la concorrenza sleale parte xi

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“LA CONCORRENZA SLEALE
PARTE XI”
PROF. GUIDO BEVILACQUA
Università Telematica Pegaso
La concorrenza sleale (parte undicesima)
Indice
1
L’AGGANCIAMENTO ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
L’USO DEL MARCHIO ALTRUI PRECEDUTO DALLA PAROLA <<TIPO>> O ANALOGA, E
FATTISPECIE SIMILI. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
3
I CASI “TIPICI” DI APPROPRIAZIONE DEI PREGI --------------------------------------------------------------- 7
4
IL DESTINATARIO DEL MESSAGGIO APPROPRIATIVO ------------------------------------------------------- 9
5
IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA SLEALE ------------------------------------------------------------ 10
6
LA PROGRESSIVA VALORIZZAZIONE DELLA FIGURA DEL CONSUMATORE ----------------------- 11
7
LE PRATICHE SCORRETTE --------------------------------------------------------------------------------------------- 13
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 L’agganciamento
Un importante ampliamento della portata della norma in esame, sul quale giurisprudenza e
dottrina appaiono in buona parte concordi, si ha con il ritenerla applicabile agli atti di concorrenza
caratterizzati da un intento di agganciamento alla notorietà altrui.
Non si tratta dunque più qui del semplice vanto mendace di una qualità che in realtà altri
possiede (nota o ignota essendo quest’ultima circostanza al pubblico), ma del proporsi al pubblico
stesso equiparandosi esplicitamente in qualche modo ad un concorrente noto o ai suoi prodotti.
Si tratta dunque del caso in cui un imprenditore si presenti in qualche modo al mercato
dicendogli: <<Tu conosci l’impresa XY e/o i suoi prodotti; bada che io sono come lei e/o i miei
prodotti sono come i suoi>>.
Ciò comporta evidentemente che il nome del concorrente al quale ci si aggancia o il marchio
dei suoi prodotti vengano esplicitamente menzionati, sì da trarre beneficio dalla loro notorietà, dal
credito di cui essi godono sul mercato, dalla conoscenza che il mercato ha delle loro caratteristiche
e così via.
Così facendo l’autore dell’atto si avvantaggia certamente, non fosse altro che per il fatto di
non dover faticare e spendere in proprio per accreditarsi o per accreditare i propri prodotti, dato che
con l’equiparazione di questi ultimi a quelli del concorrente, essi beneficiano appunto del loro
accreditamento.
Si noti che in questa fattispecie si ha bensì anche una appropriazione di pregi del
concorrente, ma che non è necessario che questa sia particolarmente specifica.
Presentandosi come equivalente al concorrente o ai suoi prodotti, infatti, può accadere che se
si tratti di prodotti particolari l’appropriazione di pregi sia specifica, ma può accadere anche che
l’equiparazione comporti semplicemente l’affermazione di equivalenza di pregi generali, come
appunto una generale buona qualità.
In questo caso il pregio di cui l’autore dell’atto si appropria può non essere qualcosa di
oggettivamente individuabile, ma semplicemente una buona fama costruita con sforzi e spese dal
concorrente.
Ciò che caratterizza questa fattispecie è la sua natura parassitaria, di approfittamento del
frutto dell’altrui lavoro e dell’altrui investimento, costituito dalla conoscenza di un prodotto da
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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parte del mercato e dal credito di cui un prodotto e un’impresa sono giunti a godere sul mercato
stesso.
In questa prospettiva l’elemento del mendacio non è più essenziale dato che l’intento di
reprimere i parassitismi prescinde dal mendacio stesso.
Ove un mio concorrente abbia creato un mercato per un suo nuovo prodotto, abbia speso
somme ingenti per farlo conoscere e per convincere il pubblico ad acquistarlo, se io mi presento sul
mercato dicendo al pubblico <<Il mio prodotto è uguale al suo>>, approfitto dell’accreditamento
del prodotto del mio concorrente, e quindi agisco agganciandomi a lui, con un’operazione
parassitaria, sia se il mio prodotto in realtà è diverso dal suo, sia se è uguale.
Nella fattispecie in esame, quindi, il mendacio è elemento meramente eventuale, e può
esserci o non esserci.
Ove vi sia si riproporrà il problema della sovrapposizione della fattispecie a quella più
generale del mendacio concorrenziale.
Vale la pena di ricordare come l’art. 4, comma 1, lett. g) del d.lgs. 145/2007 di cui abbiamo
parlato a proposito della pubblicità comparativa, ponga tra le condizioni di <<liceità>> di questa il
fatto che con essa non si tragga <<indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla
denominazione commerciale o altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di
origine di prodotti concorrenti>>.
Questa norma conferma l’orientamento del legislatore a considerare leciti i comportamenti
di natura parassitaria di approfittamento del frutto dell’altrui lavoro o dell’altrui investimento, del
tipo dell’agganciamento di cui abbiamo qui parlato.
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2 L’uso del marchio altrui preceduto dalla parola
<<tipo>> o analoga, e fattispecie simili.
La fattispecie dell’agganciamento si realizza mediante il riferimento esplicito ad un altro
imprenditore o ai suoi prodotti, il che è possibile solo con l’uso dei suoi segni distintivi.
Deve peraltro evidentemente trattarsi di un uso dei segni distintivi non già in funzione
distintiva, nel qual caso si avrebbe una fattispecie confusoria e si ricadrebbe quindi nel n. 1 dell’art.
2598 cod. civ. o nella contraffazione di marchio o di ditta, bensì di un uso di essi che escluda ogni
possibilità di confusione, vale a dire di un uso atipico.
L’ipotesi più classica di un simile uso è l’impiego sul proprio prodotto, oltre che del proprio
marchio, del marchio altrui preceduto dalla parola <<tipo>> o <<modello>> o simili, vale a dire in
un modo che escluda appunto la confondibilità (con il dire che il mio orologio è <<tipo Cartier>> io
escludo esplicitamente che si tratti di un vero Cartier), ma nel contempo agganci il prodotto a quello
più noto del concorrente mettendolo a traino della sua notorietà.
Come già abbiamo detto, poi, il fatto che in realtà il prodotto messo a traino sia
qualitativamente inferiore, equivalente o addirittura superiore al prodotto trainante non ha nessun
rilievo sotto il profilo che ora stiamo considerando: in tutti e tre i casi, infatti, si avrà un
approfittamento della rinomanza del prodotto altrui, uno sfruttamento del lavoro di introduzione da
altri compiuto del prodotto stesso sul mercato.
Un uso di questo genere di altrui segni distintivi, e perciò un caso di appropriazione di pregi,
si ha anche quando un concorrente immetta ed accrediti sul mercato un prodotto nuovo
contraddistinto oltre che da un marchio denominativo altresì da una forma particolare del prodotto
stesso o del suo contenitore.
Il prodotto nuovo viene così conosciuto dal pubblico in funzione non soltanto del suo
marchio denominativo ma altresì della forma distintiva che lo caratterizza.
Allorché un secondo imprenditore presenti sul mercato lo stesso prodotto, il fatto di
presentarlo in una forma (del prodotto stesso o del contenitore) analoga a quella adottata dal primo
imprenditore, ma accompagnandolo anche con un marchio denominativo radicalmente diverso darà
luogo a un evidente caso di uso di un segno distintivo altrui (la forma) non confusorio, ma
costituente una appropriazione di pregi: poiché, adottando quella forma il secondo arrivato dice in
sostanza al pubblico: <<il mio prodotto è come quell’altro che tu già conosci e che ti si presenta con
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al medesima forma>>: dice cioè qualche cosa di non diverso da quanto si esprime adottando il
marchio denominativo altrui preceduto dalla parola <<tipo>>, <<modello>> o <<sistema>> ecc.
Come esempi di una simile fattispecie definita anche <<look alike>>, si possono
menzionare le frequenti imitazioni talvolta non cofusorie, della bottiglia dell’Amaretto di Saronno
(peraltro registrata anche in sé come marchio), della confezione della celebre colonia Acqua di
Parma, o il recente caso di imitazione dei colori e della disposizione delle immagini delle tipiche
confezioni di certi prodotti Barilla.
Sempre in relazione alla fattispecie dell’<<agganciamento>> va infine rilevato come il
sostenere che l’agganciamento sia illecito in quanto appropriazione di pregi anche nel caso in cui
l’equiparazione qualitativa che esso realizza corrisponda a realtà, vale a dire quando i prodotti
agganciati siano qualitativamente equivalenti o addirittura migliori di quelli trainanti, non significa
contraddire la liceità della comparazione veritiera.
Quest’ultima, infatti, è condizionata dal fatto che con essa non si tragga indebito vantaggio
dalla notorietà dell’altrui marchio.
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3 I casi “tipici” di appropriazione dei pregi
L’appropriazione di pregi è fattispecie che ricorre abbastanza frequentemente e la
giurisprudenza è andata tipizzando alcune ipotesi da ricondurre nell’ambito di questa figura.
Un’ipotesi <<classica>> è quella della presentazione come realizzazione propria di un
manufatto realizzato invece da un concorrente.
Abitualmente ciò si verifica con la pubblicazione e distribuzione di cataloghi, di dépliants o
simili che contengono fotografie di manufatti altrui presentati appunto come propri.
Spesso la fattispecie è ulteriormente caratterizzata dal fatto che le fotografie sono state
addirittura prese dai cataloghi o dai dépliants del concorrente, e ristampate pari pari sui propri.
L’ipotesi più tipica di <<agganciamento>> si ha, e lo abbiamo già ricordato, con il
riferimento al marchio – o comunque al segno distintivo – altrui preceduto o seguito dalle parole
<<tipo>>, <<modello>> o simili.
La giurisprudenza sottolinea come in questa ipotesi l’illiceità consista nel tentativo di
instaurare una vera e propria equivalenza qualitativa fra il prodotto proprio e quello, più noto, del
concorrente.
Altro caso che è stato considerato come illecita appropriazione di pregi consiste
nell’apposizione al proprio prodotto di un marchiaggio attestante la conformità di esso a norme che
garantiscono determinate qualità o la sicurezza del medesimo (ad esempio norme ISO, EN, UNI)
mentre il prodotto ne è privo .
E’ stata spesso ricondotta alla appropriazione di pregi l’ipotesi dell’indicazione della
provenienza del proprio prodotto da una determinata località geografica, mentre il prodotto
medesimo proviene da una località diversa.
In particolare questa fattispecie è stata ritenuta concorrenzialmente illecita quando la località
falsamente indicata avesse una influenza sulla qualità dei prodotti da essa provenienti, a causa delle
peculiarità sia geografiche naturali (climatiche, geologiche, ecc.), sia umane (tradizioni artigianali,
ecc.).
Il nome di una simile località è tradizionalmente chiamata denominazione d’origine o
indicazione geografica, e l’uso di esso per presentare come proveniente dal luogo evocato un
prodotto in realtà proveniente da una località diversa costituiva (costituisce) appunto concorrenza
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sleale per appropriazione di pregi, indipendentemente dal fatto che le caratteristiche del secondo
prodotto siano, di fatto, uguali o simili o addirittura migliori di quelle del prodotto originale.
Sono state ad esempio ricondotte alla concorrenza sleale per appropriazione di pregi: l’uso
della denominazione <<scotch whisky>> per un whisky non prodotto interamente in Scozia; e
l’inserimento dell’indicazione <<Pilsner>> (derivata dal nome Pilsen, versione tedesca del nome
della città ceca Plzen) sull’etichetta di una birra italiana.
I termini denominazione d’origine e indicazione geografica sono stati spesso adoperati come
sinonimi e a lungo non si è chiarito fino in fondo quale fosse la differenza fra l’una e l’altra.
Sennonché il tema dell’origine geografica dei prodotti è stato da sempre ritenuto di una
specifica importanza, cosicché il semplice farlo rientrare nella disciplina della concorrenza sleale è
apparso insufficiente.
Conseguentemente quel tema è stato da tempo oggetto di una disciplina speciale, sia a
livello nazionale, sia, e soprattutto, a livello internazionale.
A ciò si aggiunga che alcune norme in argomento sono state inserite nel c.p.i., il quale
oltretutto menziona specificamente <<indicazioni geografiche e le denominazioni di origine>> fra
gli oggetti di proprietà industriale tutelati a norma di quel Codice.
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4 Il destinatario del messaggio appropriativo
Come abbiamo visto l’appropriazione di pregi si compie con una comunicazione al mercato
di un messaggio, consistente nella autoattribuzione di un pregio che spetta ad altri.
Normalmente questa comunicazione è rivolta al pubblico cosicché essa si realizza con lo
strumento pubblicitario, ed è oggetto di una diffusione ampia.
Non si può tuttavia escludere che l’illecito dell’appropriazione di pregi si compia con
comunicazioni limitate ad una cerchia ristretta di destinatari, o addirittura ad una sola persona, ad
esempio ad un cliente che venga indotto ad impartire un ordinativo a chi si sia presentato
appropriandosi dei pregi di un concorrente.
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5 Il consumatore e la concorrenza sleale
Come abbiamo visto, la figura del consumatore, acquirente dei prodotti o utente dei servizi,
viene spesso in rilievo nella disciplina della concorrenza sleale.
In generale si può dire che questa figura funge in relazione a molte fattispecie quale metro di
giudizio della liceità dei comportamenti considerati.
Così si è visto:
-
come in materia di confondibilità l’illiceità della fattispecie dipenda dall’idoneità del
comportamento del concorrente (dell’uso dei segni distintivi da lui adottati) a produrre confusione
nel consumatore (circa la fonte dei prodotti);
-
come l’appropriazione di pregi sia illecita quando idonea a convincere il
consumatore dell’appartenenza del pregio a impresa diversa da quella cui in realtà appartiene;
-
come ancora la comparazione sia denigratoria e perciò illecita, se idonea a produrre
discredito presso anzitutto il consumatore;
-
ed infine come le comunicazioni mendaci siano da ritenere illecite quando siano
ingannevoli, vale a dire idonee a trarre in inganno il consumatore.
Le altre fattispecie viste tipizzate dall’art. 2598 n. 3 non fanno invece riferimento al
consumatore.
A ben vedere i casi considerati hanno in comune quale elemento essenziale il fatto che il
consumatore possa farsi un convincimento errato, assumendo questo fatto come decisivo per il
giudizio di illiceità del comportamento concorrenziale.
Questa situazione può essere considerata da due punti di vista:
-
quello dei concorrenti dell’autore del comportamento illecito, il cui interesse è
evidentemente leso (singolarmente o collettivamente) da quel comportamento, e protetto con le
sanzioni dell’inibitoria e del risarcimento del danno;
-
e quello del consumatore, il cui interesse a non essere ingannato, e quindi a scegliere
in modo realmente libero e non disinformato, è a sua volta protetto dalla disciplina in esame.
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6 La progressiva valorizzazione della figura del
consumatore
Si è detto, ed ancora si dice generalmente, che le norme sulla concorrenza sleale proteggono
direttamente gli imprenditori concorrenti, e solo indirettamente il consumatore.
Vi è stato tuttavia un lungo periodo durante il quale si è sostenuto che quelle norme
proteggono direttamente anche il consumatore, ed addirittura che la protezione degli interessi di
quest’ultimo doveva considerarsi il principio informatore dei <<principi della correttezza
professionale>> di cui all’art. 2598 n. 3 cod. civ.
E dall’una e dall’altra impostazione poteva essere influenzata l’interpretazione della norma.
Sta di fatto che la seconda, proposta alla fine degli anni 50’ del secolo scorso e poi a lungo
coltivata in dottrina e in giurisprudenza ebbe il merito di attirare l’attenzione sulla figura del
consumatore appunto non solo come arbitro della lotta concorrenziale, ma come portatore di
interessi propri meritevoli di tutela almeno al pari di quelli degli altri protagonisti del mercato.
Ad un certo punto, tuttavia, e parliamo della seconda metà degli anni ’80 dello scorso
secolo, con l’emergere di una visione sempre più sociale dell’economia, la tutela del consumatore
(diretta o indiretta che fosse) realizzata sulla base della sola tradizionale disciplina della
concorrenza slaele non fu più ritenuta sufficiente.
E per rafforzarla si diede mano, in sede europea e poi nazionale, ad una più ampia ed
articolata disciplina delle due fattispecie che più mettevano a rischio l’interesse appunto del
consumatore, vale a dire la pubblicità ingannevole e quella comparativa; e poi ad un testo
dichiaratamente ed esclusivamente dedicato alla specifica tutela del consumatore in relazione a
qualsiasi messaggio ingannevole e comparativo delle imprese che lo raggiunga.
Si diede così luogo anzitutto alla Direttiva CE sulla pubblicità ingannevole del 1984, poi a
quella sulla pubblicità comparativa, successivamente riunite, e che da noi formano ora oggetto del
d.lgs. 145/2007.
Ed infine alla Direttiva CE 2005/29 sulle “Pratiche commerciali sleali”, attuata da noi con il
d.lgs. 146/2007, che ne ha inserito il contenuto nel “Codice del consumo” agli artt. da 18 a 27
quater.
Della disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa nell’ambito tradizionale della
concorrenza sleale abbiamo già detto a suo tempo.
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In questa lezione e nella successiva considereremo brevemente quella delle <<Pratiche
commerciali sleali>>, così definite nella menzionata Direttiva 2005/29, ma che nella sua attuazione
in Italia sono diventate <<Pratiche commerciali scorrette>>.
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7 Le pratiche scorrette
La caratteristica di questa disciplina è di riguardare esclusivamente i rapporti fra
imprenditori (assurdamente chiamati <<professionisti>>) e consumatori, per tali dovendosi
intendere le persone fisiche nei loro rapporti con il mercato, che siano estranei alla loro eventuale
attività imprenditoriale.
E di riguardare in particolare appunto le “pratiche commerciali fra professionisti e
consumatori>>, per tali dovendosi intendere <<qualsiasi azione, omissione, condotta o
dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del
prodotto, posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un
prodotto ai consumatori>>.
Le pratiche commerciali così definite sono considerate illecite, e perciò vietate, quando
ricorrono due condizioni, e precisamente quando siano scorrette e siano idonee a falsare in modo
rilevante il comportamento economico del consumatore.
Quanto all’essere <<scorrette>> parola che il nostro legislatore ha preferito a <<sleali>>
usato nella Direttiva, si chiarisce che <<una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla
diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento
economico in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o
del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta ad un determinato
gruppo di consumatori>>.
Si aggiunge poi che quando si tratti di pratiche, o dei prodotti cui si riferiscono, di cui
l’autore debba sapere che determinati gruppi di destinatari deboli (minori o infermi), sono alle
stesse particolarmente sensibili, il giudizio di scorrettezza andrà condotto con riferimento al
<<membro medio>> di tali gruppi.
Infine, si precisa, con l’improvvisa resipiscenza di chi si rende conto di essersi forse fatto
prendere troppo la mano da una pulsione paternalista e protettiva, che <<è fatta salva la pratica
pubblicitaria comune e legittima consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non
sono destinate ad essere prese alla lettera>>.
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