Didasfera - Ambiente didattico digitale Leopardi © Ritratto di Giacomo Leopardi Zibaldone Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro buono che quel che non è; le cose che non son cose; tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi non esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone dell’infinità vera, per così dire, del non esistente, del nulla. Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibniz, del Pope ecc. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità? [Zibaldone, 4174, Bologna, 22 aprile 1826] Lo Zibaldone di Giacomo Leopardi può essere considerato, non contraddicendo alle intenzioni stesse del poeta, un testo filosofico. Esso infatti risponde a due esigenze: raccogliere il pensiero attorno ad alcune grandi questioni di senso, metafisiche ed esistenziali – anche se ovviamente l’opera non si limita a questo -; segnare un itinerario esistenziale all’interno dell’esperienza umana del poeta, nella tradizione spirituale delle scuole elleniste che hanno, nelle Memorie di Marco Aurelio, il loro riferimento esemplare. In quest’ultimo caso, lo Zibaldone appare più come un esercizio nel senso classico del termine, un’aischesis, ovvero la ricerca di una “ascesi” verso la riconciliazione delle proprie contraddizioni Pagina 1/4 Didasfera - Ambiente didattico digitale esistenziali. In merito al contenuto del brano proposto, vanno sottolineati due grandi temi: il cosiddetto pessimismo leopardiano, e il tema dell’infinito. Sulla prima questione sono state scritte innumerevoli pagine; fra queste, abbiamo scelto una brevissima nota di Cesare Luporini: «Come su questo deserto si instauri e si innalzi la teoria leopardiana della virtù individuale, caratterizzata essa stessa nichilisticamente quale forza contestativa e negante, veritativa ma paradossalmente fondata sul disvalore del nulla (il nulla non sarà mai accettato da Leopardi quale mistico valore, se non forse per un attimo, almeno implicitamente, nell’Infinito), e come di qui egli possa alla fine addirittura fare il salto a un comunitarismo e solidarismo umani, a un “vero amor” a cui è tuttavia criticamente sottratta ogni utopica speranza, è cosa da vedersi ancora» . In poche parole, l’esito della teoria del Nulla leopardiano si manifesta come una tensione solidaristica capace, come in Schopenhauer, di capovolgere la sofferenza della condizione umana – nel filosofo tedesco dovuta al dominio irrazionale della Volontà sull’esistenza – in sentimento di fratellanza e amore tra gli uomini, accomunati dallo stesso destino di vana sofferenza. [vedi a questo proposito La ginestra]. È un “salto di qualità” che non ha giustificazione logica, che non è legato cioè a un’argomentazione stringente, così come, in Fichte, il passaggio dalla coscienza comune dell’io diviso alla coscienza assoluta del filosofo. È un segno dell’epoca, a cui Leopardi non poteva evidentemente sottrarsi. Il tema leopardiano dell’ infinito appare qui espresso nella sua forma definitiva e completa: l’infinito, per il poeta di Recanati, è, e nello stesso tempo non è, qualcosa di reale, di attuale in senso artistotelico. Non è reale in quanto non può esistere qualcosa come l’infinito, e qualcosa di infinito, in piena coerenza con i fondamenti materialistici della visione del mondo leopardiana. Ma è reale in quanto esso costituisce il fondamento ontologico del mondo: in quanto Nulla, l’essere (ovvero il non-essere) non può che essere assoluto, cioè infinito; l’unico autentico e concepibile infinito. L'infinito Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Il celebre idillio contiene una delle contraddizioni più sublimi legate alla “concezione” dell’Infinito: il dire qualcosa che non può essere rappresentato. In numerosi punti del suo pensiero Leopardi ribadisce che “è solo l’immaginazione che toglie i confini del cosmo: il fanciullo, il selvaggio, il primitivo credono che il mare non abbia confini e che le stelle non si possano contare”; l’infinito appartiene alle illusioni umane, e come tale è fonte di ispirazione e di tormenti. E tuttavia la scommessa che il poeta affronta nel suo capolavoro è quella di rappresentare con le parole della poesia l’unico infinito possibile: il nulla. Più che le parole o i termini della perfezione, a cui gli uomini insensatamente associano il concetto di infinito (“Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?” – Zibaldone, 7 aprile 1827), quelli che ricorrono nella poesia sono i riferimenti al suono; la realtà, ridotta all’essenziale “stormire” delle piante, si oppone all’infinito in quanto “profondissima quiete”, “sovrumano silenzio”, “infinito silenzio” e “morte stagioni”. Un vuoto assoluto di senso, l’indicibile nel quale il pensiero non può che “naufragare”. Grazie a Leopardi, la poesia risulta quindi essere l’unico mezzo per rappresentare ciò che neppure l’immaginazione può cogliere, né tanto meno l’arte pittorica o la musica. Pagina 2/4 Didasfera - Ambiente didattico digitale L’infinito come progresso e come assoluto L'Infinito e l'infelicità: Schopenhauer e Leopardi Francesco De Sanctis ha scritto: « Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l'uno creava la metafisica e l'altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché. [...] Il perché l'ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille [volontà]». Vedi il testo Assiologia e ontologia nel nichilismo di Leopardi, in: Leopardi e il pensiero moderno, Feltrinelli 1989, pag. 244 Schopenhauer, Arthur Filosofo (Danzica 1788- Francoforte sul Meno 1860). Vita e opere. Figlio di un ricco banchiere di fede repubblicana, Heinrich Floris S., e di Johanna Trosiener, seguì la famiglia ad Amburgo quando la sua città natale passò sotto il dominio prussiano (1793). Sebbene non mostrasse alcuna vocazione in tal senso, fu avviato agli studi commerciali dal padre, e dopo la scomparsa improvvisa di quest’ultimo (forse morto suicida), ne curò per qualche tempo gli interessi, mentre sua madre si trasferiva a Weimar e iniziava una fortunata attività letteraria come scrittrice di saggi e romanzi, nonché animatrice di un salotto frequentato da figure di spicco del panorama letterario tedesco (tra cui Goethe). Nel 1809 si iscrisse all’univ. di Gottinga, dove frequentò dapprima i corsi di medicina, poi quelli di filosofia (in partic. di Schulze). Nel 1811, a Berlino, assistendo alle lezioni di Fichte, cominciò a maturare quell’avversione verso l’idealismo postkantiano che in seguito avrebbe assunto aspetti parossistici. Nel 1813 completò la sua dissertazione, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (trad. it. La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), con cui si laureò a Jena; l’anno seguente, mentre rompeva le relazioni con sua madre, conobbe Goethe, che gli illustrò la sua teoria dei colori (argomento su cui S. pubblicò, nel 1816, il saggio Über das Sehen und die Farben) e l’orientalista F. Mayer, che lo introdusse alla conoscenza della civiltà indiana. Nel 1819, compiuto il suo capolavoro, Die Welt als Wille und Vorstellung (trad. it. Il mondo come volontà e rappresentazione), ottenne la venia docendi nell’univ. di Berlino, ma la esercitò con scarso zelo e poco successo: gli studenti disertavano le sue lezioni e affollavano quelle di Hegel, allora nel pieno della sua fama. L’insuccesso nell’insegnamento inasprì ancora di più il suo disprezzo per l’idealismo; nacque così il violentissimo attacco contro la «filosofia delle università». Trascorso un lungo periodo in Italia, nel 1825 tornò a Berlino, città che lasciò nel 1831, per sfuggire all’epidemia di colera (che avrebbe invece colpito Hegel). Stabilitosi a Francoforte sul Meno, nel 1836 pubblicò Über den Willen in der Natur (trad. it. La volontà della natura) e tre anni dopo, partecipando a un concorso indetto dall’Accademia di Trondheim, ottenne il primo riconoscimento ufficiale con lo scritto Über die Freiheit des menschlichen Willens (trad. it. La libertà del volere umano), che nel 1841 ripubblicò assieme al saggio Über das Fundament der Moral (trad. it. Il fondamento della morale) in un volume dal titolo Die beiden Grundprobleme der Ethik (trad. it. I due problemi fondamentali dell’etica). Nel 1849 S. salutò con favore la repressione militare del movimento liberal-democratico tedesco, posizione, questa, che confermò in punto di morte, lasciando i suoi averi a un Istituto di soccorso per i soldati prussiani feriti e caduti nel corso del «ristabilimento dell’ordine». Due anni più tardi, il successo che accolse la pubblicazione dei Parerga und Paralipomena (trad. it. Parerga e paralipomena) segnò una svolta nella ricezione dei suoi scritti nell’ambiente culturale tedesco; così, la terza edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (pubblicata nel 1859, e integrata da una serie di Supplementi) sfuggì al triste destino delle precedenti (la prima era finita al macero). Dopo la sua morte, i lettori delle sue opere – caratterizzate da uno stile pregevole, che rifugge i tecnicismi filosofici e tende talvolta alla forma letteraria, perfino all’afflato poetico – si moltiplicarono, e il suo pensiero fu per molto tempo di moda, preparando l’ambiente spirituale propizio a R. Wagner e a Nietzsche. A tale successo postumo contribuì anche l’attenzione che continuava a suscitare la sua personalità ricca di contrasti, incline alle relazioni sentimentali, nonostante l’irrimediabile pessimismo del credo filosofico e la sua misoginia dichiarata (nonché teorizzata). Da: Treccani.it nota di copyright: ritratto di S. Ferrazzi del 1820 circa (Recanati, casa Leopardi) - immagine di pubblico dominio Pagina 3/4 Didasfera - Ambiente didattico digitale In questa unità Testo: Storia delle idee Autore: Maurizio Châtel Curatore: Maurizio Châtel Metaredazione: Donatella Piacentino Editore: BBN Pagina 4/4