A11 520 Edoardo Lamedica L’anima sensitiva di Aristotele Alterazione compensativa e rete integrata dei sensi Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–3372–2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2010 Voglio qui ringraziare la mia famiglia, che mi ha insegnato il rispetto (anche culturale) verso se stessi e verso gli altri, i professori Piccioni e Illuminati, per l’estrema disponibilità e gli utili consigli, mio zio Antonio, supporto e stimolo costante nei momenti di maggior difficoltà, il mio amico Giuseppe, la cui perizia informatica mi ha più volte salvato. Indice 9 Prefazione Augusto Illuminati 17Introduzione 19 1. Sensazione nel De Anima 1.1. Una facoltà problematica in un testo problematico – 1.2. La “philosophy of soul” di Aristotele 39 2. Il De Anima come luogo di test dell’ilemorfismo 2.1. Oggetto e metodo – 2.2. Ilemorfismo e/o funzionalismo 69 3. La definizione di anima 3.1. Salvare i fenomeni – 3.2. La dialettica – 3.3. La definizione – 3.4. Le parti e i loro legami – 3.5. La nutrizione come modello 117 4. La sensazione: approcci e interpretazioni 4.1. Diverse interpretazioni in conflitto– 4.2. Diversità di approcci 191 5. La sensazione nel De Anima: le formule, gli aspetti materiali e formali 5.1. I luoghi del De Anima – 5.2. L’aspetto materiale – 5.3. Verso gli aspetti formali: le “formule” della sensazione – 5.4. Gli aspetti formali 309 6. I cinque sensi 315 7. Una “teoria della coscienza”? 7.1. Interpretazioni prevalenti – 7.2. Uno spunto interessante 327 Bibliografia 7 Prefazione L’autore, proprio fondandosi su una ricognizione molto approfondita del dibattito contemporaneo sulla filosofia della mente, osserva a un certo punto che la frontiera fra le varie tipologie interpretative del De Anima aristotelico, indubbiamente il test più significativo dell’ilemorfismo, è particolarmente porosa a proposito delle sensazioni, che inevitabilmente tendiamo a leggere attraverso l’attualizzazione (arbitraria) come “terza via” ovvero modello di non reductionist materialism fra i due estremi del dualismo cartesiano e del fisicalismo riduzionista. Concetti quali sopravvenienza, emergenza, epigénesis (concetti moderni, ma rinvenibili già in Alessandro di Afrodisia), lo stesso rapporto tra facoltà e oikeia hule, cioè una disposizione corporea adatta, propria alla funzione, si possono individuare molto meglio a questo livello che non a quello delle attività mentali, dove il noûs poietikós, che comunque è la più vistosa traccia di un’eredità platonica, esibisce fin troppo facilmente un’efficacia causale top–down, una superimposizione formale sulla proporzione atta a ricevere. Anche se intendiamo il rapporto come sovrapposizione funzionale di due livelli non di due sostanze, contro il dualismo ontologico di buona parte degli interpreti (per non parlare della sussunzione cristiana), resa possibile dagli attributi trascendentali del noûs poietikós e della sua provenienza “esterna” (éxothen) dichiarata distrattamente nel De generatione animalium. Per altro verso, giustamente Lamedica registra la difficoltà di sovrapporre semplicemente concetti odierni sul canovaccio aristo9 10 Prefazione telico, respinge la facile «security of a classical heritage» cui agganciare soluzioni oggi controverse. Per esempio, l’inopportunità di chiamare funzionalismo qualcosa che appartiene a una problematica ilemorfica, ben anteriore al problema postcartesiano Mind–Body. Una specie di illegittima ricerca di antenati che non getta troppa luce sulle problematiche genuinamente aristoteliche, anche se a volte serve a chiarificare i presupposti di certi assunti contemporanei. Soprattutto — a mio parere — se si prende in esame non solo il testo dello Stagirita ma tutta la tradizione di origine peripatetica, in cui effettivamente sono riscontrabili anticipazioni del moderno, proprio per l’intreccio con motivi neoplatonici e cristiani. Basti pensare alla problematica dell’intenzionalità che in molteplici camuffamenti va da Filopono al ma’na arabo alle species intentionales scolastiche, giù giù fino a Brentano e all’awareness di Burnyeat. Per non parlare dei qualia di Searle. In questi casi l’alterazione sui generis del senso, insomma l’oscillazione fra alteratio corruptiva e perfectiva, esce dall’ambito della discussione fisiologica e si fa carico di un elemento trascendentale. Spieghiamoci. L’adozione del mutamento come realizzazione positiva della potenzialità (e non danneggiamento) tocca il culmine per le funzioni mentali, risolvendo l’aporia fra lettura spiritualist (Burnyeat) e literalist (Sorabji) o sopravveniente (Everson) di Aristotele quando entra in scena l’attività intellettuale. Non per nulla alcuni commentatori antichi (per esempio, Averroè vs Alessandro) si paravano sostenendo che la facoltà intellettiva non avesse un organo corporeo corrispondente, dunque eliminando il problema dell’alteratio corruptiva. Possiamo pensare un concetto luminosissimo (Dio) o l’indiscernibile, perché la facoltà in sé è immateriale e quella mentale non ha sostrato fisico, mentre, a parità di immaterialità della facoltà visiva, l’occhio non vede nelle tenebre e si brucia guardando il sole. Sganciando il noûs dunamei dalle funzioni sensoriali essi salvavano il privilegio ontologico dell’uomo (in tacita intesa con le confessioni religiose monoteistiche), con il rischio magari di postulare l’unicità dell’intelletto potenziale, non numerabile in quanto immateriale, per l’intera specie umana. Un gioco facile con effetti collaterali inaspettati e affascinanti, sui quali ora non insistiamo. Se invece ritorniamo ai sensi, siamo costretti a formulare ipotesi che tengono l’uomo dentro il comune regno della natura vivente, Prefazione 11 restando complessivamente dentro una visione ilemorfica, pur coscienti che Aristotele, per un residuo platonico (e i seguaci per la posteriore contaminazione con il neoplatonismo), introduce un’eccezione (imbarazzante ma anche imbarazzata, come risulta dalla vaghezza di De Anima III, 4–5) a livello di noûs poietikós. Torniamo ai sensi e alla loro sintesi nel senso comune (mal definito nel De Anima, infatti, meglio nel De sensu et sensato). Che la formulazione aristotelica fosse insoddisfacente, risulta dal travaglio dei commentatori, tanto che la formulazione standard viene offerta da Alessandro di Afrodisia, con soluzioni in tutta evidenza di “sopravvenienza” e ardite anticipazioni di quanto in epoca moderna si sarebbe chiamato un programma di naturalizzazione delle mente. In lui (commentario al De Anima, 65–66) il senso comune si costituisce come forma di forme corrispondente alla complessità delle funzioni corporee implicate, centro di un cerchio dove si collocano i cinque sensi, centro anche di discriminazione e ricomposizione dei sensibili propri e comuni e soprattutto luogo dell’appercezione, che ci consente di sapere di vedere. A sua volta esso fa da materia complessa alla forma complessa della facoltà immaginativa e così via, fin quando l’intelletto potenziale fa da sostrato al dispiegarsi (tutto spontaneo) del pensare l’universale passando attraverso il pensare se stesso — cioè si appercepisce nel corso della percezione intellettuale. Il meccanismo riflessivo, insomma, si ripete dal livello minimale a quello sommo, diventando ogni forma materia di quella superiore. Verrebbe da instaurare un confronto con le tesi, meno riduzioniste di quanto sembri a prima vista di Daniel C. Dennett1, che nega 1. Kinds of Minds , New York 1996, trad. it. La Mente e le Menti, Milano 1997, pp. 84–92 e 98–100. Un riduzionismo molto più radicale è quello di P.M. Churchland (A Neurocomputational Perspective. The Nature of Mind and the Structure of Science, Cambridge Mass. 1989, trad. it. La natura della mente e la struttura delle scienze. Una prospettiva neurocomputazionale, Bologna1992; The Engine of Reason, the Seat of the Soul. A Philosophical Journey into the Brain, Cambridge Mass. 1995, trad. it. Il motore della ragione, la sede dell’anima, Milano 1998), per cui l’input sensoriale si trasforma in output motorio, per trasformazione di vettori e non per manipolazione di simboli grazie a regole sintattiche e il cervello umano agirebbe come una forma assai più potente (per numero di unità) delle reti neurali multistrato ricorrenti, già capaci di lavorare olisticamente. La coscienza, allora, sarebbe una specie di risonanza 12 Prefazione che le informazioni esterne, elaborate perifericamente dal sistema nervoso, siano assoggettate a una seconda trasduzione in un mezzo separato speciale, adibito alla rappresentazione del mondo nella coscienza, come se vi fosse un sito del sentire sovrapposto alla mera sensibilità, un significante centrale (central meaner). Rigettando l’ipotesi di qualità ineffabili caratterizzanti la specificità coscienziale (i qualia), egli suppone che la stessa rete, grazie alla sua intrinseca struttura, sia sede della coscienza e consegua il ruolo egemonico di controllo del corpo. L’apparato della razionalità, a differenza del cogito cartesiano che fa da giudice esterno, è insieme vertice e parte dell’apparato di regolazione biologica, proprietà emergente, appunto, di un congiunto di sistemi parziali, tutta la macchina della comunicazione nervosa e molecolare, che funziona nelle altri parti del corpo e nell’ambiente esterno, attenuando di molto il confine fra sistema di elaborazione dell’informazione e il resto del mondo, che sta anzi in rapporto di continuità con il cervello negoziando di volta in volta secondo una linea di accumulazione biostorica la relazione fra self e not self. Mentre i sistemi di controllo di una nave (la classica ipotesi “cibernetica” da Platone in poi) o di un macchinario sono neutrali rispetto all’apparato controllato, fin quando esso funziona regolarmente, quelli del vivente non sono neutrali, perché non solo sono omogenei materialmente ad esso, ma si sono evoluti come meccanismi di controllo di altri meccanismi inferiori altamente distribuiti — per esempio la rete nervosa, le molteplici cellule specializzate, gli scambi molecolari proteinici. La mente è una macchina naturale evolutiva, non meramente matematica, presuppone il cervello come parte di un corpo. Torniamo allora all’analogia aristotelica, che riconduceva l’intellezione alla visione ed entrambe all’assimilazione di soggetto e oggetto secondo il modello della digestione, che elabora il cibo grazie al calore interno ed esterno sino a renderlo compatibile con l’appacerebrale funzionale al coordinamento (binding) dei processi nervosi, il cui ritmo di scarica abbia la medesima frequenza. Per la più recente discussione sui qualia cfr. il saggio (1997) Recent Work on Consciousness: Philosophical, Theoretical, and Empirical in P.M. Churchland & P. S. Churchland, On the Contrary. Critical Essays, 1987–1997, Cambridge Mass. 1998. Prefazione 13 rato digerente (De Anima II 4–5 e III 4). Prima ancora di apprezzare nella vista un equivalente metaforico del processo di conoscenza (De Anima III 5), Aristotele aveva lodato quel senso perché ci fa acquisire conoscenza presentandoci con immediatezza una molteplicità di differenze (Metafisica I 1, 980 a, 26–27). Principio della conoscenza ed esperienza di felicità, trama del desiderio e della beatitudine è dunque la percezione di differenze, su cui si edifica la loro organizzazione compositiva nel sillogismo teorico e pratico, nel processo intellettuale e in un’etica mondana. Ultima e decisiva metafora è il paragone del potere astrattivo intellettuale con la versatilità della mano. Si legge in De Anima III 8, 432 a, 1–3 (con ripresa di Anassagora): «Di conseguenza l’anima è come la mano, giacché la mano è lo strumento degli strumenti, l’intelletto è la forma delle forme e il senso la forma dei sensibili». La mano è lo strumento con cui usiamo gli altri strumenti, così come il senso maneggia i sensibili e l’intelletto gli intelligibili. Cosa voleva dire: che la manualità produce l’intelligenza? Beh, questo sarebbe già Giordano Bruno. Piuttosto (ma paradossalmente in modo complementare) si sostiene che l’intelletto (potenziale/materiale) è semplice, impassibile, separato da ogni oggetto sensibile e organo corporeo (De Anima III 4, 429 b, 20 sgg.), non patisce ma si perfeziona incontrando intelligibili e fantasmi immaginativi. Il noûs è pura potenza, assenza di forme, dunque illimitata capacità di acquisirne, impero dell’astrazione su tutte le cose. Tema ampiamente ripreso dai commentatori: per Alessandro (De Anima 91,6) l’anima è in qualche modo tutte le cose, accogliendo a turno la (vuota) facoltà sensibile tutte le forme sensibili e la (vuota) facoltà razionale tutte le forme intelligibili. Per Averroè (CMDA III/39) l’anima, che «recipit multas forma diversas», è come la mano, «que est instrumentum quod est recipiens omnia instrumenta». Un superstrumento grazie alla sua versatile indeterminazione. Con un salto ardito a termini che risentono del dibattito moderno, potremmo unificare varie letture antiche come segue: l’attività mentale registra e rielabora differenze ambientali, percepite secondo un tessuto continuo che va dalla mano alle protesi agli oggetti e viceversa. Tale attività, a sua volta, è una forma più complessa dei processi di informazione, scambio e assimilazione che si verificano 14 Prefazione nel corpo e in cui la digestione rappresenta un livello intermedio fra i messaggi neuronali e le sintesi proteiniche. Il confronto delle differenze pone la distanza fra soggetto e oggetto e consente l’appercezione (sensibile e intelligibile) del primo simultaneamente alla percezione del secondo. Conoscersi conoscendo. Simbolico e manuale si rimandano e incrementano reciprocamente nella misura in cui si interfacciano con un esterno e lo elaborano scansionandone le differenze. Su questa premessa è lecito sostenere, con Merleau–Ponty, che «si percepisce in me e non che io percepisco»2, con Rimbaud che on me pense è più corretto di je pense. Sotto tale profilo, sempre per restare a Dennett, l’intenzionalità non si configura quale proprietà ontologica degli stati mentali, piuttosto quale proprietà linguistica degli enunciati che parlano di essi, un modo di considerarli “come se” agissero intenzionalmente e dunque io potessi cercare di prevederli e coordinarli. L’io è una descrizione semplificata e incompleta di processi cerebrali inconsapevoli, utili per dirigere più efficacemente il comportamento del corpo descritto come mio. Il progetto intenzionale, che si dirige a un oggetto come freccia al bersaglio, è solo una scorciatoia economica stocastica. La stessa intenzionalità autoriflessiva delle menti, strettamente associata al linguaggio che le rende reciprocamente riconoscibili, è il prodotto di un processo evolutivo, che parte da livelli macromolecolari molto più primitivi e privi di consapevolezza. Molto più interessante sarebbe piuttosto investigare come l’individuo sviluppi le proprie qualità percettive e intellettuali solo in una rete transindividuale, fuoriuscendo dall’insularità della mente e di una ricerca che in essa resti imprigionata. Che veda, per esempio, nel linguaggio un contagio virale, un’infezione che produce relazione e circolarmente ne nasce. Torniamo però da questa digressione all’impostazione del saggio o meglio alle sue conclusioni tendenziali. Lamedica, nel IV capitolo, si fa carico del dispositivo estesiologico di Helmut Plessner, per cui l’esperienza sensoriale non è mero veicolo informativo, più o meno fedele, 2. Phénoménologie de la perception, Paris 1945, trad. it. Fenomenologia della percezione, Milano 1968, p. 292. Prefazione 15 ma il fondamento di un’antropologia dei sensi, cioè di una ricerca su come la loro struttura architettonica definisca l’apertura dell’uomo al mondo, modificandosi con esso secondo un processo millenario. L’interazione fra un corpo vivente e l’ambiente si complica nell’uomo che ha un mondo (un tema le cui origini heideggeriane sono notorie), rispetto al quale si pone in modo riflessivo, “vissuto”, decentrato (cioè sospendibile e assoggettabile a riflessione, non vincolato allo schema stimolo–reazione). L’uomo non si accontenta dell’organizzazione dei dati sensoriali ma si interroga sulla loro molteplicità, si chiede il senso dell’esperienza, se ne configura alternative possibili. L’eccentricità del comportamento rispetto al mero adattamento biologica garantisce sempre un’apertura al mondo. I sensi lo incorporano, mantenendo però la distinzione fra essere un corpo e avere un corpo, da cui ci si può anche staccare ekstaticamente. In questo è molto vicino alla metodologia pluralista di Aristotele, al suo prendere in considerazione tanto la specificità dei sensi quanto la loro unità positiva. Rileggere in tal modo tutta la problematica dei sensibili propri e comuni e il ruolo del senso comune (forse con le precisazioni su cui prima mi sono dilungato) costituisce senz’altro una utile e originale proposta interpretativa — ben s’intende, lasciando allo Stagirita, senza sovrapposizioni anacronistiche, tutto il suo. Non a caso, Lamedica, riprendendo il tema del V capitolo, anche in relazione alle interpretazioni di Grasso e Zanatta, conclude che «Aristotele [...] arriva a ricostruire la facoltà di senso come una “rete integrata”, come un vero e proprio “apparato”, in cui ciascun senso ha un margine di operatività proprio, ma anche — in ragione della comune appartenenza ad un apparato proprio di un “organismo vivente” e, quindi, anche “senziente” — un suo ruolo da giocare “all’interno” della rete integrata e “in favore” della stessa rete, in quanto la facoltà va sempre considerata come “facoltà generale”, non cumulo di sensi distinti. Tutto ciò potrebbe essere interpretato nel senso di quella “unità positiva” dei sensi, quella “unità stessa come molteplicità” di cui parla Plessner». Ma anche di quella coscienza–rete incorporata, di cui si è sopra discusso. Augusto Illuminati