Salvatore Paolo Garufi L’IO E LE COSE NELLA PITTURA DI SALVO MAZZONE Edizioni Novecento 1. L’Idolo volgare. Uno dei gioielli narrativi di Leonardo Sciascia è la storia di un vescovo, mons. Ficarra, che, per i fastidi procurati al potere ecclesiastico, finì missionario in partibus infedelium (Dalle parti degli infedeli, Palermo, Sellerio, 1979). Confesso, rileggendolo, di sentirmi anch’io un po’ missionario in terra del pensiero volgare. Missionario, quindi, in partibus stultorum. Da anni l’elettroencefalogramma culturale della classe dirigente della Piana di Catania risulta quasi piatto. I suoi rappresentanti, insomma, sanno poco di filosofia, ma ragionano da Dio. Cioè, vivono nell’inespugnabile certezza che tutti ragionano come loro. Tutti, anche Dio. Così, il mio compito di missionario è quello di salvare l’anima di qualche sparuto lettore, smascherando i falsi idoli. Uno, in particolare. Trattasi di una divinità che da sempre unisce i cretini del mondo. Deputati o sindaci, professori o sovrintendenti, quasi tutti s’inginocchiano compatti davanti al pensiero senza sfumature. Fateci caso: i cretini, o si fidano di tutti o non si fidano di nessuno. Uno scrittore, al contrario, ci tiene al senso critico. Io penso che soltanto il senso critico nei secoli può restare identico a se stesso (realizzando l’Essere di Parmenide), mentre tutto il resto scorre (proprio come la Natura di Eraclìto). Aggiungo che, poiché nel mondo prevalgono i cretini, è necessario contenere tutte le comunità umane dentro quei supermercati della cultura, che si chiamano ideologie (che sono le idee gia fatte e pronte all’uso). In questo senso, anche la filosofia storicamente ha finito per diventare l’ideologia dominante, prima nel Mediterraneo, poi in Europa, poi nell’intero Occidente. La verità vera, invece, ha una tramatura molto più complessa. La verità è come un maglione di lana: basta che si sciolga un nodo e tutto si perde. Tira, tira… ed il capo d’abigliamento si trasforma in un groviglio confuso, in un caos filiforme, che, se viene rimesso in ordine da un artista, diventa un’altra cosa. I quadri di Salvo Mazzone, pittore di Scordia, sono il perfetto esempio di quanto ho detto sopra. Per questo, egli è molto più missionario di me. Fra l’altro, così discreto e disponibile al dialogo com’è, ne avrebbe pure una maggiore vocazione. Artista-filosofo, Mazzone è ben lontano dalle regole del naturalismo figurativo (a cui il cretino tradizionalista riduce la pittura) e dai furori dell’astrattismo informe (in cui il cretino avanguardista indulge). “In arte, come in politica,” dissi ad un amico onorevole, “chi pensa che i filosofi giochino con le parole, prima o poi finisce per giocare coi fatti. Hai presente i nomi di Stalin, di Hitler e di Mao Tze Tung?” 2. l’Io ed il Tempo. Nelle opere di Salvo Mazzone, in sostanza, ho ritrovato qualcosa dell’aureo ideale medio dei rinascimentali. Vedendole, ho subito pensato che, alla fin fine, la sua inquieta ricerca interiore si è composta in un elegante equilibrio di linee e cromie. Incanta, in particolare, la compresenza dei segni geometrici della ragione con quelli aggrovigliati dei sentimenti. Nell’Orlando furioso Ludovico Ariosto intrecciò mirabolanti storie sullo sfondo degli ideali cavallereschi; il pittore in questione ne aggiorna il fascino, intrecciando colature e larghe campiture di colore. “Lo spazio ed il tempo possono esistere soltanto al plurale,” ho pensato davanti a quei dipinti. “Ci sono il tempo dell’orologio e lo spazio del metro… e sono entità misurabili, cioè divisibili in parti uguali. Ma, si tratta di elaborazioni della mente umana, assolutamente arbitrarie. Poi, c’è l’idea di spazio e di tempo che ci viene dalle emozioni…” Per chiarire il concetto, vi propongo di paragonare l’ora passata nella sala d’attesa di un dentista a quella in compagnia di una bella donna. Ditemi voi se vi sembrano uguali. Normalmente, però, nell’arco di una giornata i nostri tempi si sovrappongono. Se ho il mal di denti, l’appuntamento col dentista lo prendo (mi avvalgo, cioè, del tempo matematico), mentre simultaneamente il mio disagio dilata gli istanti (proprio come il piacere li restringe). Il concetto l’ha già chiarito Henri Bergson, filosofo del secolo scorso straordinariamente affascinante (e le opere di Salvo Mazzone mi sembrano un’ottima illustrazione dei suoi scritti). Il pensatore francese, infatti, radicalizzò l’importanza e la varietà dei punti di vista individuali, poiché tempo e spazio erano sostanzialmente un’eco dentro la coscienza. “Il tempo è l’avvolgersi continuo di un filo in un gomitolo, perché il nostro passato ci segue, e s’ingrossa senza sosta del presente che raccoglie nel suo cammino.” (Introduzione alla metafisica, a cura di Vittorio Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1983). La lunga premessa era necessaria per dire che Mazzone ha un suo concetto del tempo, che (prima che matematico, prima che emozionale) appare soprattutto documentale. La sua, in fondo, sarebbe un’esasperazione della mentalità storica degli occidentali. L’artista americano Andy Warhol, per raffigurare il terremoto in Campania del 1980, dipinse la pagina del quotidiano “Il Mattino” nella quale veniva data la notizia. Come a dire: il fatto è esistito soltanto perché ne hanno parlato i giornali. Così, nei quadri del pittore di Scordia l’Io c’è nella misura in cui lascia la sua traccia sulle Cose. 3. Materia e Spazio. Dopo ogni confine, c’è sempre un oltre il confine. Anche delle nostre capacità di comprensione. Possiamo concepire l’Io perché ha dei confini che gli danno una forma e perché vuole espandersi, andare oltre (il che gli dà la vita). Stabilito ciò, gli artisti come Salvo Mazzone sono gli anelli di una catena che si allunga all’infinito: legati l’uno all’altro, ma necessariamente ben costruiti, ognuno per i fatti suoi. Dovesse spezzarsi un solo anello, verrebbe a mancare l’intera catena. I processi logici che stanno alla base dei quadri di Mazzone, quindi, sono orgogliosamente single; ma, utilizzano la lingua e la grammatica del pensiero universale. Ovviamente, il giorno in cui la si conoscerà tutta, questa lingua, ci si chiamerà Dio. Per adesso, da persone modeste quali siamo (io e Salvo), è saggio partire dal concetto che tutte le nostre conoscenze sono conoscenze senza conoscenza. Così, Salvo Mazzone pensa in ipotesi il mondo, cioè il rapporto tra Materia e Spazio, appunto perché si muove dentro i suoi confini individuali. Anche altri, e più titolati, intellettuali si sono fermati a tali mere ipotesi. In definitiva, non esiste neppure il metodo scientifico. Esso è soltanto un teorema, dove il limite sta nella mentalità dell’epoca. Eppoi, chi se ne frega della susseguiosa scienza? E’ vero che senza la ragione la vita non ha senso, ma bisogna pur dire che senza tentare di spiegare l’inspiegabile non c’è neppure vita. Coi suoi grovigli filiformi, perciò, Mazzone ripropone certi eventi che dovettero accadere nell’istante immediatamente precedente il big bang. In quei quadri la conoscenza ed il racconto coincidono. Le sue immagini, quindi, ci danno la sensazione (che è la percezione, a cui si è aggiunto il concetto). Questa, in fondo, è la sola idea possibile nell’epoca moderna. Come scriveva Carmelo Ottaviano (Manuale di Storia della Filosofia, 3 voll., Napoli, Nuova Cultura Editrice, 1970), nel pensiero occidentale ci sono stati, a seguire: - Il Realismo oggettivistico (antichità e medioevo), cioè il tentativo di conoscenza in sé, poiché conoscere è rispecchiare nello spirito il mondo reale, esterno a noi; - l’Idealismo immanentistico (mondo moderno), per il quale conoscere è creare l’oggetto, o il mondo reale. Burri, Pollock, Manzoni, Fontana, Fautrier, Mondrian sono stati gli esempi pittorici più riusciti e famosi di Idealismo immanentista. Mazzone, di conseguenza, lavora in ottima compagnia. 4. La logica delle cose. La filosofia nacque nel Mediterraneo oltre duemila e cinquecento anni fa e ci diede una logica conseguenziale, per spiegarci le cose e gli eventi. Essa, in altre parole, rappresenta uno dei tanti rami dell’albero della meditazione (che è un insieme di riflessioni ed è presente in tutte le civiltà). La peculiarità del metodo filosofico fu il praticare le relazioni, per cui oggi esso è la vera alternativa al relativismo imperante. Con le relazioni si ragiona in rapporto al maggior numero di elementi possibili; col relativismo, come col misticismo, si accetta e si rinuncia a ragionare. Così, relativismo e misticismo si toccano. Il fanatismo religioso ed il laicismo libertino fanno parte dello stesso nulla. Mazzone, in contrapposizione, relaziona il colore, la materia e lo spazio per presentare la sua idea di mondo, da filosofo che comunica realizzando exempla. Non ha pretese di oggettività, come non ne dovrebbe mai avere un artista pensatore. Se, infatti, la filosofia fosse la semplice ricerca della verità, sarebbe un puro fallimento. Se, invece, fosse un insieme di risposte ai tanti perché che possono venirci in mente, sarebbe un continuo aggiustare il motore di una macchina destinata a non muoversi. Se, ancora, fosse una sequela di domande senza risposte, sarebbe un camminare a tastoni nel buio, rischiando di scambiare il pelo di un topo per la peluria di Miss Italia. Se fosse, infine, un liberarsi dai pregiudizi... beh, ragazzi! Attenti a non chiamare pregiudizio un’istituzione utile! Proibire l’eliminazione degli ammalati a qualcuno sembra un pregiudizio. Ma, davvero! Non ci tengo a liberarmene. Essendo, come s’è già scritto, un insieme di relazioni, la filosofia si evolve man mano che si pensa a nuove relazioni e propone soltanto mondi provvisori (il che, tutto sommato, ci permette di andare avanti con la storia). Ecco perché, in sintesi, alla domanda su che cosa sia la filosofia, si risponde proprio con la filosofia. Anche gli oggetti di Salvo Mazzone, a questo punto, vanno intesi come le realizzazioni di un mondo provvisorio. Guardate, quindi, i suoi quadri come se fossero un viaggio dentro una psiche parallela. In poche parole: capire l’arte coincide col piacere di goderne. Come per capire il sesso, basta praticarlo. 5. Il contesto storico. Come avviene con la legge della selezione naturale, ci sono ideologie che meglio corrispondono ai bisogni umani e sono quelle che si impongono in spazi sempre più grandi. Alla resa dei conti, come già Hegel disse, tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale. Oggi, però, col sopravvento del sincretismo capitalista, parrebbe fatale la morte della vecchia ideologia mediterranea e, per conseguenza, della filosofia. Privo di senso critico, l’attuale Potere culturale assomiglia alle governanti di una volta. Pensa che ogni idea debba stare ben vestita e piazzata al posto giusto. Oggi c’è il trionfo dell’Accademia e dell’Università di massa. Se Einstein non fosse Einstein, cioè un genio ormai noto ed accettato, non verrebbe capito, perché il potere culturale dominante non concepisce neppure l’idea dello scarto. Come il cretino, il Potere parte dalla sua verità per ragionare; al contrario di quanto dovrebbe fare lo scrittore, che parte da un ragionamento per arrivare alla verità. Il problema, perciò, è che mai come ai giorni nostri il cretino ha tenuto in mano il potere. E’ stato un processo lento, politicamente iniziato con quella salutare svolta che fu la Rivoluzione francese. Da lì, purtroppo, cominciò pure l’invasività della società di massa. Da lì venne, fra l’altro, il radicale cambiamento della committenza artistica. Non ci furono più soltanto le corti ad ordinare ai pittori le celebrazioni dei propri fasti. Il nuovo committente aveva il volto anonimo del borghese. Ed esibiva, inoltre, tutta la sua volgarità. E, purtroppo, gli artisti sono come i topi: vanno dove si mangia. Pittori, scrittori, musicisti lasciarono, perciò, le raffinatezze delle corti e divennero i commis dei gusti del pubblico. Il neoclassicismo di David e il romanticismo di Delacroix rappresentarono, per esempio, la protostoria dell’arte legata ai partiti politici. La morte di Marat, Il giuramento degli Orazi e La Libertà che guida il popolo sulle barricate portarono a livelli altissimi l’idea della Francia rivoluzionaria, emula del valore degli antichi romani. Non mi attardo, poi, a spiegare quanto abbia inciso la destinazione delle opere degli impressionisti e dei post-impressionisti alle pareti dei salotti, veri e propri santuari privati della borghesia ottocentesca. Finché, nel Novecento – col liberty, col futurismo, col dada, con la metafisica, col surrealismo, con l’espressionismo, con l’astrattismo – ci fu la committenza dei partiti in lotta (e dei relativi funzionari) per la gramsciana egemonia culturale. Ma, oggi e, per di più, nella perifericissima Scordia? A quale committenza un artista come Salvo Mazzone potrebbe offrire il suo lavoro? 6. Il contesto geografico. La committenza ideale è la classe colta locale, se si ha la forza di far capire quanto la periferia può diventare un simbolo universale. Credo, a tal proposito, che valga sempre ciò che Albert Camus disse di Ignazio Silone: “Nessuno come lui è legato al suo Abruzzo e nessuno è più europeo di lui.” Probabilmente, un concetto simile può esprimersi anche per la poesia di Salvo Basso, dove il dialetto scordiense viene posto senza pedanterie filologiche, cioè nel modo corrente (e, quindi, vero) in cui viene usato dalla gente. Cosa che gli permette di arrivare ad esiti d’avanguardia (migliori, in ogni caso, dei banali pastiches linguistici di Consolo e di Camilleri). Per Salvo Mazzone, però, mi è venuta spontanea un’idea esattamente opposta, anche se convergente: nessuno come lui è legato alle tematiche globali dell’arte e nessuno è più siciliano di lui. Certamente, il concetto va ribadito anche per altri artisti a lui coevi e conterranei, sui quali mi propongo di tornare a scrivere, magari più ampiamente. Penso alle strutture mondrianesche di Alfio Milluzzo, dove la ragione ritrova le sue radici, ma i materiali ed i motivi esibiscono l’inequivocabile weltanschauung della Piana di Catania. Penso a Pippo Sesto, aperto alle sperimentazioni dell’astrattismo e delle istallazioni, ma al contempo portatore di un espressionismo siculo e passionale. Penso, infine, a Massimo Faraci, la cui opera di pittore e di grafico presenta molte più lusinghiere analogie di quanto egli stesso crede. Però, al contrario di Salvo Mazzone, che avvolge i suoi oggetti d’arte in densissimi viluppi cromatici, Faraci realizza interventi pittoricamente chirurgici, cioè localizzati in precisi punti d’interesse (fra l’altro, quasi sempre decentrati). Faraci e Mazzone, comunque, esprimono un comune concetto dell’operare artistico, intervenendo sui materiali in modo da cambiare il significato originario in storia personale. Ambedue, così, si pongono sulla scia della migliore cultura isolana, dalla Sicilia araba trattata da Michele Amari alla Sicilia classica proposta da Vincenzo Natale, alla Sicilia popolare dei Pitrè, dei Vigo, degli Amabile Guastella. Fino ad arrivare a Nino Savarese ed al suo bellissimo romanzo (Il capopolo, Catania, Tringali Editore, 1975). Lì, partendo da una cronaca d’epoca, con lievi, quasi inavvertiti interventi dello scrittore, una cronaca siciliana del XVII° secolo diventa esplicazione dei meccanismi che fanno agire le masse e metafora dell’eterna sconfitta di chi sogna di cambiare il mondo. Anche se ha cercato la collaborazione degli altri, anche se ha evitato ogni impazienza ed ogni imprudenza, anche se non ha meritato alcun odio per sangue ingiustamente versato. Per rovinarci la vita, bastano gli stupidi intriganti che in questo mondo di ladri non mancano mai. 7. Il contesto globale. Sono parole, quelle che mi accingo a scrivere, che ho già usate nel pieghevole a presentazione di una precedente mostra di Salvo Mazzone. Le ripropongo più o meno intatte, dato che mi sembrano la giusta conclusione dell’intero discorso. Dico, perciò, che i quadri del pittore scordiense intendono increspare con qualche grumo di riflessione la banale linearità degli appartamenti moderni. Infatti, le citazioni colte (soprattutto Pollock, Mondrian, Vedova, Burri) sono inserite in un intelligente recupero dell’equilibrio classico. L’effetto finale, come s’è scritto, è di rara eleganza. Il procedimento di Mazzone, però, è l’esatto opposto di quello seguito da Pollock. Nel primo i colori saturi e severi stanno sullo sfondo, mentre le lumescenze perlaccee seguono i ritmi nervosi delle colature. Sono opere, quelle di Mazzone, in cui col (quasi) regolare intrico delle linee vengono espressi umori e fantasticherie umane; ma il tutto va a poggiarsi sopra meditati e perfetti interventi nella materia del supporto, fattasi in tal modo racconto del passare del tempo, che tutto deforma e plasma. In queste superfici c’è carne dolorante, in cui si rinnova la tragedia del nostro corpo che decade e ci degrada. Il tutto (ed è questo il maggior merito dell’artista) avviene con una levità ed una clarità di tinte, che in qualche modo mi ricordano la serena disperazione di Saba. Ogni quadro è un estenuato Canto del cigno, come nei migliori risultati della pop art. l’Io ed il Non-io di Fichte tornano a confrontarsi e forse a capirsi ed abbracciarsi. Mazzone pittore, insomma, completa il suo mestiere quotidiano di architetto, proponendo nello spazio razionale delle pareti improvvise ed inaspettate stazioni romantiche. C’è in lui intuizione estetica e sentimento dell’infinito, o se si vuole un motivo di lotta ed una speranza di avvenire. E’ proprio in questo senso che Mazzone ha trovato la sua committenza ideale. Egli va incontro ai gusti metropolitani dei contemporanei, che ormai prevalgono anche nella sperduta Piana di Catania. Magari, stanno meglio degli orribili poster di vedute turistiche, di manifestazioni folcloristiche, di star del cinema, di divi della canzone, di leader politici, di quadri stranoti comprati nei musei. Tutte immagini malinconicamente false, tutte maliconicamente uguali fra loro.