dialogo sulla fantasia

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massimo rizzante
dialogo sulla fantasia
con gianni celati
archivio di saggi 26
dialogo sulla fantasia
© 2014 Massimo Rizzante
massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
Massimo Rizzante
«Sembrerebbe che i narratori moderni non capiscano
più cosa significhi raccontare l’altro mondo, quasi che
fossero permanentemente ospedalizzati in questo mondo e nella cosiddetta ‘realtà’, di cui il loro linguaggio
deve essere al servizio. Perciò quasi tutti i romanzi in
circolazione debbono mettere avanti un progetto di dire
qualcosa di drammatico su questo mondo, sulla ‘realtà’,
per poter essere presi seriamente». Quando ho cominciato a leggere il tuo ultimo libro, Fata morgana (2005),
sorta di resoconto etnografico su una popolazione mai
esistita, mi è subito venuto in mente Gulliver, e tutta
una tradizione narrativa semiseria di viaggi fantastici e
luoghi introvabili che probabilmente risale agli inverosimili racconti di Luciano di Samosata. Poi ho scovato
nei miei appunti la citazione sugli scrittori «ospedalizzati» nella realtà. È stralciata dalla tua Prefazione a La
miseria in bocca di Flann O’Brien, libro uscito nel 1987.
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
Anche la vena satirica di O’Brien è profondamente fantastica: O’Brien non si fa nessuno scrupolo, alla stregua
di Swift, a trasformare l’ospedale della realtà in un asilo
per pazzi. Lilliput, il mondo sottomarino delle antiche
fiabe gaeliche, o la tua valle dei Gamuna sono luoghi
inverosimili, eppure ci raccontano qualcosa di “vero”.
È da qui che dobbiamo partire?
Gianni Celati
La citazione dall’introduzione a Flann O’Brien, dove
dico che i moderni sono come ospedalizzati nella cosiddetta “realtà”, è un po’ violenta come apertura di discorso. Partiamo da cose più elementari. Negli ultimi tempi
mi è capitato di vedere alcuni film che sono considerati
di fantasia, come Il signore degli anelli e Harry Potter. In
modo inconfondibilmente anglosassone, la fantasia qui
è data come un regno del torbido, del mostruoso, anche
dello sporco e del polveroso. Il pragmatico mondo anglosassone vede la fantasia come una zona torbida della
psiche umana, da dominare con la razionalità. Questo
compito ora è affidato all’onnipotenza della tecnologia,
con i suoi effetti elettronici che possono dominare la
psiche di tutti. La separazione tra fantasia e realtà è ricondotta a quella tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; e questa separazione sottolinea che le fantasie
“non sono vere” perché esulano dalle “verità scientifiche”. Bisogna ripartire di qui, mettendo in dubbio che
esista questa separazione netta tra il mondo immaginario o fantasticato e quello che viene ufficialmente dato
come mondo reale quotidiano.
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
M. R.
La conoscenza fantastica ieri come oggi non è mai stata presa sul serio dagli uomini, malati e “ospedalizzati”
nella conoscenza cosiddetta razionale. Che cosa si deve
fare, per liberarsi da un’idea di fantasia intesa come “irrealtà”, a cui credo faccia da pendant un’idea di realtà
concepita secondo i canoni intimidatori della vulgata
scientifica?
G. C.
Il fatto è che noi ci serviamo della fantasia tutti i momenti per interpretare le cose, cercando di capire quello
che è fuori dalla nostra portata; e tutto il nostro sistema
emotivo dipende da come immaginiamo ciò che non è
sotto i nostri occhi. Quando abbiamo paura, quando
siamo a disagio, quando siamo gelosi, quando facciamo
progetti, entra in gioco l’atto di fantasticare. Quando
siamo innamorati non facciamo che ripassarci il film
delle fantasie sull’essere amato, e anche quando riflettiamo cerchiamo aiuto nell’immaginazione o nella fantasticazione. Il fantasticare è così assiduo che lo diamo
per scontato. Però se si inceppa abbiamo un campanello
d’allarme, che è la noia: la noia è una specie di una nebbia mentale che blocca gli slanci immaginativi, e rende
fastidioso anche il flusso di stimoli che viene dai sensi e
dal mondo esterno.
M. R.
Infatti l’immaginazione – che qui andrebbe tradotta con
la parola “fantasia” – secondo Aristotele ha la funzione
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
di regolare il flusso che viene dai sensi e che va verso
l’intellezione.
G. C.
Sì. In un testo tra i massimi della storia della filosofia,
il De anima, Aristotele cerca di spiegarsi come succede
che portiamo in mente le immagini, ossia perché abbiamo in noi questa produzione immaginativa. Aristotele
chiama in due modi le immagini che sorgono nella mente: phantasma e phantasia, entrambi dal verbo phaino,
“mostrare”. Sono figurazioni che “si mostrano” in noi
come un richiamo a percezioni avute o possibili. Queste
immagini nella mente, dice Aristotele, sono una combinazione di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi e
ciò che opiniamo con l’intelletto. E nel suo trattato sulla
memoria dice che sono oggetti di memoria quelli che
cadono sotto l’immaginazione; dunque immaginazione
e memoria non sono separabili: ricordare vuol dire in
qualche modo immaginare la cosa ricordata, ripensarla
fantasticamente. È anche l’idea di Giambattista Vico, il
quale diceva che “la memoria è l’istesso della fantasia”.
M. R.
Volevo, se mi permetti, riportare un passo di un’altra
opera di Aristotele, Della memoria e della reminiscenza.
Eccolo: «La memoria, anche degli intelleggibili, non è
senza immagine... È chiaro dunque a quale parte dell’anima appartiene la memoria, cioè a quella cui appartiene
anche l’immaginazione: sono oggetti di memoria per sé
quelli che cadono sotto l’immaginazione, per accidente,
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
poi, quelli che non sono separati dall’immaginazione».
G. C.
I greci non avevano una parola per dire «conoscenza»,
ma ne avevano una per dire «intellezione»: noèsis – il
processo del pensiero nella comprensione di qualcosa.
La noesi è per Aristotele un modo di percezione, dunque
bisogna pensare l’intelletto come una specie di lente. Si
possono usare altre immagini per dire questo processo,
come quella della lampadina accesa nella mente, usata
nei fumetti. Emanuele Coccia usa l’idea della trasparenza delle immagini, come la soglia attraverso cui percepiamo qualcosa nel processo di intellezione (La trasparenza delle immagini, Bruno Mondatori Editore, 2005).
Insomma: le immagini sono uno stato ricettivo a cui ci
apriamo, e nei termini di Aristotele uno stato ricettivo
è una passione (come l’opposto di azione). Dunque tutto il sentire dei sensi o percezione corrisponde a modi
di passione. Non è nella forma bruta dello scambio di
informazioni che capiamo qualcosa del mondo esterno,
ma nel processo con cui ci proiettiamo verso ciò che si
configura come un’esperienza e una passione.
M. R.
Potresti portare un esempio di questo uso della fantasia
intimamente legato alla memoria?
G. C.
L’esempio più importante è Giambattista Vico. La rivoluzione portata da Vico sta nel concepire l’immagina-
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zione e la fantasia non come produzioni soggettive, ma
come una specie di filo che collega gli uomini. In altre
parole: noi possiamo capire fantasticazioni e mitologie molto lontane da noi, perché anche la nostra forma
mentis è disposta a produrre fantasticazioni e mitologie
simili, cominciando da quando eravamo bambini. Solo
così si possono rimemorare i processi che hanno dato
luogo a costruzioni mitologiche e antropologiche, secondo stadi della vita collettiva; e in questo senso la fantasia non è qualcosa di soggettivo, ma una vasta memoria collettiva che ci collega al passato e anche a ciò che è
lontano da noi, fino ai limiti dell’umano. La scienza che
si occupa di queste cose, Vico la chiama “sapienza poetica”, come scienza delle forme fantastiche con cui gli
uomini si intendono in quanto appartenenti alla specie
umana. Questo è il succo del pensiero di Vico. Ed è il
presupposto di ogni antropologia, che in questo senso è
una memoria dove i cosiddetti primitivi non stanno più
in una opposizione categorica rispetto a noi.
M. R.
Il tuo discorso è chiaro. Fin quando ha avuto un forte legame con la memoria, la fantasia ha partecipato al
processo cognitivo dell’uomo (penso a Montaigne, ad
esempio).
G. C.
La memoria non può mai essere pensata come neutra
informazione che si accumula alla maniera del denaro. L’esempio decisivo è quello del nazismo, su cui ab-
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biamo un’enorme informazione, che però lo presenta
quasi sempre come un fenomeno unico, mostruoso e
incomprensibile. Invece il nazismo è strettamente intricato con l’umano, con tendenze che pervadono tutta la
vita comune, come ci ha insegnato Primo Levi. Con un
po’ d’immaginazione si può intravedere come molti di
questi uomini che stanno sempre a galla, che accettano
i peggiori modi di trivializzare la vita per attenersi alle
norme vigenti, se governasse il nazismo sarebbero votati
al quella stessa burocratica ferocia. Uno dei principali
organizzatori dei campi di sterminio, Eichmann, era un
tecnocrate che credeva ai calcoli ben fatti, all’obbedienza ai superiori, e credeva ciecamente nella propria buona fede. Come ha detto Hanna Arendt, era un uomo
senza immaginazione, senza fantasia.
M. R.
Questo mi sembra il punto essenziale: possiamo ridare
valore alla nozione di fantasia se ridiamo alla fantasia
la sua funzione perduta di regolatrice della conoscenza
umana, di scrigno di forme ricevute attraverso i cinque
sensi, di mediatrice tra corporeo e incorporeo.
G. C.
Ma nel modo in cui viene usata oggi, la parola «conoscenza» dà l’idea d’un sapere composto di informazioni
che si capitalizzano per far carriera in qualche settore.
Questa è la concezione di tutte le forme di expertise o
professionalità attuali. E sempre di più trovi il romanziere che va in un archivio a raccogliere informazioni
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per scrivere il suo romanzo, dove la cosa studiata diventa un mistero stupidissimo per tenere il lettore sulla corda. A parte ciò, quel romanziere non ha mai tempo di
studiare niente, perché deve scrivere la sue 500 parole
al giorno e pubblicare un libro all’anno. Fino a Gadda,
Calvino, Landolfi e Manganelli, scrivere e studiare erano la stessa cosa: si scrive perché si studia; perché studiando la testa si riempie di immagini che smuovono il
pensiero; e perché il pensiero deve essere fatto lavorare
altrimenti si fossilizza nella chiacchiera.
M. R.
Una malattia più recente è quella che Milan Kundera ha
definito nel suo ultimo saggio, Il sipario, come «morale
dell’archivio»: un assurdo proliferare di informazioni e
saperi, un’accumulazione senza freni di libri nel tentativo di abbracciare un Tutto, di cui – paradosso nel paradosso – da almeno un secolo, si predica l’inesistenza. Il
risultato, al di là di un facile idillio con un falso concetto
di eguaglianza, è che più concepiamo la memoria come
archivio, più la nostra capacità figurativa, rammemorativa e reminiscente, viene meno.
G. C.
Bene. Cambiamo argomento.
M. R.
C’è un’affermazione piuttosto forte che tu hai fatto: hai
detto di non credere nell’estetica così come è stata intesa dal Settecento in poi. È un caso se il tuo rifiuto
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dell’estetica moderna coincide con la critica alla pretesa
moderna dei romanzi di regolare le avventure umane
secondo le convenzioni della coscienza? Critica da te
sviluppata in Finzioni occidentali.
G. C.
Finzioni occidentali tratta proprio di questo: le convenzioni della coscienza come una specie di giudice supremo di tutti i fatti della vita. Il romanzo moderno (in inglese novel) è cominciato con questa pretesa: la pretesa
di spazzar via tutti gli errori – gli errori degli ignoranti,
dei pazzi, delle donne, dei bambini e dei selvaggi – per il
trionfo della coscienza maschile, adulta e civilizzata. Nel
1968 ho avuto una borsa di studio che mi ha permesso
di passato due anni a Londra, chiuso nella biblioteca
del British Museum. Ne è venuto fuori quel saggio sulla
nascita del romanzo che hai citato. Questo si ispirava
a Don Chisciotte, come mio eroe e guida nei pensieri
(avevo una piccola edizione tascabile del Quijote che
mi portavo dietro come i preti si portano il breviario).
E ciò che mi appassionava di questo eroe era la sua resistenza a tutte le censure, il suo passare imperturbato
attraverso le critiche degli intenditori che vorrebbero ricondurlo sulla retta via della coscienza “realistica”. Per
questo il Don Chisciotte è così illuminante, perché qui
si affaccia per la prima volta la questione della “realtà”,
posta in un contrasto con l’immaginazione e le tendenze
fantasticanti. E si affaccia anche l’idea che il “nuovo”
sia qualcosa che spazza via le inutili anticaglie (i romanzi cavallereschi che hanno invaso il cervello di Don Chi-
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sciotte). Ma, posto questo schema, dove Don Chisciotte
ha sempre torto in quanto invasato da fantasie passate
di moda, poi succede che sono proprio le sue tendenze
fantasticanti a arricchire di senso il mondo. Sono le sue
fantasie e le sue riflessioni a farci intravedere l’aperto
mondo sotto l’aperto cielo come la nostra unica vera
casa. Tutto il Don Chisciotte rimane un esempio meraviglioso di questa potenza del pensiero figurale che ci
guida verso un’apertura al mondo esterno.
M. R.
A partire dagli anni Ottanta, con il nuovo esordio di
Narratori delle pianure (1985), si accentua nelle tue opere e nelle tue riflessioni l’opposizione tra il “delirio critico razionalistico”, che vuole sempre spiegare e incasellare la “realtà”, e il senso comune, un sapere pratico,
incapace di discriminare, che ci riconduce alla prosa del
mondo, in basso, nella terra dei “luoghi comuni”: termine quest’ultimo che tu usi spesso, così come quelli di
“banalità”, “ovvietà”, “sentito dire” in cui tutti noi siamo immersi. Che cosa puoi dirci a proposito di quell’epoca?
G. C.
Per alcuni anni sono andato in giro per la valle del Po,
prima insieme ad alcuni fotografi e poi da solo, a prendere appunti. Di qui è venuto fuori quel diario di viaggio
intitolato Verso la foce. Una delle attività che facevo era
quella di piantarmi per interi pomeriggi nei bar di campagna e ascoltare cosa dicevano gli avventori. A ogni
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
momento sentivo accenni a storie possibili, e di lì mi
sembrava di capire come nascono i racconti. L’altra cosa
che mi veniva in mente è l’idea che noi viviamo dentro
al “sentito dire” collettivo, ossia che tutto il mondo per
noi sia come foderato dal “sentito dire”. Continuamente noi parliamo di cose che ci sono “note”, perché sono
cose che immaginiamo in un modo o nell’altro attraverso un “sentito dire” (che può essere anche quello dei
giornali). Il “sentito dire” è come uno spillo: qualcuno
mi punge con quello spillo e mi spinge a farmi delle
domande per capire di cosa si sta parlando. Questo è il
lavoro di chi scrive racconti: sente una cosa, vuole capire ciò che si dice, e parte a farsi domande, ossia a fantasticare. Quello che lega gli uomini sono le domande che
gli uomini si fanno: non le affermazioni, ma il pensiero
interrogativo, dove ogni interrogazione promuove altre
immagini e fantasie.
M. R.
Mi ricordo che quando lessi Verso la foce (1989) mi colpì molto la “Notizia” che tu, come autore, avevi posto
sulla soglia del libro. Mi è sempre rimasta impressa,
soprattutto la parte finale: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé. Ha
bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che
non capisce, per poter arrivare ad una foce dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che
ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno
forse ci porta più vicino alla nostra morte, ossia ci porta
ad essere meno separati da noi stessi”. Questa tendenza
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
naturale è una variazione del senso comune? E ancora:
scrivere sotto questo imperativo naturale che ci assorbe,
significa scavalcare il recinto del territorio estetico per
porci in un territorio di ascolto e visitazione “fantastica” degli altri?
G. C.
L’idea di ascolto e visitazione fantastica degli altri è bel
concetto. In realtà poi ognuno di noi va sempre in cerca
d’una sua popolazione, d’una popolazione d’individui
a cui associarsi anche solo fantasticamente. Allo stesso
modo i cani vanno in cerca d’altri cani con cui annusarsi, e i bambini cercano altri bambini con cui giocare, e
gli adolescenti cercano altri adolescenti per parlare di
cose da adolescenti. Gli antichi dicevano che il simile
cerca il simile. La letteratura stessa a me sembra non un
prodotto di autori separati, ma di popolazioni, di bande
di sognatori, tra cui avviene quell’ascolto e quella visitazione fantastica che hai detto. Per questo la letteratura
cavalleresca è la tradizione narrativa italiana che più mi
attira e che bisognerebbe rimettersi a studiare. Perché
non parla di individui separati nella loro cosiddetta psicologia, non parla dell’individuo moderno chiuso nel
proprio guscio, ma sempre della vita come un fenomeno vegetativo generale, dove tutto è collegato e tutto è
animato. E parla di popolazioni di sognatori passionali
e sbandati, puramente esposti alla fatalità del destino,
come Don Chisciotte.
M. R.
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
La tendenza naturale, per chi scrive racconti, dunque, è
complementare a quella capacità fantastica che affonda
le sue radici nel terreno del senso comune?
G. C.
Sì. E riflettere sulla fantasia aiuta a capire quello che tu
chiami senso comune: cosa ci lega agli altri nei pensieri
a distanza, anche nel quadro d’una separazione generale degli individui come quella in cui viviamo. Per questo credo sia utile la ripresa del pensiero di Aristotele,
di Vico, come ripresa di un’idea di intellezione collettiva. Il che vuole dire che possiamo anche essere soli, ma
siamo sempre con gli altri. Essere al mondo vuol dire
essere con gli altri dall’inizio alla fine. Anche se sono
su un’isola deserta, gli altri sono sempre con me in una
trama che determina i miei gesti, i miei atteggiamenti,
quello che voglio e quel che non voglio.
M. R.
Vorrei ritornare su qualcosa che forse nella mia domanda precedente non è risultato chiaro. La “tendenza naturale” ad andare verso l’altro e scoprire ciò che abbiamo tutti in comune, nei tuoi racconti procede, a partire
dagli anni Ottanta, attraverso la descrizione e l’osservazione. La tua prospettiva è diversa da quella di molti
scrittori moderni per i quali il bersaglio privilegiato è
lo spazio interiore. Mi sembra di poter dire che tu hai
condiviso questa prospettiva antipsicologica con altri
autori italiani e stranieri, primo fra tutti il maestro Italo
Calvino. Fin dagli anni Settanta (ma probabilmente fin
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
dall’inizio della sua carriera letteraria) uno dei problemi più assillanti per Calvino è stato: come descrivere le
cose? Come farsi assorbire dall’esterno, evitando i trabocchetti dell’io? All’ombra della nozione di fantasia
(che oggi Calvino, grazie a uno dei suoi guizzi, avrebbe
certamente contribuito a illuminare) ti chiedo: dove risiede secondo te la frontiera tra il tuo modo di vedere o
di fantasticare rispetto a quello del tuo amico Italo?
G. C.
Non ci ho mai riflettuto, sebbene mi sia sempre stato
chiaro che andavano per strade diverse. Ma è anche
vero quello che dici sulla prospettiva antipsicologica
comune a nostri due modi di vedere. Se c’è stato questo sodalizio fra me e Calvino, credo sia nato da una
simpatia comune per certi libri e certi autori, che erano
appunto esenti dal peso della psicologia. Ad esempio
Ariosto e la letteratura cavalleresca, i romanzi settecenteschi inglesi e il mio amato Swift, e infine Beckett, che
Calvino onorava molto. Nel 1968-70 ogni volta che passavo da Parigi per andare a Londra dormivo a casa sua.
A quei tempi abbiamo chiacchierato per giorni interni,
e andavamo a spasso parlando di cose da scrivere, e lui
fantasticava sempre a ruota libera, gli bastava uno spunto e partiva a raccontarti una storia. Certe volte si incazzava furiosamente con me per cose strane, come il fatto
che attraversavo l’Europa in macchina senza una carta
stradale: lui lo trovava inconcepibile. Ma ogni volta lo
ritrovavo molto contento di vedermi per chiacchierare
di libri letti e di idee sullo scrivere. Nell’ultima di queste
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
mie soste a Parigi, io tornavo dall’America con le Avventure di Guizzardi finito, e lui mi è venuto a prendere
all’aeroporto di Orly.
M. R.
Ma con la fantasia come la mettiamo? Calvino, fino
all’ultimo, fino alla stesura delle Lezioni americane,
dove c’è un bellissimo passaggio su Dante, ha insistito
con convinzione sulla nozione di fantasia...
G. C.
Infatti Calvino è uno dei nostri autori più “fantastici”,
ma questo è anche un clichè generico che spesso l’ha
inchiodato. Ho l’idea che varie sue cose nascano da una
volontà di tener fede alla nomea di scrittore fantastico,
e ad esempio rileggendo i suoi racconti giovanili li trovo
un po’ programmatici per quello. Così la trilogia, con
l’eccezione del Cavaliere inesistente. Di questo libro lui
si vantava, a ragione, dicendo che era il “libro del maggiore scripturalist italiano”. La parola scripturalist non
so dove l’avesse scovata, ma cadeva a proposito. Voleva
dire che il suo era un lavoro di fantasia usando la scrittura come una specie di disegno a mano libera. Non
credo che nessuno abbia mai studiato l’influsso dei disegnatori sul suo modo di scrivere. Calvino mi raccontava che il nostro grande disegnatore Rubino capitava
nella villa dei suoi genitori a Sanremo, quando lui era
piccolo, e gli faceva dei disegni per intrattenerlo – quei
disegni con quelle linee art nouveau così eleganti. C’è
tutto un percorso di Calvino verso questo modo di uso
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
“fantastico” delle parole, come quello dei fumetti o delle illustrazioni per ragazzi. La sua tendenza a usare la
scrittura alla maniera delle vignette, dei fumetti o delle
caricature, è stato ciò che gli ha dato una grossa libertà
d’azione rispetto agli altri narratori italiani. Ma è anche
qualcosa che a un certo punto lui ha sentito come un
limite, perché gli veniva troppo facile. A volte diceva:
“Io devo pormi degli ostacoli, altrimenti sono uno scrittore domenicale”. Di lì in poi è come se si fosse dato
degli ordini, per mettere vincoli alla facilità della sua
vena fantasticante. Poi nel Castello dei destini incrociati
e nelle Città invisibili, la sua vena disegnativa è venuta in
primo piano, attraverso un confronto con le figurazioni
dei tarocchi, delle miniature dei vecchi libri di viaggi o
con immagini nelle mappe medievali. E ha cominciato a
usare dei frames o incorniciature, che creano un effetto
simile a quello postmoderno della auto-riflessività.
M. R.
Nella Presentazione che hai scritto con Jean Talon ad
Altrove di Henri Michaux (2005), c’è un passo che mi è
sembrato subito significativo, e ancor più adesso, dopo
quanto abbiamo detto: “Riprendiamo l’idea del pensiero come tragitto. Un bambino scrive un tema scolastico:
si ferma, non sa più cosa dire. Ha scritto ciò che chiamiamo un ‘pensiero’. Ma, chiede Michaux, cosa c’è intorno alla frase che si blocca dopo aver espresso un pensiero?...Ci sono ‘abissi di nescienza’. Sono gli abissi di
tutto quello che non sappiamo ancora, o non sapremo
mai”. Calvino fa parte di una categoria di scrittori che
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
ad un certo punto della loro vita, contemplando fuori
della finestra, hanno ricominciato come bambini a scrivere i propri temi. Penso al suo amato Ponge. Tuttavia
la sua contemplazione non contemplava l’abbandono,
non contemplava il pericolo rappresentato dagli “abissi
di nescienza” di cui parla Michaux, non contemplava la
scrittura come “gesto”, “movimento sulla pagina” privo
di giustificazioni, di significato. Che ne pensi? Questa
riflessione è legata al problema della forma, problema
che Michaux sembra non porsi. Calvino, invece, se lo
poneva, eccome! Il suo amore per Perec non era forse
legato alla sua ludica ossessione per le serie matematiche? Al suo distacco nei confronti della “realtà”? Nei
tuoi racconti, Celati, tutto questo non c’è. C’è piuttosto
un abbandono alla contemplazione delle cose fuori di
noi.
G. C.
Ora mi trovo incapace di rispondere su questo. Posso
aggiungere qualcos’altro su Calvino. Lui era uno molto
più “abbandonato” di me, nel senso che era più sicuro.
Ricordo la sua casa di Castiglione della Pescaia, dove
lo andavo a trovare d’estate. Si metteva lì in un angolo
e scriveva mentre io parlavo con sua moglie, e dopo un
po’ diceva: “Sentite cosa ho scritto”.
M. R.
Credevo che Calvino fosse uno scrittore che prima di mettere la parola fine a un manoscritto si torturasse parecchio...
G. C.
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
Tornando alla tua domanda sulla frontiera tra il suo
modo di vedere e il mio, mi viene in mente questo: Calvino era “Lo Scrittore”. Anche nell’intimità delle chiacchiere e degli scherzi era come se non potesse dimenticarsi quel ruolo. Era molto modesto e onesto, perché
non si travestiva mai da qualcos’altro, non aveva le pose
dello scrittore all’americana che vanta la propria “esperienza di vita”. Calvino era “Lo Scrittore”, e giustamente
non gli interessava “l’esperienza di vita”, gli interessava
la letteratura, come un serio artigianato della penna. In
questo vedo la frontiera tra me e lui. Perché io non mi
sono mai sentito “scrittore”, e non credo di aver mai
fatto carriera, e come artigiano della penna sono sempre
stato molto saltuario; e se ho scritto dei libri è perché
ho trovato che lo scrivere sia una terapia, un modo per
dimenticarsi di se stessi.
M. R.
Volevo tornare ancora sulla forma. Cosa succede quando si scrive? Si tratta di tracciare con le parole delle
linee in modo da creare, come tu dici a proposito di
Michaux, “luoghi da esplorare”? “Bisogna lasciare che
venga”, affermava ancora Michaux. È così che anche tu
concepisci il tuo scrivere? Un movimento esplorativo
che non si pone nessuna meta? Nessuna “opera”?
G. C.
In questi termini non so rispondere. So però che scrivere è un rituale che noi impariamo a scuola, quando
siamo bambini: una rituale dove si cerca di mettere in
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
moto il pensare-immaginare, per farsi venire in mente
una frase, per ricordare una parola. Tutto questo fa parte di qualcosa che è molto costruito in noi, e va inevitabilmente insieme a un certo grado di fantasticazione.
Poi c’è qualcos’altro, che è la distanza da cui si guarda
la figurazione delle parole che sorge dai segnetti scritti. Nei libro che hai citato, Altrove, Michaux parla di
una popolazione immaginaria e descrive i loro costumi
e i loro teatri: “A teatro si rivela il loro gusto del lontano. La sala è lunga, il palcoscenico è profondo. Le
immagini, le forme dei personaggi vi appaiono grazie
a un gioco di specchi. Gli attori recitano in un’altra
sala, e vi appaiono più reali che se fossero presenti. Più
concentrati, più purificati, più definitivi, sbarazzati di
quell’alone che produce sempre la presenza reale, faccia
a faccia...” La fantasia di attori che recitano in un teatro
dove sono visti attraverso un gioco di specchi, mi sembra una figurazione del gioco dello scrivere, che non
può mai essere diretto. È sempre un gioco sulla distanza
che ci sottrae al faccia a faccia con la realtà, e al tempo
stesso potenzia la percezione come un gioco di specchi.
Perché in questa modo non vediamo soltanto qualcosa:
vediamo il vedere, guardiamo il guardare, percepiamo
l’atto di percepire. Il rituale dello scrivere prevede questo effetto, come una messa a distanza delle percezioni,
per sottrarle alla casualità e portarle verso la trasparenza dell’intelleggibile. Solo in questi termini riesco a scrivere, e faccio fatica a sopportare chi prende lo scrivere
come un riflesso della sua esperienza personale o della
cosiddetta realtà nuda e cruda, senza vedere il processo
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massimo rizzante, dialogo sulla fantasia
rituale a cui le parole debbono essere sottoposte (metrica, ritmo, colore tonale, distanza focale).
maggio 2005 – maggio 2006
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www.massimorizzante.com
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