oggetto dell’indagine, la necessità di una maggiore conoscenza
dello strumento, di una sensibilizzazione in tal senso dei giudici
e della messa a disposizione da parte degli Stati parti di fondi
atti a far fronte alla relativa spesa.26
Rispondendo a queste necessità, l’Unione europea, con la Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del
21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione
in materia civile e commerciale, ha voluto indicare agli Stati
membri l’urgenza di approntare meccanismi di mediazione efficaci, tesi a fornire alle parti “una risoluzione extragiudiziale
conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale attraverso procedure concepite in base alle esigenze
delle parti”.
La Direttiva evidenzia in particolare che “gli accordi risultanti
dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione
amichevole e sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera”.
L’Unione europea persegue quindi esplicitamente “l’obiettivo
di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo
un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”.
La predetta direttiva si applica alle controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale.
Con riguardo alla necessità di rendere un efficace servizio
informativo al pubblico sui vantaggi della mediazione l’articolo
9 della richiamata Direttiva indica agli Stati membri di incoraggiare nei modi più appropriati, “la divulgazione al pubblico,
in particolare via Internet, di informazioni sulle modalità per
contattare i mediatori e le organizzazioni che forniscono servizi di mediazione”.
In linea con tale indicazione l’Autorità giudiziaria belga ha
recentemente avviato un progetto pilota, istituendo all’interno del “Tribunal de la Jeunesse” di Bruxelles un “Bureau
d’information” che propone il ricorso alla mediazione come
alternativa al Tribunale e che è in grado di indirizzare gli
utenti che ne facciano richiesta ai centri specializzati per la
mediazione.27
Inoltre tale “Bureau” fornisce informazioni anche sui costi
della mediazione specificando che in linea generale essa è a carico delle parti ma che le spese e gli onorari del mediatore possono esser coperti dall’assistenza giudiziaria statale, nel rispetto di determinate condizioni.
Il sito (indicato in nota 27) fornisce inoltre una lista di mediatori raccomandati dallo stesso Tribunale.
L’Articolo 2 della Direttiva 2008/52/CE, indica l’utilità del ricorso alla mediazione nelle controversie transfrontaliere.
A tal fine definisce in via generale per controversia transfrontaliera quella in cui almeno una delle parti è domiciliata o
risiede abitualmente in uno Stato membro diverso da quello di
qualsiasi altra parte alla data in cui:
a) le parti concordano di ricorrere alla mediazione dopo il sorgere della controversia;
b) il ricorso alla mediazione è ordinato da un organo giurisdizionale;
c) l’obbligo di ricorrere alla mediazione sorge a norma del diritto nazionale; o
d) ai fini dell’articolo 5, un invito è rivolto alle parti.
34 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
Come evidenziato, il ricorso alla mediazione è previsto anche su indicazione dell’organo giurisdizionale che, investito di
una causa, può - se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte
le circostanze del caso - invitare le parti ad aderire alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia.
Il Giudice può altresì invitare le parti a partecipare ad una
sessione informativa sul ricorso alla mediazione se tali sessioni
hanno luogo e sono facilmente accessibili (art. 5 della direttiva)
La mediazione può anche esser prevista come obbligatoria
dal diritto nazionale degli Stati membri, ma deve esser lasciata
impregiudicata la possibilità per le parti di ricorrere al sistema
giudiziario.
Le parti hanno inoltre la possibilità di chiedere che il contenuto di un accordo scritto risultante da una mediazione sia reso
esecutivo. L’esecutività è possibile salvo che il contenuto dell’accordo sia contrario alla legge dello Stato membro in cui
viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato membro non ne prevede l’esecutività (art. 6 della direttiva).
I termini dell’accordo possono essere resi esecutivi in una
sentenza, in una decisione o in un atto autentico da un organo
giurisdizionale o da un’altra autorità competente in conformità
del diritto dello Stato membro in cui è presentata la richiesta.
La direttiva, infine, pone agli Stati membri l’onere di indicare
alla Commissione gli organi giurisdizionali o le altre autorità
competenti a ricevere le richieste tese a rendere esecutivo un
accordo.
In Italia è di recente promulgazione il decreto legislativo 4
marzo 2010, n. 28, relativo al nuovo istituto della mediazione
civile e commerciale, la cui finalità precipua è quella di promuovere la risoluzione stragiudiziale delle controversie, tramite
il ricorso alla mediazione.
Già con la Legge del 2006 n. 54 in materia di diritto di famiglia, la mediazione tra le parti è stata regolata e incentivata,
prevedendo che nel corso del giudizio teso alla definizione del
regime di affidamento di un minore ad uno o ad entrambi i genitori, il giudice possa rimandare la decisione per consentire
alle parti di ricorrere alla mediazione.
Con riguardo all’applicazione della mediazione ai casi di sottrazione internazionale di minore occorre tenere in debito
conto che i ritardi nelle procedure di ritorno ledono l’interesse
superiore del minore. Il tempo gioca a favore del genitore che ha
sottratto il bimbo e complica inevitabilmente la possibilità di
ristabilire lo status quo.
Non si può tuttavia pensare di escludere la mediazione in
tale settore, ma si può prevedere che essa sia implementata e
supportata da una struttura giuridica appropriata, che garantisca l’uguaglianza delle parti, che permetta di evitare i ritardi indebiti e che, inoltre, garantisca l’applicazione delle soluzioni
raggiungibili.
Alla luce dell’indicazione contenuta nella Convenzione dell’Aja, essa ha un’evidente utilità sia al fine di prevenire le sottrazioni che per porvi fine.
La mediazione opera in tali contesti come un meccanismo
molto efficace soprattutto nei casi i cui esiti possono rivelarsi
molto traumatici per il minore, quali ad esempio quelli definiti
dai magistrati francesi come “retour guillotine”, cioè quando un
bimbo si vede rinviato al genitore cui era stato sottratto “dal
mattino alla sera”, senza alcuna preparazione.
Evitare simili conseguenze costituisce certamente un motivo
valido per iniziare la mediazione, ma ve ne sono altri altrettanto validi quali:
- perseguire la cooperazione tra le parti, piuttosto che permettere al vincitore e al vinto di affrontarsi; tale ultimo tradizionale modo di operare crea infatti maggiore aggressività
tra i soggetti coinvolti;
- incentivare la consapevolezza nei genitori delle conseguenze
dannose dello sradicamento del figlio, aiutandoli a concentrarsi sulle necessità e i sentimenti del minore;
- liberare il bambino dal conflitto di lealtà che abbia strutturato nei confronti di uno dei genitori, contribuendo in tal
modo a generare in lui sicurezza e sollievo.
È possibile citare alcuni casi di utilizzo della mediazione con
esiti favorevoli. Un esempio è quello in cui la negoziazione e la
mediazione sono state agevolate dai governi dei paesi coinvolti.
Si trattava della sottrazione di una minore franco-russa di
DOSSIER
nome Elise di tre anni avvenuta ad Arles (Francia) nel marzo
2009. Due procedimenti per sottrazione internazionale venivano iniziati: uno dalla madre in Russia ed uno dal padre in
Francia. Erano intervenuti, con risultati positivi, il Console Generale della Russia, il Ministro della Giustizia e degli Esteri, nonché il Segretario di Stato per i Diritti Umani. Era stato quindi attivato un percorso di mediazione tra le parti.
Un altro caso è quello di “Shaban-Arias”(minore residente in
Guatemala, madre argentina cattolica, padre giordano musulmano). Tra gli intervenuti nel processo di negoziazione: il Presidente della Repubblica Argentina, il Re di Giordania, il Segretario Generale delle Nazioni Unite.28
7.2. La Mediazione secondo le Conclusioni dalla Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del
1980 e del 1996 adottate nella sesta riunione del 01-10 giugno
2011
La Commissione speciale ha preso atto dei notevoli sviluppi
in materia di utilizzo della mediazione nel contesto della Convenzione del 1980 ed ha accolto con favore il progetto della
Guida alle buone pratiche sulla mediazione ai sensi della Convenzione del 1980. Il Bureau Permanente è stato quindi invitato
a rivedere la Guida alla luce delle discussioni della Commissione speciale, tenendo conto anche dei pareri degli esperti. Dovrebbe essere prevista in tale Guida l’aggiunta di esempi di accordi di mediazione. La versione rivista della stessa sarà distribuita agli Stati contraenti.
La Commissione speciale ha preso altresì atto degli sforzi già
compiuti in alcuni Stati per l’istituzione di punti di contatto
centrali e pertanto ha incoraggiato tutti gli Stati a considerare
l’istituzione di tali un punto di contatto o la designazione di
un’Autorità centrale come punto di contatto centrale.
Le coordinate dei punti centrali di contatto sono disponibili
sul sito web della Conferenza dell’Aia.
8. Il ritorno in caso di misure adeguate a protezione del minore
Come già detto “il rischio grave che il minore possa correre
per l’effetto del rientro” (art. 13 lettera b della Convenzione dell’Aia) può fondare una decisione contro il ritorno.
Fatto salvo quanto già riportato circa la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, occorre rilevare altresì che l’art. 11 punto 4. del
Regolamento 2201/2003 dispone che un’autorità giurisdizionale
di uno Stato membro non può rifiutare di ordinare il ritorno di un
minore in base all’art. 13 lett b) della Convenzione dell’Aia del
1980, qualora sia dimostrato che sono previste misure adeguate
per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno.
Da questa disposizione può arguirsi che il giudice cui sia
chiesta una decisione contro il ritorno, deve raccogliere tutte le
informazioni necessarie per comprendere ciò che può accadere
dopo la restituzione del minore, prima di adottare o meno il
provvedimento richiesto, senza limitarsi alla cognizione delle
allegazioni delle parti, al fine di tutelare pienamente l’interesse
del fanciullo.
Ci si può chiedere chi debba porre in essere le “misure adeguate”, atte a garantire la protezione del bambino dopo il suo ritorno.
Si può ritenere che solo gli organismi preposti alla protezione
del minore esistenti nello Stato membro possano predisporre e
fornire dette garanzie, quali i Servizi sociali locali, gli Uffici per
la protezione minorile esistenti nelle Forze dell’Ordine (presenti
in Italia presso le Questure) coordinati dai Tribunali specializzati per i Minorenni.29 In tal senso di sicura utilità può risultare
anche il contatto tra autorità giudiziarie dei paesi interessati,
tramite la rete dei giudici dell’Aia.
9. Il provvedimento contro il ritorno del minore nel Regolamento 2201/2003
Come già detto, l’art. 11 del Regolamento CE 2201/2003 nei
paragrafi dal 6 all’8 fa riferimento alla possibilità che un’Autorità giudiziaria di uno Stato membro dove sia stato trasferito il
minore rifiuti la restituzione sulla base dell’art. 13 della Convenzione dell’Aia del 1980.
In tali ipotesi l’Autorità denegante deve immediatamente
trasmettere direttamente o tramite l’Autorità centrale una copia del provvedimento giudiziario di rifiuto del ritorno e dei per-
tinenti documenti (comprendenti la trascrizione delle audizioni
dinanzi al giudice) all’Autorità giurisdizionale dello Stato membro di residenza abituale del minore, o all’Autorità centrale di
esso. La ricezione di detti documenti deve avvenire entro un
mese dall’emanazione di detto provvedimento.
Tali atti, oggetto di trasferimento al giudice del foro della residenza abituale d’origine, serviranno a questo ultimo giudice
per valutare tutti gli elementi istruttori del caso, prima di adottare l’eventuale decisione di ritorno del minore.
Questi infatti, come già su indicato, deve tener conto delle
ragioni e degli elementi probatori sui quali sia stata fondata la
decisione contro il ritorno. Il fatto che egli abbia preso in considerazione tali elementi contribuirà a giustificare l’esecutività
della decisione, una volta che sia stata adottata.30
10. I provvedimenti di cui all’Articolo 15 del regolamento
n.2201/2003: trasferimento delle competenze a una autorità
giurisdizionale più adatta a trattare il caso
Il regolamento n.2201/2003 prevede all’art. 15 un’eccezione
alla regola generale stabilita nell’art. 8 dello stesso. L’art. 8 dispone - con riguardo alle domande relative alla responsabilità
genitoriale su un minore - la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente alla data in cui sono adite.
L’art. 15 prevede invece che:
1. In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato
membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro
con il quale il minore abbia un legame particolare sia più
adatto a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò
corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:
a) interrompere l’esame del caso o della parte in questione e
invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4, oppure
b) chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5.
2. Il paragrafo 1 è applicabile:
a) su richiesta di una parte o
b) su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o
c) su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato
membro con cui il minore abbia un legame particolare,
conformemente al paragrafo 3.
Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su
iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se
esso è accettato da almeno una delle parti.
3. Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno
Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro:
a) è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o
b) è la precedente residenza abituale del minore; o
c) è il paese di cui il minore è cittadino; o
d) è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o
e) la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore situati sul territorio di questo
Stato membro.
4. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a
conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere
adite conformemente al paragrafo 1.
Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua
ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14.
5. Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo
delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore
del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite
in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità
giurisdizionale preventivamente adita declina la propria
competenza. In caso contrario, la competenza continua ad
essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adito ai sensi degli articoli da 8 a 14.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 35
DOSSIER
6. Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53.
La norma in esame consente pertanto all’Autorità giudiziaria del foro competente d’origine, in presenza di una o più condizioni di cui al punto 3 della norma, di indirizzare le parti ad
un giudice di un altro Stato membro interrompendo l’esame
del caso (lett. a), ovvero di chiedere a tale altro giudice se ritenga la sua competenza, con riguardo alle domande relative
alla responsabilità genitoriale di un minore.
Tale scelta deve esser valutata con riferimento al caso concreto e deve rispondere all’interesse del fanciullo.
Un’applicazione di tale disposizione è stata effettuata nel
2008 dal Tribunale di Barcellona con riguardo al caso di un
bimbo la cui madre, di nazionalità peruviana, aveva vissuto tra
la Spagna e l’Italia, spostandosi frequentemente col figlio.31
La madre in particolare aveva risieduto col bimbo in Spagna
per circa un anno, ivi l’aveva iscritto all’asilo nido ed aveva condotto una vita regolare, aiutata dai parenti residenti anch’essi
a Barcellona. Il piccolo era stato poi condotto in visita al padre,
di nazionalità ecuadoriana, che lavorava in Italia.
Successivamente, madre e figlio rientravano in Spagna. Poi,
richiamati dal padre in Italia, vi avevano vissuto per periodi intermittenti di diversa durata facendo spesso rientro a Barcellona. Ciò fino a quando la donna aveva deciso di separarsi definitivamente dal compagno, di cui lamentava i maltrattamenti
e la ritenzione del figlio.
La donna aveva adito quindi il Tribunale di Barcellona chiedendo l’affidamento del bambino e la sua collocazione presso
di sé in Spagna.
Con un provvedimento emesso ai sensi dell’art. 15 del Regolamento citato, il Tribunale di Barcellona aveva chiesto ai giudici
italiani se si ritenessero competenti a decidere sulla domanda
di affidamento del bambino alla madre e di ritorno del piccolo
in Spagna.
Il Tribunale di Barcellona riteneva in particolare la sussistenza di due condizioni previste nel punto 3 dell’art. 15 del Regolamento Bruxelles bis II: quelle indicate alla lettera b) - giacché l’Italia era ad avviso dei giudici spagnoli la residenza abituale del minore - e alla lettera d) poiché in Italia era stata fissata la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità
genitoriale: il padre.
Il Tribunale per i Minorenni di Genova riteneva la propria
competenza, avuto riguardo alla sussistenza delle condizioni
di cui all’art. 15 punto 3 citate, valutando che l’Autorità giudiziaria italiana appariva quella più adatta a decidere il caso in
quanto il bimbo si trovava in Italia col padre e si sarebbero potuti accertare meglio gli interessi del bambino, grazie all’intervento dei servizi sociali territoriali, ed al più agevole ascolto del
minore.
La collaborazione tra le autorità giudiziarie italiana e spagnola avveniva direttamente, senza l’intervento delle autorità
centrali, agevolmente ed in tempi celeri, come previsto dall’art.
15 punto 6 del regolamento n. 2201/2003, ricorrendo alla reciproca traduzione degli atti.
Analogo caso di cooperazione è stato trattato dal Tribunale
per i Minorenni di Genova con l’Autorità giudiziaria polacca, relativamente ad un bimbo figlio di un cittadino italiano e di una
cittadina polacca, i quali, separatisi, avevano raggiunto un accordo secondo cui il piccolo avrebbe soggiornato presso il padre
durante il periodo estivo. Di fatto madre e figlio si trovavano in
Polonia ed il padre lamentava che l’ex compagna non aveva ottemperato a quanto previsto nell’accordo. Egli chiedeva al Tribunale l’affidamento esclusivo del figlio, assumendo la sua residenza abituale in Italia, prima che la madre nel settembre
2008 (ed entro l’anno dalla data del ricorso) lo portasse in Polonia. Indicava altresì che era pendente presso l’Autorità giudiziaria polacca un procedimento volto alla determinazione del
contributo al mantenimento del figlio da parte del padre, attivato dalla madre. Dall’esame degli atti della procedura polacca,
prodotti dal ricorrente, era emersa altresì la domanda proposta dalla stessa madre, in quel procedimento, circa la regolamentazione dei rapporti del bimbo con il genitore italiano.
Tuttavia, nel procedimento instaurato a Genova, gli assunti
del padre sulla residenza abituale del minore in Italia risultavano confusi e contradditori, così come i termini del riferito ac36 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
cordo non provato documentalmente. La madre, benché ritualmente citata, non si era costituita in giudizio.
Il Tribunale per i Minorenni di Genova aveva ritenuto sussistenti due delle condizioni previste dal punto 3 dell’art. 15, quali
quelle di cui alla lettera c), poiché il bambino era cittadino polacco, e alla lettera d) poiché in Polonia era stata fissata la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale: la madre.
Inoltre, la possibilità dell’Autorità giudiziaria polacca di assumere celermente informazioni più approfondite dai servizi
sociali locali, sulla condizione familiare e ambientale di crescita
del bimbo, aveva indicato l’opportunità della trattazione del
caso da parte dei giudici polacchi, come ipotesi maggiormente
rispondente all’interesse del minore.
Quindi il Tribunale polacco, tra l’altro già adito dalla madre
sulla determinazione del mantenimento economico del figlio
e dei rapporti di questi col genitore - in effettivo contradditorio
col padre - era stato considerato più adatto a decidere il caso.
Pertanto ai sensi dell’art. 15 del regolamento citato, il Tribunale per i Minorenni di Genova, aveva trasmesso ai giudici polacchi la richiesta volta ad ottenere una loro pronuncia sulla
competenza, che veniva da essi successivamente emessa in
senso affermativo.32
11. L’ascolto del minore
L’articolo 13 della Convenzione dell’Aia del 1980 prevede alla
lettera b) 2° comma che il ritorno del minore può esser rifiutato
qualora si accerti che il minore si oppone al rientro e che ha
raggiunto un’età ed un grado di maturità tali per cui sia opportuno tener conto del suo parere.
Con riguardo alla normativa europea l’art. 11 2° comma del
Regolamento CE 2201/2003 dispone specificamente che “Nell’applicare gli artt. 12 e 13 della Convenzione dell’Aja del 1980,
si assicurerà che il minore possa esser ascoltato durante il procedimento se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua
età e del suo grado di maturità”.
Più in generale, l’ascolto del minore, già stabilito dalla Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo, è ritenuto oggi
un adempimento necessario nei procedimenti che li concernono alla luce dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del
25.1.1996, ratificata con la L. n.77 del 2003 e della giurisprudenza dominante.
L’obbligo dell’ascolto del minore nei procedimenti che li riguardano deriva dunque da norme di carattere internazionale.
Tale audizione, pertanto, deve esser svolta salvo il caso in cui
possa essere in contrasto con i suoi interessi fondamentali, cosicché sussiste l’obbligo per il giudice di motivare l’eventuale
assenza di discernimento del minore che possa giustificarne
l’omesso ascolto.
A tale proposito, nel 2009, la Corte di Cassazione a Sezioni
Unite33 ha ribadito la necessità dell’audizione del minore, ad
eccezione dell’ipotesi in da essa possa derivare un danno al
bimbo.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha indicato che anche
“nel procedimento per il mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale, l’audizione del minore - benché non imposta dalla legge, in ragione del carattere urgente e meramente
ripristinatorio di tale procedura34 - è da ritenere anche in tale
procedimento, in genere, opportuna, se possibile”. Ciò è inoltre
specificamente previsto, dal Regolamento CE 2201/2003, relativamente a procedimenti che interessino cittadini degli Stati
membri dell’Unione europea.
Pertanto anche nell’ambito della procedura di rientro del minore il suo ascolto è in via di principio necessario al fine di poter valutare, ai sensi dell’art. 13, comma 2 della Convenzione
dell’Aia del 1980, l’eventuale opposizione del bambino al ritorno, salvo ragioni di inopportunità, in relazione all’età o al
grado di maturità e, a fortiori, di danno per quest’ultimo.35
Al riguardo la Corte di Cassazione ha cassato, con rinvio, un
decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano, in relazione
alla mancata audizione dei minori (sentenza in nota 34).
Nel caso di specie, ad avviso della Corte, i giudici minorili - oltre a non aver adeguatamente approfondito l’aspetto relativo
all’effettivo esercizio dei diritti ricompresi “nel diritto di affidamento” - non hanno sufficientemente motivato la decisione di
non procedere all’ascolto dei bambini, richiamando generica-
DOSSIER
mente ragioni di opportunità rinvenibili nella loro età e immaturità.
Tale motivazione è stata ritenuta, dai giudici di legittimità,
imprecisa e non supportata dalle risultanze istruttorie. Nello
specifico, la Corte di Cassazione ha considerato che l’età dei minori non ne precludeva l’ascolto. La stessa Corte ha altresì dissentito dalla valutazione di immaturità dei bambini, svolta dai
giudici di merito, osservando che non era confortata da elementi obiettivi e che era anzi smentita dagli ascolti già disposti ed attuati in diversa sede giudiziaria.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha dunque indicato
chiaramente come il giudice non possa limitarsi a generici richiami all’età del minore onde farne conseguire un giudizio di
immaturità, al fine di evitarne l’audizione.
L’analisi del giudice deve per contro esser approfondita e deve
essere altresì specifica, talché l’età non può esser valutata come
elemento di per sé atto a escludere l’ascolto ma vista in rapporto
a tutti gli elementi emersi nell’ambito dell’istruttoria, che contribuiscono a fornire indicazioni valide al giudice nella sua determinazione di procedere o meno all’audizione del bambino.
Non appare in contrasto con tale orientamento la recente
sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo36 già citata, ove si afferma che non costituisce una violazione della Convenzione la
circostanza che nel procedimento interno le autorità nazionali
abbiano ritenuto inopportuno sentire il minore, prima di adottare il provvedimento di ritorno.
Tale sentenza è in linea anche con la giurisprudenza della
Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ha affermato come
il diritto del bambino ad esser ascoltato “non” comporti la sua
“audizione in quanto tale, bensì la possibilità per il minore di
esser sentito” sempre che ciò sia opportuno in relazione alla
sua età e al suo grado di maturità (come si desume dall’art. 42
del Regolamento n. 2201/2003).37
È evidente tuttavia che la decisione di non procedere all’ascolto del bambino deve essere specificamente motivata anche con riferimento a tutti i dati istruttori.
La Commissione speciale per l’attuazione della Convenzione
dell’Aia, nella sua sesta riunione del giugno 2011, ha ribadito
tali principi nelle sue Conclusioni, affermando che deve esser
accolto con favore l’indirizzo di dare ai bambini, considerata la
loro età e maturità, la possibilità di essere ascoltati nei procedimenti di ritorno, indipendentemente dal fatto che la difesa
sia stata fondata ai sensi dell’articolo 13 (2).
La Commissione Speciale ha constatato che gli Stati parti
adottano approcci diversi nel loro ordinamento interno quanto
alle modalità in cui le opinioni del minore possono esser raccolte ed introdotte nel procedimento.
Ha sottolineato comunque l’importanza di garantire che la
persona che parla al bambino, che sia il giudice, un esperto indipendente o qualsiasi altra persona, sia, per quanto possibile,
dotata di una formazione adeguata a tale compito. Si è inoltre
indicata la necessità che i bambini siano informati, a seconda
dell’età e del grado di maturità, del processo in corso e delle
possibili conseguenze.
La Commissione Speciale ha rilevato altresì che un numero
crescente di Stati prevedono, in casi di sottrazione, la possibilità di un rappresentante legale distinto del minore.
È da ritenere quindi auspicabile che il giudice procedente si
avvalga del supporto di un consulente o di un esperto (psicologo, pedagogo) che possa essergli d’ausilio nella formulazione
delle domande al bambino e nella conduzione dell’udienza,
onde evitare e/o superare sue possibili reazioni di chiusura.
Si è appurato, in particolare, che il ricorso a forme grafiche e
di disegno è una valida strategia di ascolto, in grado di fornire
concrete indicazioni di lettura (secondo valenze ormai verificate dagli specialisti) dello stato d’animo e della condizione del
bambino.
È inoltre importante che sia spiegato al minore il proprio
ruolo ed il significato degli incontri col giudice e con l’esperto.
Occorre evitare domande induttive o con modalità ambivalenti, squalificanti o neganti, in quanto interferiscono e ostacolano marcatamente la relazione con il minore.
L’uso di un linguaggio semplice e chiaro, implica domande
brevi e aperte al fine di favorire risposte ampie e libere.
Inoltre è opportuno rivolgere al minore domande sugli
aspetti emotivi legati ai contenuti del colloquio e domande di
chiarificazione (se necessario) specificando che si vuol capire
bene (onde evitare influenze di suggestione positiva o negativa).
È infatti importante non dimenticare che “la psiche infantile
è sotto l’egida delle emozioni e non del costrutto logico-formale: pertanto la credibilità e la plausibilità della narrazione di
un minore.. non deve far riferimento ai parametri degli adulti,
bensì alle competenze specifiche dell’età”.
È quindi conseguente a tali indicazione anche l’opportunità
dell’osservazione “degli atteggiamenti, del comportamento, dei
gesti, del gioco, del linguaggio del minore al fine di comprenderne a fondo le modalità senso percettive, attentive, mnemoniche, di pensiero e il loro significato”.38
12. Cooperazione Internazionale e Sottrazione Internazionale
di minori: la comunicazione giudiziale diretta tramite la rete
dei Giudici dell’Aia
Il Network dei Giudici dell’Aia fornisce un valido strumento
di comunicazione tra i Giudici dei diversi Stati interessati da
casi di sottrazione internazionale di minori.
La funzione di questi giudici di contatto è quella di fungere
da intermediari tra il giudice nazionale adito e l’autorità giudiziaria ove si ritiene si trovi il minore, o più semplicemente tra
le autorità giudiziarie degli Stati membri di cui le parti sono cittadine.
In queste ipotesi il giudice che vuole chiedere la cooperazione dell’autorità giudiziaria straniera può contattare direttamente uno dei giudici facenti parte della lista dei membri della
rete e domandare un contatto con detta autorità.
È possibile attivare tale contatto anche per mezzo dell’Autorità Centrale.
Ogni giudice, a tal fine, deve rivolgersi alla propria Autorità
Centrale Nazionale.
Può rivestire particolare importanza entrare in comunicazione con il giudice straniero al fine di verificare se le misure
che il giudice interessato intende disporre possano essere eseguite e siano esistenti nell’ordinamento straniero ove devono
esser applicate.
Ciò ad esempio, nel caso in cui sia necessario adottare delle
misure di protezione nei confronti del figlio (e se del caso anche
della madre) da eventuali violenze domestiche.
Ogni Stato firmatario della Convenzione dell’Aia del 1980 dovrebbe nominare un magistrato quale giudice di contatto nel
proprio paese al fine di agevolare la cooperazione nel senso
suindicato.
Qualora siano necessarie informazioni sul caso, il giudice nazionale può anche attivare una comunicazione diretta con il
collega straniero.
Normalmente il giudice straniero non comunica con le parti.
Le parti comunque devono esser poste a conoscenza della
comunicazione intercorrente tra egli ed il collega straniero o il
magistrato di contatto della rete Aia.
In tal caso è opportuno che tali comunicazioni avvengano
per iscritto.
In questo modo le parti possono accedere a tali atti.
La forma scritta riveste nel caso specifico una reale garanzia
di trasparenza e di rispetto del contradditorio che deve esser
salvaguardata.
Se il caso lo richiede, è possibile anche prevedere che le parti
prendano parte alla comunicazione tra i giudici dei diversi Stati
interessati.
Nel gennaio 2009 si è tenuta a Bruxelles una riunione volta
ad ampliare e rafforzare il Network dei Giudici dell’Aia. In tale
occasione, a conclusione dell’incontro, sono state formulate
delle Raccomandazioni agli Stati contraenti. Tra esse, in particolare, quella che indica ad ogni Stato parte della Convenzione
la necessità di nominare un Magistrato di Collegamento nell’ambito della rete Aia.
È stato altresì raccomandato l’incremento della diretta collaborazione tra i giudici dei diversi Stati della Convenzione attraverso la conoscenza del ruolo svolto dalla rete e la sensibilizzazione degli operatori giuridici coinvolti.39
La Commissione speciale per l’attuazione della Convenzione
dell’Aia nella sesta riunione del giugno 2011 ha constatato con
favore, nelle sue Conclusioni, la straordinaria crescita della Rete
internazionale dei giudici dell’Aja, avvenuta tra il 2006 e il 2011,
ed attualmente composta da 65 giudici provenienti da 45 Stati.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 37
DOSSIER
Gli Stati che non hanno ancora nominato i giudici della Rete
dell’Aia sono stati inoltre incoraggiati a farlo al più presto.
La Commissione ha valutato positivamente l’adozione di misure, sia a livello nazionale che regionale, da parte di alcuni
Stati e delle organizzazioni regionali per la realizzazione di reti
giudiziarie e la promozione di comunicazioni giudiziarie.
È stata altresì sottolineata l’importanza delle comunicazioni
dirette giudiziarie, nell’ambito delle procedure relative alla tutela internazionale dei minori e alla sottrazione internazionale
di minori.
Note
1
V. Cass. Sez. I, 15.2.2008 n. 3798.
2
La Convenzione all’art. 3 precisa infatti che: “il trasferimento o il mancato rientro di un minore è ritenuto illecito: a) quando
avviene in violazione dei diritti di custodia assegnati a una persona, istituzione o ogni altro ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato nel quale il minore aveva la sua residenza abituale immediatamente prima del
suo trasferimento o del suo mancato rientro e: b) se tali diritti vanno effettivamente esercitati, individualmente o congiuntamente, al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro, o avrebbero potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze. Il diritto di custodia, citato al capoverso a) di cui sopra può in particolare derivare direttamente dalla legge,
da una decisione giudiziaria o amministrativa, o da un accordo in vigore in base alla legislazione del predetto Stato”.
3
V. Corte di Cassazione - Sezione I civ., sentenza del 20 gennaio-21 marzo 2005, n. 6014.
4
V. Decreto del Tribunale per i Minorenni di Genova del 21.11.08, nel procedimento n. 913/08 V.G. Presidente Sansa, Rel. Atzeni.
5
V. Cassazione - Sezione I civ., sentenza 20 gennaio-21 marzo 2005, n. 6014.
6
V. Cassazione sez. I, Sentenza del 19.05.2010 n. 12293 rinvenibile in: www.minoriefamiglia.i
7
In tal senso v. anche la sentenza della Corte Giustizia dell’11 luglio 2008, causa C -195/08, Rinau, punti dal 51 al 52 della motivazione.
8
Conclusioni del Workshop tenuto, nell’ambito dell’Iniziativa della Rete Europea della Formazione Giudiziaria, a Barcellona il
10-12 giugno 2009 sul tema “La sustracciòn internacional de menores: los nuevos desafìos”.
9
V. sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo del 12.07.2011 sez. II, ricorso n. 14737 Sneersone e Kampanella contro Italia.
10
V. Sentenza della Grande Chambre della Corte dei Diritti dell’uomo, n. 41615/07, del 6 luglio 2010, caso Neulinger Shuruk contro Svizzera.
11
V. Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del
1980 e del 1996, a seguito della sua sesta riunione del 01-10 giugno 2011: http<Nessuno(a)>://www.hcch.net/upload/
concl28sc6_e.pdf
12
V. punto 47 e seg. delle Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, a seguito della sua riunione del 01-10 giugno 2011, tenutasi all’Aia.
13
V. punto 45 delle Conclusioni e raccomandazioni della Commissione speciale per il funzionamento pratico della Convenzione dell’Aia del 1980 e del 1996, a seguito della sua riunione del 01-10 giugno 2011, tenutasi all’Aia.
14
v. Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, III Sez., 1° luglio 2010, causa C-211/10 (Presidente Lenaerts; Relatore
Juhàsz) il cui testo integrale è consultabile sui siti: www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com e www.curia.europa.eu.
15
In tal senso v. anche la sentenza della Corte Giustizia dell’11 luglio 2008, causa C -195/08, Rinau, punti dal 51 al 52 della motivazione.
16
V. ancora la sentenza Rinau cit., punti 63 e 64 della motivazione.
17
V. punto 58 della sentenza della Corte giust. 1° luglio 2010, causa C-211/10.
18
V. punto 59 della sentenza della Corte giust. 1° luglio 2010, causa C-211/10.
19
L’art. 47 cit. recita: «1. Il procedimento di esecuzione è disciplinato dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione. - 2. Ogni
decisione pronunciata dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro e dichiarata esecutiva ai sensi della sezione 2 o certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, è eseguita nello Stato membro dell’esecuzione
alle stesse condizioni che si applicherebbero se la decisione fosse stata pronunciata in tale Stato membro. In particolare una
decisione certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, non può essere eseguita se è incompatibile con una decisione esecutiva emessa posteriormente».
20
V. punto 83 della sentenza della Corte di Giustizia citata, del 1° luglio 2010, C- 211-10.
21
V. sentenza della Corte di Giustizia del 23 dicembre 2009, causa C- 403/09 PPU, Deticek contro Sgueglia.
22
Caso H28 (1788) Spagna - Olanda, oggetto di studio nel Workshop tenuto, nell’ambito dell’Iniziativa della Rete Europea della
Formazione Giudiziaria, a Barcellona il 10-12 giugno 2009 su “La sustracciòn internacional de menores: los nuevos desafìos”.
23
Caso H 28 (2047) Spagna- Germania oggetto di studio nel Workshop di cui alla nota precedente.
24
V. la Relazione di Maria Isabel TOMAS GARCIA, (Giudice del Tribunale di prima istanza di Barcellona) “Family mediation involving International child abduction cases. International experience and applicable models, svolta al Workshop citato.
25
“Reunite” è un’organizzazione senza fine di lucro che nacque nel Regno Unito e che è specializzata nella sottrazione internazionale dei minori i cui obbiettivi essenziali sono: fornire informazioni e appoggio ai genitori e ai familiari di minori sottratti, fornire informazioni legali dei distinti paesi e offrire mediazione in caso di sottrazione internazionale di minori. Tale
organizzazione offre un servizio di contatto telefonico 24 ore su 24: tel+44(0) 116 2555 345, fax: +44 (0) 116 2556 370 e pag web:
www.reunite.org.
26
v. Analysis on assessment of the impact of Council of Europe recommendations concerning mediation, nel sito: www.coe.
int/t/dghl/cooperation/cepej/mediation/default_en.asp
27
Informazioni più dettagliate sono inoltre reperibili dall’utente sul sito www.mediation-justice.be.
28
Casi citati dal Giudice Maria Isabel Tomas Garcia nella sua Relazione al Workshop citato (per maggiori informazioni
www.foundchild.org.ar).
29
In tal senso V. la relazione del Giudice Jacques Keltjes, del Tribunale del distretto dell’Aia, svolta al Workshop “Sustraccion internacional de menores: los nuevos ritos”.
30
V. punto 59 della sentenza della Corte di Giustizia sul caso Rinau, più volte citata.
31
V. Decreto del 31 marzo 2008 nel procedimento n. 281/07 V.G., Presidente Sansa, Rel. Atzeni, pubblicato in “Nuova Giurisprudenza Ligure”.
32
V. Decreti del 25.08.2008 e dell’11.12.2009 nel procedimento n. 997/07 V.G., Presidente Sansa, Rel. Atzeni, pubblicati in “Nuova
Giurisprudenza Ligure”.
33
V. Cassazione, Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238.
34
V. Cassazione del 4.4.2007 n. 8481.
35
V. Cassazione sez. I, Sentenza del 19.05.2010 n. 12293 rinvenibile in www.minoriefamiglia.it.
36
V. sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo del 12.07.2011, ricorso n. 14737, caso Sneersone e Kampanella contro Italia.
37
V. Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 22.12.2010 causa C- 491/10 Zarraga.
38
Tali principi generali in tema di ascolto del minore sono contenuti nelle Linee Guida dell’Ordine degli Psicologi del Lazio che
ha affrontato nello specifico le ipotesi di perizie in caso di abuso sui minori.
39
V. Relazione di Philippe Lortie, Primo Segretario della Conferenza dell’Aia, svolta ai lavori del “Workshop Sustraccion internacional de menores: los nuevos ritos”. Inoltre una lista dei membri della rete citata è allegata al presente articolo.
38 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Trib. Monza 5/11/2004; Trib. Milano 24/09/2002; Trib.
Firenze 13/06/2000 e Cass. 10/05/2005 n. 9801).
Oggi da più parti si segnala la necessità di por
mano ad una riforma del sistema che permetta anzitutto il superamento del concetto di addebito, misura sempre meno riconosciuta dalle corti di merito,
verso un più moderno e soddisfacente sistema di responsabilità civile.
Le nuove misure contro la violenza (artt. 342-bis,
342-ter c.c. e 736-bis cpc) ed i recenti rimedi introdotti per contrastare le frequenti violazioni (art. 709ter c.c. e 614-bis cpc) confermano la necessità per
l’ordinamento di un nuovo paradigma unitario d’intervento che assegni al giudice della famiglia la cognizione di tutte le controversie che vedono coinvolti i componenti il nucleo familiare (sia esso rappresentato dalla famiglia legittima o naturale).
L’ultima pronuncia della Cassazione, la n. 18853
del 15/09/2011, lungi dal risolvere l’annoso problema
della compatibilità tra le regole che presiedono alla
responsabilità civile ed il processo di famiglia, sembra piuttosto complicarlo.
Il principio alla base di quest’ultima pronuncia è
che l’azione per il riconoscimento dei danni arrecati
dal comportamento del coniuge è svincolata ed autonoma rispetto alla pronuncia della separazione,
potendo conseguire anche ad una separazione consensuale, senza che il titolo della separazione (giudiziale, giudiziale con addebito o consensuale) condizioni l’esercizio della diversa azione risarcitoria.
L’attrice, che pure era pervenuta alla trasformazione della separazione da giudiziale con richiesta
di addebito a consensuale, aveva avviato un successivo giudizio basato sostanzialmente sui medesimi
fatti che avevano dato origine alla richiesta di separazione: l’infedeltà conclamata del marito, esercitata con modalità particolarmente penose per la
parte incolpevole.
L’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Genova (del 20/05/2006, su www.avvocatidifamiglia.
net), pur confermando il rigetto della domanda dell’attrice pronunciato dal giudice di prime cure (Tribunale di Savona, Sezione Distaccata di Albenga), ne
aveva modificato le ragioni fondanti.
Se il primo giudice aveva ritenuto insussistente
un diritto soggettivo in capo alla moglie vittima dei
comportamenti infedeli del marito, la Corte d’Appello ha ritenuto invece che la sua domanda di
danni, pur astrattamente riconoscibile, in virtù dell’ormai conquistata risarcibilità dei danni ingiusti
anche nell’ambito delle relazioni familiari, non
possa trovare nella specie accoglimento, in quanto
contrastante con l’espressa rinuncia ad indagare le
cause del fallimento del matrimonio, per avere l’attrice in precedenza aderito ad una pronuncia di separazione consensuale.
Se da un lato l’affermazione della Suprema Corte
della piena risarcibilità dei danni ulteriori, non ne-
cessariamente connessi alle ragioni della separazione, può considerarsi in linea con le più moderne
istanze di riconoscimento della responsabilità anche in ambito familiare, dall’altro tuttavia l’aver
svincolato l’analisi dei presupposti dell’azione dalle
cause della separazione, ripropone l’insoluto problema dell’ammissibilità dell’azione di danno all’interno del processo di famiglia.
Resta in sostanza prospettato un doppio binario,
con buona pace delle esigenze di concentrazione
delle tutele e di economia di giudizio; un doppio sistema fatto di regole autonome e non comunicanti:
quello dei diritti e doveri matrimoniali, con propri
rimedi, quelli riconducibili al concetto di separazione con addebito, e quello della responsabilità civile, con presupposti che oggi si rifanno alla possibile lesione grave di un interesse fondato su garanzie costituzionali.
Una pronuncia che lascia perplessi in ordine alla
effettività della tutela risarcitoria, in funzione della
quale si auspica un unico giudice ed un più coordinato ambito d’intervento.
IL PUNTO DI VISTA
di CESARE FOSSATI
AVVOCATO DEL FORO DI GENOVA
Non è necessaria la pronuncia di addebito
della separazione per chiedere i danni
al coniuge infedele
Una nuova pronuncia della Corte di legittimità in
tema di responsabilità civile all’interno dei rapporti
familiari, in una materia rispetto alla quale il legislatore ha sempre mostrato insofferenza ad intervenire, nella convinzione di non poter giudicare ambiti così intimi e personali.
Per tutto il secolo scorso i comportamenti fonte di
sola responsabilità civile, con esclusione quindi
delle fattispecie aventi rilevanza penale, tenuti dai
componenti della famiglia in danno di un congiunto, sono rimasti per lo più ricompresi nelle
norme afferenti i diritti e doveri dei coniugi (artt. 143
e segg. c.c.), esclusi dalle norme che presidiano gli
illeciti civili, restando di fatto impuniti.
Nel testo originario del codice civile, nel regime di
indissolubilità del matrimonio, la separazione era
l’unica sanzione tipica prevista per il coniuge venuto meno ai suoi doveri matrimoniali.
L’art. 151 c.c. prevedeva che i comportamenti consistenti in: adulterio, abbandono, sevizie, eccessi,
minacce o ingiurie gravi, fossero punibili unicamente con l’istanza di separazione per colpa.
Dapprima la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 127 del 1968, quindi la riforma del diritto di famiglia del 1975, condussero alla modifica dei presupposti per giungere alla separazione, e sostituirono il concetto di “colpa” con quello di “addebito”.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 39
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Mutarono le stesse condizioni per addivenire alla
separazione, le quali vennero svincolate dal concetto di sanzione: si passò dalla separazione come
reazione a comportamenti personali pregiudizievoli,
alla separazione per fatti tali da rendere intollerabile la convivenza, ovvero da arrecare pregiudizio all’educazione della prole.
L’addebito restava tuttavia la sanzione ancora una
volta tipica ed esaustiva delle conseguenze dei comportamenti dei coniugi nel corso del rapporto matrimoniale.
Una sanzione tuttavia del tutto inadeguata a fornire tutela al coniuge debole, avendo riflessi solo in
negativo rispetto al coniuge responsabile del comportamento addebitato: il venir meno del diritto all’assegno di mantenimento (esclusi gli alimenti),
così come dei diritti successori.
Effetti invero modesti e spesso privi di concreta
efficacia preventiva o punitiva, se solo si considera
che nella maggior parte dei casi il soggetto responsabile è anche quello dotato di capacità economica,
in genere indifferente alla domanda di mantenimento.
Per questo motivo per lungo tempo si è parlato del
diritto di famiglia come di un “sistema chiuso”: in
base a tale prospettazione i diritti e doveri che discendono dal matrimonio troverebbero tutela solo
all’interno delle norme che li disciplinano.
Dottrina e giurisprudenza hanno così avuto buon
gioco a sostenere che il legislatore avrebbe regolato
le conseguenze delle violazioni “domestiche” solo
all’interno degli istituti del diritto familiare.
Occorre dar conto che la giurisprudenza prevalente ha mantenuto forti resistenze all’ingresso nel
processo di famiglia di domande ulteriori, diverse
da quelle strettamente connesse agli status (in questo senso si pongono, ad esempio, le pronunce di
Cass. n. 3367/1993 e 4108/1993).
Siamo quindi in presenza di strumenti di reazione
diversificati e sostanzialmente difformi: alla cognizione del giudice della famiglia sono ricondotte le misure tipiche del diritto di famiglia (separazione, addebito, assegnazione della casa, affidamento dei figli,
etc.); al giudice ordinario le questioni patrimoniali e
gli illeciti civili; al giudice penale le violazioni più gravi.
È stato lento il cammino per il riconoscimento
della risarcibilità degli illeciti all’interno delle relazioni familiari; ancora lungi dal poter essere considerato un obbiettivo raggiunto.
Poche isolate pronunce hanno dapprima iniziato
a riconoscere astrattamente e solo potenzialmente
l’esercizio dell’azione per la responsabilità aquiliana
anche in ambito familiare (tra queste: Cass. 5866/
1995 e Cass. 10/5/2005 n. 9801).
Imprescindibile naturalmente il riferimento alla
pronuncia che ha costituito il paradigma per il riconoscimento del danno non patrimoniale, vale a dire
Cass. SS.UU. 26972/2008, in forza della quale l’art.
40 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
2054 c.c. è applicabile nei casi di: reato; danno non
patrimoniale espressamente previsto da leggi speciali; lesione grave a diritti inviolabili costituzionalmente garantiti.
Quest’ultima è la fattispecie utilizzata per dare ingresso alla risarcibilità di un danno, che non è da intendersi come elemento riparatorio, quanto piuttosto come deterrente e sanzionatorio.
Va segnalato come non sia ancora così diffuso e
pertanto riconoscibile come diritto acquisito quell’orientamento giurisprudenziale che ammette
l’azione di risarcimento danni all’interno del processo di famiglia (si possono segnalare: Trib. Venezia, 14/05/2009 n. 9234 in www.dirittoeprocesso.
com; Trib. Monza 5/11/2004; Trib. Milano 24/09/2002;
Trib. Firenze 13/06/2000 e Cass. 10/05/2005 n. 9801).
Oggi da più parti si segnala la necessità di por
mano ad una riforma del sistema che permetta anzitutto il superamento del concetto di addebito, misura sempre meno riconosciuta dalle corti di merito,
verso un più moderno e soddisfacente sistema di responsabilità civile.
Le nuove misure contro la violenza (artt. 342-bis,
342-ter c.c. e 736-bis cpc) ed i recenti rimedi introdotti per contrastare le frequenti violazioni (art. 709ter c.c. e 614-bis cpc) confermano la necessità per
l’ordinamento di un nuovo paradigma unitario d’intervento che assegni al giudice della famiglia la cognizione di tutte le controversie che vedono coinvolti i componenti il nucleo familiare (sia esso rappresentato dalla famiglia legittima o naturale).
L’ultima pronuncia della Cassazione, la n. 18853
del 15/09/2011, lungi dal risolvere l’annoso problema
della compatibilità tra le regole che presiedono alla
responsabilità civile ed il processo di famiglia, sembra piuttosto complicarlo.
Il principio alla base di quest’ultima pronuncia è
che l’azione per il riconoscimento dei danni arrecati
dal comportamento del coniuge è svincolata ed autonoma rispetto alla pronuncia della separazione,
potendo conseguire anche ad una separazione consensuale, senza che il titolo della separazione (giudiziale, giudiziale con addebito o consensuale) condizioni l’esercizio della diversa azione risarcitoria.
L’attrice, che pure era pervenuta alla trasformazione della separazione da giudiziale con richiesta
di addebito a consensuale, aveva avviato un successivo giudizio basato sostanzialmente sui medesimi
fatti che avevano dato origine alla richiesta di separazione: l’infedeltà conclamata del marito, esercitata con modalità particolarmente penose per la
parte incolpevole.
L’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Genova (del 20/05/2005, su www.avvocatidifamiglia.
net), pur confermando il rigetto della domanda dell’attrice pronunciato dal giudice di prime cure (Tribunale di Savona, Sezione Distaccata di Albenga), ne
aveva modificato le ragioni fondanti.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
I NONNI NON HANNO
DIRITTO DI INTERVENTO
NEL PROCESSO DI
SEPARAZIONE NÉ SONO
TITOLARI DI UN
AUTONOMO DIRITTO DI
VISITA
I
Cass. civ. Sez. I, 27/12//2011, n. 28902
I nonni non possono intervenire
nel processo di separazione
Se il primo giudice aveva ritenuto insussistente
un diritto soggettivo in capo alla moglie vittima dei
comportamenti infedeli del marito, la Corte d’Appello ha ritenuto invece che la sua domanda di
danni, pur astrattamente riconoscibile, in virtù dell’ormai conquistata risarcibilità dei danni ingiusti
anche nell’ambito delle relazioni familiari, non
possa trovare nella specie accoglimento, in quanto
contrastante con l’espressa rinuncia ad indagare le
cause del fallimento del matrimonio, per avere l’attrice in precedenza aderito ad una pronuncia di separazione consensuale.
Se da un lato l’affermazione della Suprema Corte
della piena risarcibilità dei danni ulteriori, non necessariamente connessi alle ragioni della separazione, può considerarsi in linea con le più moderne
istanze di riconoscimento della responsabilità anche in ambito familiare, dall’altro tuttavia l’aver
svincolato l’analisi dei presupposti dell’azione dalle
cause della separazione, ripropone l’insoluto problema dell’ammissibilità dell’azione di danno all’interno del processo di famiglia.
Resta in sostanza prospettato un doppio binario,
con buona pace delle esigenze di concentrazione delle
tutele e di economia di giudizio; un doppio sistema
fatto di regole autonome e non comunicanti: quello
dei diritti e doveri matrimoniali, con propri rimedi,
quelli riconducibili al concetto di separazione con addebito, e quello della responsabilità civile, con presupposti che oggi si rifanno alla possibile lesione grave
di un interesse fondato su garanzie costituzionali.
Una pronuncia che lascia perplessi in ordine alla
effettività della tutela risarcitoria, in funzione della
quale si auspica un unico giudice ed un più coordinato ambito d’intervento.
Svolgimento del processo
l - Nei giudizi riuniti di separazione personale
pendenti davanti al Tribunale di Roma, separatamente proposti dai coniugi M. T. ed E. R. con reciproche richieste di addebito, interveniva in data 30
ottobre 2002 l’ing. A. T., rispettivamente padre e suocero dei predetti, manifestando la propria disponibilità a rendersi affidatario dei nipoti minorenni F. e
C. T. e chiedendo, comunque, una regolamentazione
degli incontri degli stessi con i nonni paterni.
1.1 - Con sentenza n. 29279 in data 9/28 ottobre
2004 il Tribunale, pronunciando con sentenza non definitiva la separazione personale dei coniugi, dichiarava altresì inammissibile l’intervento dell’ing. T.
1.2 - Costui proponeva appello avverso tale decisione, contestando la fondatezza della pronuncia di
inammissibilità del proprio intervento, giustificato
sia dal rilievo attribuito dalla nuora, nelle proprie difese, al comportamento dei nonni paterni nei confronti della prole, sia, in ogni caso, dall’esercizio del
diritto di visita.
1.3 - La Corte di appello di Roma, con la decisione
indicata in epigrafe, rigettava l’appello, ponendo in
evidenza come nel giudizio di separazione personale la qualità di parte spetti esclusivamente ai coniugi, e non può essere riconosciuta ai loro parenti,
neppure al limitato fine di meglio tutelare gli interessi dei figli minori.
1.3 - Avverso tale decisione propone ricorso l’ing.
A.T., deducendo quattro motivi. Le parti intimate
non svolgono attività difensive. Il Collegio ha disposto la motivazione in forma semplificata.
Motivi della decisione
2 - Con il primo motivo si deduce violazione e
falsa applicazione degli artt. 150 e 155 cod. civ., dell’art. 105 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3 c.p.c., per non aver la corte territoriale
considerato che le novellate disposizioni in materia
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 41
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
di affidamento della prole, nel prevedere il diritto
dei figli minori di conservare rapporti significativi
con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale, determinano i presupposti per la legittimità dell’intervento di questi ultimi nel giudizio di
separazione personale dei coniugi, allo scopo di ottenere, come nel caso, l’affidamento della prole o,
comunque, e sempre nell’interesse della stessa, una
congrua regolamentazione degli incontri fra nonni e
nipoti.
2.1 - Viene in proposito formulato il seguente quesito di diritto: “È ammissibile, nel procedimento di
separazione giudiziale fra coniugi, in base al combinato disposto degli atto 150 IV 155 c.c., quest’ultimo
come novellato dall’art. 1 della l. 8 febbraio 2006, n.
54, l’intervento volontario, principale o autonomo,
in applicazione dell’art. 105 c.p.c., dell’ascendente,
il quale formuli al giudice adito, laddove quest’ultimo dovesse ritenere sussistenti presupposti giuridici dell’affidamento della prole a terzi, la domanda
di affidamento dei figli minori dei coniugi separandi
e, in ogni caso, la domanda di fissazione di giorni ed
orari di incontri dei figli minori con il medesimo
ascendente, a garanzia della conservazione dei rapporti significati vi di cui al comma l dell’art. 155 c.c.
citato?”.
2.2 Al quesito deve darsi, sulla scorta dell’attuale
assetto del diritto positivo, risposta negativa, con
correlato giudizio di infondatezza del relativo motivo. Soccorre in proposito l’orientamento, che il Collegio condivide, ed al quale, anzi, intende dare continuità, secondo cui l’art. 1, comma primo, della
legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha novellato l’art.
155 cod. civ., nel prevedere il diritto dei minori, figli
di coniugi separati, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo
genitoriale, affida al giudice un elemento ulteriore
di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione di provvedimenti da adottare in tema di
affidamento, nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata,
ma non incide sulla natura e sull’oggetto dei giudizi
di separazione e di divorzio e sulle posizioni e i diritti delle parti in essi coinvolti, e non consente pertanto di ravvisare diritti relativi all’oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento dei nonni o di altri familiari,
ai sensi dell’art. 105 cod. proc. civ., ovvero un interesse degli stessi a sostenere le ragioni di una delle
parti, idoneo a fondare un intervento “ad adiuvandum”, ai sensi dell’art. 105, comma secondo, cod.
proc. civ. (Cass., 16 ottobre 2009, n. 22081).
Mette conto in questa sede di ribadire che la novelIa invocata dal ricorrente sotto un certo profilo
recepisce un principio già ritenuto sussistente in
ambito giurisprudenziale (Cass., 24 febbraio 1981, n.
1115; Cass., 25 settembre 1998, n. 9606), formulato,
tuttavia, in termini generici, senza contenere alcun
42 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
riferimento alla posizione soggettiva degli ascendenti e degli altri parenti. Il loro interesse indiretto,
di natura morale o affettiva, affinché sia realizzato
il diritto dei minori a conservare quei rapporti di natura familiare certamente indispensabili sul piano
psicologico non ottiene, quindi, una valorizzazione
tale da farlo assurgere a posizione soggettiva direttamente tutelabile, e quindi in alcun modo è ipotizzabile un intervento principale o litisconsortile.
Del pari non può realizzarsi nei giudizi di separazione e di divorzio con le forme dell’intervento, sia
pure adesivo dipendente, in considerazione della
funzione e dell’oggetto di tali giudizi (con evidente
carenza di quella connessione pure richiesta dall’art. 105 c.p.c.) e, soprattutto, della mancata assunzione, da parte dei minori portatori dell’interesse tutelato, della formale qualità di parte (cfr. Cass., 17
gennaio 1996, n. 364). In altri termini, in assenza di
un dato normativo che autorizzi un’iniziativa sul
piano giudiziario degli ascendenti, come avviene nei
giudizi “de potestate” (art.336, c. lo, c.c.), non è consentito l’intervento degli stessi nei giudizi di separazione e di divorzio, nei quali la posizione dei minori è tutelata sotto forme - ritenute legittime anche dal giudice delle leggi. (Cass. n. 185 del 1986), che
non prevedono la loro assunzione della qualità di
parte, né uno specifico diritto di difesa, come avviene nei procedimenti di adozione. D’altra parte,
una lettura sistematica del quadro normativo, alla
luce delle norme che disciplinano la revisione delle
condizioni della separazione (art. 155 ter c.c.; art. 710
c.p.c.) e che sono intese a dirimere i conflitti fra genitori (art. 709 ter c.p.c.), induce a ritenere che questi ultimi siano gli unici soggetti cui è affidata la legittimazione sostitutiva all’esercizio dei diritti dei
minori.
(omissis)
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
II
Cass. civ. Sez. I, 11/08/2011, n. 17191
Presidente Gabriella Luccioli
Relatore Andrea Scaldaferri
L’art. 1, comma primo, della legge 8 febbraio 2006,
n. 54, che ha novellato l’art. 155 cod. civ.,
nel prevedere il diritto dei minori, figli di coniugi
separati, di conservare rapporti significativi con gli
ascendenti (ed i parenti di ciascun ramo genitoriale),
non attribuisce ad essi un autonomo diritto di visita
Svolgimento del processo
1. Nel settembre 2000 M.C., premesso che nell’ottobre 1995 aveva contratto matrimonio con C.R. e
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
dall’unione era nata nell’aprile 1996 la figlia D., proponeva domanda di separazione con addebito al coniuge; il quale a sua volta, costituendosi, chiedeva
addebitarsi alla M. la responsabilità del fallimento
dell’unione coniugale. Il Tribunale di Cremona, sentiti testimoni, acquisite informazioni ed espletata
c.t.u., con sentenza del 2 novembre 2006 pronunciava la separazione, respingeva entrambe le domande di addebito, affidava ad entrambi i genitori la
figlia D. disponendo che essa coabitasse con la madre e regolando il diritto di visita del padre, a carico
del quale poneva l’obbligo di versamento, a titolo di
contributo al mantenimento della figlia, della
somma di Euro 250,00 mensili, oltre al 50% delle
spese straordinarie.
2. L’appello proposto dalla M. - al quale resisteva il
C. proponendo appello incidentale - veniva parzialmente accolto dalla Corte d’appello di Brescia, che
addebitava la separazione al C., affidava in via esclusiva la figlia D. alla madre, regolava in misura più
contenuta il diritto di visita del padre, ed aumentava a Euro 350,00 mensili (oltre aggiornamenti di
legge e 50% delle spese straordinarie) il contributo
a carico di quest’ultimo al mantenimento della figlia. Osservava la Corte che dai comportamenti del
C. e dei suoi genitori risultanti dai rapporti di servizio e dalle relazioni redatti dai Carabinieri intervenuti più di una volta nella vicenda matrimoniale
prima della separazione- nonché dalla documentazione relativa ai comportamenti dei coniugi successivi al ricorso per la separazione, emergevano manifestazioni di sostanziale disprezzo per la M. da
parte di tutti i membri della famiglia C.. Manifestazioni che, per la disinvoltura con la quale erano state
poste in essere e per la loro gravità, non consentivano di ritenere che si fosse trattato di esternazioni
occasionali, estemporanee ed improvvise, e facevano invece ritenere verosimile che esse fossero
frutto di un prolungato e graduale deterioramento
dei rapporti favorito dalla contiguità abitativa tra le
due famiglie. Tali elementi, valutati complessivamente, giustificavano secondo la Corte l’addebito
della separazione al C., il quale, abdicando alla tutela della autonomia del proprio nucleo familiare e
della dignità della propria moglie e mantenendo
una condotta che confermava la valutazione compiuta dai consulenti d’ufficio circa l’esistenza di una
sua dipendenza non ancora risolta con la madre,
aveva violato l’obbligo, previsto dall’art. 143 cod.civ.,
di assistenza morale dovuta alla moglie. Tale contesto, osservava inoltre la Corte alla luce delle relazioni dei consulenti d’ufficio e del servizio pubblico
di assistenza famigliare, sconsigliava il ricorso all’affidamento condiviso (che richiede, oltre a un accordo sugli obiettivi educativi, una buona alleanza
genitoriale ed un profondo rispetto dei rispettivi
ruoli, nella specie da ritenere assenti), laddove la attenta, contenitiva e partecipe capacità genitoriale
riscontrata dai consulenti nella M. giustificava l’affidamento esclusivo alla medesima della figlia, essendo peraltro pregiudizievole per lo sviluppo psicologico di quest’ultima una distribuzione in parti
uguali del tempo di collocazione presso i due genitori (che, costringendo la bimba ad un adattamento
a due realtà tra loro diverse e nemiche, avrebbe costituito il presupposto per la strutturazione in essa
di un rapporto relazionale e di una individuazione di
tipo scisso), ed essendo piuttosto necessario ridurre
il più possibile i contatti tra i genitori definendo rigorosamente il giorno di visita del padre, senza riconoscere ai nonni paterni un autonomo diritto di
frequentazione della nipote, distinto ed ulteriore rispetto alla facoltà dei medesimi di vedere la bambina in occasione delle visite della stessa al padre.
Osservava infine la Corte che il maggior reddito lavorativo del C., il fatto che egli continuasse a godere
della casa coniugale, le incrementate esigenze della
figlia e la maggiore permanenza della medesima
con la madre giustificavano l’elevazione all’importo
di Euro 350,00 mensili del contributo del C. al mantenimento della minore.
3. Avverso tale sentenza, depositata il 25 settembre 2007 e notificata il 26 ottobre successivo, C.R. ha
proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il
19 novembre 2007, basato su sette motivi. Resiste
M.C. con controricorso.
Motivi della decisione
(omissis)
7. Il sesto motivo concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 cod. civ., comma 1, nonché vizio di motivazione, in riferimento al diniego di riconoscimento di un autonomo diritto di visita dei
nonni. Sostiene il ricorrente che, alla luce della
norma sopra richiamata, le figure ascendentali sono
titolari di un autonomo diritto di mantenere continui
e significativi rapporti con il nipote di età minore; e
che la forte conflittualità tra le due famiglie non costituirebbe motivo sufficiente per negare tale diritto.
La censura è priva di fondamento. L’art. 155 c.c.,
comma 1, non attribuisce agli ascendenti del minore
un autonomo diritto avente il contenuto indicato dal
ricorrente. La norma attribuisce invece al minore il
diritto di conservare rapporti significativi con gli
ascendenti, nel quadro del mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con i propri genitori
e con la medesima finalità di evitare, per quanto possibile, che la separazione produca traumi nello sviluppo della personalità del minore stesso. Non merita dunque censure la motivazione della sentenza
che, avvalendosi della facoltà discrezionale di provvedere alla concreta regolazione di tale questione
nella suddetta prospettiva (e tenendo conto fra l’altro di quanto già esposto circa la posizione assunta
dai nonni paterni nella vicenda coniugale in esame),
ha ritenuto idonea a realizzare nella specie l’integennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 43
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
resse della minore la possibilità della medesima di
vedere i nonni paterni in occasione delle visite al padre, che peraltro occupa un’abitazione attigua a
quella nella quale i nonni stessi abitano.
(omissis)
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
IL PUNTO DI VISTA
di DOMENICO MADULI
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
In un contesto storico - sociale nel quale viviamo
con la crisi del modello - standard famiglia ed il dilagare del conflitto generazionale, sembra rafforzarsi ed addirittura essere più intenso il rapporto tra
i “nuovi” vecchi ed i giovani di oggi. Infatti, sembra
che il loro rapporto non sia mai stato così intenso
come in questo momento.
Gli studiosi sono impegnati a scoprire come ed in
che misura gli anziani di casa plasmano i ragazzi e
cosa ricevono da loro.
Sono sempre meno numerosi i ragazzi che considerano antiquati i loro nonni. Su internet gli anziani
usano i blog per parlare dei nipoti afflitti dal divorzio dei genitori, delle vacanze trascorse coi ragazzi e
persino delle loro relazioni sentimentali.
In Francia è stata fondata una scuola europea per
i nonni, negli Stati Uniti addirittura un sindacato dei
pensionati è sempre attivissimo per chiedere interventi di sostegno alla famiglia.
Mentre, gli psichiatri più progressisti esortano gli
anziani ad attuare la “terapia familiare multi generazionale”, trasformandosi in mediatori in grado di
risolvere i conflitti tra genitori e figli.
Negli ultimi due decenni i nipoti si sono ritrovati
nonni e nonne “nuovi”: più tolleranti e disponibili di
prima, più indipendenti e partecipi.
Gli scienziati, a loro volta, hanno distolto la loro
attenzione dal nucleo unifamiliare dedicando per la
prima volta uno studio mirato al rapporto tra nonni
e nipoti.
I sociologi stanno mettendo a fuoco l’importanza
che nonni e nonne rivestono oggi per la famiglia e la
società, mentre psicologi e pedagogisti, studiando
l’influenza dei nonni sui nipoti, si sono accorti dei
forti legami che uniscono le due generazioni.
Infatti, in molte culture i nonni non hanno mai
svolto un ruolo tanto importante nella vita dei nipoti come accade oggi.
Essi sono un fenomeno da non sottovalutare in
materia sia economica ed infatti il loro aiuto vale
miliardi di euro ed in relazione alla disponibilità di
tempo libero che i genitori hanno sempre di meno.
È una svolta storica perché in Paesi quali la Svezia,
la Francia o la Danimarca, dotati di ottime infra44 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
strutture per la custodia dei bambini, sono molti i
nonni che si occupano dei nipoti, seppure in misura
minore rispetto alle nazioni dell’Europa Meridionale
come la Spagna e l’Italia.
In un recente studio Corinne Igel, sociologa dell’Università di Zurigo, ha affermato: “L’assistenza
dello Stato soppianta in parte quella fornita dai privati cittadini, ma è al tempo stesso il fattore che
rende possibile la solidarietà in molte famiglie”.
Secondo una indagine Istat promossa dalla commissione Affari sociali della Camera, in Italia i bambini di età compresa tra uno e due anni e con la madre che lavora vengono affidati, nell’ordine, ai nonni
(52,3 per cento), al nido privato (14,3 per cento), al
nido pubblico (13,5 per cento) ed in ultima istanza
alla baby - sitter (solo al 9,2 per cento).
L’impegno dei nonni coi nipoti rimane comunque
grande, specie nelle famiglie in cui lavorano entrambi i genitori o nel caso di un genitore single. In
Germania un bambino su tre sotto i sei anni viene
affidato ai nonni almeno una volta la settimana.
Quelli in età dai 55 ai 69 anni dedicano mediamente
47 ore al mese alla cura dei nipoti Un noto pediatra
milanese, in una recente pubblicazione personale,
ha rilevato come dopo la chiusura delle scuole, un
milione di under - 14 italiani sia andato in vacanza
coi nonni. Mentre durante l’anno il 64,4 per cento
dei ragazzi sotto i 14 anni è affidato abitualmente ai
nonni quando i genitori non sono in casa.
Allora, i dati parlano chiaro: se da un lato i nonni
danno affetto e cure, i nipoti restituiscono vitalità e
saperi; se l’aiuto fornito alle famiglie dai nonni, secondo la Camera di Commercio di Milano, vale 5 miliardi di euro durante le ferie, una importanza fondamentale in tale contesto di crisi economico - familiare rivestono i “nuovi - vecchi”.
Inoltre fanno risparmiare ogni anno 50 miliardi di
euro prestando la loro opera come baby-sitter o nei
lavori di casa.
La Disney Interactive ha svolto una indagine su
un campione di 1085 bambini scoprendo che, potendo il 37 per cento di loro (contro il 29 per cento)
preferirebbe trascorrere le vacanze coi nonni anziché coi genitori.
In sostanza la figura dei nuovi padri e delle nuove
madri si interseca e trova un nuovo equilibrio con
un modello anch’esso mutato: ci troviamo davanti a
soggetti nell’evoluzione del concetto arcaico di famiglia, autoritario, fatto di sottomissioni ed ubbidienza, tipico della generazione dei nonni nati tra il
1908 ed il 1929, ad oggi ritroviamo una generazione
di un nonno moderno, sprint, che naviga su internet, magari imparando il, sistema proprio dal nipote, con un atteggiamento moderno.
Studi etnologici effettuati su 75 diverse culture
hanno dimostrato che le generazioni appaiono fortemente unite laddove le persone anziane sono dotate di scarsa autorità formale. Questo significa che
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
i nonni odierni, quelli che non si intromettono e non
pretendono di inculcare ai nipoti le loro opinioni, finiscono per determinare in larga parte le scale di
valori dei giovani.
Comunque sia è anch’esso un dato certo che i
nonni che si dedicano ai nipoti con uno spirito rivoluzionario, cioè con quella spinta emotiva e forma di
collaborazione che non veniva fuori quando erano
giovani, quando da padri si preoccupavano di tutto
e riuscivano a partecipare ben poco all’educazione
dei figli; oggi loro cercano di recuperare il tempo
perduto coi nipoti. Spingono la carrozzina, cambiano i pannolini e la danno vinta su tutto. In sostanza i nuovi nonni non sono altro che le vecchie
nonne che non si sostituiscono, però, alla educazione dei nipoti ma che ricoprono un ruolo di riferimento per una famiglia che, come concetto “allargato” del termine, vede tante figure in redistribuzione ed in ricollocazione.
Sono figure nuove che evidenziano come nell’ultima fase della loro vita alcune capacità sociali ed
emozionali trovano nuova linfa a costante contatto
con l’energia fisica di un bambino che scopre un
mondo ancora diverso da quello dei genitori che separati e non potranno mai vedere la prospettiva dal
lato di coloro che hanno una generazione ed una
esperienza di quanto meno tre generazioni di differenza.
Pertanto, è l’arricchimento spirituale, economico e
sociale che fotografa i nuovi nonni di oggi.
Le sentenze della Cassazione 11 agosto 2011, n.
17191 e 27 dicembre 2011, n. 28902, hanno stabilito che la legge sull’affido condiviso tuteli solo di
fatto i rapporti tra nonni e nipoti, non prevedendo
né un diritto di visita dei nonni né una azione diretta degli ascendenti e degli altri familiari per regolare le visite coi bambini.
La prima sezione civile spiega come gli anziani
non sono titolari di una azione soggettiva direttamente tutelabile, poiché la nuova legge non contiene alcun riferimento alla posizione soggettiva degli ascendenti e degli altri parenti.
Il loro indiretto interesse di natura morale ed affettiva non ottiene quindi una valorizzazione tale
da farlo assurgere a posizione soggettiva direttamente tutelabile e quindi in alcun modo non è ipotizzabile un intervento principale o litisconsortile.
Infatti, non è consentito l’intervento dei nonni nei
giudizi di separazione e di divorzio che non prevedano la loro assunzione di qualità di parte, come invece avviene nei procedimenti di adozione.
In buona sostanza, i nonni non potranno più agire
in giudizio per richiedere che il diritto di visita dei
nipoti venga autonomamente regolato.
Di certo vi è che da meno di un mese dovremo
considerare tale Sentenza con grande rispetto dei
suoi contenuti tutti ma viene da pensare cosa ha
spinto a cambiare totalmente lo spirare del vento:
la carenza della legge sull’affido condiviso in materia di tutela dei diritti di coloro che ad oggi sono un
pilastro socio - economico delle nuove famiglie, dei
nuovi padri e delle nuove madri oppure l’eccesso di
protagonismo, di amore, l’inversione dei ruoli da
consigliere della crescita del bambino alla petulante
richiesta di vedersi riconosciuto il ruolo di nonno padre o di nonna - madre?
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 45
CORTE COSTITUZIONALE
alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (Corte cost. sentenze 322 del 2011, n. 216 e n.
112 del 1997).
L’IMPUGNAZIONE
DEL RICONOSCIMENTO
DI UN FIGLIO NATURALE
NON È CONDIZIONATA
AD UN TERMINE
ANNUALE DI DECADENZA
(COME L’AZIONE
DI DISCONOSCIMENTO)
Corte cost., 12 gennaio 2012, n. 7
È manifestamente inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., sollevata
in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., l “nella
parte in cui non sottopone ad un termine annuale di
decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione
di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità”, attesa la non comparabilità (sotto il profilo ontologico e teleologico) delle
situazioni poste a raffronto in rapporto ai limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione ex art. 263
c.c. e dell’azione di cui all’art. 244 c.c. (limiti peraltro
diversamente ascrivibili, gli uni, alla categoria dei
termini di prescrizione e, gli altri, a quella dei termini di decadenza), giacché l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità trae giustificazione dalla
superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status, mentre il breve termine di decorrenza dell’azione di disconoscimento di paternità
trova ragione nel favor legitimitatis quale espressione della presunzione di paternità rispetto al figlio concepito durante il matrimonio.
La crescente considerazione del favor veritatis (la
cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati
delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non
si pone in conflitto con il favor minoris, poiché anzi
la verità biologica della procreazione costituisce una
componente essenziale dell’interesse del medesimo
minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad
esso il diritto alla propria identità e, segnatamente,
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Svolgimento del processo e motivi della decisione
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 263 del codice civile promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano nel procedimento vertente tra
K.A e K.D. con ordinanza del 13 maggio 2011, iscritta
al n. 177 del registro ordinanze 2011 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima
serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 dicembre
2011 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto che - nel corso di un giudizio civile promosso (con citazione notificata il 1° dicembre 2008)
da un padre per ottenere la pronuncia di non veridicità del riconoscimento del figlio naturale dal medesimo effettuato in data 18 agosto 2003 - il Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanza emessa il
13 maggio 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 263 del codice
civile, «nella parte in cui non sottopone ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di
esperire l’azione di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità»;
che il rimettente censura, innanzitutto, la disparità di trattamento (che sorge confrontando l’azione
de qua con quella di disconoscimento di paternità
ex artt. 244 e segg. cod. civ.) tra i minori nati o meno
in costanza di matrimonio, giacché al padre di figlio
legittimo è imposto, a pena di decadenza, di iniziare
l’azione di disconoscimento entro il termine annuale decorrente o dalla nascita del figlio o dal momento in cui viene a conoscenza dell’adulterio della
moglie, commesso in periodo di presunto concepimento, o ancora dal momento in cui egli sa della
propria impotentia generandi, mentre al padre naturale che ha riconosciuto il figlio come proprio, con
atto ufficiale, non è posta limitazione alcuna per
l’impugnazione della volontaria dichiarazione effettuata;
(omissis)
che, in particolare, il rimettente ritiene ingiustificata la disparità del trattamento che (prendendo
quale tertium comparationis il termine di proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità ex
art. 244 cod. civ.) sarebbe riservata ai minori in ragione del fatto dell’essere o meno nati in costanza di
matrimonio (giacché la situazione del figlio legittimo - il quale, decorso il termine di decadenza sancito da tale ultima disposizione, potrà contare sul
CORTE COSTITUZIONALE
persistere del legame e sui diritti economici ed ereditari derivanti dal suo status - diverge dalla situazione del figlio naturale, che continua ad essere
esposto «in eterno» al rischio che il dichiarato padre
possa ricredersi e impugnare il riconoscimento in
ogni momento); e ritiene altrettanto ingiustificata
la analoga disparità riservata al padre legittimo rispetto a quello naturale (considerato che al padre
legittimo è riconosciuto uno spatium deliberandi
annuale, entro il quale decidere se agire per troncare il rapporto genitore-figlio, mentre al secondo è
dato illimitato spazio per fare altrettanto); che la
norma in esame è già stata oggetto di scrutini di costituzionalità (in riferimento ad analoghi profili) definiti nel senso della inammissibilità delle relative
questioni dalle sentenze n. 134 del 1985 e n. 158 del
1991;
che, nella prima decisione (sulla richiesta di sostituire la contestata imprescrittibilità dell’impugnazione de qua con «termini brevi di decadenza
per l’esercizio dell’azione») questa Corte ha affermato che, «a prescindere dalla difficoltà di stabilire
un razionale dies a quo per il termine invocato [...],
sta la decisiva considerazione che non la Corte, ma
solo il legislatore, potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità disposta dall’art. 263 c.c.» (sentenza n. 134 del 1985);
che, nella seconda pronuncia (su altra questione
sollevata «per disparità di trattamento rispetto ai
termini di proposizione dell’azione di cui all’art. 244
del codice civile»), questa Corte ha altresì sottolineato che «il profilo di disparità di trattamento tra il
figlio naturale riconosciuto, permanentemente
esposto alla perdita del proprio status, data la imprescrittibilità dell’azione ex art. 263 del codice civile, e il figlio legittimo, per il cui disconoscimento il
padre dispone di azione sottoposta a termine di decadenza annuale ex art. 244 del codice civile, non
sussiste», in quanto «le due situazioni non sono
comparabili, dato che per la prima, come s’è detto,
vale il principio superiore che ogni falsa apparenza
di status deve cadere, da cui la imprescrittibilità dell’azione; per la seconda vale la presunzione pater
est is quem iustae nuptiae demonstrant superabile
solo - per il favor legitimitatis - con la decadenza nel
breve termine di un anno dell’azione di disconoscimento»;
che altresì, citando il proprio precedente del 1985,
questa Corte ha aggiunto che - se «non può ignorarsi che alla coscienza collettiva, mutando il rapporto di valore tra appartenenza familiare e isolata
identità individuale, potrebbe apparire eccessivamente rigorosa la imprescrittibilità dell’azione di
impugnazione del riconoscimento non veridico
qualora si volesse bilanciare la incertezza della durata dello status del riconosciuto con l’interesse sociale alla sua verità» - tuttavia, «non il giudice delle
leggi, ma “solo il legislatore potrebbe stabilire la du-
rata del termine da sostituire all’imprescrittibilità
disposta dall’art. 263 del codice civile”» (sentenza n.
158 del 1991);
che il rimettente (ben consapevole che la sollevata
questione è già stata esaminata da questa Corte, di
cui peraltro richiama solo la sentenza n. 158 del
1991) ritiene che essa meriti nuovo esame alla luce
della adozione di interventi legislativi diretti ad attuare la piena parità dei diritti dei figli, minori e non,
siano essi nati in costanza di matrimonio o da genitori non sposati, non essendo a suo dire più sostenibile, per giustificare la diversità di trattamento
riservata a figli legittimi e figli naturali, la prevalenza data al favor veritatis, nel caso di figli nati
fuori del matrimonio, e data invece al favor legitimitatis, in caso di figli legittimi, per i quali non sia
tempestivamente esperita l’azione di disconoscimento entro il sopra ricordato termine di decadenza;
che, tuttavia, i motivi evidenziati nelle citate decisioni - estensibili anche all’omologo ulteriore profilo di asserita disparità di trattamento tra padre naturale e legittimo e sintetizzabili nella non comparabilità delle situazioni poste a raffronto, nella non
configurabilità di una pronuncia additiva a “rime obbligate” e nella conseguente esclusiva spettanza al
legislatore del potere di stabilire la durata del termine eventualmente da sostituire all’imprescrittibilità disposta dalla norma censurata - risultano tuttora validi pur in presenza dei richiamati interventi
legislativi;
che, infatti, tanto la disciplina degli artt. 250 e 284
cod. civ. quanto quella dell’art. 4, comma 2, della
legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia
di separazione dei genitori e affidamento condiviso
dei figli), operano (al fine di omologare la condizione
e la tutela dei diritti di tutte le categorie di figli, in
particolare se minori) in contesti connotati dalla
presenza di uno status di filiazione da un determinato genitore, rispetto al quale non si pongono problemi di contestazione in termini di difetto di veridicità del medesimo status;
che, d’altra parte, quanto alla impossibilità per il
coniuge o il convivente consenziente di proporre,
successivamente al ricorso a (pur vietate) tecniche
di procreazione medicalmente assistita eterologa, il
disconoscimento della paternità ovvero l’impugnazione di cui alla norma censurata, la previsione dell’art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita)
configura una ipotesi di intangibilità ex lege dello
status, la quale (come tale) incide non già sul profilo della imprescrittibilità dell’azione di cui alla
norma censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla impugnazione medesima;
che pertanto, da un lato, va ribadita la non comparabilità (sotto il profilo ontologico e teleologico)
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 47
CORTE COSTITUZIONALE
delle situazioni poste a raffronto in rapporto ai limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione
ex art. 263 cod. civ. e dell’azione di cui all’art. 244
cod. civ. (limiti peraltro diversamente ascrivibili, gli
uni, alla categoria dei termini di prescrizione e, gli
altri, a quella dei termini di decadenza), giacché
l’imprescrittibilità dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità
trae giustificazione dalla superiore esigenza di far
cadere ogni falsa apparenza di status, mentre il
breve termine di decorrenza dell’azione di disconoscimento di paternità trova ragione nel favor legitimitatis quale espressione della presunzione di
paternità rispetto al figlio concepito durante il matrimonio;
che, d’altro lato, va affermato che il petitum richiesto mira nuovamente ad ottenere una pronuncia manipolativa che non si configura affatto “a rime
obbligate”, in quanto la contestata previsione della
imprescrittibilità (che dalla norma impugnata è riferita a tutti i soggetti legittimati all’azione, mentre
dal rimettente è contestata esclusivamente con riferimento al padre) potrebbe essere sostituita in
svariati modi, e quindi non necessariamente prevedendo, al posto di un altrettanto ipotizzabile ordinario o breve termine di prescrizione, solo il diverso
strumento del termine di decadenza (il quale, a sua
volta, non necessariamente dovrebbe coincidere con
quello annuale di cui all’art. 244 cod. civ.);
che, parimenti, neppure risulterebbero soluzioni
costituzionalmente imposte quella di eliminare o
meno l’imprescrittibilità a seconda dei diversi soggetti che agiscono per impugnare il riconoscimento,
ovvero quella ineludibile (in quanto diretta ad evitare gli stessi inconvenienti che hanno portato alla
declaratoria di illegittimità costituzionale proprio
dell’art. 244 cod. civ.: sentenze n. 170 del 1999 e n.
134 del 1985) di individuare un momento di decorrenza dell’eventuale termine alla impugnazione che
non vulneri il diritto di azione del soggetto, fintanto
che sussista una assenza di consapevolezza in capo
ad esso della esistenza stessa del presupposto della
non veridicità del riconoscimento; laddove - poiché
il riconoscimento del figlio naturale è un atto di volontà corrispondente normalmente, ma non sempre, alla convinzione di chi lo opera di essere il genitore naturale - il detto dies a quo potrebbe anche
non coincidere con quello della conoscenza di fatti
che escludono la paternità naturale, bensì con
quello del pentimento di chi ha operato il riconoscimento (sentenza n. 134 del 1985);
che, prospettandosi un così ampio spettro di possibili interventi, va altresì riaffermato che il potere di
stabilire la natura, la durata e la modulazione del
termine per la proposizione dell’impugnazione in
esame spetta al legislatore, al quale solo è consentito di operare, anche in ragione dell’evolversi della
coscienza collettiva, il necessario bilanciamento del
48 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
rapporto tra tutela della appartenenza familiare e
tutela della identità individuale; bilanciamento che,
peraltro, si è mosso (nella presente realtà sociale)
piuttosto nella direzione (opposta rispetto a quella
auspicata dal rimettente) della tendenziale corrispondenza tra certezza formale e verità naturale;
che, d’altronde, questa Corte ritiene che la crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni
scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si ponga
in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una
componente essenziale dell’interesse del medesimo
minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad
esso il diritto alla propria identità e, segnatamente,
alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997);
che, pertanto, la questione è manifestamente
inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 263
del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bolzano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
CORTE COSTITUZIONALE
IL TERMINE DI UN ANNO
PER L’AZIONE
DI DISCONOSCIMENTO
È SOSPESO PER IL PERIODO
IN CUI L’INTERESSATO
È IN STATO DI INCAPACITÀ
NATURALE
Corte cost., 25 novembre 2011, n. 322
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non
prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del
soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo
renda incapace di provvedere ai propri interessi,
sino a che duri tale stato di incapacità naturale.
(omissis)
Motivi della decisione
1. - Il Tribunale ordinario di Catania censura l’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non
prevede che la decorrenza del termine annuale di
proposizione dell’azione di disconoscimento della
paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, ma anche quando questa si trovi in
stato di incapacità naturale.
Il rimettente - premesso che (precedentemente
alla proposizione del giudizio a quo) l’attore era
stato dichiarato interdetto con sentenza del 30 gennaio 2004, e che, con successiva sentenza del 6 luglio
2007, era stata altresì dichiarata la nullità, per infermità mentale, del matrimonio contratto con la convenuta in data 15 dicembre 1990, da cui, il 19 febbraio 1992, era nato il figlio - osserva che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate
dai consulenti tecnici nel corso di predetti giudizi,
l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo
incapace non solo di provvedere materialmente ai
propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi [...]
possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà
e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi,
radicalmente privo della capacità di intendere e di
volere».
Il Tribunale denuncia, quindi, il contrasto della
norma, in primo luogo, con l’art. 3 della Costituzione, in quanto sottopone irragionevolmente alla
medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo sta-
tus) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa. E, in secondo luogo, con l’art.
24 Cost., poiché - avendo questa Corte sottolineato
(nelle sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985) che
il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente
che il termine per il suo esercizio possa decorrere
indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» - impedisce al soggetto titolare di
un’azione personalissima che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che
tale sostanziale privazione del diritto di agire possa
essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis.
2. - La questione è fondata.
2.1. - L’art. 245 cod. civ. stabilisce che «Se la parte
interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione
per infermità di mente, la decorrenza del termine indicato nell’articolo precedente è sospesa, nei suoi
confronti, sino a che dura lo stato di interdizione.
L’azione può tuttavia essere promossa dal tutore».
La disposizione si colloca nel contesto del sistema
che regolamenta i termini di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità del figlio
concepito durante il matrimonio ex art. 244 cod. civ.,
nei casi indicati dal primo comma del precedente
art. 235. In particolare, essa predispone una peculiare
garanzia di conservazione del diritto di azione in
capo a colui il quale sia stato dichiarato interdetto
per infermità di mente, in ragione del fatto che il soggetto si trova nella impossibilità, per la accertata incapacità di provvedere ai propri interessi, di proporre
consapevolmente (conoscendone i presupposti e
rappresentandosene coscientemente gli effetti) la
propria domanda giudiziale che trae origine dalla
scelta di far valere un diritto personalissimo.
2.2. - Il rimedio della sospensione dei termini previsto dalla norma censurata riposa, d’altronde, sulla
medesima ratio che ha condotto questa Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, secondo comma, cod. civ., dapprima, «nella parte in
cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3
dell’art. 235 dello stesso codice, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in
cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio
della moglie» (sentenza n. 134 del 1985), e, successivamente, «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo
di generare, contemplata dal numero 2) dell’art. 235
cod. civ. decorra per il marito dal giorno in cui esso
sia venuto a conoscenza della propria impotenza di
generare» (sentenza n. 170 del 1999); nonché, in apgennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 49
CORTE COSTITUZIONALE
plicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.
87, del primo comma dello stesso art. 244 cod. civ.
«nella parte in cui non prevede che il termine per la
proposizione dell’azione di disconoscimento della
paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare
di cui al numero 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per
la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito» (sentenza n. 170 del 1999, cit.).
Tali pronunce si fondano sulla duplice affermazione della irragionevolezza della previsione di una
preclusione dell’esercizio dell’azione di disconoscimento al soggetto che non sia a conoscenza di un
elemento costitutivo dell’azione medesima; e della
irrimediabile lesione del diritto di azione che si verifica allorquando si consenta che il termine per il
suo esercizio possa decorrere indipendentemente
dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi
costitutivi da cui sorge il diritto stesso.
2.3. - Orbene, risulta palese come una identica esigenza di dare effettività a tale garanzia (affermata
da questa Corte con riguardo ai termini di cui all’art.
244 cod. civ.) sia teleologicamente sottesa anche alla
scelta legislativa, tradotta nella disposizione oggetto
dell’odierno scrutinio di costituzionalità, di sospendere sine die la decorrenza del termine di proposizione dell’azione de qua nel caso in cui la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento
della paternità si trovi in stato di interdizione per
infermità di mente, e quindi nella situazione di non
potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto
costitutivo dell’azione e di poterla validamente
esperire. Ma ciò porta ad affermare che la tutela approntata dalla norma censurata dipende, non già
dalla formale perdita della capacità di agire del soggetto quale conseguenza della dichiarazione di interdizione, bensì dall’accertamento della sussistenza in concreto di una gravemente menomata
condizione intellettiva e volitiva del medesimo, in
presenza dei presupposti di cui all’art. 414 cod. civ.
Poiché, però, la inequivoca previsione di cui all’art.
245 cod. civ. non consente di estenderne interpretativamente la operatività anche rispetto ad un soggetto formalmente capace, l’esclusione della praticabilità della omologa garanzia nei confronti di chi,
sebbene non interdetto, si trovi (come nella specie)
in eguali condizioni di abituale infermità di mente
che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi, determina la lesione di entrambi gli evocati
parametri (artt. 3 e 24 Cost.). Ciò, a causa sia della
irragionevole equiparazione del soggetto capace a
quello di fatto incapace, ovvero (specularmente) dell’irragionevole diversità di trattamento riservata a
soggetti che versino in un’identica situazione di abituale grave infermità di mente, che preclude in entrambi i casi la conoscenza dei fatti costitutivi dell’azione in esame; sia della contestuale lesione del
diritto di azione - e del correlato principio di ten50 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
denziale corrispondenza, in materia di status, tra
certezza formale e verità naturale (sentenze n. 216 e
n. 112 del 1997) - impedito al titolare di un’azione
personalissima che si trovi nella condizione di non
avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e quindi nella impossibilità di
esperirla validamente e tempestivamente.
Pertanto, l’art. 245 cod. civ. deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non
prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del
soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo
renda incapace di provvedere ai propri interessi,
sino a che duri lo stato di incapacità naturale.
2.4. - Ovviamente, rispetto alla esigenza di individuare se, quando e per quanto tempo il soggetto
non abbia avuto coscienza dei fatti in presenza dei
quali sorge il suo potere di agire, va precisato che seppure la previsione di cui alla norma in esame è
connotata, sul piano probatorio, da una presunzione
ex lege di mancata conoscenza (da intendersi quale
assenza di consapevolezza dei relativi presupposti e
cause, nonché di rappresentazione cosciente delle
conseguenze) dei presupposti costitutivi dell’azione
in esame da parte dei soggetti che siano stati dichiarati interdetti e finché dura lo stato di interdizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429
e 431 cod. civ. - l’estensione della garanzia della sospensione varrà evidentemente solo per quegli incapaci naturali rispetto ai quali (non già sulla base
di una presunzione, bensì in ragione delle prove offerte, acquisite e valutate dal giudice) sia stato accertato che versino in uno stato di grave abituale infermità mentale, ossia che sussistano quei medesimi presupposti richiesti dall’art. 414 cod. civ. per
la dichiarazione di interdizione, e fino a quando sia
stato ugualmente provato (ove nel frattempo non si
sia pervenuti autonomamente ad una dichiarazione
di interdizione) il venir meno dello stato di incapacità. La qual cosa comporta che, come d’altronde
previsto per l’interdetto, anche per l’incapace naturale - che non può, ovviamente, avvalersi dell’azione
del tutore - varrà la medesima regola della corrispondenza della durata della sospensione della decorrenza del termine alla situazione di effettiva incapacità del soggetto che ne beneficia.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo
245 del codice civile, nella parte in cui non prevede
che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244
cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto
che, sebbene non interdetto, versi in condizione di
abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che
duri tale stato di incapacità naturale.
CORTE COSTITUZIONALE
LO STRANIERO PUÒ
SPOSARSI IN ITALIA
ANCHE SE NON HA
REGOLARE PERMESSO
DI SOGGIORNO
Corte cost., 25 luglio 2011, n. 245
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
116, 1° comma, c.c., come modificato dall’art. 1,
comma 15, della legge n. 94 del 2009, limitatamente
alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». Sebbene la ratio della disposizione censurata possa essere effettivamente rinvenuta nella necessità di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori, deve osservarsi come si
presenti non proporzionato a tale obiettivo il sacrificio imposto - dal novellato art. 116, 1° comma, c.c.
- alla libertà di contrarre matrimonio, non solo degli
stranieri, ma anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.
Motivi della decisione
1.- Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato in riferimento agli articoli 2, 3, 29, 31 e 117, primo
comma, della Costituzione - questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del
codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15,
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità
del soggiorno nel territorio italiano». La novella introdotta dalla predetta legge, in altri termini, fa carico allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di produrre tale atto.
(omissis)
La questione è fondata.
3.1.- Giova ricordare come questa Corte (sentenze
n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente
irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza
di stranieri extracomunitari in Italia.
Tali norme, però, devono costituire pur sempre il
risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di
disciplina dell’immigrazione, specialmente quando
esse siano suscettibili di incidere sul godimento di
diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra
quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli
articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente
enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo
12 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»
(sentenza n. 445 del 2002).
In altri termini, è certamente vero che la «basilare
differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» «consistente nella circostanza che, mentre il primo
ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito
e generalmente temporaneo» - può «giustificare un
loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline
legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione
delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del 1994), quali
quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica,
l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale
e la politica nazionale in tema di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del 1994). Tuttavia, resta pur sempre fermo - come questa Corte ha di recente nuovamente precisato - che i diritti inviolabili, di cui all’art.
2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di
una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello
straniero non deve essere pertanto considerata - per
quanto riguarda la tutela di tali diritti - come causa
ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010).
Sebbene, quindi, la ratio della disposizione censurata - proprio alla luce della ricostruzione che ne
ha evidenziato il collegamento con le nuove norme
sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” - possa essere effettivamente
rinvenuta, come osserva l’Avvocatura dello Stato,
nella necessità di «garantire il presidio e la tutela
delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori»,
deve osservarsi come non proporzionato a tale
obiettivo si presenti il sacrificio imposto - dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli
stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.
È, infatti, evidente che la limitazione al diritto
dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro
Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina
italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente
tenere anche conto della posizione giuridica di chi
intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.
Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la
previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 51
CORTE COSTITUZIONALE
uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non
idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato
bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella
presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare
i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
Ed infatti, in particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del
citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede:
con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano
contratto matrimonio nel territorio dello Stato con
cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione
europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al
matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza
salvo che dal matrimonio sia nata prole»;
con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso
in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento
familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del
proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del
medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di
rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto
luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».
3.2.- Del pari, è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
52 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
In proposito, si deve notare che la Corte europea
dei diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla
normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza 14 dicembre 2010,
O’Donoghue and Others v. The United Kingdom).
In particolare, la Corte europea ha affermato che
il margine di apprezzamento riservato agli Stati non
può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad
un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza). Secondo i giudici di
Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del
diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.
Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto
dalla norma ora censurata, giacché il legislatore lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero - ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri
extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel
territorio dello Stato.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo
116, primo comma, del codice civile, come modificato
dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
CASSAZIONE
LA SENTENZA
DI DISCONOSCIMENTO
DELLA PATERNITÀ
È OPPONIBILE ANCHE
AGLI EREDI E QUINDI
ANCHE A COLORO
CHE NON HANNO
PARTECIPATO
AL PROCEDIMENTO
Cass. civ. Sez. I,
16 gennaio 2012, n. 430
Nel giudizio di disconoscimento di paternità né colui indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono
legittimati passivi e la sentenza che ne accoglie la domanda, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contradittori necessari assumendo, quindi, autorità di cosa giudicata
erga omnes, essendo inerente alla status della persona, è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio.
Svolgimento del processo
P.V., P.N., P.E., P.S., Pa.Vi. e P.C., tutti quali eredi di
P.A., ricorrono per cassazione, con due motivi e memoria, nei confronti di C.V., avverso la sentenza
della Corte di appello di Napoli n. 2388/2009 del 14
luglio 2009, che ha rigettato l’appello da loro proposto avverso la sentenza in data 8 gennaio 2008, con
la quale il Tribunale di Napoli aveva dichiarato che
C.V. era figlia naturale di P.A..
La Corte di appello di Napoli, a sostegno della decisione, ha così motivato:
- la sentenza che aveva dichiarato che la C. non
era figlia di C.G. era opponitele agli eredi del P., anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo
status di una persona, opponibile con forza di giudicato erga omnes;
(omissis)
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti principali deducono che l’esito del giudizio di disconoscimento
di paternità proposto dalla C. non era loro opponibile, non avendovi essi partecipato pur essendo controinteressati e legittimati passivi, ben potendo la
loro sfera giuridica essere modificata dalla pronuncia emessa a conclusione di detto giudizio.
La censura è priva di fondamento.
Osserva il collegio che questa Corte, con orientamento a cui si intende in questa sede dare continuità,
ha già affermato che la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto
pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di
tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente
allo status della persona (Cass. 1985/194).
In particolare, la paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui
che è indicato come padre naturale, il quale, allorché
deduca che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi
confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, tanto da non poter agire contro
la sentenza di disconoscimento neppure con l’opposizione di terzo, atteso che il rimedio contemplato
dall’art. 404 c.p.c., presuppone in capo all’opponente
un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (Cass. 2005/12167).
Di conseguenza, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, deve ritenersi che né colui che
sia indicato come padre naturale, né i suoi eredi,
sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile
nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno
partecipato al relativo giudizio.
La Corte di appello di Napoli - affermando che la
sentenza che aveva dichiarato che la C. non era figlia
di C.G. era opponibile agli eredi del P., anche se questi non avevano partecipato a quel giudizio, trattandosi di sentenza costitutiva inerente allo status di
una persona opponibile con forza di giudicato erga
omnes - si è uniformata all’orientamento giurisprudenziale sopra enunciato e la decisione impugnata
resiste alle infondate critiche sollevate dai ricorrenti,
il cui riferimento alla sentenza di questa Corte n.
9033 del 12 settembre 1997 (la quale ha configurato
come contraddittori necessari nel giudizio riguardante la dichiarazione di paternità naturale tutti i
soggetti la cui sfera giuridica sia suscettibile di effetti in seguito alla formazione di uno status diverso
da quello originario) non è attinente alla fattispecie
dedotta nel presente giudizio, riguardante non la dichiarazione di paternità naturale, ma il disconoscimento della paternità, fermo restando che la decigennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 53
CASSAZIONE
sione richiamata è stata comunque superata dalla
successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 21287 del
3 novembre 2005 (la quale ha escluso che siano contraddittori necessari, passivamente legittimati nel
giudizio per la dichiarazione di paternità naturale, i
soggetti portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, ai quali può essere “riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a
tutela dei rispettivi interessi”).
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale (omissis).
***
LA PROMESSA
DI MATRIMONIO
INGIUSTIFICATAMENTE
NON RISPETTATA,
OBBLIGA SOLO
A RIMBORSARE
LE SPESE AFFRONTATE
Cass. civ. Sez. VI,
2 gennaio 2012, n. 9
La rottura della promessa di matrimonio senza
giustificato motivo configura violazione delle regole
di correttezza e di auto responsabilità, che non possono considerarsi lecite o giuridicamente irrilevanti,
ma non costituisce illecito extracontrattuale, essendo espressione della fondamentale libertà matrimoniale, né responsabilità contrattuale o precontrattuale, poiché la promessa di matrimonio non è
un contratto e neppure crea un vincolo giuridico tra
le parti. In siffatti casi si configura una speciale obbligazione “ex lege” che pone a carico del recedente
ingiustificato l’obbligo di rimborsare alla controparte
quanto meno l’importo delle spese affrontate e delle
obbligazioni contratte in vista del matrimonio.
Svolgimento del processo e motivi della decisione
“1.- Con la sentenza impugnata in questa sede la
Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza con cui il tribunale di Catania - Sez. dist. di Paterno - ha condannato C.G. al risarcimento dei danni
in favore di F.P., per ingiustificata rottura della promessa di matrimonio, nella misura di Euro 9.875,45,
somma corrispondente alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte dalla fidanzata in previsione
delle nozze.
54 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
In accoglimento dell’appello incidentale proposto
dalla F. la Corte di appello ha poi condannato il C. al
risarcimento dei danni non patrimoniali, liquidati
in Euro 30.000,00. Quest’ultimo propone sette motivi di ricorso per cassazione. L’intimata non ha depositato difese.
2.- I primi due motivi, con cui il ricorrente lamenta
vizi di motivazione e violazione degli art. 79, 80 e 81
cod. civ. nel capo in cui la sentenza impugnata lo ha
condannato al rimborso delle spese, sono inammissibili perché generici ed apoditticamente formulati.
Il ricorrente lamenta che la Corte di merito non
abbia preso in esame le sue deduzioni circa il giusto motivo della rottura del fidanzamento e non abbia tenuto conto, nella quantificazione dei danni,
della misura in cui dette spese avrebbero potuto essere recuperate, ma non fa alcun riferimento alla
concreta motivazione della sentenza, che ha ritenuto non provate le eccezioni da lui sollevate, né illustra le ragioni per cui la motivazione si dovrebbe
ritenere insufficiente, illogica o contraddittoria.
3.- Con il terzo e il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 81 e 2059 c.c., e vizi di
motivazione, sul rilievo che il risarcimento dei danni
conseguenti all’ingiustificata rottura della promessa
di matrimonio va circoscritto alle spese fatte ed alle
obbligazioni contratte dal promissario; non può essere esteso oltre questi limiti - e men che mai al risarcimento dei danni non patrimoniali – poiché il
recesso dalla promessa non costituisce illecito, in
quanto la legge vuoi salvaguardare fino all’ultimo la
piena libertà delle parti di decidere se contrarre o
non contrarre matrimonio. Richiama a conforto la
recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ.
Sez. 3, 15 aprile 2010 n. 9052).
3.- I motivi sono fondati.
Va premesso che la rottura della promessa di matrimonio formale e solenne - cioè risultante da atto
pubblico o scrittura privata, o dalla richiesta delle
pubblicazioni matrimoniali (come nel caso di specie, ove il ricorrente ha esercitato il recesso solo due
giorni prima della data fissata per la celebrazione
delle nozze) - non può considerarsi comportamento
lecito, come assume il ricorrente, allorché avvenga
senza giustificato motivo.
È indubbio che tale comportamento non genera
l’obbligazione civile di contrarre il matrimonio, ma
il recesso senza giustificato motivo configura pur
sempre il venir meno alla parola data ed all’affidamento creato nel promissario, quindi la violazione
di regole di correttezza e di autoresponsabilità, che
non si possono considerare lecite o giuridicamente
irrilevanti.
Poiché, tuttavia, la legge vuoi salvaguardare fino
all’ultimo la piena ed assoluta libertà di ognuno di
contrarre o non contrarre le nozze, l’illecito consistente nel recesso senza giustificato motivo non è
assoggettato ai principi generali in tema di respon-
CASSAZIONE
Il Collegio, all’esito dell’esame del ricorso, ha condiviso la soluzione e gli argomenti prospettati dal
relatore.
In accoglimento del terzo e del quarto motivo di
ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata
nella parte in cui ha condannato il ricorrente al risarcimento dei danni non patrimoniali.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il terzo e il quarto
motivo di ricorso; rigetta il primo e il secondo motivo e dichiara assorbiti gli altri motivi.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da F. P. con l’atto di appello incidentale e conferma il rigetto dell’appello principale,
proposto da C.G..
***
AUDIZIONE DEL MINORE
NELLE PROCEDURE
DI ADOZIONE
sabilità civile, contrattuale od extracontrattuale, né
alla piena responsabilità risarcitoria che da tali principi consegue, poiché un tale regime potrebbe tradursi in una forma di indiretta pressione sul promittente nel senso dell’accettazione di un legame
non voluto.
Ma neppure si vuole che il danno subito dal promissorio incolpevole rimanga del tutto irrisarcito.
Il componimento fra le due opposte esigenze ha
comportato la previsione a carico del recedente ingiustificato non di una piena responsabilità per
danni, ma di un’obbligazione ex lege a rimborsare
alla controparte quanto meno l’importo delle spese
affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del
matrimonio. Non sono risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli
eventuali danni non patrimoniali.
La motivazione della sentenza impugnata, circa
la rilevanza degli interessi non patrimoniali, degli
affetti e dei diritti della persona del promesso sposo
incolpevole, che sarebbero anche costituzionalmente protetti e che risulterebbero lesi dalla rottura
della promessa, è irrilevante e non congruente con
la disciplina giuridica della materia, poiché tralascia
il presupposto ineliminabile per poter attribuire rilevanza ai suddetti diritti e interessi: cioè l’assoggettamento della promessa di matrimonio e del suo
inadempimento ai principi generali in tema di responsabilità, contrattuale od extracontrattuale, anziché ai soli effetti espressamente previsti dall’art.
81 c.c..
(omissis)
Cass. civ. Sez. I,
19 ottobre 2011, n. 21651
Il minore può essere sentito direttamente dal giudice, ma l’ascolto può essere anche indiretto, tramite un ausiliare del giudice
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 26/9/2007, V.M. chiedeva al Tribunale per i minorenni di Palermo pronunciarsi l’adozione da parte sua della minore C.M., nata
il (OMISSIS), figlia della propria moglie C.S. e di padre
ignoto, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. B).
La C. veniva sentita ed esprimeva assenso all’adozione.
Il Tribunale per i minorenni di Palermo, con sentenza depositata il 26/6/2008, disponeva farsi luogo
alla predetta adozione.
Con ricorso in appello, depositato il 13/3/2009, la C.
chiedeva la revoca dell’adozione, essendo venuta
meno la comunione materiale e spirituale tra i coniugi V. - C., separatisi di fatto nel (OMISSIS).
Si costituiva regolarmente il contraddittorio, e il V.
chiedeva rigettarsi l’appello.
La Corte di Appello di Palermo, con sentenza 19/314/4/2010, accoglieva l’appello della C. e rigettava
l’istanza di adozione da parte del V..
Ricorre per cassazione il V., sulla base di due motivi.
Resiste, con controricorso, la C..
(omissis)
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 55
CASSAZIONE
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 79 e 80 c.p.c., L. n. 184 del 1983, art.
52, comma 2, e vizio di motivazione. Sussistendo
conflitto di interessi tra la C. e la figlia minore, si doveva nominare un curatore speciale; il preminente
interesse della minore stessa avrebbe comunque richiesto la conferma del provvedimento del Tribunale per i minorenni.
Con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 45, nonché della
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo in
ordine all’adozione della minore, alla necessità di
tenere conto delle sue aspirazioni, e comunque di
sentire il suo legale rappresentante o, in caso di conflitto, un curatore speciale ad hoc nominato.
Non si ravvisa violazione delle norme indicate nel
primo motivo, in ordine all’affermata necessità di
nomina di un curatore speciale.
Gli artt. 78, 79 e 80 c.p.c., prevedono la nomina di
un curatore speciale, tra l’altro, in caso di conflitto di
interessi tra rappresentato e rappresentante. L’art.
320 c.c., comma 6, prevede ipotesi di conflitto di interessi, tra genitore e figlio, ma soltanto patrimoniali. Al contrario gli artt. 347 e 360 c.c., non indicati
dal ricorrente, individuano - ma solo in materia di
tutela - conflitto di interessi, anche personali. Il minore ultraquattordicenne esprime il suo consenso
all’adozione, il legale rappresentante (genitore o tutore), in caso di età inferiore dell’adottando, viene
sentito.
D’altra parte, l’art. 46 assicura una netta preminenza alla posizione del genitore che deve prestare
il suo assenso.
Non si potrebbe, in linea di principio escludere
l’applicabilità dell’art. 78 c.p.c., e segg., in caso di
conflitto di interessi tra il minore e il suo legale rappresentante (nella specie il genitore).
E tuttavia il ricorrente avrebbe dovuto proporre
istanza al giudice competente ai sensi dell’art. 80
c.p.c., fornendo indicazioni specifiche al riguardo (il
conflitto deve essere concreto, diretto ed attuale, e
sussiste se al vantaggio di un soggetto corrisponde
il danno dell’altro: al riguardo, Cass. n. 2489 del
1992), non essendo sufficiente il deterioramento di
rapporti tra il genitore dell’adottando e il coniuge richiedente: avrebbe cioè dovuto prospettare, anche
ai fini della nomina di un curatore, che interesse
reale della minore era quello di essere adottata.
Neppure si ravvisa violazione della L. n. 183 del
1984, art. 45, nonché della Convenzione di New York
sui diritti del fanciullo del 1989 (ratificata con L. n.
176 del 1991), denunciata nel secondo motivo.
L’art. 45 predetto, in materia di adozione in casi
particolari, prescrive l’ascolto del minore che abbia
compiuto gli anni dodici, ma pure di età inferiore,
se capace di discernimento. La norma, modificata
dalla L. n. 149 del 2001, che introduce ed intensifica
56 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
l’audizione del minore nella procedura adozionale,
recepisce evidentemente ed opportunamente - il dibattito di questi anni sull’opportunità dell’ascolto
del minore e le indicazioni pregnanti di importanti
documenti internazionali.
La Convenzione di New York sui diritti del bambino, all’art. 12, e quella di Strasburgo sui diritti processuali del minore, all’art. 3, attribuiscono al minore il “diritto” di essere ascoltato, “perché possa
esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessi”. Anche la Carta Europea sui
diritti fondamentali, all’art. 24, precisa che “i bambini possono esprimere liberamente la loro opinione, ed essa viene presa in considerazione per le
questioni che li riguardano”. Questa nuova “cultura”
sull’ascolto del minore già aveva influenzato la riforma dell’adozione del 2001, ed oggi trova un riscontro nell’art. 155 sexies c.c., sull’affidamento
condiviso.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte insistito sull’obbligatorietà dell’ascolto, ove indicato
dalla norma (per tutte, Cass. S.U. n. 9094 del 2007), la
cui mancanza potrebbe rendere invalido il provvedimento assunto.
Nulla si dice nell’art. 45 suindicato sulle modalità
di ascolto. Il minore può essere sentito direttamente
dal giudice, ma pure l’ascolto può essere indiretto,
tramite un ausiliare del giudice, psicologo, educatore, che riferirà poi al giudice stesso. Sarà lo stesso
ausiliare a fornire informazioni sulla sua capacità di
discernimento (per qualche indicazione, v. Cass. n.
14216 del 2010).
Nella specie, come emerge dalla sentenza impugnata, la minore, che è ancora in tenera età, è stata
più volte ascoltata dal CTU, il quale ne ha evidenziato aspirazioni, ricordi, sofferenze.
Sostiene infine il ricorrente che è comunque interesse della minore la conferma della pronuncia di
adozione.
L’adozione (anche quella in casi particolari, di cui
all’art. 44 predetto) ha lo scopo di consentire l’inserimento del minore in un contesto idoneo al suo armonico sviluppo.
Quanto all’adozione del figlio del coniuge, la
norma attribuisce titolo giuridico ad un rapporto di
fatto molto più frequente oggi che in passato; con
l’introduzione del divorzio, spesso si costituiscono
nuove famiglie, con figli nati da precedente matrimonio (prima evidentemente poteva trattarsi solo
del coniuge superstite che contraeva nuovo matrimonio): non vi è alcun rapporto parentale tra il coniuge e il figlio dell’altro coniuge, eppure esiste una
situazione di convivenza, e la presenza del nuovo
coniuge può avere una notevole influenza sullo sviluppo della personalità del fanciullo.
Ulteriore elemento esplicitamente individuato
dalla norma sull’adozione in casi particolari è la
“realizzazione del preminente interesse del mi-
CASSAZIONE
nore”. Non si tratta di una precisazione superflua:
sebbene tutta la normativa adozionale si ispiri alla
realizzazione di tale interesse, l’esigenza avvertita
dal legislatore di far esplicito riferimento ad esso
trova ragione nel rilievo che la norma, oltre ad aver
posto precisi limiti, ed individuato casi tassativi per
limitare la portata dell’istituto, lo circonda di ulteriori cautele, precisando che comunque sarà necessaria un’ulteriore valutazione: che l’adozione realizzi il “preminente interesse del fanciullo”.
Dunque, non basta che il coniuge del genitore presenti domanda, pur consentendo i genitori del minore (e il minore stesso ultraquattordicenne), ma è
necessario che tra il richiedente e il minore stesso
sussista effettivamente un valido rapporto affettivo.
Da quanto osservato emerge che, di regola, l’adozione del figlio del coniuge presuppone convivenza
comune, armonia, affetto tra i coniugi, e dovrebbe
tendenzialmente escludersi quando la comunione
di vita tra essi, come nella specie, sia venuta meno.
E tuttavia la valutazione va fatta, come si diceva, alla
stregua dell’interesse del minore, da valutare in relazione alla specifica fattispecie: dunque, ove si sia
instaurata una positiva relazione tra quest’ultimo e
il richiedente, la cessazione della convivenza matrimoniale tra il richiedente e il genitore del minore
non dovrebbe, sempre e comunque, far venir meno
l’interesse del fanciullo all’adozione. Del resto, com’è noto, anche nell’adozione legittimante, ai sensi
della L. n. 184, art. 25, comma 5, se nel corso dell’affidamento preadottivo interviene separazione tra i
coniugi richiedenti, può pronunciarsi “nell’esclusivo
interesse del minore”, adozione a favore di uno o di
entrambi i coniugi, ove essi o uno di loro ne facevano richiesta.
Il giudice a quo ha effettuato, al riguardo, la sua
valutazione di fatto, e dunque insuscettibile di controllo in questa sede, in quanto accompagnata da
una motivazione ampia, approfondita e non illogica.
Richiamando le risultanze della consulenza tecnica, la sentenza impugnata, pur dando atto del positivo rapporto tra la minore e il V., il quale, prima di
forti contrasti con la moglie, aveva assunto il ruolo
di padre, ben accettato dalla bambina, precisa che
M. ha espresso grande sofferenza per un clima familiare altamente conflittuale. che la poneva nella
drammatica posizione di figlia contesa e obbligata a
scegliere con quale genitore schierarsi;
essa ricordava con terrore le urla e le liti dei genitori ed esprimeva grande timore, di fronte ad un
possibile incontro dei genitori, di un rinnovarsi dell’aspro conflitto. D’altra parte, in relazione ai suggerimenti del consulente - continua il giudice a quo la madre aveva parzialmente mutato il suo atteggiamento verso il coniuge, mostrandosi idonea ad
una collaborazione con lui nell’interesse della figlia;
di fronte ai toni pacati della moglie, il V. ha reagito
con rabbia, rifiutando un confronto sereno, espri-
mendo forme di immaturità ed egocentrismo, restando prigioniero del suo bisogno di ricevere, sempre e comunque, approvazioni incondizionate del
suo operato, dei suoi pensieri e delle sue idee.
Ancora, la sentenza impugnata richiama ulteriori
aspetti critici della personalità del V., quali la sua
percezione del potere in generale, e di quello genitoriale, in particolare, con conseguente totale squalifica, da parte sua, della figura materna, per concludere che l’adozione sarebbe nociva per la minore,
perché attiverebbe, in modo improprio e dannoso
per lei, le rivendicazioni del V. tese ad esercitare un
incisivo potere genitoriale, senza tener conto del delicato e complesso contesto esistenziale in cui la
bambina si trova.
Vanno dunque rigettati i motivi proposti, in
quanto infondati, e, conclusivamente, va rigettato il
ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le
spese del presente giudizio di legittimità.
***
CONVIVENZA MORE
UXORIO E RILEVANZA
SULL’ASSEGNO DIVORZILE
Cass. civ. Sez. I,
11/08/2011, n. 17195
La mera convivenza del coniuge con altra persona
non incide di per sé direttamente sull’assegno di
mantenimento. Qualora, tuttavia, tale convivenza
assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto
che i conviventi instaurino tra di loro una relazione
di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza
la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza
dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la
convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché
solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso.
Svolgimento del processo
Con ricorso ritualmente notificato, F.F. chiedeva
dichiararsi, nei confronti della moglie L.P., la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con esclusione dell’assegno divorzile.
Costituitosi il contraddittorio, la L. dichiarava di
non opporsi al divorzio, e chiedeva assegno per sé.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 57
CASSAZIONE
Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva,
dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Con sentenza definitiva del 30 settembre
- 6 ottobre 2005, rigettava la domanda di assegno
della L., stante la stabile convivenza more uxorio di
questa con altro uomo.
Proponeva appello avverso tale sentenza la L., ribadendo la richiesta di assegno per sé. Costituitosi
il contraddittorio, il F. chiedeva rigettarsi l’appello.
La corte d’Appello di Roma, con sentenza 12 giugno - 20 giugno 2007, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, disponeva in favore della L. assegno
mensile per l’importo di Euro 250,00.
Ricorre per cassazione il F., sulla base di tre motivi.
(omissis)
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, nonché vizio di
motivazione in ordine alla stabile convivenza della
L. con altro uomo, ciò che dovrebbe escludere la cor58 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
responsione di assegno divorzile a carico dell’ex coniuge.
Per una migliore intelligenza della problematica
sollevata, va considerato che una convivenza stabile
e duratura, con o senza figli, tra un uomo e una
donna, che si comportano come se fossero marito e
moglie, è stata volta a volta definita con espressioni
diverse, quali concubinato, convivenza more uxorio,
famiglia di fatto, la prima connotata negativamente,
la seconda di valore neutro e la terza positivamente
connotata. Si può addirittura ipotizzare una sorta di
passaggio, almeno in parte anche in successione
temporale, dall’uso di un’espressione all’altra, che
si accompagna ad un corrispondente mutamento
nel costume sociale.
La prima fase è anche l’unica che trova (o, meglio,
trovava) un preciso riscontro normativo: il concubinato (una sorta di adulterio continuato) costituiva
reato, nonché causa di separazione per colpa.
La convivenza tra uomo e donna, come se fossero
coniugi, rilevava soltanto come forma di sanzione e condizione necessaria era ovviamente che uno dei
conviventi fosse sposato - al fine di maggior difesa
CASSAZIONE
della famiglia legittima. La fase del concubinato volgeva al termine, dopo una nota sentenza della Corte
Costituzionale (Corte Cost. n 167/1969) che cancellò
tale ipotesi di reato.
In una diversa fase, nella quale l’espressione convivenza more uxorio andava gradualmente sostituendo quella di concubinato, prevaleva una sorta
di “agnosticismo” dell’ordinamento nei confronti del
fenomeno, derivante dalla mancata regolamentazione normativa di esso, e, con riferimento ai principii costituzionali, dall’art. 29 Cost., che soltanto “riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio”, disposizione ritenuta confermativa del disinteresse dell’ordinamento verso
altri tipi di organizzazione familiare.
In una fase successiva, che si può collocare temporalmente alle soglie e successivamente alla riforma generale del diritto di famiglia, l’espressione
“famiglia di fatto” comincia ad essere sempre più
frequentemente accolta. Essa non indica soltanto il
convivere come coniugi, ma individua una vera e
propria “famiglia”, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione della prole. In tal senso, si rinviene, seppur indirettamente, nella stessa Carta Costituzionale, una
possibile garanzia per la famiglia di fatto, quale formazione sociale in cui si svolge la personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost. La riforma del
diritto di famiglia del 1975, pur non contenendo alcun riferimento esplicito alla famiglia di fatto, viene
ad accelerare tale evoluzione di idee:
nella rinnovata normativa emerge un diverso modello familiare, aperto e comunitario, una sicura valutazione dell’elemento affettivo, rispetto ai vincoli
formali e coercitivi, l’eliminazione di gran parte
delle discriminazioni della filiazione naturale rispetto a quella legittima. E talora si ritiene attribuita
rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, in presenza
di figli, con riferimento all’art. 317 bis c.c., ove si precisa che i genitori naturali, se conviventi, esercitano
congiuntamente la potestà.
Nella specie, la Corte d’Appello accerta l’instaurazione di un rapporto stabile di convivenza della L.
con altro uomo: questi ha dato un apporto notevole
al menage familiare, mettendo a disposizione per la
convivenza un’abitazione di (OMISSIS), proprietà di
una s.r.l. di cui egli detiene il 99% delle quote, la coppia ha avuto due figli, in un breve lasso di tempo
(2001 - 2003); durante la convivenza matrimoniale
non erano nati figli.
Presume la Corte di merito che gli impegni connessi alla maternità ed all’accudimento dei bambini,
ancora in tenera età, abbiano impedito “il collocamento nel mondo del lavoro della L.”;
Ritiene peraltro che, benché la volontarietà di alcune scelte di vita della L. (l’instaurazione della convivenza, la nascita dei figli, etc.), non possa farsi ri-
cadere sul coniuge, tuttavia la sperequazione dei
mezzi di questa di fronte alle disponibilità economiche del F. - che già caratterizzavano il tenore di
vita durante la convivenza matrimoniale - giustifichi la corresponsione di un assegno divorzile a carico dell’ex coniuge. l’argomentazione del Giudice a
quo è palesemente erronea.
È vero che giurisprudenza consolidata di questa
Corte (tra le altre, da ultimo, Cass. n 23968/2010) afferma che la mera convivenza del coniuge con altra
persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento. E tuttavia, ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e
i conviventi elaborino un progetto ed un modello di
vita in comune (analogo a quello che; di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio: come
già si diceva, arricchimento e potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, e trasmissione di valori educativi ai figli (non si deve dimenticare che obblighi e diritti dei genitori nei confronti
dei figli sono assolutamente identici, ai sensi dell’art. 30 Cost. e art. 261 c.c., in ambito matrimoniale
e fuori dal matrimonio), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto (al riguardo, Cass., n. 4761/1993).
A quel punto il parametro dell’adeguatezza dei
mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la
convivenza matrimoniale da uno dei partner non
può che venir meno di fronte: all’esistenza di una
famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso (v. s.u. 2 punto Cass. 2003 n. 11975).
È evidente peraltro che non vi è né identità, né
analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto
all’assegno, e la fattispecie in esame, che necessita
di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale. Come talora questa Corte ha precisato (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 3503/1998), si tratta, in
sostanza, di quiescenza del diritto all’assegno, che
potrebbe riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto, com’è noto effettuabile
ad nutum, ed in assenza di una normativa specifica,
estranea al nostro ordinamento, che non prevede
garanzia alcuna per l’ex familiare di fatto (salvo
eventuali accordi economici stipulati tra i conviventi
stessi).
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri;
cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte
d’Appello di Roma in diversa composizione, che
pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 59
IN LIBRERIA
In libreria
a cura dell’avv. GIANFRANCO DOSI
PAOLA AGLIETTA
Tassazione e Famiglia.
Aspetti Fiscali, tutela giuridica
e accertamento nelle vicende
familiari
Giuffrè Editore 2011
Edito da Giuffrè Editore nella Collana Teoria e Pratica del diritto in
materia di Fisco e Tributi si segnala una pubblicazione dal titolo Tassazione e Famiglia - Aspetti
Fiscali, tutela giuridica e accertamento nelle vicende familiari di
Paola Aglietta che è Dottore Commercialista in Torino e Revisore
Contabile, partner dello Studio LS
Lexjus Sinacta Avvocati e Commercialisti Associati. Il libro il cui
sottotitolo è Aspetti Fiscali, tutela
giuridica e accertamento nelle vicende familiari si propone di fornire uno strumento chiaro, di facile comprensione e che permetta un’immediata risposta ai
quesiti propri delle dinamiche fi60 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
scali connesse alle vicende del
rapporto familiare. Vengono approfondite in particolare le problematiche fiscali legate a situazioni patrimoniali complesse
nonché agli aspetti propri dell’azienda familiare ovvero della
cessione e/o conferimento di
quote di aziende. L’autrice segue
un percorso serrato e sistematico
accompagnando il lettore nell’esame ed analisi del sistema
della tassazione applicato alla
persona fisica ed alla persona
giuridica per poi soffermarsi nell’analisi e nello sviluppo di considerazioni relative alle figure più
particolari connesse alla famiglia
ed all’Azienda familiare. Il testo è
ricco di schemi riepilogativi che
permettono al fruitore meno
esperto di avere una immediata
cognizione del problema e delle
possibili soluzioni allo stesso: di
particolare utilità rimangono gli
schemi relativi al reddito dell’attività di impresa piuttosto che
derivanti da lavoro autonomo
nonché l’analisi del cumulo tra
reddito da lavoro dipendente e da
lavoro autonomo ovvero l’attenta
e puntuale analisi delle detrazioni e/o deduzioni fiscali per i
familiari a carico. Il percorso narrativo si dispiega attraverso tre
parti per un totale di tredici capitoli. Una prima parte incentrata
sulla tassazione dei redditi con
distinzione degli stessi in redditi:
delle persone fisiche, fondiari, di
capitali, di lavoro dipendente e di
lavoro autonomo, di impresa e
redditi diversi con conclusiva
analisi delle agevolazioni fiscali e
delle detrazioni. La seconda parte
si focalizza sul patrimonio e le vicende della famiglia dove vengono analizzate le figure che si
propongono di tutelare i bisogni
della famiglia. Di particolare interesse è questa parte del testo in
cui risulta approfondita la tematica del fondo patrimoniale, del
trust
nonché
dell’acquisto
d’azienda mediante procedure di
family by out (leverage by out); il
tutto accompagnato da una puntuale indicazione degli incom-
benti fiscali e dell’impatto delle
imposte e delle tasse sull’operazione. A tale proposito l’Autrice si
sofferma anche nell’indicazione
ed analisi delle possibili criticità
legate alla segregazione del patrimonio e, di contro, dei vantaggi
propri ed impropri dell’impiego
di tali forme di gestione del patrimonio della famiglia. La terza
parte si sofferma sull’annosa
questione dell’accertamento dei
redditi alla luce delle recenti innovazioni introdotte in ambito fiscale per l’accertamento induttivo del reddito.
Un libro chiaro e semplice nella
sua impostazione e di grande utilità atteso che permette di ottenere immediate risposte per il
successivo
approfondimento
della problematica da parte del
Professionista.
ALESSANDRA PÈ
e ANTONELLA RUGGIU (a cura di)
Il Giusto processo
e la protezione del minore
Puer Franco Angeli 2011
L’opera regala contributi di studio che prestigiosi autori hanno
reso nell’ambito del XXVII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana dei magistrati per i
minorenni e la famiglia svoltosi
a Brescia nel 2008 in occasione
del sessantesimo anniversario
della Costituzione. L’introdu-
IN LIBRERIA
zione di Cesare Ruperto, Presidente emerito della Corte Costituzionale ricorda la sovranità
delle regole e dei valori costituzionali sul legislatore, sugli operatori del diritto primi tra tutti
sui giudici che nei processi sono
deputati ad investire la Corte del
giudizio di costituzionalità di
ciascuna legge ritenuta non conforme alla Costituzione prima di
applicarla.
La prima parte dell’opera affronta
l’importante
questione
dell’ascolto dei bambini nei procedimenti civili con un richiamo alla
rilevante normativa di riferimento a livello internazionale ed
europeo sino alla previsione del
nuovo testo dell’art. 155 sexsies
c.c. introdotto dalla Legge n.
54/2006.
Esamina gli orientamenti interpretativi circa la obbligatorietà o
la facoltatività dell’ascolto, le modalità, le condizioni e l’ambito
dello stesso, ne precisa il contenuto processuale non diretto in
ogni caso all’acquisizione degli
elementi istruttori. Al minore
deve essere data la possibilità di
essere ascoltato in relazione a
qualsiasi procedimento che lo riguardi e la mancanza di ciò, in
forza del Regolamento CE
2201/03, costituisce motivo di rifiuto del riconoscimento negli
Stati membri delle decisioni straniere relative alla potestà genitoriale.
La seconda parte più specificamente si occupa dell’impatto
delle regole del giusto processo
ex art. 111 Cost. sui procedimenti
giudiziari aventi ad oggetto la
protezione e l’affidamento dei
minori ed il fine della realizzazione del loro superiore interesse.
I diversi contributi evidenziano
come il giusto processo necessiti
di specializzazione con approccio
multidisciplinare dei giudici onorari in ragione dei mutamenti
profondi che la società repentinamente subisce, di maggiore
raccordo tra i pubblici ministeri
ed i servizi sociali ed in genere
con tutti i soggetti che si occupano di assistenza e che possono
riferire sulle condizioni di pregiudizio o abbandono di un minore.
Il giusto processo richiede anche
maggiore chiarezza e competenza circa l’esercizio delle funzioni di difensore dei genitori e di
curatore speciale/avvocato del
minore quale parte del processo
mentre le consulenze tecniche
dovrebbero ridurre al minimo i
disagi per i minori ed essere
espletate solo se strettamente
necessarie; nelle stesse il minore
dovrebbe trovare un suo spazio di
accoglienza che lo aiuti a chiarire
ed attenuare “il dolore confusivo”
in cui è immerso.
La terza parte è poi dedicata al
ruolo dei servizi sociali nei processi minorili ed al rapporto tra
questi ed i tribunali - terzi ed imparziali - che dovrebbe essere
equilibrato e rispettoso del principio del contraddittorio.
Un approfondimento viene riservato nella quarta parte al processo penale minorile imperniato
sul principio della personalità del
minore, della rapida uscita del
minore dall’area penale, della minore offensività del processo e
del recupero sociale del minore.
Di particolare interesse è l’analisi
del mutamento del processo penale minorile in base al nuovo
concetto di “devianze minorili”
che ha cambiato volto in ragione
dell’evoluzione negli anni del
concetto di famiglia e del termine
di adolescenza. I contributi della
parte quinta descrivono in maniera puntuale i dodici principi
deontologici destinati ai giudici
che si occupano di minori e di famiglia, principi recepiti nel Codice etico approvato dall’IMJF il
24 aprile 2010 che riprende ed integra i principi di Bangalore approvati a l’Aja il 26 novembre
2002.
Da ultimo, i lavori dei gruppi di
studio evidenziano la possibilità
di individuare, attraverso una
analisi comparativa di esperienze
straniere, gli elementi per una riforma ordinamentale e processuale della materia capace di dare
maggiore chiarezza e definitività
alla leggi che la regolano come
quella sull’affido condiviso (legge
54/2006) e quella sui procedimenti di adozione e de potestate
(legge 149/2001 entrata in vigore
l’1 luglio 2007). L’obiettivo del testo che è rivolto a tutti gli utenti
del diritto, è quello di fornire
nuovi ed utili spunti di cambiamento alla situazione attuale
della giustizia minorile.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 61
IN LIBRERIA
MICHELE SESTA
Manuele di Diritto di Famiglia
CON SCHEMI RIASSUNTIVI
Cedam, quarta edizione 2011
Manuale del diritto di famiglia o
meglio delle relazioni familiari,
testo di facile lettura e comprensione rivolto a chiunque, non
solo agli studenti. L’autore passa
in rassegna gli istituti fondamentali del diritto di famiglia arricchiti dei nuovi contenuti apportati dalle regole dettate dalla
legge sull’affido condiviso ma anche dalle norme esistenti in ambito internazionale e comunitario
a soddisfazione degli interessi
della famiglia intesi come interessi dei singoli che ne fanno
parte con uno sguardo attento
alla tutela dei figli.
Il matrimonio e le condizioni per
contrarlo, i diritti e doveri nascenti dal matrimonio la cui violazione, se produttiva di un
danno ingiusto derivante della
lesione della persona costituzionalmente tutelata, è fonte di responsabilità giuridica a prescindere dal rimedio dell’addebito.
Analizzando gli effetti patrimoniali discendenti dal vincolo matrimoniale, si sottolinea il progressivo abbandono del regime
della comunione in favore della
separazione dei beni (art. 215
c.c.), degli altri regimi pattizi (artt.
167 e 210 c.c.) e degli altri regimi
patrimoniali atipici (artt. 167 c.c.
62 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
e 30 L. 218/95). Ipotesi di autonomia dei partners nel disporre del
loro rapporto che traggono
spunto dalle diverse esperienze
in essere in atri Paesi a migliore
tutela del “coniuge debole” per
una equa allocazione della ricchezza familiare. L’impresa familiare e la prosecuzione dell’attività imprenditoriale a seguito
della morte dell’imprenditore
(artt. 768 bis e ss. c.c. introdotti
dalla L. 14/02/06 n. 55). Accanto
alla tutela della famiglia fondata
sul matrimonio si pone la necessità di una adeguata tutela giuridica per le convivenze di fatto
anche omosessuali - già disciplinate come matrimoni negli ordinamenti di vari Paesi - attraverso
il processo di valorizzazione della
sfera individuale dei membri
della famiglia.
L’autore affronta la copiosa disciplina della rottura del matrimonio e dei suoi effetti di natura personale, patrimoniale e nei riguardi dei figli rapportandola al
fenomeno diffuso della famiglia
di fatto e della famiglia ricomposta attraverso la rassegna di vari
progetti di legge ad iniziativa parlamentare non giunti però a compimento.
Il testo dedica particolare attenzione al rapporto genitore-figlio
ricordando come l’ordinamento,
sensibile all’indissolubilità dello
stesso al di là del matrimonio, sia
arrivato all’unificazione dello status di filiazione. I minori ed i suoi
bisogni sono al centro dell’attenzione del diritto di famiglia che si
evolve sulla scorta degli orientamenti emersi in sede internazionale. Accanto alla valorizzazione
dei diritti dei minori, l’autore segnala lo sviluppo di una maggiore sensibilità da parte della famiglia (amministrazione di sostegno o art. 155 quinquies co. 2
c.c.) agli obblighi di cura ed assistenza dei soggetti deboli (anziani, Handicap). L’attuazione dei
doveri di solidarietà connessi alla
famiglia riguarda anche l’imponente flusso migratorio che interessa il nostro sistema con parti-
colare riferimento al ricongiungimento familiare. Michela Sesta
affronta il tema della responsabilità civile nell’ambito delle relazioni familiari. Responsabilità
che muta in ragione dei “nuovi
danni” elaborati negli ultimi anni
dalla giurisprudenza per poi concludere con pratici schemi riassuntivi di tutti gli argomenti trattati nel manuale.
GIULIA CONTRI (a cura di)
Minori in Giudizio.
La Convenzione di Strasburgo
Puer Franco Angeli 2011
Si segnala nella Collana Puer
edita da Franco Angeli una ottima pubblicazione dal titolo Minori in Giudizio - La convenzione di
Strasburgo a cura di Giulia Contri
che è psicoanalista e avvocato
della salute, docente presso la
Scuola della “Società Amici del
pensiero Sigmund Freud di Milano” nonché collaboratrice con
la rivista MinoriGiustizia; occupandosi, altresì, del riordinamento di minori in difficoltà in
famiglia, nella scuola e nel giudiziario. Il libro il cui sottotitolo è
La Convenzione di Strasburgo si rivolge alle diverse professionalità
del giudice, dell’avvocato, dello
psicologo, dell’assistente sociale
e degli operatori a vario titolo
dell’ambito giudiziario al fine di
verificare quale sia lo stato appli-
IN LIBRERIA
cativo della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei
minori adottata dal Consiglio
d’Europa il 25 Gennaio 1996 proponendo una serie di interventi
di esperti di quelle richiamate
categorie che, nell’ambito di procedimenti giudiziari, si trovano a
doversi confrontare con le problematiche tutte quante imperniate attorno al minore ed alla
sua capacità di “stare in giudizio”. Sin dalla premessa l’autrice
ci rappresenta come a far da materia e da spunto per il testo sia
il Colloquio dal titolo capacità del
minore e Convenzione di Strasburgo
promosso dalla Società “Amici
del Pensiero Sigmund Freud” di
Milano dell’Ottobre 2009. I contributi dei relatori sono stati ri-
portati in relazione alle tematiche trattate. Il lettore è accompagnato nella lettura da una alternanza tra le riflessioni a carattere prioritariamente giuridico e
quelle più propriamente a carattere psicologico e sociale. La
prima, la seconda e la quarta sezione del libro si soffermano nell’esame puntuale del diritto del
minore ad essere parte nel giudizio nonché alla capacità di quest’ultimo a stare in giudizio mentre la terza e la quinta si soffermano sui risvolti psicologici e sociali della presenza del minore
nel giudizio. Il percorso narrativo
si snoda attraverso riflessioni e
contributi tesi a focalizzare l’attenzione del lettore circa il ruolo
svolto dal bambino nel processo
procedendo attraverso l’analisi
dell’evoluzione giurisprudenziale
tra la capacità giuridica e di agire,
capacità di intendere e di volere,
per poi addentrarsi nell’analisi
del peso che potrebbe essere
dato all’opinione espressa dal
bambino in giudizio con riferimento alla “capacità di discernimento” del minore; ciò anche
alla luce della Legge 20 Marzo
2003, n. 77. L’analisi clinica del
minore, dell’evoluzione della sua
capacità di discernimento, la sua
attitudine a comprendere la società per inserirvisi con l’ausilio
dei genitori e i metodi approntati
dall’Ordinamento interno ed internazionale per la rieducazione
del bambino e la sua imputabilità, trovano ampio spazio di approfondimento, permettendo al
lettore di avere maggiori spunti
nell’avvicinarsi alle problematiche giuridiche nelle quali può essere coinvolto il minore. Di particolare interesse è l’analisi svolta
della Convenzione di Strasburgo
sul ruolo dell’avvocato nonché
sulla relazione avvocato/minore
intesa come avvocato/assistito
nonché sulla necessità di promuovere la presenza in giudizio
del minore e non sostituirla; il
tutto alla luce del paradosso
della Convenzione per il quale al
minore è riconosciuto il diritto a
stare in giudizio ma non bisogna
coinvolgere il minore in un giudizio. La sesta sezione vuole soffermarsi sulla formazione dell’avvocato relativamente all’attività alla quale è chiamato in tali
giudizi con particolare attenzione al modo di rapportarsi del
“Legale” con il minore laddove il
suo compito è quello di aiutare il
minore a fare valere il proprio
pensiero e non sostituire il proprio a quello del minore, a tale
fine vengono elencate “sette regole d’oro” da seguire nell’assistenza del minore. Un libro da
leggere anche per i “non addetti
ai lavori” anche quale spunto di
riflessioni rispetto a tematiche di
interesse oltre che giuridico anche sociale.
gennaio-marzo 2012 | Avvocati di famiglia | 63
IN LIBRERIA
GILDA FERRANDO
e LEONARDO LENTI (a cura di)
La separazione
personale dei coniugi
in Trattato teorico-pratico
di diritto privato diretto da
Guida Alpa e Salvatore Patti
Cedam, Padova, 2011
Il volume offre al lettore un insieme veramente interessante di
contributi sulla separazione personale dei coniugi. La prima parte
raccoglie riflessioni aggiornate
sulla separazione consensuale
(Gilda Ferrando), sulla separazione
giudiziale (Leonardo Lenti) e sulla
separazione di fatto (Luciano Oliviero) a cui si accompagnano uno
studio sulla riconciliazione (Luciano Oliviero) e sugli ordini di protezione (Roberta Barbanera). La seconda parte del volume tratta degli
64 | Avvocati di famiglia | gennaio-marzo 2012
effetti della separazione sui rapporti personali tra i coniugi (Leonardo Lenti), dell’affidamento dei
figli (Gilda Ferrando), dell’assegnazione della casa familiare (Gilda
Ferrando), delle questioni relative
al mantenimento coniugale e dei
figli (Luciano Oliviero). La terza
parte affronta sia le questioni processuali con una riflessione sul
processo di separazione (Gianfranco Dosi), sia i profili connessi
alla violazione dei doveri familiari
e alla responsabilità civile (Leonardo Lenti); si passano poi in rassegna alcuni profili di diritto internazionale e dell’unione europea
(Joelle Long) e gli aspetti fiscali
(Agnese Querci). Chiude il volume
un’interessante rassegna che
prende in considerazione più punti
di vista su alcune grandi questioni
problematiche offrendo un panorama dei più significativi orientamenti della giurisprudenza.
MASSIMARIO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
Avvocati di famiglia
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Le sezioni territoriali
dell’Osservatorio
nazionale sul diritto
di famiglia
Ancona
Arezzo
Ascoli Piceno
Asti
Avellino
Avezzano
Barcellona Pozzo di Gotto
Bari
Belluno
Benevento
Bolzano
Brescia
Cagliari
Caltanissetta
Campobasso
Caserta
Cassino
Catania
Chiavari
Chieti
Civitavecchia
Crotone
Cuneo
Firenze
Frosinone
Genova
Grosseto
Isernia
La Spezia
Larino Termoli
Latina
Livorno
Lodi
Lucca
Macerata
Massa
Messina
Milano
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Nola
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Verona
Vibo Valentia