Filosofia della presenza Dio mondo uomo oltre il nichilismo contemporaneo Ovunque andiamo siamo accolti in un luogo, il senso del viaggio non è nel luogo principalmente, ma nel viaggio stesso: Dio è il luogo e il senso del cammino,ovunque siamo, siamo in Lui 1.1 Dio Avvertenza dell’uso delle parole. Spesso noi diciamo “oggi affrontiamo il problema di Dio”, Dio non può mai essere un problema di cui noi possediamo la soluzione a suo favore o sfavore, in entrambi i casi non abbiamo risolto nulla ed è l’uomo a romanere un problema. In questa lezione analizziamo i sistemi filosofici che in modo compiuto hanno affrontato i temi sopra proposti. Paltone Abbiamo visto che P. mette al vertice della sua costruzione filosofica il Sommo Bene: “Poiché dio è buono, egli non è la causa del mondo. Ne dobbiamo dunque concludere che poiché dio è buono, egli non è la causa di tutto, come volgarmente si dice: egli è causa di una minima parte delle cose umane, non della maggioranza ché i nostri beni sono quasi un nulla di fronte ai nostri mali: egli è soltanto la causa dei beni; ma dei mali altrove che in dio va ricercato il principio. (Platone, Repubblica, XVIII, 379b-d ) La tesi di P. è la più diffusa nell’antichità che sosteneva l’estraneità di Dio dal mondo, dove il rapporto è ammesso, il male rimane estraneo al principio primo. Vedremo più avanti il problema del male. Aristotele In Aristotele, l’esistenza di Dio è dimostrata a partire dall’esistenza di sostanze eterne, in particolare il tempo. Se esso non fosse eterno, infatti, ci sarebbe un «prima» del tempo e un «dopo» il tempo, ma queste sono ancora una volta determinazioni temporali e quindi presuppongono l’esistenza del tempo. Al tempo (inteso come scansione del divenire) è connesso il movimento, dato che il tempo «o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo». Ma il movimento presuppone un motore in atto che, se fosse anche in potenza, rimanderebbe ancora a un altro motore, e così via. Per evitare il regresso all’infinito, è necessario ammettere l’esistenza di un atto puro, come motore primo. Non essendo in potenza, il primo motore non può essere materiale e quindi deve essere considerato come atto puro. L’assenza di potenza e di materia implica la mancanza di divenire, di conseguenza deve essere anche immutabile ed eterno. Ma in quanto non soggetto al divenire, tale motore deve essere immobile. Ora, come può una sostanza immobile essere causa del movimento? Non, evidentemente, come causa efficiente (come l’artigiano che costruisce un oggetto), ma solo come causa finale, cioè, esemplifica Aristotele, «muove come ciò che è amato», che attrae cioè a sé l’amante. Dio sostanza immobile “Poiché si è sopra detto che le sostanze sono tre, due fisiche ed una immobile: ebbene, dobbiamo parlare di questa e dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci il prima e il poi se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti, il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. E non c'è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare”. Metafisica, tr. di G. Reale, Milano, Rusconi, 1993, Λ, 6, pp. 557-9. Dio motore immobile “C’è poi qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (e ciò è evidente non solo col ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché, il primo cielo deve essere eterno. Pertanto, c'è anche qualcosa che muove. E poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l'oggetto del desiderio e dell'intelligenza: muovono senza essere mossi. Ora, l'oggetto primo del desiderio e l'oggetto primo dell'intelligenza coincidono: infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello: e noi desideriamo qualcosa perché lo crediamo bello, e non, viceversa, lo crediamo bello perché lo desideriamo; infatti, è il pensiero il principio della volontà razionale. E l'intelletto è mosso dall'intelligibile, e la serie positiva degli opposti è per se stessa intelligibile; e in questa serie la sostanza ha il primo posto, e, ulteriormente, nell'ambito della sostanza, ha il primo posto la sostanza che è semplice ed è in atto (l'uno e il semplice non sono la stessa cosa: l'unità significa una misura, invece la semplicità significa il modo di essere della cosa); ora, anche il bello e ciò che è per sé desiderabile sono nella medesima serie, e ciò che viene primo nella serie è sempre l'ottimo o ciò che equivale all'ottimo. […] Dunque [il primo motore] muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse”. Metafisica, Λ, 7, p. 573 Quindi la divinità è una realtà immateriale, la divinità muove il cielo delle stelle fisse non come causa efficiente, bensì come causa finale. Inoltre la divinità proprio perchè è una realtà suprema non può "interessarsi" e quindi agire effettivamente sul mondo, non fa nulla direttamente sul mondo, non ha una volontà d'azione sul mondo . Ha un'attività tutta sua e particolare che si svolge interamente dentro di lui. Agire sul mondo significherebbe autodiminuirsi: una realtà superiore quale la divinità che si occupa di una realtà inferiore quale è il nostro mondo sarebbe un controsenso, una forma di autodiminuzione della divinità stessa . Sarebbe un' imperfezione della divinità . La divinità agisce sul mondo come "oggetto di amore e desiderio" : come la cosa amata attrae chi la ama , così la divinità attrae il mondo. La divinità è la causa (finale) del movimento dell'intero universo, quindi la si può chiamare motore immobile o causa incausata . La divinità non produce l'universo dal nulla , come fa invece nella tradizione ebraico-cristiana , nè lo plasma , come faceva invece il demiurgo platonico: lo mette semplicemente in moto e lo attrae a sé. La divinità è priva di materia e quindi non sta in nessun luogo. L’avvicinarsi alla divinità del mondo va visto come un tentativo del mondo di assimilarsi alla divinità. La divinità non si occupa del mondo , ma non può non fare niente . La perfezione e la felicità sono per Aristotele legate all'attività e quindi anche la divinità deve fare qualcosa : ha un'attività tutta interna a se stessa . L'attività suprema per Aristotele è il pensare , quindi la divinità è essenzialmente una mente . Ma a che cosa pensa ? Di sicuro non pensa ad una realtà inferiore come l'universo e quindi pensa solo a se stesso . Emerge qui la definizione della divinità come "pensiero di pensiero" . Dionigi Aeropagita - autore vissuto fra il V e il VI secolo in una regione del Medio Oriente, probabilmente la Siria, un pagano convertito, un neoplatonico, ed è quasi certo che abbia ascoltato ad Atene le lezioni di Proclo, cui si ricollega echeggiandone specifiche espressioni. Convertitosi al cristianesimo, l’ignoto autore si ritira probabilmente a vita monastica e si prefigge come obiettivo la fusione fra le due concezioni che hanno segnato la sua vita: il neoplatonismo e il cristianesimo. Le opere dello Pseudo-Dionigi: dieci lettere e quattro testi di ampio respiro, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, I nomi divini e Teologia mistica. Tradotte poco dopo in latino da Giovanni Scoto Eriugena (810 - dopo l’877), divengono nei secoli seguenti ciò che oggi chiameremmo un best seller, seconde in ordine di importanza solo alle opere di Agostino. La teologia negativa Ogni tentativo di attribuire alla divinità qualità umane ponendole in grado superlativo - Dio come infinito amore, infinita giustizia, onnipotenza ecc. - si conclude inevitabilmente con una forma di antropomorfismo, cioè, letteralmente, con un rendere simile all’uomo, con una riduzione di Dio a categorie umane. L’unica cosa che si può postulare con certezza logica è solo la sua diversità. Di Dio si può dire solo ciò che egli non è, negandogli progressivamente ogni attributo umano. La luce è il simbolo più adeguato, o almeno più diffuso, per esprimere la nozione di divinità, ma forse il buio esprime meglio la sua essenza, e meglio ancora sarebbe dire che Dio non è né luce né tenebra, oppure che è tenebra e luce nello stesso tempo, un buio luminoso o una luce tenebrosa. Sono formulazioni equivalenti, tutte fondate sul paradosso. Mentre la teologia positiva (o catafatica) parte dal presupposto che sia possibile arrivare a Dio a partire dai nomi delle cose create, la teologia negativa (o apofatica) procede per negazioni e negazioni delle negazioni. Dionigi non rifiuta la prima, ma considera superiore la seconda. Noi possiamo conoscere la Gloria di Dio attraverso la creazione, ma non la sua essenza, Spinoza La struttura dell’Etica Dio è l’oggetto della parte I dell’Etica. Parte I ha come oggetto Dio. Tra le otto definizioni ve n’è una che presenta un’importanza fondamentale: quella di «sostanza». Che cos’è la sostanza Secondo la tradizione che risale ad Aristotele, sostanza è ciò che è o esiste in sé, cioè non ha bisogno di altro per esistere, o ha bisogno di appartenere a qualcosa d’altro per esistere: Socrate (un «sinolo» di forma e materia, secondo il linguaggio aristotelico), ad esempio, non ha bisogno, per esistere, di appartenere a qualcosa d’altro, mentre l’essere «buono», «alto», «in piedi», hanno bisogno, per esistere, di appartenere a qualcuno. «Sostanza» è chiamato ciò che esiste in sé e «accidente» ciò che esiste in altro. La sostanza, quindi, si caratterizza – rispetto all’accidente – per la sua autosufficienza. Questa autosufficienza della sostanza conduce Cartesio a definire la sostanza «ciò che è in sé e si definisce di per sé» e a identificarla con Dio stesso; solo Dio, se si vuole essere rigorosi, è l’essere assolutamente autosufficiente proprio perché in Lui l’essenza coincide con l’esistenza. Cartesio, tuttavia, non senza ambiguità, considera sostanze anche la res cogitans e la res extensa, anche se si tratta di realtà che non sono totalmente autosufficienti, in quanto hanno bisogno di Dio per esistere. Spinoza, percorrendo la strada aperta da Cartesio, arriva a definire la sostanza «ciò che è in sé ed è concepito per sé; cioè ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere formato». Questa definizione lo condurrà a consumare la rottura con Cartesio: proprio perché la sostanza non ha bisogno di altro per esistere, allora lo stesso concetto di sostanza non ha bisogno di nessun altro concetto per essere pensato. Dio è la natura Dalla definizione di sostanza Spinoza deduce conclusioni che demoliscono la concezione ebraico-cristiana di Dio. La sostanza è: 1) increata: se fosse creata, infatti, sarebbe creata da altro, quindi non esisterebbe di per sé e il suo concetto (concetto di essere “creata”) avrebbe bisogno di un altro concetto (quello di “creatore”) per essere pensato; 2) eterna: come potrebbe morire ciò che è increato e, di conseguenza, ha l’esistenza per natura? 3) infinita: se fosse finita, infatti, sarebbe delimitata da altro e, quindi, il suo concetto avrebbe bisogno del concetto di altro per essere concepito; proprio perché la sostanza è increata, allora è eterna: come potrebbe morire ciò che ha l’esistenza per natura? 4) una: come potrebbero coesistere due sostanze infinite? 5) causa sui: considerato che la causa sui è definita come «ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere pensata che come esistente», allora la sostanza, proprio perché eterna, non può che identificarsi con la causa sui; 6) Dio: dato che il concetto di «causa sui» si identifica col concetto di Dio (solo nella definizione di Dio, infatti, l’essenza implica l’esistenza), allora la sostanza è, in ultima analisi, Dio; 7) l’Intero: poiché la sostanza-Dio è infinita, allora non vi è niente al di fuori di Dio e perciò tutto ciò che esiste non può che essere in Dio. Da qui l’equazione Dio = natura (Deus sive natura), e il panteismo, a concezione secondo la quale tutto – anche il mondo materiale – è manifestazione di Dio. Con quest'ultimo punto in particolare, la trascendenza divina della tradizione ebraico-cristiana viene radicalmente demolita: l'universo fisico, anche se non coincide con Dio [...], ne è tuttavia parte integrante. Dio, di conseguenza, non può essere considerato puro spirito. Pascal Davanti alla dissoluzione di tutte le certezze con il crolla della metafisica Aristotelica e l’avanzarsi della soggettività chiusa in se stessa dove il mondo non è conosciuto in sé, ma solo la sua rappresentazione non rimane che la sola fede senza appoggio alcuno. Pascal indica nella fede la risposta alle contraddizioni dell’uomo, e propone un altro argomento, la scommessa o il pari. […] Pascal immagina un dialogo con uno scettico, rinunciando ad argomenti derivati dalla fede o dalle Scritture ma discutendo l’esistenza di Dio alla luce della ragione. Dio, se c’è, non può essere spiegato dall’uomo. Occorre allora valutare le due ipotesi, la sua esistenza e la sua non esistenza, scommettendo su una di queste possibilità. Il rapporto tra il rischio e la posta in gioco deve necessariamente far propendere, anche per un semplice calcolo matematico, per la scommessa sulla sua esistenza: infatti, se Dio non c’è e viviamo come se ci fosse, rischiamo al massimo qualche rinuncia inutile, ma se Dio c’è e viviamo come se non ci fosse, ci giochiamo la felicità eterna e rischiamo la dannazione. Hegel rappresenta il punto estremo del trionfo del principio di immanenza. Il motto del suo pensiero in ambito religioso è che Dio è nell’uomo. In Hegel, il problema religioso è centrale dagli Scritti teologici giovanili, i quali sono animati dal tentativo di comprendere il nesso tra il finito e l’infinito, fino al “sistema” compiuto, nel quale il Cristianesimo viene tradotto nel “sapere assoluto” della filosofia in un rapporto che è, insieme, di conservazione e di superamento, secondo l’accezione del termine tedesco Aufhebung. Proprio in quanto è il culmine della religione, il Cristianesimo è il punto in cui essa si toglie come religione e trapassa in filosofia: e non a caso la Trinità cristiana corrisponde in pieno al ritmo triadico del movimento dialettico dello spirito. Nella prospettiva hegeliana, la filosofia e il Cristianesimo hanno lo stesso contenuto (il sapere assoluto), ma lo esprimono in forme differenti: se la religione fa ricorso alla “rappresentazione” (Vorstellung) dell’Assoluto, la filosofia lo esprime nella più alta forma del “concetto” (Begriff), il quale afferra e unifica facendo venir meno la distanza propria della rappresentazione religiosa. È in questa luce che occorre leggere lo sviluppo del pensiero hegeliano sulla filosofia della religione dagli Scritti teologici giovanili fino alle Lezioni sulla filosofia della religione: in Hegel, la religione è soggetta a un processo di assorbimento da parte della ragione in un’immanenza che è portata alle sue estreme conseguenze. Nel successivo Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1795), si consuma la conciliazione del divino e dell’umano nell’assoluto, una conciliazione che implica il riassorbimento dialettico della religione cristiana (e dunque anche delle altre) nella ragione, quest’ultima intesa come identità compiuta di reale e razionale. Nello “Spirito assoluto”, ogni forma rappresenta un momento dialettico della relazione tra il finito e l’infinito: nell’arte, l’infinito è calato nel finito; nella religione, v’è opposizione tra i due; infine, nella filosofia, il finito è fuso nell’infinito. Ogni forma trapassa nella successiva quando ha raggiunto la sua perfezione, la quale è anche la sua negazione come forma particolare: così la religione, una volta giunta al suo culmine (che è il Cristianesimo), si toglie e trapassa in filosofia, proprio perché il Cristianesimo (che è la “religione assoluta”) è intrinsecamente dialettico e dice già, nella Trinità, la dialettica, la quale è la forma saputa della filosofia. In Lezioni di filosofia della religione l’oggetto della filosofia della religione è “ciò che è assolutamente vero”, è “la regione dell’eterna verità”, nella quale “lo spirito si sgrava di ogni finitezza”; Hegel dice che la religione è “l’occuparsi con l’eterno”, intrattenendo un rapporto con esso: a tal proposito, Hegel parla di ascesa dello spirito finito che si ricongiunge col suo principio. La devozione è il sapere che il finito ha dell’assoluto come della sua stessa sostanza. Nella devozione – dice Hegel – “Dio è per me e Dio è in me”, è il pensiero della reale sostanza di me stesso. Ponendomi in rapporto con l’assoluto, mi conosco come pienamente pensante e, per ciò stesso, come ancora distinto dall’assoluto. Occorre superare tale separatezza: la vera essenza della devozione, una volta che sia stata compresa, sta nel dileguarsi dell’accidentalità del finito nel sapersi nell’infinito. Tutto quello che abbiamo chiamato “ascesa” del finito all’infinito e che la rappresentazione religiosa vede ancora come alterità viene pensato e saputo dalla filosofia, con la conseguenza che il mio rapportarmi a Dio diventa un momento della vita di Dio. E dunque la devozione è non già un andare verso Dio, bensì un momento dell’assoluto, in quello che è stato definito un “panteismo logico”. D’altra parte, senza il mondo Dio non sarebbe Dio, proprio perché Dio è il mondo stesso: il vero atto di culto, in questa prospettiva, è solo il pensare. Scrive Hegel: “Dio è soltanto nel pensiero e col pensiero”, non altrimenti: ma perché ciò sia saputo, la devozione in quanto tale dev’essere superata perché implicante tensione (“an”) e difettante di pensiero. Essa, infatti, non è ancora l’atto di preghiera supremo e autentico, che, così come si mostra nella dialettica dispiegata, è quel pensare l’assoluto che è il pensarsi dell’assoluto stesso nel e tramite l’infinito”. 1.2 Visione cristiana Con le sue facoltà naturali, contemplando il mondo, l'uomo può elevarsi alla conoscenza, non di Dio, ma della gloria di Dio; la filosofia può formulare la nozione dell'Essere Assoluto ma non sa nulla della sua essenza. Qui si pone il limite invalicabile. Secondo S. Paolo, la conoscenza viva di Dio come. Padre celeste è l'atto gratuito della sua rivelazione. La tradizione patristica rinuncia ad ogni definizione formale, perché Dio è al di là di ogni parola umana: « I concetti creano degli idoli di Dio, soltanto lo stupore coglie qualcosa », confessa S.Gregorio di Nissa. La parola "Dio", per i Padri, è il vocativo che s'indirizza all'Indicibile. Ma il mistero del Creatore si riflette nello specchio della creatura e fa dire a Teofilo di Antiochia: “Mostrami il tuo uomo, e io ti mostrerò il mio Dio”. S. Pietro parla dell'homo cordis absconditus, l'uomo nascosto del cuore ("l'interno del vostro cuore") (1Piet 3,4). Il Deus absconditus, il Dio misterioso, ha creato il suo vis-àvis: l'homo absconditus, l'uomo misterioso, la sua immagine vivente. La vita spirituale zampilla nei “pascoli del cuore”, nei suoi spazi liberi, non appena questi due esseri misteriosi, Dio e l'uomo, vi s'incontrano. “Ciò che accade di più grande tra Dio e l'uomo, è di amare e di essere amato », affermano i grandi spirituali. “Non si può veder Dio e restare vivi”. Questo avvertimento biblico significa per i Padri: non si può veder Dio con la luce della nostra ragione, non si può definire Dio perché ogni definizione è una limitazione. E tuttavia Dio « è più intimo a noi che noi a noi stessi ». È a questo livello di profondità, della sua sorprendente prossimità che Dio volge il suo volto verso l'uomo e gli dice: « Io sono Colui che sono», e altrove: « Io sono il Santo ». Giustamente, egli sceglie tra i suoi nomi quello che lo vela di più. Egli è anche il tre volte Santo », cantano gli angeli nel Sanctus, mettendo così in rilievo il carattere incomparabile, assolutamente unico, della santità divina. La sapienza, la potenza ed anche l'amore possono trovare delle affinità e delle somiglianze; soltanto la santità non ha analogie quaggiù, non può essere né misurata, né confrontata ad alcuna realtà di questo mondo. Davanti al roveto ardente, di fronte al fuoco divorante del Tu solus Sanctus, tutto l'umano non è che « polvere e cenere ». Non appena la santità di Dio si manifesta, provoca immediatamente il mysterium tremendum, il sentimento terribile e irresistibile del « tutto Altro ». Poiché gli abissi invalicabili sono delimitati, Dio rivela subito la loro conformità misteriosa: « l'abisso chiama l'abisso » e, « come nell'acqua, il viso risponde al viso ». II Dio « filantropo », « amico degli uomini », trascende la sua propria trascendenza verso l'uomo, lo trae dal suo nulla e lo chiama a sua volta a trascendere la sua immanenza verso il Santo. L'uomo lo può, perché il Santo divino ha voluto prendere il suo volto. Più ancora, « l'Uomo del dolore » fa vedere « l'Uomo del desiderio »: l'eterno amante che ama ogni amore e s'introduce in noi affinché noi possiamo rivivere in lui. Egli dice ad ogni anima: « Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sopra il tuo braccio, perché forte come la morte è l'amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma di Jahvè » (Cant 8,6). Perciò la Scrittura proclama: « Siate santi, come io sono Santo »; e quando Pietro e Paolo vogliono definire lo scopoo della vita cristiana, parlano della partecipazione alla santità di Dio (2Piet 1,4; Ebr 12,10). 1.3 Sintesi La riflessione filosofica può stabile l’assoluto, l’essere in quanto essere, pensiero di pensiero, sommo bene, Spirito Assoluto ... oppure negare l’esistenza di Dio, ma non sa nulla della sua essenza, può dire che è ma non chi è. Circa il rapporto con il mondo abbiamo due tesi. 1) Dio estraneo al mondo, la differenza tra Dio e il mondo è tale che ogni accesso al divino è impossibile da parte dell’uomo, da parte di Dio non c’è nessun interesse per il mondo. 2) Dio è il mondo secondo Spinoza, in Hegel Dio è la totalità che riassorbe in sè ogni determinazione, il finito attraverso un processo dialettico è riassorbito nell’infinito e lì si dilegua La filosofia nel momento in cui vuole determinare qualcosa di Dio lo riduce a cosa a oggetto e smarrisce la dimensione dell’ineffabile, Dio è sempre oltre ogni altra determinazione, è questo ma non riducibile alla nostra parola o concetto, è sempre altro. Sicuramente tra Dio e ciò che è fuori da Dio c’è una differenza qualitativa tale che è impossibile ogni comunicazione tra Dio e l’uomo. 1.3.1 Cristianesimo «L’intera esistenza è una conversione. Non a Gesù ma alla verità di Dio, del Dio fatto uomo La conversione è il passaggio da Gesù come incarnazione dell’uomo—e si rimane in questo mondo, pur penetrando nelle profondità—a Gesù come incarnazione di Dio: solo allora la morte è realmente vinta e l’angoscia trasformata in gioia» Il cristianesimo è essenzialmente una storia, Dio che opera nel tempo, attraverso la sua parola nell’Antico Testamento e nel Nuovo testamento, attraverso la parola fatta carne, Gesù, il figlio di Dio (il verbo si è fatto carne Gv. 1,14). E’ nel tempo che si svela il volto di Dio e il volto dell’uomo attraverso un alleanza, un’amicizia, una condivisione. Non esiste un mondo dato una volta per sempre, ne un uomo compiuto nel tempo una volta per sempre. Noi vediamo che la percezione del mondo, di Dio e che l’uomo ha di se stesso, cambiano continuamente. Noi cogliamo un costante divenire delle cose come osservava il filosofo Eraclito il quale afferma che (Panta rei) tutto scorre, fugge via. Ma questo scorrere, questo fluire delle cose, del tempo ha in sé qualcosa di stabile? Se da una parte non ha senso questo scorrere delle cose, non ha neppure senso un essere immutabile visto che le cose scorrono. Quindi qual è il filo conduttore delle cose? Se è nel divenire delle cose che noi cogliamo l’essere delle cose e il nuovo che l’essere pone in atto, allora la domanda è sull’essere in rapporto al divenire. Cos’è l’essere? Nel fluire delle cose possiamo affermare una presenza o più presenze: a) la presenza di Dio, Colui che è. E’presenza che parla, che svela nella storia il suo volto attraverso una serie di eventi, il penultimo è L’incarnazione, morte e risurrezione b) anche il mondo è presenza che parla poiché nel mondo opera il Fiat di Dio. La Parola iniziale presente dal principio “e Dio vide che ciò era cosa buona”. Recuperare la positività della creazione che significa portare a termine in essa il disegno di Dio. L’uomo è custode dell’Eden c) presenza è anche l’uomo fatto a immagine di Dio. L’uomo con la parola esplicita ciò che è racchiuso nel mistero partendo dalla Parola Rivelata. Sia il mondo che l’uomo partecipano dell’essere di Dio e del suo mistero. Quindi vi è Essere e mistero anche nella creazione e nell’uomo, ciò significa che noi possiamo conoscere Dio, il mondo e l’uomo poiché c’è una parola in atto, quella di Dio. Tuttavia rimane un aspetto insondabile, il mistero, ciò non significa misterioso, ma una realtà di cui si può dire, ma che questo dire non esaurisce mai il nostro dire su Dio, sul mondo e sull’uomo. Se il cristianesimo è essenzialmente Parola incarnata nella storia, è nella storia che noi comprendiamo il divenire di Dio, ciò non significa che c’è un divenire in Dio ma un manifestarsi di Dio nel tempo. Se sfogliamo i libri dell’A.T. possiamo vedere che la comprensione di Dio assume volti e aspetti nuovi fino a comprendere Dio come Amore e Padre nella testimonianza che il Verbo da di sé e del Padre che lo ha inviato per salvare l’uomo. Soffermiamoci sul Verbo. Se fuori dal cristianesimo la teologia parla di Dio, su Dio, nel cristianesimo la teologia si muove in modo diverso. La teologia cristiana parla di Cristo. Ora il Cristo si dice il Verbo di Dio. Egli non dice delle parole ispirate da Dio su Dio, ma abolisce in sé lo scarto tra colui che annuncia e la parola annunciata poiché in Cristo c’è identità tra parola e persona che annuncia. Cristo non dice il verbo, ma è il Verbo. Nel Verbo tutto è detto, nulla va aggiunto. San Francesco d’Assisi, comprese la verità Cristo, così da proibire ogni glossa, ogni aggiunta ai testi evangelici. Ogni aggiunta può essere fraintendimento, tradimento. Per cui il movimento dialettico della teologia può ruotare intorno al Verbo, ma non uscire dal Verbo e lasciare che il Verbo parli. Se Dio è presenza, questa presenza va interrogata nel silenzio della preghiera. Abbiamo una testimonianza, quello di San Tommaso il quale cessa di scrivere di Teologia quando affronta il mistero Eucaristico. Il presente di Dio lo ritroviamo nel mistero eucaristico “fate questo in memoria di me”… noi rispondiamo: annunciamo la tua morte e resurrezione, ma questo annuncio è oggi. Quel presente compiuto sulla croce duemila anni fa, è ora presente nel mistero eucaristico. Cosa ci avvicina a questo mistero presenza. Sicuramente non lo studio delle scritture o della teologia. Se leggiamo l’incontro di Gesù con Nicodemo, questo scriba rispetta Gesù, ma non sappiamo se ha fatto professione di fede in Gesù Dio, rileggiamo anche Luca, i discepoli incontrano Gesù lungo la strada di Emmaus però non lo riconoscono. Gesù parla a loro delle scritture antiche che fanno riferimento alla sua passione e morte, può fare questo solo perchè ha vissuto quelle parole, Gesù ritrova se stesso nelle parole antiche chiuse al cuore sciocco e stolto dei discepoli; pensiamo anche a Gv. Cap. 21, pesca miracolosa, i discepoli sanno che è Lui, ma hanno paura a chiedere “chi sei?”. Gli occhi si aprano solo quando Gesù spezza il pane, lì si ricrea l’intimità smarrita perchè è Lui ma anche altro, non è più solo il Signore, ma è Dio. Belle le parole di Tommaso “Mio Signore e mio Dio”. Il principio ermeneutico, interpretativo è la quindi la persona Cristo. Se non parliamo da Cristo, colto nel misero eucaristico, la riflessione teologica manca della sua luce, del suo centro. Dio è altro dell’uomo, c’è una differenza qualitativa che è colmata da Dio attraverso il suo amore. L’atto creativo è un dono di Dio che rende partecipe la creazione dell’amore di Dio. Dio è Amore e Dio dimora nell’amore. Il mondo non è lasciato a se stesso, dal momento che è stato creato, il mondo nella sua autonomia, rimane oggetto da’amore da parte di Dio. E’ la parola di Dio, prima inaccesibile all’uomo, che parla di sè. Dio come Trinità. Dio è accessibile all’uomo per un gesto di gratuità da parte di Dio. Se Dio è necessario, è una necessità nella libertà. Una mistica del nulla può essere cristiana se per nulla si intende la negazione del punto in cui possiamo arrivare attraverso la parola, il concetto e l’esperienza umana, punto che va superato guidati dalla grazia. Se per nulla s’intende una unità indifferenziata nel divino allora non è più cristiana. Nella visione cristiana la differenza è salvaguardata in nome della dignità della creatura umana. Dio accetta l’altro come ciò che è altro da sè 1.4 L’uomo Un rischio da evitare è di ridurre la realtà al pensiero, se il punto di partenza è l’esistente, ciò che esiste, il punto d’arrivo è sempre l’esistente, il concreto, la singolarità che mai può essere assorbita in una unità indifferenziata come vogliono i monisti. Oggi assistiamo giustamente a una ribellione verso ogni forma di astrattismo. L’uomo della civiltà cristiana e greca si è dissolto in entità universali quali lo Spirito, la Materia, l’Inconscio, il Biologismo. La rivolta odierna è contro le illusioni della cultura dell’800: il progresso, la rivoluzione la scienza, la razza, la classe, la nazione. Oggi con fatica si cerca di recuperare la propria singolarità, la propria concretezza che sta anche nelle mie lacrime, nella mia gioia e dolore. Un mondo invadente, politicizzato, burocratizzato che ne è dell’uomo, della sua libertà e dignità? La questione sull’uomo costituisce ormai il nodo centrale di tutto il dibattito contemporaneo. Una centralità non ultimamente dovuta al fatto che l’uomo oggi ha acquisito un potere tale di ri-definire l’humanum, quale lungo la sua storia non aveva mai avuto. La "magna charta humanitatis", una pagina cioè che lungo i secoli ha ispirato e come nutrito la riflessione dell’uomo sull’uomo. È il capitolo secondo del libro della Genesi: più precisamente dal v. 15 alla fine. Ad una lettura attenta della pagina biblica noi possiamo verificare che la visione dell’uomo in essa presentata sussiste in tre convinzioni di fondo: l’uomo è posto in un rapporto dialogico col Signore Iddio; l’uomo è diverso dagli animali ed è più che gli animali; l’uomo è costitutivamente sociale. La prima denota un rapporto fra l’uomo e Dio istituito da un atto sovrano del Signore, ma che chiede all’uomo una risposta libera. È abbozzata così la dimensione religiosa della persona come dimensione originaria, costitutiva dell’umanità dell’uomo. La seconda convinzione denota un rapporto fra l’uomo e la "natura" tale che l’uomo non è pienamente riducibile alla natura medesima. La persona umana appare nell’universo della natura in una solitudine originaria, dovuta al fatto di non trovare nulla di simile a lui. L’uomo è qualcosa di unico! La terza convinzione afferma che questa condizione di originaria solitudine non è una condizione buona. Da essa l’uomo esce originariamente nell’incontro con l’altro [alius - e non aliud]. 1.4.1 L’uomo è persona L’idea di persona è la chiave di volta di tutta la visione cristiana dell’uomo. Una vera filosofia della persona è la sola via per non naufragare dentro a quel riduzionismo materialista che oggi sembra dominare la visione occidentale dell’uomo. Solo una visione chiara dell’essere personale consente all’uomo di vedere il vertice dell’universo dell’essere, il suo punto più alto; non si può essere più che persona, ma si può essere solamente meno che persona. Tommaso scrive: "persona significat id quod est perfectissimum in tota natura" [1, q.29,a.3]. Se l’uomo non fosse persona tutta la serietà del cristianesimo sarebbe distrutta. Su questo Kierkegaard aveva visto bene: se dal discorso cristiano scompare la categoria del "singolo", è tutto il discorso cristiano che perde senso. Scomparsa l’idea di persona, il cristianesimo diventa un mito, e neanche dei migliori. 1.4.2 Persona La persona è una sostanza individuale spirituale che è capace di pensiero, libertà, consapevolezza, autocoscienza. Se l’io è una sostanza spirituale, allora il mio corpo non entra nella costituzione della mia persona. Io non sono, ma semplicemente ho il mio corpo. Fra persona e corpo non esiste una relazione di essere, ma di avere. Lo spirito non è l’intera sostanza della persona umana, la quale è anche il suo corpo. Lo spirito non è il soggetto umano completo. Perché ci sia l’intera persona umana, l’intero soggetto umano, si richiede anche il corpo. Il corpo entra nella costituzione della persona umana: l’io è anche il suo corpo. L’io che si coglie come corporeo negli stati affettivi è lo stesso io che, riflettendo, ha coscienza di conoscere, di contemplare la bellezza, di fare metafisica… L’uomo si coglie come uno. Dunque, la tesi dell’unità sostanziale intende descrivere in primo luogo un’esperienza fondamentale dell’uomo: l’esperienza dell’unità del proprio io nella pluralità specifica delle sue operazioni. Ciò significa infatti che, anche partendo dal punto di vista dell’"io", ossia del "soggetto pensante consapevole di sé proprio La persona umana è originariamente in relazione con le altre persone umane. Essa è di natura sua comunionale. L’antropologia cristiana si regge tutta quanta su questi due pilastri: ogni uomo è una Nello sforzo teoretico che il pensiero cristiano ha fatto non per capire questo mistero, ma per professarlo con giustizia e rettitudine, ha elaborato un concetto di persona [divina] assolutamente nuovo: la persona [divina] è una relazione sussistente. La sussistenza, che – come abbiamo visto – è propria analogicamente di ogni persona, nella realtà della persona divina è una sussistenza totalmente relazionata. Esse in se nella persona divina consiste nell’esse ad alium. Sarà compito del pensiero comprendere quale è il significato e il contenuto vero di queste affermazioni antropologiche: l’uomo è simile a Dio non solo in ragione della sua natura spirituale, ma anche della capacità sua propria di costituire comunità con altre persone. Ciò che deve essere al centro della comprensione che l’uomo ha di se stesso è che la sua capacità di auto-donazione è dovuta al suo essere-persona; è inscritta nel suo ]. La ragione ultima di questa costituzione della persona umana è nella relazione che ogni persona umana ha con Cristo. In forza dell’incarnazione del Verbo, egli si è in un certo senso unito ad ogni uomo. "Assumendo una natura umana, è la natura umana che egli si è unita, che ha inclusa in lui … Intera Egli la porterà dunque al Calvario, intera la risusciterà, intera la salverà… e per ciascuno la salvezza, consiste nel ratificare personalmente l’appartenenza originale a Cristo, in modo da non essere respinto, separato da questo Tutto" [H. De Lubac, Cattolicismo, cit. pag. 13-14]. Che la persona umana sia socievole, è una convinzione che già l’antichità classica ci aveva consegnato. "L’uomo è per natura un essere che vive in comunità" [Aristotile, Etica Nicomachea I, 7, 1097b, 12]; ed infatti "nessuno sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo è infatti un essere sociale e portato per natura a vivere con altri" [IX, 7, 1169b 18-19]. È già intuita in una certa maniera la costituzione comunionale, amicale della persona umana. Ogni persona umana è qualcuno di irripetibile, unico nel suo essere: in ognuno di noi l’umanità, la "forma umana" si realizza un modo unico. Ma è ugualmente evidente che in nessuna persona la humanitas si realizza in modo perfetto, esplicando tutte le sue potenzialità. L’individuazione per mezzo della materia impedisce che la "forma humanitatis" si attui pienamente nel singolo. La scoperta, la consapevolezza della dignità singolare della propria persona comporta la scoperta della dignità di ogni altra persona. Nella scoperta della dignità, del valore della propria persona è implicata la scoperta del valore di ogni persona perché è la scoperta della verità della persona come tale. L’esperienza del sé ha anche un carattere oggettivo che ci consente di "uscire" da se stessi e di incontrare ogni altro. Mi trovo dentro ad una necessità singolare, ad un vincolo che è veramente unico. Vedendo la verità del mio essere-personale ed il suo bene proprio, per ciò stesso non posso non vedere la bontà propria dell’altro: negando questa per ciò stesso nego anche il mio valere di persona. Ciò che è dovuto a me da me stesso per rispondere adeguatamente alla dignità che è propria della mia persona, è dovuto esattamente ad ogni altra persona da parte mia. Il "sì" detto a se stessi non può non essere che il "sì" detto ad ogni uomo. È il significato più profondo del comandamento: "ama il prossimo tuo come te stesso". Non è possibile escludere nessuno poiché ciascuno è dentro a questa "communicatio in humanitate" che consiste nella reciprocità del riconoscimento. Questa reciprocità è la relazione originaria intersoggettiva positiva. Il massimo della relazione interpersonale è quando essa è costituita dal dono di sé all’altro reciprocamente compiuto ed accolto. Tuttavia il "sé" donato può essere più o meno realizzato umanamente, e quindi l’unione più o meno consistente.