RIVISTA RTDT A3 TRACC

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3/2012
Tax Law Quarterly
3/2012
Comitato di direzione
Fabrizio Amatucci, Massimo Basilavecchia, Roberto Cordeiro Guerra
Lorenzo del Federico, Eugenio Della Valle, Valerio Ficari
Maria Cecilia Fregni, Alessandro Giovannini
Maurizio Logozzo, Giuseppe Marini
Salvatore Muleo, Franco Paparella
Livia Salvini, Loris Tosi
G. Giappichelli Editore – Torino
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Comitato di direzione
Fabrizio Amatucci, Massimo Basilavecchia, Roberto Cordeiro Guerra, Lorenzo del
Federico, Eugenio Della Valle, Valerio Ficari, Maria Cecilia Fregni, Alessandro
Giovannini, Maurizio Logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco Paparella, Livia Salvini, Loris Tosi
Comitato scientifico dei revisori
Niccolò Abriani, Jacques Autenne, Pietro Boria, Andrea Carinci, Giuseppe Cipolla,
Silvia Cipollina, Gianluca Contaldi, Daria Coppa, Giacinto Della Cananea, Augusto Fantozzi, Andrea Fedele, Luigi Ferlazzo Natoli, Alfredo Garcia Prats, Daniel
Gutman, Manlio Ingrosso, Enrico Laghi, Salvatore La Rosa, Carlos Lopez Espadafor, Raffaello Lupi, Enrico Marello, Gianni Marongiu, Enrico Marzaduri, Salvo
Muscarà, Mario Nussi, Carlos Palao Taboada, Leonardo Perrone, Raffaele Perrone
Capano, Francesco Pistolesi, Gianni Puoti, Claudio Sacchetto, Salvatore Sammartino, Angelo Scala, Roman Seer, Maria Teresa Soler Roch, Paolo Stancati, Dario
Stevanato, Giuliano Tabet, Francesco Tesauro, Giuseppe Tinelli, Antonio Uricchio,
Giuseppe Zizzo
Comitato di redazione
Antonio Viotto (coordinatore), Ernesto Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna Cannizzaro, Pier Luca Cardella, Anna Rita Ciarcia, Marco Di Siena, Stefano Dorigo,
Antonio Marinello, Pietro Mastellone, Michele Mauro, Annalisa Pace, Damiano Peruzza, Federico Rasi, Laura Torzi, Caterina Verrigni
Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione collegiale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di due dei
componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento
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Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via Po 21 – 10124 Torino
GLI AUTORI E I REVISORI
Anna Rita Ciarcia
Ricercatore di Diritto tributario, Seconda Università di Napoli
Lorenzo Del Federico
Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Chieti - Pescara
Marco Di Siena
Dottorando di ricerca in Diritto tributario, Università di Roma “La Sapienza”
Gianni Marongiu
Professore emerito di Diritto tributario, Università di Genova
Michele Mauro
Assegnista di ricerca in Diritto tributario, Università della Calabria
Rossella Miceli
Ricercatore di Diritto tributario, Università di Roma “La Sapienza”
Salvatore Muleo
Professore ordinario Diritto tributario, Università della Calabria
Maria Rodriguez-Bereijo Leòn
Profesora Contratada Doctora de Derecho Financiero y Tributario, Università di
Madrid (E)
Valeria Russo
Dottore di ricerca in Diritto tributario, Università “LUISS G. Carli”
La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Niccolò Abriani (Professore ordinario di Diritto commerciale, Università di Firenze); Andrea Carinci
(Professore straordinario di Diritto tributario, Università di Bologna); Silvia Cipollina (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Pavia); Gianluca
Contaldi (Professore ordinario di Diritto internazionale e dell’Unione Europea,
X
GLI AUTORI E I REVISORI
RTDT - n. 3/2012
Università di Macerata); Daria Coppa (Professore ordinario di Diritto tributario,
Università di Palermo); Andrea Fedele (Professore emerito di Diritto tributario,
Università di Roma “La Sapienza”; Salvatore La Rosa (Professore ordinario di
Diritto tributario, Università di Catania); Carlos Maria Lòpez Espadafor (Catedràtico de Derecho financiero y tributario, Universidad de Jaén); Mario Nussi
(Professore straordinario di Diritto tributario, Università di Udine); Francesco
Pistolesi (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Siena); Giovanni Puoti (Professore ordinario di Diritto tributario, Università telematica “Unicusano”); Claudio Sacchetto (Professore ordinario di Diritto tributario, Università
di Torino); Salvatore Sammartino (Professore ordinario di Diritto tributario di
Diritto tributario, Università di Palermo); Giuliano Tabet (Professore ordinario
di Diritto tributario, Università di Roma “La Sapienza”); Francesco Tesauro
(Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano “Bicocca”); Antonio Uricchio (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Bari); Giuseppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tributario, Università “LIUC – Castellanza”).
INDICE-SOMMARIO
pag.
Dottrina
A.R. Ciarcia, Il ruolo dell’autorizzazione nell’attività istruttoria
(The role of the authorization in the preliminary activity)
L. Del Federico, Le controversie sul recupero degli aiuti di Stato
nella giustizia tributaria italiana: profili critici, orientamenti giurisprudenziali e linee evolutive (Disputes relating to recovery state aids
in the italian fiscal justice: critical aspects, tax courts case law and
guidelines)
M. di Siena, Note sparse a margine del rinnovato regime di riporto
delle perdite fiscali da parte dei soggetti IRES (Some thoughts concerning the new regime of losses carry forward by IRES taxpayers)
G. Marongiu, Il parlamento convertito alle “conversioni”: l’abuso
del decreto-legge fiscale (The parliament converted to the “conversions”: the abuse of the law decree in tax matters)
S. Muleo, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria (The
European principle of effective protection and the anachronisms of
legal tax presumptions in the light of the strengthening of the tax
administration’s powers)
M. Rodriguez-Bereijo Leòn, Normas tributarias anti-abuso y carga
de la prueba en el derecho tributario español (Norme anti-abuso
ed onere della prova nel diritto tributario spagnolo. Anti-abuse
rule and the burden of proof under Spanish tax law)
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591
629
653
685
699
VIII
INDICE-SOMMARIO
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pag.
Giurisprudenza
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126 (udienza del 17 gennaio
2012) – Primo Pres. f.f. Preden; Rel. Piccininni, con nota di M. Mauro, Rilievi critici sull’orientamento della Cassazione a Sezioni
Unite in tema di insinuazione dei crediti tributari al passivo fallimentare (Critical remarks on the decision of the Italian Supreme
Court (Grand Chamber) concerning the lodgement of tax claims in
the bankruptcy proceedings)
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10 –
Pres. Lenaerts, Rel. Arestis, con nota di R. Miceli, Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA (New national perspectives
on VAT refund)
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C371/10 – Pres. Tizzano, Rel. Lenaerts, con nota di V. Russo, Exit
taxes e diritto dell’Unione Europea: quale “modello” compatibile?
(Exit taxes and EU law: which “model” can be considered compatible?)
739
763
785
DOTTRINA
SOMMARIO:
A.R. Ciarcia, Il ruolo dell’autorizzazione nell’attività istruttoria (The role of the
authorization in the preliminary activity)
L. Del Federico, Le controversie sul recupero degli aiuti di Stato nella giustizia
tributaria italiana: profili critici, orientamenti giurisprudenziali e linee evolutive (Disputes relating to recovery state aids in the italian fiscal justice: critical
aspects, tax courts case law and guidelines)
M. Di Siena, Note sparse a margine del rinnovato regime di riporto delle perdite fiscali da parte dei soggetti IRES (Some thoughts concerning the new regime of losses carry forward by IRES taxpayers)
G. Marongiu, Il parlamento convertito alle “conversioni”: l’abuso del decreto
legge fiscale (The parliament converted to the “conversions”: the abuse of the
law decree in tax matters)
S. Muleo, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle
presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori
dell’Amministrazione finanziaria (The European principle of effective protection and the anachronisms of legal tax presumptions in the light of the strengthening of the tax administration’s powers)
M. Rodriguez-Bereijo Leòn, Normas tributarias anti-abuso y carga de la prueba en el derecho tributario español (Norme anti-abuso ed onere della prova
nel diritto tributario spagnolo. Anti-abuse rule and the burden of proof under
Spanish tax law)
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DOTTRINA
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Anna Rita Ciarcia
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Anna Rita Ciarcia
IL RUOLO DELL’AUTORIZZAZIONE
NELL’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA
THE ROLE OF THE AUTHORIZATION
IN THE PRELIMINARY ACTIVITY
Abstract
Nel corso dell’attività istruttoria sono in contrapposizione due opposti interessi,
quello dell’amministrazione finanziaria ad acquisire prove fiscalmente rilevanti e
quello del contribuente a non subire restrizione delle sue libertà fondamentali,
prime fra tutte l’inviolabilità del domicilio e la riservatezza. In questo ambito si
inserisce il provvedimento autorizzatorio. Il lavoro approfondisce le diverse forme di autorizzazione, nonché l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito
in caso di illegittimità o carenza di essa. Si analizza, poi, il particolare caso delle
indagini finanziarie, per domandarsi, infine, se l’autorizzazione, in quanto atto
istruttorio, possa essere autonomamente impugnato.
Parole chiave: istruttoria, autorizzazione, inviolabilità del domicilio, indagini finanziarie, impugnabilità
During the preliminary phase of the assessment, two are the concurrent interests: one
of the tax administration to get relevant proof and that of the taxpayer not to suffer
restriction of his/her fundamental freedoms, above all the guarantee of the domicile
and the privacy. In this context the authorization measure is inserted. The article inquires the different forms of authorization, as well as the inadmissible evidence acquired in case of violation of law. Particular attention is reserved to the case of the tax
investigations, to wonder if the authorization, as part of the assessment phase, could
be appealed.
Keywords: inquiry, authorization measure, inviolability of the domicile, tax investigations, tax litigation
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DOTTRINA
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SOMMARIO:
1. Premessa. – 2. Le diverse forme di autorizzazione ex art. 52 del D.P.R. n. 633/1972. – 3.
L’efficacia probatoria degli elementi acquisiti nei casi di assenza o di irregolare autorizzazione
del Procuratore della Repubblica. – 4. L’autorizzazione alle indagini finanziarie e l’obbligo di
esibizione al contribuente e di allegazione all’atto impositivo. – 5. Il provvedimento autorizzatorio quale atto endoprocedimentale e la sua “non” autonoma impugnabilità. – 6. Conclusioni.
1. Premessa
L’istruttoria è quella fase del procedimento volta all’accertamento dei fatti
e dei presupposti del provvedimento e alle acquisizioni e valutazioni degli
interessi implicati dall’esercizio del potere dell’amministrazione 1.
La decisione amministrativa, che verrà formalizzata nel provvedimento
finale, prende progressivamente consistenza lungo tutto l’arco di svolgimento del procedimento, il quale serve proprio a chiarire gli aspetti problematici
di natura giuridica e fattuale presenti del caso concreto 2.
Nella fase procedimentale sono presenti degli atti che precedono il provvedimento finale e pertanto devono ritenersi preparatori rispetto a quest’ultimo. Tali atti esauriscono la loro portata giuridica nell’ambito del procedimento medesimo, in quanto esclusivamente funzionali all’emanazione del
provvedimento.
Nel procedimento tributario rientra tra gli atti preparatori il provvedimento di autorizzazione, di cui, ai sensi degli artt. 51 3, comma 2, e 52 4 del
1
V. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, p. 418. CERRULLI IRELLI,
Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2011, secondo il quale l’istruttoria procedimentale consiste, sul piano strutturale, di tutti gli atti nonché dei fatti ed operazioni, attraverso i quali vengono acquisiti e preliminarmente valutati i fatti e gli interessi dei quali
consta la situazione reale nella quale il potere in concreto esercitato va ad incidere.
2
V. ZITO, Il procedimento amministrativo, in SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo,
Torino, 2011, p. 215.
3
Art. 51, comma 2, D.P.R. n. 633/1972: Per l’adempimento dei loro compiti gli uffici
possono: a) procedere all’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche ai sensi dell’art. 52.
4
Art. 52, comma 1, D.P.R. n. 633/1972: Gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati
all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad
ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per
l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli
impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne
indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono.
Anna Rita Ciarcia
561
D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e artt. 32 e 33 del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 600 5 ai fini dell’imposte dirette), devono essere provvisti i verificatori al fine di procedere all’accesso, ispezione e verifica presso il contribuente. In base a tali previsioni normative, l’esistenza dell’atto autorizzatorio è
pertanto condizione necessaria per la legittimità dell’attività di controllo 6.
L’autorizzazione, quindi, rappresenta un prima forma di tutela che adopera il legislatore tributario al fine di contemperare nella fase procedimentale l’interesse pubblico all’accesso presso il contribuente con quello attinente
alla sfera personale dello stesso 7.
Infatti, gli atti ispettivi incidono, in particolare, nella sfera della libertà
personale, in quella dell’intimità del domicilio e in quella, in generale, della
riservatezza 8, tutti costituenti diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione;
pertanto devono esserci notevoli limitazioni ai poteri degli organi di polizia
autorizzati, per legge, al compimento di atti coercitivi limitativi di tali diritti.
Tuttavia dalla recente analisi giurisprudenziale, sia di merito che di legittimità, emerge che l’autorizzazione non sempre rappresenta una vera forma
di garanzia per il contribuente anzi, talvolta, può essere viziata e, tale vizio, si
rifletterà sul provvedimento finale.
L’atto autorizzatorio come tutti gli atti endoprocedimentali, ha natura di
atto amministrativo, in quanto, sebbene proveniente da una autorità giudiziaria, si inserisce, divenendone parte integrante, nel procedimento amministrativo di accertamento 9.
Per la dottrina amministrativa, gli atti endoprocedimentali, assolvono
ad una funzione preparatoria rispetto all’emanazione del provvedimento finale 10.
5
Art. 33, comma 1, parti I e II, D.P.R. n. 600/1973: Per la esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche si applicano le disposizioni dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
6
V. SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, p. 360, secondo la quale l’autorizzazione, in virtù della sua natura e delle funzioni che svolge, può
essere equiparata all’ordine di ispezione, proprio di diritto amministrativo.
7
V. VANZ, La tutela giurisdizionale diretta e immediata, in GLENDI-UCKMAR (a cura di),
La concentrazione della riscossione dell’accertamento, Milano, 2011, p. 578.
8
V. SANTAMARIA, Le ispezioni tributarie, Milano, 2000, p. 15, secondo cui la tutela della
libertà personale, del domicilio e della riservatezza costituisce il limite più rilevante all’esercizio della potestà ispettiva ed una garanzia essenziale dei diritti del cittadino-contribuente.
9
V. Comm. trib. II grado di Bolzano, sez. I, sentenza 23 maggio 2006, n. 13, in Bancadati fisconline; Cass., sez. I, sentenza 27 novembre 1998, n. 12050, in Banca Dati; Cass.,
sez. un., sentenza 8 agosto 1990, n. 8062, in Corr. trib., 1990, p. 2811.
10
V. ZITO, op. cit., p. 216.
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DOTTRINA
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Nel procedimento tributario, l’autorizzazione, quale atto preparatorio allo svolgimento della fase endoprocedimentale dell’istruttoria, non assume
rilevanza esterna, autonoma ai fini della sua immediata impugnabilità, in
quanto non immediatamente, né certamente lesiva, della posizione giuridica del contribuente interessato che non ha ancora subito o potrebbe addirittura non subire alcun atto finale 11.
2. Le diverse forme di autorizzazione ex art. 52 del D.P.R. n. 633/1972
L’art. 52, comma 1, primo e secondo periodo, del D.P.R. n. 633/1972
prevede che gli uffici finanziari e la Guardia di Finanza possono disporre l’accesso dei propri impiegati nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche e professionali, a condizione che siano muniti di
un’apposita autorizzazione del capo-ufficio 12 da cui dipendono i verificatori 13 (per la Guardia di Finanza 14 è previsto un ordine di servizio del comandante del reparto o dell’unità da cui dipende la pattuglia).
Qualora l’accesso debba essere effettuato in un locale adibito “anche” ad
abitazione privata, quindi ad uso promiscuo con quello dell’attività com11
V. Circolare 19 ottobre 2006, n. 32/E, punto 4.2.
V. VANZ, L’autorizzazione del capo ufficio Iva per l’esercizio delle attività ispettive previste dall’art. 52 D.P.R. n. 633/1972, in Riv. dir. fin. sc. fin., n. 2, 1994, p. 298, il quale, in tema
di autorizzazioni all’esercizio di attività ispettive tributarie, ricorda che già in vigenza dello
Statuto Albertino, l’esplicarsi di tali attività era circondato da precise cautele.
13
V. LUPI, Diritto tributario, Parte generale, Milano, 2000, p. 177, secondo il quale i
funzionari devono qualificarsi ed esibire i tesserini di riconoscimento e le autorizzazioni all’accesso. L’autore non ritiene che le disposizioni interne all’amministrazione finanziaria
sullo status giuridico necessario per i dipendenti che svolgono attività di verifica possano
essere invocate dal contribuente, essendo dettate a tutela dell’interesse all’efficienza dell’azione amministrativa. Quando, invece, l’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 prescrive che gli
accessi presso aziende di credito siano effettuati da funzionari o da ufficiali della Guardia
di Finanza di grado non inferiore a capitano, si tratta di disposizioni con rilevanza esterna
che tutelano l’interesse del contribuente alla riservatezza.
14
V. Cass., sez. trib., sentenza 29 luglio 2011, n. 16661; sentenza 28 aprile 2010, n.
10137 e sentenza 8 luglio 2009, n. 16017, tutte in Banca dati-Big. Secondo tali sentenze, ai
sensi dell’art. 35 della L. 7 gennaio 1929, n. 4 la Guardia di Finanza, in quanto polizia tributaria, può sempre accedere negli esercizi pubblici e in ogni locale adibito ad azienda industriale o commerciale ed eseguirvi verificazioni e ricerche, per assicurarsi dell’adempimento delle prescrizioni imposte dalle leggi e dai regolamenti in materia finanziaria, non
necessitando, a tal fine, di autorizzazione scritta, richiesta per il diverso caso di accesso effettuato dai dipendenti civili dell’Amministrazione finanziaria.
12
Anna Rita Ciarcia
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merciale, all’autorizzazione del capo-ufficio deve aggiungersi quella rilasciata dal Procuratore della Repubblica 15 (art. 52, comma 1, terzo periodo 16).
La promiscuità non sussiste solo nell’ipotesi in cui lo stesso ambiente sia
utilizzato contemporaneamente per i bisogni della vita privata e per le necessità di quella lavorativa, ma sussiste ogni qualvolta sia riscontrata una
agevole comunicazione interna tra gli ambienti, tale da consentire il trasferimento dei documenti nella parte abitativa 17.
Per l’accesso nei locali “diversi” da quelli indicati nel comma 1, quindi
locali adibiti in via esclusiva ad abitazione o ad attività che non siano commerciali, agricole o professionali od artistiche 18, il decreto autorizzativo del
15
V. FANELLI, I poteri della Polizia tributaria per l’accertamento del reato tributario, in
CORSO-STORTONI, I reati in materia fiscale, Torino, 1990, p. 559, per il quale l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica assume ovviamente carattere aggiuntivo, e non sostitutivo, rispetto all’autorizzazione del Comandante del Reparto. BUCCICO, Gli accessi
nell’abitazione e negli studi professionali: la rilevanza delle autorizzazioni, in Rass. trib., n. 5,
2006, p. 1493, secondo la quale tale autorizzazione, che si aggiunge a quella del capo dell’ufficio, non appesantisce l’attività accertativa dell’ufficio ma trova la sua ratio nel fatto che
si tratta di accedere in un locale che, sebbene utilizzato promiscuamente per abitazione ed
attività commerciale, rappresenta il domicilio del contribuente e quindi da tutelare ai sensi
dell’art. 14 Cost. MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, p.
252, secondo il quale la legge parla genericamente di “autorizzazione del Procuratore della
Repubblica”, senza però specificare di quale Procuratore si parli, se quello della circoscrizione in cui si trova l’ufficio procedente oppure quello della circoscrizione in cui sono situati i locali in cui deve eseguirsi l’accesso. Secondo l’Autore competente dovrebbe essere
il procuratore della Repubblica del luogo in cui sono ubicati i locali cui accedere, e ciò in
forza del principio generale secondo cui la competenza del procuratore della Repubblica è
segnata dalla competenza territoriale del giudice presso cui esercita le sue funzioni.
16
Art. 33, comma 1, parte III, D.P.R. n. 600/1973: Tuttavia per accedere in locali che
siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della
Repubblica.
17
V., per tutte, Cass., sez. trib., sentenza 28 luglio 2011, n. 16570, in Bancadati fiscovideo; esclude l’ipotesi di uso promiscuo il caso analizzato e risolto dalla Cass., sez. trib., sentenza 31 agosto 2007, n. 18337 secondo cui la questione sottoposta all’esame della Corte
deve essere risolta in base al seguente principio di diritto: non è necessaria l’autorizzazione
della Procura della Repubblica per accedere ad un locale: a) che sia adibito solo ad attività
sottoposta ad IVA di soggetto passivo di IVA; b) che sia nella piena ed esclusiva disponibilità del soggetto passivo di IVA; c) al quale l’accesso sia possibile solo attraverso un locale
adibito ad abitazione di un terzo, che abbia dato il suo consenso ad accedere al proprio appartamento, perché, ricorrendo le indicate condizioni, siffatta specie di locale interno
all’appartamento di un terzo rientra nella categoria del locale considerata dall’art. 52,
comma 1, primo periodo, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e non nella categoria di locale oggetto dell’art. 52, comma 1, terzo periodo, dello stesso atto normativo.
18
Così è previsto dall’art. 52, comma 2, D.P.R. n. 633/1972.
564
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
magistrato 19 deve essere, invece, imprescindibilmente motivato in ordine
alla concreta ricorrenza di “gravi indizi di violazione delle norme tributarie”,
in coerenza con l’art. 14, comma 3, Cost. 20.
19
V. Cass., sez. trib., sentenza 25 marzo 2011, n. 6908, in Bancadati fiscovideo, nel caso
affrontato dalla Corte l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione avverso la
sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, in riforma della pronuncia
di primo grado, aveva accolto il ricorso della società contro un avviso di irrogazione sanzioni per infedele dichiarazione, ritenendo illegittima l’acquisizione della documentazione
su cui la rettifica si fonda, D.P.R. n. 633/1972, ex art. 52, in quanto avvenuta presso
l’abitazione – studio di un commercialista senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. La circostanza che nell’immobile ove la perquisizione è stata eseguita il commercialista avesse “solo la residenza anagrafica”, senza in realtà abitarvi, è meramente affermato dai ricorrenti, senza alcuna prova. Resta il fatto che non è contestato che ivi il commercialista avesse (anche) la residenza e quindi sussiste la violazione del D.P.R. n. 633/1972,
art. 52, comma 2, rilevata dal giudice tributano. La Corte, quindi, rigetta il ricorso.
20
V. Cass., sez. trib., sentenza 20 marzo 2009, n. 6836, in Bancadati Ipsoa, per i giudici
il provvedimento di autorizzazione domiciliare deve necessariamente trovare causa e giustificazione nell’esistenza di gravi indizi di violazione della legge fiscale, la cui valutazione
va effettuata “ex ante” con prudente apprezzamento e deve essere, pur concisamente, motivata; Cass., sez. trib., sentenza 4 novembre 2008, n. 26454, in Bancadati fiscovideo, secondo cui l’abitazione del contribuente è soggetta alla guarentigia costituzionale dell’inviolabilità del domicilio. Conseguentemente, l’accesso in sede di accertamento è consentito
esclusivamente all’esito della preventiva autorizzazione da parte del competente Procuratore della Repubblica; Cass., sez. un., sentenza 8 agosto 1990, n. 8062, in Bancadati fiscovideo. Per la Corte, la garanzia risiede nel controllo circa la ricorrenza in concreto dei gravi
indizi di violazione delle leggi tributarie che dovranno essere rappresentati e documentati
all’AGO dall’autorità amministrativa che formula la relativa richiesta. Ed ove il Procuratore della Repubblica, riscontri che non ricorrono i gravi motivi che sono denunciati dalla
Pubblica Amministrazione, dovrà negare l’autorizzazione. Si tratta, quindi, non già di un atto
dovuto che si limita a prendere atto della ricorrenza dei presupposti richiesti dalla norma
ai fini dell’accesso domiciliare (nel qual caso il controllo giudiziario sarebbe meramente
nominale e apparente), ma di un atto tipicamente discrezionale che si risolve in un controllo di carattere sostanziale in quanto la legge riconosce all’AGO il potere di valutare la
esistenza in concreto degli indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dall’autorità
competente per stabilire se essi sussistano effettivamente e siano o meno gravi. E la motivazione del provvedimento, proprio per quella esigenza di segretezza che attiene alla stessa
funzione della procedura, potrà anche esaurirsi in espressioni sintetiche di significato implicito e risolversi nel richiamo della nota della Guardia di Finanza che a quegli indizi abbia
fatto riferimento. Si comprende così come in tal caso la relatio si esaurisce nell’ambito del
rapporto: autorità amministrativa-autorità giudiziaria. Tale interpretazione della norma è
pienamente conforme ai principi costituzionali che attengono alla inviolabilità del domicilio. Mentre, invero, l’art. 13 Cost., a tutela della libertà personale, non ammette forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale se non per atto motivato
dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti ed il successivo art. 14, comma 2 a
garanzia della inviolabilità del domicilio richiama le garanzie prescritte per la tutela della
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565
Il comma 1 dell’art. 52 citato, con riguardo all’autorizzazione all’accesso da
parte degli impiegati dell’amministrazione nei locali destinati all’attività
dell’impresa 21, non contiene, invece, alcuna indicazione circa la motivazione,
per cui si ritiene che il provvedimento autorizzatorio non debba essere sorretta dalla sussistenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie 22.
libertà personale; il successivo comma 3 statuisce che «gli accertamenti e le ispezioni per
motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali, sono regolati da leggi
speciali», cioè per soddisfare interessi che trovano espressa tutela costituzionale (artt. 32,
41, 53). Quest’ultima norma consente che la legge (ordinaria) possa disporre accertamenti o ispezioni domiciliari anche senza l’intervento del giudice per i motivi (pubblicistici)
accennati, a maggior ragione è quindi coerente col testo costituzionale una legge che, a fini
pubblicistici di carattere fiscale, prevede che l’autorità amministrativa, valutata la ricorrenza dei gravi indizi per procedere alla perquisizione nella abitazione del contribuente, si
debba munire a tal fine dell’autorizzazione dell’AGO, la quale, a garanzia della inviolabilità
del domicilio, è preposta al controllo circa la effettiva sussistenza in concreto dei gravi indizi in base a quanto risultante nell’ambito del rapporto interno con la Pubblica Amministrazione, dalla richiesta amministrativa e dai documenti ad essa eventualmente allegati;
Cass., sez. trib., sentenza 23 aprile 2007, n. 9565, in Bancadati fiscovideo, secondo la quale
l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista, in presenza di gravi indizi di violazioni di norme tributarie, dall’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, è
connotata da un largo margine di discrezionalità nella valutazione – che va effettuata con
prudente apprezzamento ex ante – della sussistenza degli indizi. La motivazione – stante
l’esigenza di consentire l’acquisizione degli elementi di riscontro della supposta evasione
fiscale, evitandone l’occultamento o la distruzione – può essere sintetica ed è sufficiente
che sia indicata la nota e l’autorità richiedente l’autorizzazione e che si espliciti che il relativo rilascio trova causa e giustificazione nell’esistenza di gravi indizi di violazione della
legge fiscale da parte del legale rappresentante della società; Cass., sez. trib., sentenza 24
luglio 2002, n. 10804, in Bancadati fiscovideo, per la Corte il fatto che il Procuratore possa
emettere l’autorizzazione soltanto in presenza di gravi indizi dell’esistenza di violazioni
non significa affatto che l’autorizzazione stessa debba essere motivata in maniera più specifica e che non sia sufficiente il richiamo all’esistenza, appunto, dei gravi indizi di violazione
delle norme tributarie.
21
V. Cass., sez. trib., sentenza 7 agosto 2009, n. 18155, in Bancadati Ipsoa, per i giudici
l’atto di autorizzazione dell’accesso ai locali dell’impresa, reso ai sensi dell’art. 52 del
D.P.R. n. 633/1972, non circoscrive l’ambito dell’ispezione all’epoca del verificarsi dei fatti
apprezzati dalla valutazione; l’ispezione resta rivolta a scoprire violazioni di modo che non
subisce, sotto il profilo temporale, limitazione diverse da quelle attinenti ai poteri di accertamento, e, una volta che sia autorizzata sulla scorta dei dati a disposizione, può investire
anche circostanze diverse, influenti per la revisione delle posizioni del contribuente,
nell’arco di tempo in cui è esercitatile detto potere.
22
V. Cass., sez. trib., sentenza 11 aprile 2008, n. 9611, in Il Fisco, n. 18, 2008, p. 2-3332
con commento di IORIO, L’accesso in abitazioni utilizzate ad uso promiscuo non deve essere
motivato da gravi indizi, dove si chiarisce che tale autorizzazione non prevede una particolare motivazione, qualificandosi, quindi, come un atto dovuto, un mero adempimento procedurale che si limita a prendere atto della ricorrenza dei presupposti richiesti dalla norma
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DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
L’autorizzazione del Procuratore non potrà mai essere rilasciata a seguito
di notizie anonime 23 ed il procuratore, sempre ai fini del rilascio dell’autorizzazione, dovrà valutare e verificare il corredo informativo esibito dall’amministrazione finanziaria 24.
ai fini dell’accesso domiciliare (vale a dire, la necessità di procedere ad un controllo fiscale
presso la sede dove il contribuente svolge la propria attività). V. Cass., sez. trib., sentenza 3
dicembre 2001, n. 15230, in Bancadati fisconline, secondo cui, in ogni caso, l’assenza,
l’abnormità, l’insufficienza e l’incongruenza della motivazione addotta per supportare il
provvedimento si riflettono sulla legittimità dell’atto, escludendola.
23
V. CTR Puglia, sez. VIII, sentenza 19 marzo 2010, n. 17, in Bancadati Ipsoa, secondo
la Commissione, il giudice tributario deve negare la legittimità dell’atto autorizzativo
quando questo risulti emesso esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime. Nel caso
de quo, il provvedimento era stato determinato da acquisizione di informazioni confidenziali ovvero da una lettera anonima e, quindi, in difformità dal disposto dell’art. 52, comma
2, D.P.R. n. 633/1972 che consente l’autorizzazione solo in presenza di gravi indizi di violazione delle norme fiscali; Cass., sez. un., sentenza 21 novembre 2002, n. 16424; Cass.,
sez. trib., sentenza n. 3 dicembre 2001, n. 15230, cit., per i giudici non può ritenersi suscettibile di integrare effettiva, sufficiente e congrua motivazione dell’autorizzazione il richiamo, diretto o indiretto (ovvero correlato al contenuto della richiesta degli organi dell’amministrazione finanziaria) all’esistenza di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti
l’esistenza di violazione delle norme tributaria. Pertanto, è da escludere che il richiamo
all’esistenza di notizie anonime possa, da solo, costituire valida motivazione del provvedimento autorizzativi.
24
Cass., sez. un., sentenza 21 novembre 2002, n. 16424, in Il Fisco, n. 45, 2002, p. 17246, per la Corte l’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista, in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie (art. 52,
comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), costituisce un provvedimento amministrativo, inserito nel procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di
verificare che gli elementi offerti dall’ufficio tributario (o dalla Guardia di Finanza nell’espletamento dei suoi compiti di collaborazione con detto ufficio) siano consistenti ed
idonei ad integrare gravi indizi. Da tale natura e funzione dell’autorizzazione discende
– anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione trova base logica nell’art. 14 Cost.
sull’inviolabilità del domicilio – che il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva fondata sul risultati dell’accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del pubblico ministero e la presenza in esso degli
indispensabili requisiti, tenendo conto, quanto al requisito motivazionale, che l’apprezzamento della gravità degli indizi può essere espressa anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente; Cass., sez. trib.,
sentenza 27 novembre 1998, n. 12050 secondo cui l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica ad eseguire l’accesso nell’abitazione del contribuente, prevista dall’art. 52
del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 cui rinvia l’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600 ha natura di atto amministrativo tipicamente discrezionale, deve per altro avere una
motivazione, ancorché possa esaurirsi anche in espressioni sintetiche di significato implicito ovvero risolversi nel semplice richiamo alla nota della Guardia di Finanza che faccia riferimento agli indizi di violazioni.
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567
Il discrimine tra l’autorizzazione emessa dal Procuratore ai sensi dell’art.
52, comma 1, ultima parte, e quella emessa ai sensi dell’art. 52, comma 2, del
D.P.R. n. 633/1972, è determinato dalla diversa funzione svolta dal provvedimento che, nel comma 1, è limitato a valutare la logica coerenza e congruità
degli elementi giustificativi dell’accesso (potendo essi consistere anche nelle
informazioni acquisite da fonti anonime) addotti dalla autorità istante (controllo preventivo che ha portato a definire il provvedimento come “nulla
osta”), mentre nel comma 2, in considerazione della rilevanza costituzionale
del bene protetto, è chiamato ad assicurare la imprescindibile garanzia richiesta dall’art. 14 Cost. verificando che il sacrificio della inviolabilità del
domicilio all’interesse pubblico sotteso alla repressione degli illeciti fiscali
sia effettivamente giustificato dall’esistenza di elementi fattuali che per le loro specifiche caratteristiche appaiano gravemente significativi di una (possibile) violazione di norme tributarie 25.
La ragione della diversa previsione normativa, che consente in ogni caso
l’accesso, può riscontrarsi anche nella considerazione che basterebbe adibire ad abitazione parte dell’ufficio per rendere più difficile l’accesso 26.
In entrambi i casi, l’atto del magistrato deve costituire, attraverso lo scrutinio dei presupposti voluti dalla legge per legittimare l’interferenza nel domicilio del cittadino, il filtro preventivo dell’attività accertatrice della Finanza. L’autorizzazione, tra l’altro, non costituisce un mero adempimento formale ma presuppone l’accertamento della sussistenza degli specifici presupposti richiesti, per ciascuna fattispecie, dalle norme regolatrici; i due provvedimenti, inoltre, differiscono tra loro per la specificità della fattispecie per
i quali ognuno di essi può essere invocato e concesso per cui non può ritenersi che uno dei due possa riguardare anche l’altra fattispecie 27.
25
V. Cass., sez. trib., sentenza 22 settembre 2011, n. 19338, in Bancadati fisconline.
V. Cass., sez. trib., sentenza 11 aprile 2008, n. 9611, in Bancadati fisconline.
27
V. Cass., sez. trib., sentenza 1° ottobre 2004, n. 19689, in Bancadati fisconline, per i
giudici in particolare non può ritenersi che il provvedimento chiesto e dato per l’accesso in
locali destinati esclusivamente da abitazione sia legittimo, ove si riscontri il difetto delle
condizioni richieste dal comma 2 dell’art. 52, per l’accesso a locali che, in fatto, dovessero
risultare adibiti anche ad abitazione del contribuente atteso che la promiscuità d’uso non
sarebbe stata assolutamente dedotta nell’istanza di autorizzazione e, soprattutto, né considerata né valutata dal Procuratore della Repubblica nel suo provvedimento. la valutazione
della legittimità dell’acquisizione documentale ottenuta in sede di accesso ai peculiari locali per i quali (in forza dei primi due commi dell’art. 52) è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica deve essere effettuata, in primo luogo, in base al congiunto tenore complessivo della richiesta e dell’autorizzazione specifiche del caso e, in secondo luo26
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Da sottolineare, infine, come il provvedimento autorizzatorio alla perquisizione nel domicilio di un soggetto, emesso dall’autorità competente,
consenta di acquisire in tale domicilio anche la documentazione relativa ad
altro soggetto terzo, pur non menzionato nel provvedimento stesso 28.
Nella previsione del comma 2 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, rientravano anche i locali degli enti non commerciali e delle organizzazioni non
lucrative di utilità sociale (ONLUS): infatti, dal punto di vista fiscale i luogo (come valutazione della fase prettamente esecutiva), in controllo della rispondenza della effettiva situazione dei luoghi a quella considerata nel provvedimento di autorizzazione:
occorre, cioè, in primo luogo accertare il contenuto dell’autorizzazione e poi verificare se
l’accesso concretamente eseguito corrisponde a quello autorizzato. In conclusione, per gli
ermellini, da tali princìpi discende la erroneità, in diritto, della sentenza impugnata laddove ha accolto lo specifico motivo dì appello proposto dall’Amministrazione Finanziaria
dello Stato – secondo cui, si legge nella sentenza, «risultando che al medesimo indirizzo vi
fosse il luogo di esercizio dell’attività lavorativa, quello di conservazione delle scritture
contabili e l’abitazione del contribuente, fosse necessario per l’accesso e la perquisizione di
quest’ultima la sola autorizzazione senza che fosse necessaria l’esistenza di gravi indizi di
violazione di norme tributarie» – in quanto l’accertamento della “promiscuità” d’uso dei
locali ispezionati suppone di necessità il preliminare accertamento dell’esistenza di un
provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica ad accedere specificamente a locali indicati come adibiti ad uso promiscuo.
28
V. in tal senso, per tutte: Cass., sez. trib., sentenza 25 novembre 2005, n. 25000, in
Bancadati Ipsoa, la Corte precisa che la ratio ispiratrice dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972
risiede nell’esigenza di tutelare il diritto del soggetto nei cui confronti l’accesso viene richiesto (e poi autorizzato) e non certo quello di garantire una sorta di immunità dalle indagini in favore di terzi (siano essi conviventi o meno con l’interessato); Cass., sez. I, sentenza 14 ottobre 1995, n. 10761, in Corr. trib., n. 4, 1996, 339, con commento di STUFANO.
Contra, CTP Lucca, sez. IV, sentenza 19 aprile 2005, n. 16, in GT-Riv. giur. trib., n. 10,
2005, p. 961, con nota di TOMASSINI, Inutilizzabili verso un soggetto diverso dal contribuente i
documenti rinvenuti senza specifica autorizzazione nelle indagini fiscali; CTP Milano, sez.
XXI, sentenza 6 giugno 2001, n. 154, in Boll. trib., 2001, p. 1751; Comm. trib. I grado di
Venezia, sez. XI, sentenza 24 gennaio 1990, n. 375, in Rass. trib., 1990, p. 752; Comm. trib.
centr., sez. VII, sentenza 22 marzo 1992, n. 1275, in Boll. trib., n. 18, 1994, p. 1363; Comm.
trib. centr., sez. XXV, 8 giugno 1993, n. 2069, in Boll. trib., n. 20, 1994, p. 1522; nonché, in
dottrina, sulla non ammissibilità dell’estensione soggettiva della verifica, v. SCHIAVOLIN,
Criteri interpretativi delle norme sulle indagini fiscali: a proposito dei limiti soggettivi al potere
di accesso presso abitazioni, in Riv. dir. trib., 1996, II, p. 929; SANTAMARIA, I poteri ispettivi
della polizia tributaria, in Dir. prat. trib., 1981, II, p. 971; ALBANELLO, Accesso in abitazioni
private: ammissibilità di tutela giurisdizionale, anche immediata, della libertà di domicilio, in
Riv. dir. trib., 1991, II, p. 388; MANZONI, op. cit., 255; SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 1994, I, p. 915; STUFANO, Quando è illegittimo
l’accesso nei locali adibiti anche ad abitazione, in Corr. trib., 1995, p. 1596; AMATUCCI, Acquisibilità della documentazione di terzo in sede di accesso domiciliare, in Corr. trib., 1996, p.
1557; MARTELLA, Orientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di prove nella fase
istruttoria del procedimento di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., n. 11, 2002, p. 1170.
Anna Rita Ciarcia
569
ghi in cui tali enti svolgevano le proprie attività istituzionali, ai fini fiscali,
venivano equiparato al domicilio privato, pertanto per potere accedere occorreva l’autorizzazione del Procuratore e la presenza di gravi indizi di violazione. Ciò fino al recente intervento normativo, D.L. 2 marzo 2012, n. 16
che, all’art. 8, comma 22, ha previsto una modifica dell’art. 52, comma 1, facendo rientrare fra le tipologia di locali ai quali si può accedere solo con
l’autorizzazione del comandante o del capo ufficio anche i locali utilizzati
dagli enti non commerciali e dalle ONLUS 29.
Il comma 3 dell’art. 52 citato, stabilisce, inoltre, che è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina 30 nel caso in cui, nel corso dell’accesso, sia necessario procedere a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse 31, cassaforti, mobili 32, ripostigli e simili 33 e per l’esame di documenti e la
29
La modifica rientra nell’ambito della lotta all’evasione. In particolare, l’obiettivo del
legislatore è individuare quegli enti non commerciali, che in quanto tali godono di un regime fiscale agevolato, ma che, talvolta, agiscono come delle imprese commerciali.
30
V. MARCHESELLI, Le garanzie del professionista nell’istruttoria tributaria: dalla tutela
differita alla tutela inibitoria, in Dir. prat. trib., n. 1, 2011, p. 3, secondo il quale il riferimento alla Autorità Giudiziaria più vicina non risulta chiarissimo. Per l’Autore è verosimile che
la norma facesse riferimento al Pretore Mandamentale (avente sede in luoghi non sede di
tribunale e privo di un ufficio del P.M.), per cui la disposizione deve, quindi, ritenersi implicitamente abrogata per questa parte, a meno di non voler ritenere sopravvissuta la competenza delle sedi distaccate di tribunale, se non addirittura introdotta quella del Giudice
di Pace con sede diversa dal capoluogo del circondario. Si tratta, conclude l’Autore, di tutte ipotesi di uffici presso i quali non siedono, fisicamente, sedi di procura.
31
V. Cass., sez. trib., sentenza 23 aprile 2003, n. 9565, cit., secondo cui occorre l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica solo per procedere ad “apertura coattiva” di
borse, quindi non è necessaria l’autorizzazione ove l’acquisizione di documenti contenuti
in borse sia avvenuta con la collaborazione ed in continua presenza del figlio e della moglie
del contribuente e, comunque, senza la manifestazione di alcuna contraria volontà.
32
V. Cass., sez. trib., sentenza 26 ottobre 2005, n. 20824, in Bancadati Ipsoa, secondo la
Corte è legittimo l’operato della Guardia di Finanza che, dotata dell’autorizzazione per
accedere ai locali oggetto di ispezione ex art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, proceda,
senza ricorrere all’uso della forza, all’apertura di un cassetto contenente documentazione
poi posta a fondamento della pretesa tributaria.
33
V. Cass., sez. trib., sentenza 16 giugno 2006, n. 14056, in Bancadati fisconline, per la
Corte, in ipotesi di accesso disposta dagli uffici delle imposte è necessaria la specifica autorizzazione del Procuratore della Repubblica prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633 per procedere, durante l’accesso, a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di casseforti, mobili, ripostigli e simili; invece in caso di perquisizione domiciliare autorizzata dall’Autorità giudiziaria non occorre alcuna ulteriore autorizzazione per
procedere alle attività strumentali per l’acquisizione delle prove, quali l’apertura di borse o
di un cassetto contenente documentazione poi posta a fondamento della pretesa tributaria.
570
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale.
L’autorizzazione del procuratore della Repubblica è necessaria solamente nel caso di accesso disposto dagli uffici delle imposte ma non nel caso di
perquisizione domiciliare già autorizzata dall’autorità giudiziaria, in quanto
è evidente che l’autorizzazione alla perquisizione domiciliare è comprensiva
di ogni altra attività strumentale necessaria all’acquisizione delle prove 34.
3. L’efficacia probatoria degli elementi acquisiti nei casi di assenza o di irregolare autorizzazione del Procuratore della Repubblica
La giurisprudenza di merito e la Suprema Corte si sono espresse più volte per l’inutilizzabilità 35 degli elementi probatori illegittimamente acquisiti,
ed in particolare di quelli raccolti nel corso di accessi effettuati in mancanza
dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica 36, nonché in casi di in34
V. Cass., sez. trib., sentenza 16 dicembre 2011, nn. 27150 e 27149, in Bancadati Ipsoa.
In dottrina: STEVANATO, I limiti soggettivi all’utilizzo ai fini fiscali di prove acquisite
dalla Guardia di finanza nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, in Rass. trib., 1990,
p. 756; STEVANATO, Vizi dell’istruttoria ed illegittimità dell’avviso di accertamento, in Rass.
trib., 1990, II, p. 87; LA ROSA, I procedimenti tributari: fasi, efficacia e tutela, in Riv. dir. trib.,
2008, p. 803; LA ROSA, Sui riflessi procedimentali e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. dir. trib., n. 4, 2002, p. 292; SCHIAVOLIN, Criteri interpretativi delle norme sulle
indagini fiscali, cit., p. 910; MARTELLA, op. cit., p. 1161; BONAVITACOLA, Utilizzabilità di
prove irritualmente acquisite, in Riv. dir. trib., n. 6, 2003, p. 571; MANZON-MODOLO, La tutela giudiziale del contribuente avverso le illegalità istruttorie ed i comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria nell’attività impositiva. Considerazioni sulla giurisdizione in materia
tributaria, in Riv. dir. trib., n. 4, 2001, p. 243; TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, p. 164; ALBERTINI, Nullità dell’accertamento fondato su prove raccolte in violazione dell’art. 52, comma 2, del DPR n. 633/1972: una conferma della Commissione centrale, in
Boll. trib., 1988, p. 1055; FERLAZZO NATOLI, Accertamento analitico ed acquisizione irrituale
di prove nell’Iva, in Riv. dir. fin., 1983, p. 149 ss.; ID., Acquisizione di documenti ai fini dell’Iva: irritualità, in Dir. prat. trib. 1985, p. 906; MELO-MARTELLO, Orientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di prove nella fase istruttoria del procedimento di accertamento
tributario, in Riv. dir. trib., n. 11, 2002, p. 1161; FANTOZZI, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2004, I,
p. 3; PETRILLO, L’utilizzabilità di elementi probatori acquisiti in violazione delle regole dell’accertamento tributario in una recente evoluzione della giurisprudenza della cassazione, in
Giur. mer., 2002, p. 1449.
36
V. Cass., sez. trib., sentenza 28 luglio 2011, n. 16570, in Bancadati fisconline, per la
Corte l’autorizzazione all’accesso deve ritenersi sempre necessaria. Infatti, il principio di
inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria,
in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost.; Cass.,
35
Anna Rita Ciarcia
571
sufficiente motivazione della stessa 37, ritenendo che il giudice tributario,
prima di utilizzare, ai fini della decisione, una prova, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, in quanto non potrà porre a base della sua
decisione prove indebitamente raccolte 38.
Riaffiora, tuttavia, periodicamente, un contrapposto filone giurisprudenziale secondo cui, in materia tributaria, non vige il principio, operante invece nel codice di procedura penale (art. 191 c.p.p.), che rende inutilizzabile la
prova acquisita irritualmente; pertanto, in ragione del principio male captum, bene retentum, i giudici potrebbero utilizzare tutti i documenti dei quali
sez. trib., sentenza 23 aprile 2007, n. 9568, in Bancadati fisconline, in tale sentenza la
Corte ritiene corretto il principio affermato dalla CTR, secondo la quale: «In tema di imposte dirette ed in ipotesi di accesso domiciliare, la illegittimità del provvedimento di autorizzazione del procuratore della Repubblica ai sensi degli artt. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 importa l’inutilizzabilità, a sostegno dell’accertamento tributario, delle prove reperite nel corso della perquisizione illegale atteso che: a) detta inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un
procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; b) il compito del
giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; c) l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione,
o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile»; Cass., sez. trib., sentenza 19 ottobre 2005, n. 20253, in GT-Riv. giur. trib., n. 3, 2006, p. 234; Cass., sez. trib.,
sentenza 3 dicembre 2001, n. 15230, in Bancadati fisconline, per la Corte, in tema di imposte dirette e di IVA, gli avvisi di accertamento e di rettifica motivati con riferimento a
dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria a seguito di accessi nell’abitazione dei contribuenti non, o illegittimamente, autorizzati dal Procuratore della Repubblica, sono invalidi ed insuscettibili di produrre effetti, atteso che attività compiute in dispregio del fondamentale diritto all’inviolabilità del domicilio non possono essere assunte, di per sé, a
giustificazione ed a fondamento di atti impositivi a carico dei soggetti che quelle attività illegittime hanno dovuto subire.
37
V. Cass., sez. trib., sentenza 20 marzo 2009, n. 6836, in Il Fisco, n. 14, 2009, p. 22292, con commento di FALCONE-IORIO, Senza la specificazione dei gravi indizi l’accesso
domiciliare è nullo e le prove inutilizzabili; MONFREDA, L’illegittimità dell’autorizzazione
all’accesso domiciliare ai fini fiscali in mancanza di “gravi indizi”, alla luce della sentenza della
Corte di Cassazione n. 6836 del 20 marzo 2009, in Fiscalitax, n. 5, 2009, p. 712.
38
V. Cass., sez. trib., sentenza 4 novembre 2008, n. 26454, in Bancadati Ipsoa, secondo
la Corte l’abitazione del contribuente è soggetta alla guarentigia costituzionale dell’inviolabilità del domicilio. Ne consegue che l’accesso in sede di accertamento è consentito esclusivamente all’esito della preventiva autorizzazione da parte del competente Procuratore
della Repubblica in difetto della quale i risultati, dati ed elementi acquisiti non sono in alcun modo utilizzabili; Anche in passato valeva tale prinicpio: Cass., sez. I civ., 8 novembre
1997, n. 11036, in Rass. trib., 1998, p. 520, con nota di PORCARO, Vizi oggettivi dell’attività
istruttoria e spontaneità nella esibizione dei documenti.
572
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
siano venuti in possesso, con l’unico limite di verificarne l’attendibilità 39.
Avverso tale orientamento, però, la dottrina tributaria sottolinea come il
principio di cui all’art. 191 c.p.p. si può desumere dagli artt. 70 del D.P.R. n.
600/1973 e 75 del D.P.R. n. 633/1972 dove è stabilito che si applicano, in
materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice
penale e del codice di procedura penale 40.
La stessa Suprema Corte, tra l’altro, smentendo se stessa, ha talvolta riconosciuto che, a prescindere dalla verifica dell’esistenza o meno, nell’ordinamento tributario, di un principio generale di inutilizzabilità delle prove
illegittimamente acquisite (analogo a quello fissato per il processo penale
dall’art. 191 del vigente codice di rito penale) o dalla possibilità di estendere, per il suo carattere di norma generale di civiltà, anche all’ordinamento
fiscale quest’ultimo principio, l’inutilizzabilità in discussione potrebbe discendere dal valore stesso dell’inviolabilità del domicilio solennemente consacrato nell’art. 14 Cost. 41.
Infine, occorre verificare se, per i provvedimenti basati su irrituali acquisizioni probatorie, possa trovare applicazione l’art. 21 octies della L. n.
39
V. Cass., sez. trib., sentenza 12 febbraio 2010, n. 3388, in Bancadati fisconline, secondo la Corte, l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale
non comporta, la inutilizzabilità degli stessi, non sussistendo una specifica previsione in tal
senso. Pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti di cui siano venuti in possesso, salva la verifica dello loro attendibilità, in considerazione della natura e
del contenuto degli stessi; Cass., sez. trib., sentenza 16 giugno 2006, n. 14055, in Riv. dir.
trib., n. 11, 2006, II, con nota di MICELI, Riflessioni sul rapporto fra leillegittimità istruttorie e
l’accertamento della pretesa impositiva; Cass., sez. trib., sentenza 2 febbraio 2002, n. 1383, in
Bancadati fisconline, per i giudici, allorquando il legislatore ha inteso stabilire il principio
della inutilizzabilità degli elementi utili ai fini dell’accertamento, lo ha sancito espressamente; Il fatto che talune violazioni non comportano la sanzione specifica della inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti, non significa che la violazione sia priva di conseguenze e che, quindi, la norma sia tamquam non esset. In casi del genere, infatti, le conseguenze sanzionatorie ricadono direttamente sull’autore dell’illecito, sul piano disciplinare
e, se del caso, sul piano della responsabilità civile e penale. Non sarebbe giusto che una prova
oggettivamente ammissibile, non possa essere utilizzata a causa della negligenza di chi l’ha
acquisita. Questo ne dovrà rispondere nelle sedi competenti, mentre la prova non subisce
gli effetti della illegittimità, come conseguenza necessaria della eventuale illiceità della acquisizione. Si tratta di due diversi profili (uno soggettivo e l’altro oggettivo) che non vanno
confusi.
40
V. INGRAO, La prova nel processo tributario e la valutazione del contegno delle parti, in
Dir. prat. trib., n. 2, 2006, p. 331; FERLAZZO NATOLI, Limiti all’acquisizione di conoscenza nel
procedimento probatorio fiscale, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 260.
41
V. Cass., sez. trib., sentenza n. 9568, cit.
Anna Rita Ciarcia
573
241/1990, inserito dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15 che, al comma 2, sancisce che: non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora per la natura vincolata del
provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Lo scopo di tale normativa è di evitare che, in presenza di meri vizi formali, possano venir annullati i
provvedimenti amministrativi. La dottrina ha ritenuto non applicabile alla
materia tributaria la norma in questione in quanto, nel caso di atti basati su
irrituali acquisizione probatoria si tratta di vizi di tipo sostanziale che non
possono che provocare l’annullamento dell’atto, a prescindere dalla considerazione che il suo contenuto dispositivo sia palese 42.
4. L’autorizzazione alle indagini finanziarie e l’obbligo di esibizione al contribuente e di allegazione all’atto impositivo
Anche ai fini delle indagini finanziarie 43 è necessario, ai sensi dell’art. 51,
comma 2, n. 7) D.P.R. n. 633/1972 (e art. 32, comma 1, n. 7), D.P.R. n.
42
V. INGRAO, La valutazione del comportamento delle parti nel processo tributario, Milano, 2008, p. 134, secondo il quale ai fine dell’applicazione dell’art. 21 octies occorre considerare che alcuni atti tributari sono subordinati all’esistenza di taluni presupposti di fatto e
di diritto non incontrovertibili. Per tali atti, tra cui sicuramente rientra l’avviso di accertamento, non potrà applicarsi tale norma che sancisce l’irrilevanza dei vizi del procedimento
e della forma.
43
V. STESURI, Sui limiti dell’uso delle informazioni bancarie nell’accertamento di evasioni
fiscali a fini i.v.a., in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2000, p. 341, l’Autore ricorda come il potere di
penetrare la riservatezza, che fino a pochi anni fa caratterizzava i rapporti tra clienti ed istituti di credito, al fine di acquisire dati, notizie e documenti rilevanti per gli accertamenti
tributari, costituiva, nel vigore della precedente normativa, uno strumento di assai scarsa
efficacia per l’Amministrazione fiscale rispetto ad altri poteri d’indagine, poiché di esso gli
Uffici fiscali potevano avvalersi solo allorché questi fossero già in possesso di elementi
probatori – diretti ed indiretti – idonei a provare la sussistenza di gravi evasioni. Il segreto
bancario era quindi prevalente rispetto all’accertamento dell’avvenuta violazione della
norma tributaria. Gli Uffici fiscali, prima di procedere alle verifiche bancarie, dovevano,
inoltre, sottostare al parere vincolante dell’ispettorato compartimentale delle imposte dirette, e dovevano altresì munirsi dell’autorizzazione rilasciata dal Presidente della Commissione tributaria di primo grado competente per territorio. Da questo insieme di obblighi e vincoli l’accesso alle informazioni bancarie risultava alquanto problematico, e solo
con l’abrogazione dell’art. 35 D.P.R. n. 600/1973, per effetto della legge di riforma n. 413/
1991, gli accessi alle risultanze bancarie sono divenuti più frequenti e si è potenziato questo strumento d’indagine dell’Ufficio.
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600/1973 ai fini dell’imposte dirette), il rilascio delle autorizzazioni da parte
del Comandante regionale della Guardia di Finanza 44 ovvero del Direttore
centrale per l’Accertamento dell’Agenzia delle Entrate o del Direttore regionale delle Entrate 45 territorialmente competente in base all’ufficio richiedente 46.
Il rilascio dell’autorizzazione è subordinato ad un’apposita richiesta nella
quale vanno indicate le ragioni per le quali si ritiene necessario l’utilizzo delle indagini finanziarie, ossia l’opportunità e l’utilità che inducono all’esecuzione dell’indagine bancarie e/o postale 47.
44
V. Cass., sez. trib., sentenza 10 aprile 2009, n. 8766, nella specie, secondo l’A.F. non
sarebbe stata necessaria l’autorizzazione del Comandante di Zona prevista dall’art. 32 del
D.P.R. n. 600/1972, in quanto l’indagine bancaria presso la Banca Agricola Mantovana e la
successiva acquisizione e utilizzazione della documentazione era stata attivata solo dopo
che la Guardia di Finanza di Bologna aveva ricevuto la segnalazione del Nucleo speciale
della Polizia Valutaria della Guardia di Finanza di Roma, per cui la Guardia di Finanza di
Bologna aveva agito nell’esercizio dei poteri di polizia valutaria di cui al D.L. n. 143/1991,
art. 3, convertito in L. n. 197/1991 secondo il quale tali poteri «sono estesi anche agli ufficiali di polizia tributaria dei nuclei regionali e provinciali di polizia tributaria della Guardia
di Finanza ai quali il Nucleo speciale della Polizia valutaria può demandare l’assolvimento
degli incarichi affidatigli dal presente decreto». Secondo la Suprema Corte, tale interpretazione non è condivisibile: dalla lettura dell’art. 3 sopra riportato si evince che i poteri di
polizia valutaria possono essere sì delegati alla polizia tributaria della Guardia di Finanza
ma solo, come espressamente riportato nella norma, «per l’assolvimento degli incarichi
affidatigli dal presente decreto» e cioè solo per indagini valutarie. Detta interpretazione è
avvalorata anche dal titolo del decreto legge, successivamente convertito nella L. n.
197/1991, che recita: «Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al
portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggi». Operazioni tutte di natura squisitamente valutaria e non tributaria. Conseguentemente, quando la Polizia tributaria volesse esperire accertamenti tributari deve, come
previsto dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/1972, acquisire la preventiva autorizzazione del
Comandante di Zona perché valuti l’opportunità e la necessità di esperire tali indagini
45
V. BORRELLI, Nuovi poteri del fisco nelle indagini bancarie, in Corr. trib., n. 12, 2005, p.
933, l’Autore chiarisce che le medesime autorità possono concedere agli operatori finanziari, su espressa richiesta di questi ultimi, una proroga del termine fissato per la comunicazione delle notizie e dei documenti richiesti. In pratica, con la Finanziaria per il 2005 (L.
30 dicembre 2004, n. 311), è stata sanata l’antinomia in relazione alla quale, in vigenza della pregressa disciplina, era facoltizzato alla concessione della proroga unicamente il Direttore regionale delle Entrate, anche nelle ipotesi di accertamenti bancari autorizzati dal
Comandante regionale della Guardia di Finanza.
46
Con l’abrogazione dell’art. 35 del D.P.R. n. 633/1972 è venuto meno l’obbligo
dell’autorizzazione del Presidente della commissione tributaria competente per territorio.
47
La Circolare ministeriale 10 maggio 1996, n. 116/E-III-5-1093 (in materia di istruzioni operative in tema di indagini bancarie) aveva richiamato l’attenzione degli organi
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Sulla base degli elementi contenuti nella richiesta, fra cui il periodo oggetto dell’indagine bancaria, l’autorità competente al rilascio procederà ad
una valutazione dei requisiti di legittimazione e di merito della richiesta in
tempi brevi 48.
Il provvedimento di autorizzazione, a seguito della presentazione della
richiesta, costituisce un atto discrezionale, non un atto dovuto 49. A riprova
del carattere discrezionale dell’autorizzazione vi è la possibilità di un eventuale diniego al rilascio della stessa, qualora l’organo titolare del potere constati la mancanza dei requisiti di legittimità o di merito richiesti. Il potere di
valutare nel merito, ed eventualmente anche di respingere, la richiesta di autorizzazione, trova, peraltro, fondamento nella circostanza che tanto il Direttore regionale delle Entrate quanto il Comandante di Zona della Guardia
di Finanza, sono organi gerarchicamente sovraordinati all’ufficio o al Comando richiedente ed ai quali i rispettivi ordinamenti affidano un ampio potere di indirizzo e controllo dell’attività svolta dagli organi dipendenti 50.
L’obiettivo del provvedimento di autorizzazione è sempre quello di tutelare il contribuente 51, con la differenza che mentre l’autorizzazione del P.M. all’accesso domiciliare, prevista dall’art. 52, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972,
costituisce una garanzia di un diritto costituzionale da dover bilanciare con
competenti al rilascio dell’autorizzazione sulla necessità di valutare i requisiti di legittimità
e di merito, anche con riferimento alla prevedibile proficuità delle richieste indagini. A tal
proposito, poi, la Circolare 19 ottobre 2006, n. 32/E ha affermato che «valgono comunque le precisazioni già fornite con la ripetuta Circolare n. 116/E in ordine alla natura discrezionale della predetta autorizzazione, alla sua funzione di legittimazione all’uso dello
strumento istruttorio nonché di controllo del corretto utilizzo dello stesso». Il riconoscimento della facoltà per l’Amministrazione finanziaria di accedere ai dati bancari e/o finanziari non può e non deve, quindi, essere interpretato nel senso della possibilità indiscriminata di eseguire gli stessi nei confronti di ogni contribuente.
48
La L. n. 311/2004 ha fissato in 30 giorni il lasso di tempo.
49
V. VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002, p. 281;
PICCARDO, Profili interpretativi sull’utilizzo presuntivo dei dati bancari ai fini fiscali, in Dir. prat.
trib., 2002, II, p. 569. Circolare della Guardia di Finanza 20 ottobre 1998, n. 1/360000 nella
quale si afferma espressamente che l’autorizzazione non è un atto dovuto ma costituisce, al
contrario, un provvedimento discrezionale che presuppone l’apprezzamento delle condizioni legittimatrici e delle ragioni operative, rappresentate nella richiesta che ne sollecita l’emanazione.
50
V. in tal senso la Circolare n. 116/E/1996.
51
A tal fine la Circolare n. 32/2006, ribadendo e confermato ciò che stabilito nella precedente Circolare n. 116/1996, precisa che nel caso di istanza cumulativa per più soggetti
passivi, è necessario che l’autorità competente al rilascio del provvedimento autorizzativi
provveda a rilasciare un’autorizzazione singola per ciascun soggetto passivo.
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l’interesse pubblico, l’autorizzazione del Comando regionale della Guardia
di Finanza (o al Comandante di Zona) alle indagini finanziarie è un atto che
viene considerato, a seguito dell’eliminazione del segreto bancario, in grado
di rispondere a sole esigenze di logicità ed opportunità, che viene peraltro
richiesto e concesso da organi ausiliari dell’amministrazione finanziaria strictu
sensu per evitare eccessi o arbitri 52.
Inoltre, l’autorizzazione necessaria agli uffici per richiedere alle aziende
ed istituti di credito copia dei conti correnti intrattenuti con il contribuente,
con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti, non
deve essere obbligatoriamente corredata dell’indicazione del motivo, dello
scopo o delle ragioni logiche e giuridiche poste a fondamento di essa o della
preventiva richiesta, perché l’art. 51, comma 2, n. 7, collega l’esercizio del potere di richiedere l’indicata documentazione con il generale potere di controllo della dichiarazione, senza prevedere, a differenza di quanto dispone testualmente il successivo art. 52 per gli accessi domiciliari, la necessità di precisare alcuna particolare circostanza giustificativa 53.
In ogni caso il diritto alla riservatezza dei contribuenti è in contrasto col
superiore interesse pubblico al conseguimento del gettito erariale e della repressione dell’evasione 54.
In pratica, l’iter per l’espletamento degli accertamenti bancari si compone di due fasi: – una prima fase, interna all’organo procedente, che si sostanzia nella richiesta di autorizzazione e nel relativo provvedimento autorizzatorio; – una seconda fase, a rilevanza esterna, che prevede l’inoltro agli intermediari finanziari delle varie richieste di documentazione 55 e, se necessa52
V. CTP Milano, sez. XVII, sentenza 17 ottobre 2000, n. 228, in Bancadati Ipsoa, secondo la commissione l’autorizzazione agli accertamenti bancari si appalesa come atto destinato ad incidere direttamente su posizioni soggettive che trovano tutela nell’ordinamento e come tale acquista particolare rilievo in quanto dotato di autonoma efficacia lesiva di
dette posizioni. In effetti il legislatore di fronte ad interessi tutelati costituzionalmente quali, da un lato quello privato alla riservatezza e alla tutela del risparmio e dall’altro quello
pubblico di eguaglianza di fronte alle leggi ed in particolare a quelle tributarie, ha privilegiato l’interesse pubblico sacrificando quello privato nei casi in cui si palesi necessario questo sacrificio e tale valutazione deve manifestarsi nell’atto di autorizzazione alla indagine
bancaria.
53
V. Cass., sez. trib., sentenza 13 aprile 2012, n. 5849, in Bancadati fisconline.
54
V. CTR Genova, sez. I, sentenza 22 luglio 2011, nn. 83 e 85, in Bancadati fisconline.
55
In merito all’obbligo di dover allegare l’autorizzazione ricevuta alla richiesta, la Circolare 19 ottobre 2006, n. 32/E, al punto 4.2.1 afferma che «Pur convenendo sulla ritenuta necessarietà e obbligatorietà della motivazione in tema, è stato tuttavia espresso il timore che l’atto autorizzatorio, in quanto obbligatoriamente allegato alla richiesta, se facente
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577
rio, l’eventuale accesso per la diretta acquisizione della documentazione medesima 56.
In merito all’estensione a conti diversi da quelli intestati al contribuente e
formalmente intestati a terzi (parenti, dipendenti, amici) ma riconducibili al
verificato, la Guardia di Finanza ha precisato che per supportare l’estensione
delle indagini bancarie a tali conti occorre trovarsi in presenza di significativi
collegamenti col soggetto verificato, e resta ferma sul piano formale, l’esigenza di richiedere l’autorizzazione per ciascun contribuente con autonoma motivazione 57.
riferimento a specifici esiti dell’attività ispettiva in precedenza operata, potrebbe rivelarsi
inaffidabile sul piano della tutela dei diritti del soggetto verificato, fino al punto da compromettere lo stesso rapporto intercorrente tra la banca stessa e il suo cliente» ... «Si ritiene,
invece, nel solco di pacifica e condivisa qualificazione dell’adempimento istruttorio in questione tra le cosiddette “prestazioni imposte” che la relativa richiesta, in quanto caratterizzata da particolare efficacia, anche oltre i caratteri di autoritarietà ed esecutorietà che assistono l’atto amministrativo, non necessiti, né punto né poco, dell’allegazione in questione,
peraltro, sprovvista di qualsiasi specifico obbligo di fonte legale» ... «Si ravvisa pertanto
l’opportunità di pervenire a uno sbocco più risolutivo del problema, eliminando l’obbligo
dell’anzidetta allegazione, in modo intrinsecamente e formalmente ineccepibile, anche perché parallelamente rispettoso sia delle esigenze esecutive dell’intermediario che di quelle di
riservatezza del contribuente assoggettato a indagine, nonché di semplificazione delle modalità operative degli uffici procedenti». In dottrina, BURLA-NASTASIA, L’accesso al provvedimento di autorizzazione alle indagini finanziarie, in Il Fisco, n. 45, 2006, p. 1-6933, secondo i quali, in sostanza il contribuente sottoposto ad indagini finanziarie non avrà la possibilità di essere informato dall’intermediario finanziario delle ragioni su cui l’Amministrazione finanziaria ha fondato l’esecuzione delle indagini; e ciò evidentemente in quanto neppure a quest’ultimo ne è data conoscenza.
56
V. TOMASSINI-TORTORA, Rafforzati i poteri degli uffici negli accertamenti bancari, in
Corr. trib., n. 5, 2005, p. 353.
57
V. Circolare n. 1/1998 del Comando Generale della Guardia di Finanza. Sul punto,
inoltre, si veda la Circolare della Direzione regionale per la Lombardia 27 giugno 2000, n.
21/55300, in Bancadati Ipsoa, secondo la quale, ai fini dell’estensione delle indagini a soggetti terzi, è necessaria l’indicazione dei presupposti e gli elementi di legittimazione della
richiesta, tenendo presente che l’esclusivo riferimento ad un rapporto di parentela, affinità
o convivenza con il contribuente sottoposto a controllo, non appare sufficiente di per sé al
rilascio dell’autorizzazione. La Direzione regionale per la Puglia, inoltre, nella Circolare 6
giugno 2001, n. 12, in Bancadati Ipsoa, ha affermato che per le persone fisiche, l’allargamento delle indagini bancarie al coniuge, ai figli, conviventi e non, del contribuente appare
opportuno in tutti quei casi in cui vi fossero seri dubbi circa il trasferimento di massa monetaria ad altri soggetti. In giurisprudenza: CTR Toscana, sez. XVI, sentenza 22 giugno
2011, n. 89, in Bancadati Ipsoa, che richiama il principio espresso da Cass., sez. trib., sentenza 7 settembre 2007, n. 18868, in Bancadati Ipsoa, secondo cui, in sede di rettifica e di
accertamento d’ufficio delle imposte sui redditi, devono ritenersi legittime le indagini ban-
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Affinché l’erario possa utilizzare il risultato di accertamenti bancari effettuati nei confronti del contribuente è necessario che tali accertamenti siano
stati debitamente autorizzati; secondo la giurisprudenza, la legge subordina
la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risultanze all’esistenza
dell’autorizzazione e non anche alla relativa esibizione all’interessato. Tuttavia l’illegittimità dell’avviso di accertamento emanato a seguito delle indagini bancarie potrà essere dichiarata soltanto nel caso in cui le movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell’autorizzazione e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente 58.
Un orientamento minoritario, non condivisibile, della Suprema Corte ritiene, invece, che, dal momento che l’autorizzazione dell’Ispettore compartimentale (o, per la Guardia di Finanza, del Comandante di Zona), prevista
dall’art. 51, comma 2, n. 7), del D.P.R. n. 633/1972, attiene ai rapporti interni degli uffici ed in materia tributaria non vige il principio (come visto in
precedenza, presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità
della prova irritualmente acquisita, ben possono essere utilizzati ai fini dell’emissione di un avviso di accertamento (e nel successivo processo tributario) le copie dei conti bancari intrattenuti da una banca con il contribuente,
acquisite dall’ufficio tributario presso l’istituto bancario in difetto della suddetta autorizzazione 59.
Con riguardo, invece, al problema se il provvedimento autorizzatorio
debba essere esibito e/o allegato all’avviso di accertamento, la giurisprudenza
di merito, in un primo momento, aveva ritenuto che non fosse necessaria né
carie estese ai congiunti del contribuente persona fisica ovvero a quelli degli amministratori della società contribuente, essendo il rapporto familiare sufficiente a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate sui conti
correnti bancari degli indicati soggetti; detto principio deve, peraltro, estendersi all’accertamento d’Ufficio, ex art. 41 del D.P.R. citato, in radicale assenza di dichiarazione, posto
che in tale ipotesi l’Ufficio può avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
58
V. Cass., sez. trib., sentenza 21 aprile 2011, n. 9162, in Bancadati Ipsoa; Cass., sez.
trib., sentenza 21 luglio 2009, n. 16874, in Dir. prat. trib., n. 2, 2010, II, p. 239, con nota di
RAPETTI, La motivazione dell’autorizzazione all’accertamento c.d. bancario; CTP Reggio
Emilia, sez. I, sentenza 16 maggio 2008, n. 55, in Bancadati Ipsoa, secondo la quale la mancata richiesta di autorizzazione al direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle
Entrate induce all’inutilizzabilità delle informazioni ottenute in modo illegittimo.
59
V. Cass., sez. trib., sentenza 1° aprile 2003, n. 4987, in Bancadati fisconline; tale orientamento è stato recentemente ripreso dalla CTR Emilia Romagna, sez. XX, sentenza 19
agosto 2011, n. 75.
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l’esibizione 60 né l’allegazione delle autorizzazioni alle indagini bancarie, sostenendo che la mancata allegazione dell’atto richiamato dal provvedimento
impugnato è viziante quando la motivazione di quest’ultimo è espressa ob
relationem all’atto richiamato e non quando il provvedimento esplicita autonomamente le ragioni poste a suo fondamento. L’autorizzazione all’accesso, in quanto richiamata a giustificazione del potere al riguardo esercitato,
non attiene alla motivazione degli avvisi di accertamento 61; poi, però, ha
cambiato orientamento, precisando che l’autorizzazione è un atto preparatorio allo svolgimento della fase endoprocedimentale dell’istruttoria, pertanto fino alla conclusione dell’attività accertativa non assume rilevanza esterna; una volta conclusa, però, l’attività accertativa da parte dell’Ufficio
con l’emissione dell’avviso di accertamento l’eventuale illegittimità dell’atto
autorizzatorio va ad incidere, anche pesantemente, sulla sfera giuridica del
contribuente, pertanto quest’ultimo ha il diritto di verificare la sussistenza
dei requisiti legali relativi alla concessione dell’autorizzazione, nonché della
corretta esecuzione da parte degli accertatori. Non vi è dubbio che l’art. 7
della L. n. 212/2000, in realtà, utilizza il termine imperativo “deve” 62 e non
“può”, ne discende che l’autorizzazione deve essere allegata all’avviso di
accertamento che la richiama 63; a maggior ragione l’autorizzazione dovrà
60
V. Cass., sez. trib., sentenza 8 luglio 2008, n. 18644, in Bancadati Ipsoa, la sola mancata esibizione (“non era stata esibita”) dell’“autorizzazione”, quindi, se non collegata alla
necessità di esame di una specifica eccezione relativa quand’anche alla sua regolarità, non
determina, di per sé sola, né “l’inutilizzabilità del PVC” né “l’insufficienza di motivazione
degli atti fiscali impugnati” perché queste conseguenze giuridiche possono discendere solo
dall’accertamento della eventuale illegittimità dell’“autorizzazione” stessa, se denunziata
dal contribuente.
61
V. CTP Salerno, sez. XVI, sentenza 20 gennaio 2009, n. 11, in Bancadati Ipsoa.
62
Ai sensi dell’art. 7, L. n. 212/2002, «Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama».
63
V. CTR Piemonte, sez. X, sentenza 2 marzo 2011, n. 16 e CTR Puglia, sez. VI, sentenza
24 settembre 2007, n. 101 entrambe in Bancadati Ipsoa, nella quale i giudici richiamano un
principio espresso dalla Cass., sez. trib., sentenza 1° ottobre 2010, n. 20535 secondo il quale
«se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto
richiamato in quanto la norma appare estremamente rigorosa tanto che anche l’amministrazione finanziaria si è adeguata al suo disposto con Circolare 1° agosto 2000, n. 150/E. Ancorché questo rigore sia stato temperato dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, art. 1, il quale
prescrive l’onere di allegazione degli atti richiamati solo ove gli stessi non siano conosciuti né
ricevuti dal contribuente e salvo che l’avviso non ne riproduca il contenuto essenziale, nella
fattispecie non paiono essersi realizzati questi presupposti per sollevare l’amministrazione
dall’onere dell’allegazione. Non vi è infatti prova che gli atti richiamati siano stati conosciuti
o ricevuti dal contribuente né sono stati riprodotti negli avvisi».
2.
580
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sempre essere prodotta in giudizio dall’Ufficio finanziario 64; infine, più recentemente, si è nuovamente ritenuto che la L. n. 413/1991 non richiede
l’allegazione del provvedimento di autorizzazione ma si limita a presupporne l’esistenza 65, però la sua produzione in sede processuale rientra indubbiamente nell’onere probatorio dell’ufficio, anche perché non si vede il motivo per cui detto documento non debba essere esibito, anche alla luce dei
principi di trasparenza che regolano l’azione amministrativa 66.
L’importanza delle indagini, ed in particolar modo di quelle finanziarie, ai
fini, soprattutto, di contrasto all’evasione fiscale trova la sua ennesima conferma nel recente Decreto “Monti”, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 convertito
in L. 22 dicembre 2011, n. 214 il quale all’art 11 67, comma 2, espressamente
prevede che «A far corso dal 1° gennaio 2012, gli operatori finanziari sono
obbligati a comunicare periodicamente all’anagrafe tributaria le movimentazioni che hanno interessato i rapporti di cui all’articolo 7, sesto comma, del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, ed ogni
informazione relativa ai predetti rapporti necessaria ai fini dei controlli fiscali,
nonché l’importo delle operazioni finanziarie indicate nella predetta disposizione. I dati comunicati sono archiviati nell’apposita sezione dell’anagrafe tributaria prevista dall’articolo 7, sesto comma, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, e successive modificazioni».
In tal modo si è parzialmente modificata la procedura in materia di indagini bancarie, infatti le novità introdotte dal citato Decreto permetteranno
64
V. CTR Puglia, sez. IX, sentenza 25 novembre 2010, n. 137, in Bancadati Ipsoa, nella
quale si afferma che «il persistere dell’ufficio nel non esibire copia dell’autorizzazione sottoscritta dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate induce questo giudice nella
convinzione dell’inesistenza ab origine di tale autorizzazione con la conseguenza che l’iniziativa dell’Ufficio accertatore manca di supporto giuridico con la conseguenza che la mancanza del vaglio critico da parte del dirigente preposto al rilascio dell’autorizzazione va
considerata quale concreto pregiudizio per il contribuente».
65
V. CTR Genova, sez. I, sentenza 22 luglio 2011, nn. 83-84-85, in Bancadati fisconline,
i giudici, a tal proposito, richiamano il Consiglio di Stato che, con Dec. n. 264/1995, ha
affermato che l’autorizzazione si inserisce all’apice del sub-procedimento interno, concretizzandosi in un atto preparatorio all’avviso di accertamento, con conseguente impossibilità di conoscenza immediata.
66
V. CTR Sicilia, sez. XXV, sentenza 23 marzo 2011, n. 51, in Bancadati fisconline, per
la commissione in merito alla questione del preteso obbligo di allegare all’avviso di accertamento copia del provvedimento autorizzativo delle indagini bancarie, osserva che nessun argomento risolutivo è espressamente ravvisabile nell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973.
67
V. SERRANÒ, L’articolo 11 del decreto “salva Italia” e l’emersione degli imponibili attraverso le indagini finanziarie, in Boll. trib., n. 5, 2012, p. 327.
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all’Amministrazione finanziaria di poter acquisire in maniera più veloce e
costante le informazioni bancarie e finanziarie.
Ad oggi, infatti, i verificatori dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di
Finanza, a seguito del rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento delle indagini finanziarie, possono, attraverso interrogazioni effettuate in via automatica all’Archivio dei rapporti, acquisire informazioni in ordine alla sola
esistenza, presso individuati intermediari finanziari, di rapporti riconducibili
al contribuente sottoposto a verifica ma per ottenere ulteriori informazioni
su detti rapporti (ad esempio estratti conto e saldi), devono inviare, sempre
per via telematica, le apposite richieste agli intermediari finanziari interessati. Attualmente le informazioni contenute nell’Archivio dei rapporti sono
limitate ai dati identificativi, compreso il codice fiscale, dei soggetti che possono operare sui rapporti finanziari.
La piena attuazione dell’art. 11 del Decreto Monti (che si avrà a seguito
dell’emanazione di un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate), a seguito dell’estensione delle informazioni che gli intermediari finanziari sono tenuti a trasmettere all’Archivio dei rapporti, garantirà una più
completa e immediata conoscenza da parte dei verificatori delle operazioni
relative ai rapporti finanziari del contribuente, già all’atto della consultazione del menzionato Archivio 68; inoltre, con le informazioni pervenute saranno formate delle liste selettive di contribuenti da sottoporre a controllo fiscale (art. 11, comma 4).
Pertanto, dal 1° gennaio 2012 l’Amministrazione finanziaria, per poter
accedere a tali informazioni, non ha bisogno di essere in possesso dell’autorizzazione.
La nuova normativa, però, non ha abrogato gli articoli relativi all’autorizzazione, per cui si potrebbe ritenere che, una volta elaborata la lista selettiva
ed individuati i soggetti potenzialmente evasori, si dovrà procedere alla richiesta obbligatoria di autorizzazione ai dirigenti per poter ottenere ulteriori
informazioni 69.
Infatti, sebbene con la trasmissione all’anagrafe tributaria di tutte le movimentazioni finanziarie di ogni contribuente non ci saranno più dati segreti
68
I nuovi obblighi di comunicazione e trasmissione all’anagrafe tributaria dei dati finanziari aumenteranno notevolmente il patrimonio conoscitivo degli uffici finanziari, v.
CISSELLO-RIVETTI, Decreto Salva Italia (D.L. 6 dicembre 2011, n. 201) – Novità della “Manovra Monti” in materia di riscossione e accertamento, in Il Fisco, n. 2, 2012, p. 1-177 e CIANI,
Anagrafe tributaria: da funzione più ricognitiva dei rapporti finanziari a funzione selettiva
nell’accertamento tributario, in Boll. trib., n. 8, 2012, p. 565.
69
V. CIANI, op. cit., p. 568.
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per il fisco, è però altrettanto vero che per la presa visione di questi dati e
per il loro successivo utilizzo è necessario il rilascio dell’autorizzazione prevista sia per l’agenzia delle Entrate che per la Guardia di Finanza.
Sulla vicenda si è espresso anche il Garante della privacy ricordando come l’interesse fiscale, anche nella cd. emergenza evasione, debba, necessariamente, essere considerato alla luce dei diritti, costituzionalmente garantiti,
dei cittadini 70.
La tutela del contribuente viene sempre più minata dalla considerazione
che, la nuova normativa ha modificato la sequenza dell’azione tributaria: prima si avviava l’indagine e si acquisivano i dati bancari, ora, al contrario, si acquisiscono i dati bancari e si procede alla verifica 71.
5. Il provvedimento autorizzatorio quale atto endoprocedimentale e la sua
“non” autonoma impugnabilità
Gli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 633/1972 e 32 e 33 del D.P.R. n. 600/1973
richiedono, per la loro concreta attuazione, la presenza dell’autorizzazione,
la quale, concorrendo a formare l’atto finale e conclusivo del procedimento
tributario, si ritiene che non sia autonomamente impugnabili ex se 72, ma lo
diventi solo con l’espletamento del gravame contro l’atto finale, al quale si
trasmettono tutti i vizi procedimentali degli atti istruttori e prodromici, inseriti nel medesimo procedimento amministrativo. In particolare, l’invalidità di un atto preparatorio è causa dell’invalidità derivata dei provvedimenti
70
V. DE MITA, L’emergenza non può giustificare le eccezioni, in Dir. prat. trib., n. 2, 2012,
I, p. 454.
71
V. MICCINESI, Necessario il confronto fra uffici e contribuenti, in Dir. prat. trib., n. 2,
2012, I, p. 455, secondo il quale gli strumenti per tutelare il contribuenti sono: il contraddittorio procedimentale e il ricorso alla prova contraria, anche in via presuntiva, avverso le
movimentazioni bancarie contestategli.
72
In dottrina, v.: GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, p. 355; GIOVANNINI, in AA.VV., Giurisprudenza sistematica del processo tributario, Torino, 1998, p.
385; IORIO-SERENI, L’impugnabilità degli atti endoprocedimentali innanzi al giudice tributario, in Il Fisco, n. 42, 2009, p. 1-6955, secondo i quali la mancata possibilità di un’autonoma
impugnabilità degli atti endoprocedimentali, in virtù di una ripercussione degli stessi sugli
atti finali del procedimento (gli unici che potranno essere oggetto di ricorso), non tiene
però conto di numerose esigenze dei contribuenti e della necessità di tutela immediata di
alcuni beni di rilevanza costituzionale. In giurisprudenza, cfr: Cass., sentenza 25 settembre
2006, n. 20738 secondo la quale i processi verbali di constatazione, costituendo atti endoprocedimentali, non sono direttamente impugnabili dinanzi al giudice tributario.
Anna Rita Ciarcia
583
finali, in quanto sussista fra gli atti un nesso procedimentale ovvero un rapporto di presupposizione 73.
Alle luce di ciò, la giurisprudenza tributaria ha ritenuto che gli atti istruttori e prodromici, tra cui, appunto, anche il decreto autorizzativo, sono impugnabili solo attraverso l’impugnazione degli atti finali, elencati nel citato
art. 19 74.
Nonostante l’incapacità degli atti endoprocedimentali a produrre effetti
al di fuori del procedimento, per una tutela immediata e non differita del
contribuente avverso l’atto autorizzatorio e, al fine di aggirare l’ostacolo posto dalla tassatività dell’art. 19, si è, talvolta, adito della questione il giudice
amministrativo, anche in virtù di quanto stabilito dall’art. 7, comma 4, della
L. n. 212/2000 75. La giurisprudenza amministrativa ha, però, espressamente
riconosciuto che il provvedimento di autorizzazione della Procura della Repubblica non costituisce atto suscettibile di autonoma impugnazione bensì
elemento del procedimento di accertamento la cui legittimità è pienamente
sindacabile dal giudice tributario, dinanzi al quale sarà impugnato l’atto finale 76.
73
V. VIRGA, Diritto amministrativo 2, Milano, 2001, p. 88, secondo cui in materia tributaria, l’avviso di accertamento è l’atto conclusivo e finale dell’attività accertativi della pretesa tributaria, per cui l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede l’impugnabilità del solo atto
impositivo finale.
74
V. per la giurisprudenza tributaria: Cass., sez. trib., sentenza 20 marzo 2009, n. 6836,
cit.; CTR Roma, sez. I, sentenza 14 dicembre 2005, n. 246, in Bancadati fisconline, secondo
la commissione, l’autorizzazione del Comando regionale della Guardia di Finanza ad acquisire copia dei conti correnti bancari emessa nel corso di verifica, ha natura endoprocedimentale e, quindi, non è atto autonomamente impugnabile. Pertanto, il ricorso contro
tale autorizzazione è inammissibile, potendo semmai il soggetto, che veda violata la propria riservatezza da un atto illegittimo, rivolgersi all’autorità giudiziaria ordinaria; Cass.,
sez. trib., sentenza 1° ottobre 2004, n. 19689, cit.; Cass., sez. un., sentenza 21 novembre
2002, n. 16424, cit.; Cass., sez. trib., sentenza 3 dicembre 2001, n. 15230, cit.
75
L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 (Chiarezza e motivazione degli atti), comma 4: la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa,
quando ne ricorrano i presupposti. In dottrina: LUPI, Manuale professionale di diritto tributario, 2001, p. 443, secondo il quale per i casi di violazioni di interessi del privato quali la
riservatezza, il tranquillo svolgimento dell’attività economica, ecc., la sussistenza di una
competenza del giudice amministrativo, anche sulla scorta di quanto sancito dal citato art.
7, comma 4, dello Statuto.
76
V. Cons. Stato, sez. IV, dec. 5 dicembre 2008, n. 6045, in Bancadati fisconline, con
commento di DI SIENA. Anche in passato il Consiglio di Stato si era espresso in tal senso:
Cons. Stato, sez. IV, dec. 5 dicembre 1995, n. 982, in Bancadati fisconline, secondo la quale
appare quindi evidente che tutta l’attività di accesso, ispezione e verifica è strettamente
584
DOTTRINA
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A conferma di ciò, si è espressa la Suprema Corte a Sezioni Unite 77, investita più volte della questione a seguito di alcune decisioni del Consiglio di
Stato, che avevano dichiarato inammissibili i ricorsi proprio per difetto di
giurisdizione, sul presupposto della impugnabilità dell’autorizzazione del
Procuratore della Repubblica solo unitamente all’atto impositivo finale davanti al giudice tributario 78.
Secondo il parere degli ermellini nella disciplina del contenzioso tributario, quale risultante dall’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la tutela
giurisdizionale dei contribuenti è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle
commissioni tributarie, e tale esclusività non è suscettibile di venir meno in
presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile. La giufinalizzata all’emanazione del provvedimento finale e cioè dell’avviso di accertamento così
come definito e descritto nell’art. 42 D.P.R. 600/1973. Non è chi non scorga come l’acquisizione di dati e notizie nel corso di una verifica fiscale di per sé ancora non modifica la
posizione giuridica del contribuente verso il Fisco. Questa sarà modificata soltanto con
l’avviso di accertamento in cui si concreta il potere d’imposizione e da cui scaturisce il dovere di assolvere l’obbligazione tributaria. Prima di questo momento la attività di verifica è
fiscalmente neutra, non fa sorgere alcun obbligo del contribuente, né pregiudica alcun suo
diritto o interesse relativo all’esercizio del potere impositivo. Se, infatti, nell’esercizio del
potere di verifica l’amministrazione avrà commesso delle irregolarità, il contribuente potrà
dedurre e fare valere i vizi degli atti preparatori impugnando l’atto conclusivo del procedimento e facendolo cadere per invalidità derivata secondo i consueti principi generali. In
conclusione, quindi, l’attività di verifica di cui agli artt. 32 ss. del D.P.R. n. 600/1973 costituisce ontologicamente attività preparatoria del futuro provvedimento definitivo di conseguenza, difettando di autonomia funzionale, non può ritenersi che l’attività di verifica costituisca procedimento autonomo a nulla rilevando che la predetta attività si concluda con
un atto formale; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 9 luglio 2002, n. 3825, in Bancadati fisconline, nella quale si afferma che posto che il potere di verifica è istituzionalmente esercitabile
in funzione strumentale all’accertamento tributario, la relativa attività è preparatoria del
futuro provvedimento definitivo.
77
V. Cass., sez. un., sentenza 7 maggio 2010, n. 11082 per un commento critico alla
sentenza: BASILAVECCHIA, Il segreto professionale nella verifica fiscale e la tutela giurisdizionale, in GT-Riv. giur. trib., n. 9, 2010, p. 762; MOLTRASIO, Segreto professionale e autorizzazione ex art. 52, comma 3, DPR n. 633/1972: giurisdizione piena del giudice tributario sugli atti
endoprocedimentali, in Riv. dir. trib., n. 12, 2010, II, p. 780; Cass., sez. un., sentenza 19 marzo 2009, n. 6315, in Bancadati fisconline, per un commento critico alla sentenza: LUNELLI,
La tutela del contribuente di fronte agli atti istruttori del procedimento di accertamento illegittimi, in GT-Riv. giur. trib., n. 6, 2009, p. 488; MULEO, Le Sezioni Unite dichiarano non impugnabili dinanzi al TAR gli atti istruttori del procedimento, in Corr. trib., n. 24, 2009, p. 1914.
78
Cons. Stato, sentenza 5 dicembre 2008, n. 6045 e 26 maggio 2006, n. 3199. In entrambi i casi, poi risolti dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (nota precedete), il Consiglio
di Stato aveva confermato le sentenze emesse dai Tar, rispettivamente della Lombardia e
della Campania.
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585
risdizione (piena ed esclusiva) del giudice tributario fissata dal D.Lgs. n.
546/1992, non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali” del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti,
propriamente, come “impugnabili” dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992), ma
investe tutte le fasi del procedimento che hanno portato alla adozione ed
alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche
atto “istruttorio” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato 79. Siffatta latitudine della giurisdizione tributaria evidenzia l’applicabilità anche agli “atti istruttori” del principio della non autonoma (ed immediata) impugnabilità proprio in quanto
“aventi carattere infraprocedimentali”.
In ordine alla legittimità del differimento al momento della impugnazione dell’atto impositivo della tutela giurisdizionale per vizi e/o per irregolarità concernenti atti compiuti nel corso dell’iter amministrativo conclusosi con
l’adozione dell’atto impositivo notificato, secondo i giudici della Cassazione,
è sufficiente ricordare il pensiero della Corte costituzionale (decisione 23
novembre 1993, n. 406 nonché le sentenze n. 154/1992; n. 15/1991; n. 470/
1990; n. 530/1989) secondo cui «gli artt. 24 e 113 Cost., non impongono
una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, la
quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze
di ordine generale e superiori finalità di giustizia, sempre che il legislatore
osservi il limite imposto dell’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali: nel caso,
non si ravvisano né sono state dedotte difficoltà della “tutela giurisdizionale” relativa agli atti qui impugnati quali conseguenti al differimento di quella
tutela al momento della emissione dell’atto di imposizione fiscale».
Per la Corte, inoltre, non può ritenersi carente una tutela solo perché differita; anzi, se l’autorizzazione viene riconosciuta viziata, sia pure tardivamente, alla mancanza di tutela immediata fa da pendant l’estrema incisività
della conseguenza dell’illegittimità, ovvero l’annullamento dell’atto finale.
Secondo i supremi giudici, infine, qualora l’attività di accertamento non
sfoci in un atto impositivo, gli ordini di verifica ipoteticamente lesivi di diritti soggettivi 80 del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei ca79
Cass., sez. trib., sentenza 18 gennaio 2012, n. 631, in Bancadati fisconline.
V. GALLO F., Contraddittorio procedimentale e attività istruttoria, in Dir. prat. trib., n. 3,
2011, p. 471, per il quale se, per legge, l’amministrazione finanziaria ha il potere di entrare
80
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si previsti dalla legge, e le connesse compressioni dei propri diritti anche costituzionali (in particolare, libertà di domicilio, di corrispondenza, di iniziativa economica, ecc.) saranno autonomamente impugnabili dinanzi al giudice ordinario 81.
Le Sezioni Unite, infatti, hanno rilevato più volte che, sebbene l’art. 2 del
D.Lgs. n. 546/1992 abbia ampliato, rispetto alla previgente legge sul contenzioso tributario, la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, ciò non è
di per sé sufficiente ad estendere la giurisdizione esclusiva di tale giudice anche alle controversie sul risarcimento del danno per comportamento illecito
dell’Amministrazione finanziaria 82, rientrando, tali controversie nella giurisdizione del giudice civile 83.
La dottrina è stata da sempre contraria alla tutela differita 84, sottolineando l’importanza di una tutela immediata 85, in virtù della natura plurioffensiva degli atti istruttori 86; in particolare, rilevando come le lesioni alla sfera
in casa del contribuente anche contro la sua volontà ed aprire armadi, cassetti e casseforti,
il contribuente non avrà più un diritto soggettivo, ovvero non avrà più la piena disponibilità del bene protetto. Secondo l’Autore, quindi, il diritto soggettivo degrada ad interesse
legittimo non essendoci alcuna immunità dal potere impositivo.
81
V. Cass., sez. un., sentenza 19 marzo 2009, n. 6315, cit.
82
V. Cass., sez. un., sentenza 21 marzo 2006, n. 6224, in Riv. dir. trib., n. 3, 2008, p. 207,
con nota di ZANETTI, Riflessioni sui “limiti interni” della giurisdizione tributaria. Il tipo di tutela esperibile alla luce del carattere impugnatorio del processo, secondo il quale innanzi al giudice tributario quello che rileva è la pretesa fiscale; ne consegue che la lesione diretta di
diritti o interessi di natura diversa da quella cd fiscale, essendo estranei alla pretesa tributaria, saranno esclusi dalla giurisdizione del giudice tributario; GIOE, Profili di responsabilità
civile dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2007, p. 27.
83
V. Cass., sez. un., sentenza 30 aprile 2008, n. 10826, in Bancadati fiscovideo; Cass.,
sez. un., sentenza 15 ottobre 1999, n. 722 e Corte App. Trieste, sez. I civ., sentenza 5 novembre 1999, n. 687, in Riv. dir. trib., 2011, II, 237, con nota di MANZON-MODOLO, op. cit.
84
V. SCHIAVOLIN, Indagini fiscali e tutela giurisdizionale anteriore al processo tributario, in
Riv. dir. fin. sc. fin., 1991, II, p. 34; VANZ, L’autorizzazione del capo dell’ufficio IVA, cit., I, p.
317, il quale, già nel 1994, evidenzia l’esigenza di una forma di tutela immediata contro le
attività ispettive non conformi allo schema procedimentale voluto dalla legge. Lo stesso
Autore (richiamando FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1994, p. 306 e LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. prat. trib., 1990, I, p. 793 e la stessa SALVINI, op. cit., p. 340) riconosce, però, come la tutela immediata sia difficilmente attuabile
nell’attuale sistema del contenzioso tributario, secondo il quale è ammessa l’impugnazione
degli atti finali ma solo di quelli tassativamente indicati dalla legge.
85
V. SALVINI, op. cit., p. 348.
86
V. RUSSO, Il riparto della giurisdizione fra giudice tributario e giudice amministrativo e
contabile, in Riv. dir. trib., n. 1, 2009, p. 17, il quale sottolinea le due diverse esigenze di tutela che sorgono in relazione all’illegittimità degli atti istruttori: in primo luogo, i problemi
Anna Rita Ciarcia
587
della riservatezza ed al domicilio del contribuente accertato, rimarrebbero
prive di una effettiva tutela anche laddove, successivamente, l’atto accertativo venisse annullato 87. La dottrina continua ad esserlo tutt’ora, nonostante i
citati interventi della Corte di Cassazione, evidenziando come la tutela differita 88 sia inidonea ad una vera tutela del contribuente 89, ed un generica tutela risarcitoria sussidiaria del giudice ordinario non può ritenersi sufficiente 90, anche alla luce della posizione più volte espressa dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo 91: la C.e.d.u. ha infatti lamentato l’insufficienza della
di utilizzabilità del materiale probatorio e delle risultanze investigative dell’attività di controllo accertativi ai fini della determinazione del rapporto obbligatorio d’imposta (che poi,
con l’emanazione dell’avviso di accertamento, andranno ad incidere sulla capacità contributiva del contribuente) e, in secondo luogo, la salvaguardia dei diritti fondamentali della
persona, tutelati dalla Costituzione, che potrebbero essere violati nell’esercizio dell’attività
ispettiva (domicilio, privacy, ecc.).
87
V. MANZON-MODOLO, op. cit., p. 268. Nello stesso senso: FANTOZZI, Nuove forme di
tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali, cit., p. 27, secondo il quale la tutela differita è una tutela insufficiente e tardiva sia per quanto riguarda la debenza o meno
del tributo sia con riguardo ad eventuali danni materiali e/o morali causati dall’esercizio
illegittimo dei poteri istruttori.
88
Sulla tutela differita, v. DI SIENA, Gli atti istruttori, in FICARI-MARINI-DELLA VALLE (a
cura di), Il processo tributario, Padova, 2008, p. 135.
89
V. GALLO F., op. cit., p. 468, secondo l’Autore, continuare a negare l’autonoma rilevanza degli atti endoprocedimentali significa sostenere che ogni contribuente controllato
è un evasore e che, quindi, ogni controllo terminerà con atto di accertamento; MARELLO,
Segreto professionale e segreto difensivo nell’accertamento tributario, in Rass. trib., n. 2, 2011,
p. 280, secondo il quale, visto che il contribuente si dovrà tutelare impugnando l’atto di
imposizione dinanzi alle Commissioni tributarie, resta poco chiaro se il contribuente debba far valere l’inutilizzabilità del materiale acquisito (sul modello dell’inutilizzabilità prevista dall’art. 191 c.p.p.), oppure l’illegittimità derivata dell’atto o addirittura l’illegittimità
dell’intero procedimento; FERLAZZO NATOLI, Diritto tributario, Milano, 2010, p. 208.
90
V. LUNELLI, op. cit., secondo il quale le conclusioni cui perviene la Suprema Corte
non possono essere considerate soddisfacenti per i contribuenti che fossero pregiudicati
dall’attività ispettiva dell’amministrazione finanziaria. Il ricorso contro l’atto finale del procedimento tributario viziato appare un rimedio tardivo e comunque incompleto.
91
V. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 21 febbraio 2008, n. 18497/03, Ravon, pt.
30 ss.; nello stesso senso si era già espressa la Corte Europea con la sentenza 18 settembre
2008, n. 18659/05, Kandler; in dottrina MULEO, L’applicazione dell’art. 6 CEDU anche
all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte europea dei
diritti dell’Uomo nel caso “Ravon e altri c. Francia” e le ricadute sullo schema processuale vigente, in Riv. dir. trib., n. 4, 2008, IV, p. 198; MARCHESELLI, Accessi, verifiche fiscali e giusto processo: una importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in GT-Riv. giur. trib.,
n. 2008, p. 746; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, p. 278, secondo l’Autore è applicabile il principio di effettività della tutela giurisdizionale anche al settore delle verifiche fiscali, a prescindere dalla possibilità offerta al
588
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tutela differita, favorendo invece una tutela immediata 92. Inoltre, anche laddove si agisca in via risarcitoria, tale forma di tutela, riferibile alla sfera patrimoniale del contribuente, non garantirebbe il bene giuridico primario,
ovvero le libertà individuali costituzionalmente garantite; tali libertà richiedono una forma diretta ed immediata di tutela 93.
In presenza, infine, di autorizzazioni che presentino taluni vizi occorre
vedere di che vizi si tratti e se essi possano comportare la nullità o l’annullabilità dell’atto, ai sensi, rispettivamente degli artt. 21 septies e 21 octies della
L. n. 241/1990, inseriti dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15; nel caso di un atto
autorizzatorio di indagine privo di motivazione, la dottrina ha ritenuto che
tale atto debba ritenersi sicuramente efficace e produttivo d’effetto di degradare il diritto soggettivo del contribuente ad interesse legittimo, con la conseguenza che l’azione per ottenere, in via cautelare, un provvedimento di
sospensione dell’atto e della relativa attività di indagine, potrà essere iniziata
innanzi al giudice amministrativo 94.
Una qualche forma di tutela immediata viene riconosciuta in capo al contribuente sottoposto a verifiche fiscali ai sensi dell’art. 12, comma 6: il diritto
di rivolgersi anche al Garante dei contribuenti laddove si «ritenga che i verificatori procedano con modalità non conformi alla legge».
Tuttavia, il ricorso al Garante, non sembra, allo stato della legislazione
vigente, un valido strumento penetrante, il Garante, infatti, non può far altro
contribuente di agire in via differita per contestare l’illegittimità degli atti o chiedere il risarcimento del danno.
92
V. BASILAVECCHIA, op. cit., il quale chiarisce come il giudice di legittimità, nella sentenza n. 11082/2010, nega che questo tipo di valutazioni critiche della Corte di Strasburgo
possa condizionare la scelta della giurisdizione. È solo dopo aver identificato il giudice
competente per giurisdizione – che nella specie non può che essere quello tributario – che
va affrontato – all’interno del complesso giurisdizionale individuato come competente – il
tema dell’adeguatezza delle forme di tutela assicurate. Un processo (nel senso di giurisdizione) “migliore”, perché più completo, non ha titolo per ciò solo per assicurarsi controversie che in base alle tecniche di riparto non gli competono. Se ne dovrebbe derivare che,
se la giurisdizione è tributaria, quest’ultimo processo va semmai potenziato, e reso competitivo. Sull’adeguamento dell’ordinamento italiano alla giurisprudenza comunitario, v.
MARCHESELLI, Le garanzie del professionista, cit., p. 15.
93
V. VANZ, La tutela giurisdizionale diretta e immediata, cit., p. 581. L’autore, poi (p. 584),
sottolinea come la giurisprudenza amministrativa abbia riconosciuto, in taluni casi, la diretta
ed autonoma impugnabilità di atti infraprocedimentali in quanto lesivi di posizioni giuridiche soggettive: Cons. giust. amm., 2 marzo 1990, n 53 (in Cons. St., 1990, I, p. 507), nella
quale è stata riconosciuta l’immediata impugnabilità del bando di concorso pubblico nella
parte in cui poneva limitazioni o preclusioni all’ammissione al concorso stesso.
94
V. VANZ, La tutela giurisdizionale diretta e immediata, cit., p. 593.
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589
che “richiamare” o “segnalare” eventuali comportamenti non conformi 95.
Il Garante, quindi, non è dotato di poteri tali da poter incidere immediatamente nei confronti dei verificatori ma potrà attivare la procedura di autotutela (art. 13, comma 6) d’ufficio nei confronti dei comportamenti o degli
atti non conformi alla legge 96.
6. Conclusioni
L’autorizzazione costituisce, quindi, il filtro dell’attività di indagine ed è
un atto presupposto e funzionale all’acquisizione delle prove.
La presenza dell’autorizzazione a effettuare le indagini realizza un giusto
bilanciamento tra le diverse ed opposte esigenze: da un lato quella dell’amministrazione finanziaria che deve svolgere le indagini, soprattutto ai fini di
una corretta ed efficace azione di contrasto all’evasione, dall’altro quella del
contribuente ad evitare eccessive invasioni della propria sfera giuridica privata, dal domicilio ai conti correnti bancari. Tali esigenze devono essere ben
presenti, caso per caso, dai giudici tributari.
Costituendo un atto interno del procedimento accertativo la giurisprudenza ritiene che l’autorizzazione non sia autonomamente impugnabile in
quanto impugnabile è solo l’atto finale; siamo in presenza, quindi, di una tutela differita all’emanazione dell’atto finale che può pregiudicare la tutela del
contribuente, soprattutto se l’atto finale non viene emanato.
Notevole dubbi, pertanto, sorgono in proposito, in considerazione del
fatto che il valore dei diritti che vengono lesi in questi casi è molto elevato, a
riprova di ciò, la considerazione che essi vengono richiamati anche dalla
Costituzione, e tale caratteristica non si concilia con l’ipotesi di una tutela
differita.
95
V. in tal senso FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2003, p. 549, secondo
il quale è di tutta evidenza che il Garante non ha il potere di porre fine ad eventuali violazioni dei diritti fondamentali, né di punire coloro i quali, nell’esercizio dell’attività di verifica e controllo, abbiano leso gli interessi dei contribuenti contravvenendo a specifiche disposizioni legislative. Pertanto appare poco incisivo il suo ruolo di organo di tutela e garanzia
del contribuente.
96
V. D’AYALA VALVA, Acquisizione di prove illecite. Un caso pratico: la lista Falciani, in
Riv. dir. trib., n. 7-8, 2011, II, p. 418, nota a Corte App. Parigi, ord. 8 febbraio 2011, n. 104145.7 secondo il quale, ai sensi dell’art. 13 della L. n. 212/2000, il direttore dell’ufficio,
laddove riscontri delle esattezze nelle doglianze avanzate dal contribuente, dovrà attivarsi,
immediatamente, per far cessare o eliminare gli atti ed i fatti posti in essere in maniera non
conforme alla legge.
590
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
Nessuna incertezza, invece, sorge in relazione al fatto che il controllo sul
rilascio dell’autorizzazione competa al giudice tributario poiché quest’ultimo è chiamato a conoscere non solo della pretesa tributaria, ma anche delle
modalità dell’attività accertativa della suddetta pretesa, il provvedimento,
infatti, si inserisce in una procedura d’accertamento e formazione dell’atto
impositivo sul quale sarà il giudice tributario a doversi pronunciare.
Infine, deve sicuramente ritenersi che non siano utilizzabili gli elementi
probatori raccolti nel corso di accessi effettuati senza l’autorizzazione.
Quanto alle indagini finanziarie, strumento di punta nella lotta all’evasione, nell’attesa del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, la
nuova normativa non potrà prescindere dall’utilizzo delle autorizzazioni richieste dalla legge, al fine di tutelare il contribuente, in virtù dei diritti costituzionalmente garantiti.
Lorenzo Del Federico
LE CONTROVERSIE SUL RECUPERO DEGLI AIUTI
DI STATO NELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA ITALIANA:
PROFILI CRITICI, ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
E LINEE EVOLUTIVE
DISPUTES RELATING TO RECOVERY STATE AIDS
IN THE ITALIAN FISCAL JUSTICE: CRITICAL ASPECTS, TAX
COURTS CASE LAW AND GUIDELINES
Abstract
Le controversie in tema di aiuti di Stato pongono particolari problemi per quanto riguarda la tenuta dei sistemi giurisdizionali nazionali.
Un primo profilo riguarda il caso degli aiuti di Stato introdotti nell’ordinamento
nazionale senza la preliminare notifica alla Commissione Europea, e senza osservare la clausola di standstill, che impone agli Stati l’obbligo di sospendere l’esecuzione degli aiuti sino a quando non vengano autorizzati; ulteriori profili riguardano l’impatto dei principi europei sul sistema della giustizia tributaria italiana, il
confronto tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti, la salvaguardia del primato del diritto europeo e la disapplicazione delle norme nazionali,
il microsistema introdotto nel diritto processuale tributario dal D.L. n. 59/2008.
Nell’ambito delle controversie sul recupero degli aiuti di Stato la giurisprudenza
mostra la tendenza ad eccedere nella disapplicazione delle norme nazionali; tale
tendenza viene criticata e ricondotta sul piano dei principi europei. Invero per
assicurare l’effettiva attuazione del diritto europeo la Corte di Giustizia ha elaborato il principio di equivalenza ed il principio di effettività. Ma tali principi possono giustificare la disapplicazione delle norme procedurali nazionali soltanto
laddove esse rendano praticamente impossibile la tutela; pertanto, in base al
principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri, tutti gli interventi ripristinatori della legalità europea, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali o
extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati, contribuenti, ecc., debbono essere
592
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attuati nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti. Laddove la tutela delle situazioni soggettive interne lese
da leggi e provvedimenti attuativi in contrato con le norme costituzionali si risolva sul piano della mera illegittimità, collocare la tutela delle situazioni soggettive
di rilievo europeo sul piano della radicale disapplicazione configura una disparità
di trattamento intollerabile rispetto all’equilibrio tra valori costituzionali e valori
europei.
Parole chiave: aiuti di Stato fiscali, processo tributario, disapplicazione delle
norme nazionali, tutela cautelare, principi del diritto europeo
The disputes in the field of State aids involve particular problems as regard to the national tax judges.
A first profile concerns the case of the State aids adopted by the national legal system
without the preliminary notification to the European Commission and without respecting the standstill clause, which obliges Member State to suspend the execution of
State aid until it has been approved; further profiles affect the impact of the European
principles on the Italian tax litigation regulation, the comparison between the reimbursement of unduly taxes and the recovery of State aids, the guarantee of the primacy
of the European law and the disapplication of the national rules, the special regulation introduced in the Italian tax litigation by the Legislative Decree n. 59/2008.
In the field of the disputes relating the recovery of State aids, case law shows the trend
to exceed in the disapplication of the national rules; this trend is criticised and
brought back at the level of the European principles. Nevertheless, to ensure the effective application of European law, the European Court of Justice, has elaborated the
principle of equivalence and the principle of effectiveness. However, these principles
can justify the disapplication of the national procedural rules only where they render
practically impossible the legal protection; therefore, according to the autonomy of the
Member States on procedural law, all the measures directed to establish again the European legality, and having as subject property, tax or non-tax relationships between
State and citizens, taxpayer etc., have to be implemented under the terms and the
conditions provided for by each national legal system for equivalent actions. If the legal protection of rights, affected by rules or implementing rules in contrast with the
constitutional principles is solved according to pure illegitimacy, i.e. is considered exclusively in terms of disapplication, that implies an, intolerable discrimination as for
the balance between constitutional and European principles.
Keywords: Fiscal state aids, tax procedures, disapplication of national rules, European law principles, measures of conservancy
Lorenzo Del Federico
593
SOMMARIO:
1. Premessa. – 2. Divieto di aiuti di Stato fiscali, esecuzione, recupero, responsabilità risarcitoria e
prospettive di tutela del contribuente. – 3. I parallelismi tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti di Stato. – 4. Il recupero degli aiuti di Stato e l’attenuazione del principio di equivalenza. – 5. La tendenza dei Legislatori nazionali ad emanare disposizioni ad hoc per il recupero
degli aiuti di Stato: l’esperienza italiana. – 6. Il primato del diritto europeo e la disapplicazione delle
norme nazionali incompatibili. – 7. Il microsistema processuale per gli aiuti di Stato. – 8. Segue: le
peculiarità della tutela cautelare. – 9. Segue: le peculiarità del giudizio di merito ed il problema dei
termini. – 10. Conclusioni: gli eccessi della vis disapplicativa rispetto alle norme procedurali.
1. Premessa
Il tema delle controversie sul recupero degli aiuti di Stato va inquadrato
nel sistema della giustizia tributaria tenendo conto dei regolamenti europei,
dei principi europei di elaborazione giurisprudenziale e del diritto nazionale 1.
A fronte del diritto nazionale il nucleo fondamentale dei valori risulta costituito dalla salvaguardia della concorrenza (artt. 81-86 Trattato CE – ora
artt. 101-106 TFUE) e dal divieto degli aiuti di Stato (artt. 87-89 Trattato
CE – ora artt. 107-109 TFUE) 2, nel cui ambito, per quanto rileva ai nostri
fini, assume grande rilievo l’esigenza di un effettivo recupero degli aiuti, con
i corollari principi settoriali elaborati dalla giurisprudenza europea 3, tra i
1
Per la bibliografia essenziale v.: PINOTTI, Gli aiuti di stato alle imprese nel diritto comunitario della concorrenza, Padova, 2000, p. 181 ss.; con particolare riferimento agli aiuti di
Stato fiscali v.: FICHERA, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. fin., 1998,
I, p. 84 ss.; SCHON, Taxation and State aid law in the European Union, in Common Market
Law Review, 1999, p. 911 ss.; RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi
comunitari in materia di aiuti di Stato: i poteri del giudice nazionale, in Rass. trib., 2003, p.
330 ss.; SOLER ROCH, Las medidas fiscales selectivas en la Jurisprudencia del TJCE sobre ayudas
de Estado, in Quincena fiscal, 2006, p. 148; FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007; AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007; AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009; ANNALISA PACE, Agevolazioni fiscali. Forme di tutela e schemi processuali, Roma, 2011, p. 54 ss., 154 ss., 297 ss.
2
Nel testo i riferimenti normativi vengono effettuati in primo luogo in relazione alle
versioni consolidate del Trattato che istituisce la Comunità Europea, – Roma 25 marzo
1957 – Trattato CE, e del Trattato sull’Unione Europea – Maastricht 7 febbraio 1992 –
Trattato UE; segue poi il riferimento alle innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona del
13 dicembre 2007, confluite nelle nuove versioni consolidate del Trattato CE, che prende
la denominazione di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea-TFUE, e del Trattato UE, la cui denominazione resta invariata.
3
V. la fondamentale Comunicazione della Commissione UE 2007/C272/05, verso
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quali spiccano i principi di equivalenza e di effettività 4, la clausola di standstill (gli aiuti sono sospesi sino a quando non vengano autorizzati) 5, ed il
principio Deggendorf (fermo cautelare degli aiuti compatibili) 6.
La questione del recupero degli aiuti di Stato pone particolari problemi
per quanto riguarda la tenuta dei sistemi giurisdizionali nazionali.
In questa sede verranno esaminati i profili più problematici, di maggiore
interesse teorico ed applicativo, prescindendo dal quadro generale e dalle
procedure di recupero 7.
Un primo profilo introduttivo, alquanto innovativo ed ancora scarsamente recepito dai pratici, riguarda il caso degli aiuti di Stato fiscali introdotti nell’ordinamento nazionale senza la preliminare notifica alla Commissione Europea, e senza osservare la clausola di standstill, che impone agli
Stati l’obbligo di sospendere l’esecuzione degli aiuti sino a quando non vengano autorizzati.
Ulteriori significativi profili di analisi riguardano l’impatto dei principi
europei, in tema di recupero degli aiuti di Stato fiscali, sul sistema della giul’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli stati membri
di recuperare gli aiuti di stato illegali e incompatibili, in G.U.U.E., serie C, 15 novembre
2007, n. 272; lo stralcio delle parti fondamentali risulta edito in Giust. Trib., 2008, p. 189.
In argomento v. CIAMPOLILLO, Incompatibilità e recupero degli aiuti, in AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., p. 351 ss.; FALCON Y R. TELLA, La recuperacion de las ayudas illegales
consistentes en deduciones u otras medidas tributarias, in Quincena fiscal, 2008, p. 566; DEL
FEDERICO, I principi di equivalenza e di effettività nelle procedure di recupero degli aiuti di Stato fiscali, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, cit., p. 353 ss.
4
Tali principi sono esplicitati dall’art. 14, par. 3, del Reg. CE 22 marzo 1999, n. 99/
659, recante modalità di attuazione dell’art. 88 del Trattato CE (ora art. 108 TFUE).
5
La giurisprudenza estrapola la clausola di standstill dal par. 3, art. 88 Trattato CE – ora
art. 108 TFUE (Corte di Giustizia, 15 luglio 1964, Costa/Enel, causa C-6/64, in Racc., p.
1135; 11 dicembre 1973, Lorenz, causa C-120/73, ibidem, p. 1471; 22 marzo 1977, Steinike,
causa C-78/76, ibidem, p. 595; 21 novembre 1991, FNCE, causa C-354/90, ibidem, I, p. 5505;
13 gennaio 2005, Streekgewest Westeljik, causa C-174/02, in Riv. dir. fin., 2006, II, p. 3; 13 gennaio 2005, Pape, causa C-175/02); ma ormai tale clausola è codificata nell’art. 3 del Reg. n.
659/1999, recante modalità di attuazione dell’art. 88 del Trattato CE (ora art. 108 TFUE).
6
Corte di Giustizia, 15 maggio 1994, causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf
GmbH c. Germania, in Racc., 1994, I, p. 833; la Commissione può richiedere agli Stati
membri di sospendere il pagamento di un nuovo aiuto compatibile ad un’impresa fintantoché quest’ultima non abbia rimborsato il precedente aiuto incompatibile ed oggetto di
una decisione di recupero (per ulteriori riferimento v. infra, nota 37).
7
In merito si rinvia quindi alle vaste e complete ricerche contenute nei volumi AA.VV.,
Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., e AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, cit.; per quanto riguarda la più aggiornata ricostruzione teorica degli atti e delle procedure in materia di agevolazioni fiscali v. ANNALISA PACE, Agevolazioni fiscali, cit.
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595
stizia tributaria italiana, e specificamente il confronto tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti, la salvaguardia del primato del diritto
europeo e gli eccessi nella disapplicazione delle norme nazionali, il microsistema introdotto nel diritto processuale tributario dal D.L. 8 aprile 2008, n.
59 (conv. dalla L. 6 giugno 2008, n. 101).
2. Divieto di aiuti di Stato fiscali, esecuzione, recupero, responsabilità risarcitoria e prospettive di tutela del contribuente
È frequente il caso di aiuti di Stato fiscali introdotti ed attuati nell’ordinamento nazionale senza provvedere alla previa notifica del progetto alla Commissione Europea, ai fini della necessaria autorizzazione, e senza osservare
la clausola di standstill, che impone agli Stati l’obbligo di sospendere l’esecuzione degli aiuti sino a quando non vengano autorizzati 8.
In tali casi si pone il problema dell’inapplicabilità e del recupero degli
aiuti di Stato illegali e incompatibili con l’ordinamento europeo, talmente
rilevante da indurre la Commissione ad assumere costantemente numerose
specifiche iniziative 9.
Il tema del recupero è di grande interesse anche sul piano del diritto interno, trovando applicazione il principio di autonomia procedimentale e
processuale degli Stati membri nell’attuazione del diritto europeo e nella tutela delle situazioni soggettive. In merito, considerate le incertezze che emergono frequentemente negli ordinamenti nazionali, va subito evidenziato che
ai sensi dell’art. 14, par. 3, del Reg. di procedura n. 659/1999 «il recupero
va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dallo
Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione
immediata ed effettiva della decisione della Commissione» (v. ampiamente
infra, parr. 2, 3 e 4).
8
Il procedimento è disciplinato dal Reg. n. 659/1999; per i profili di interesse tributario
della clausola di standstill v.: FONTANA, Tutela giuridica in materia di progetti di aiuti di Stato
ed esenzioni in tema di tasse, in Riv. dir. trib., 2005, III, p. 158; VERRIGNI, Tributi di scopo, tutela
ambientale e divieto di esecuzione degli aiuti di Stato, in Riv. dir. fin., 2006, II, p. 8; COTTANI, La
procedura di controllo, in AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., p. 332; per l’inquadramento sistematico del procedimento PINOTTI, op. cit., p. 184 ss.; per la compiuta ricostruzione della giurisprudenza europea CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., pp. 357-365.
9
V. da ultimo Comunicazione della Commissione UE 2007/C272/05, verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli stati membri di recuperare gli aiuti di stato cit.
596
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Tuttavia al di là del tema del recupero e delle responsabilità dei contribuenti, sollecita particolare interesse la nuova e pregnante prospettiva della
responsabilità degli Stati per la prematura esecuzione degli aiuti senza previa notifica alla Commissione ed in violazione della clausola di standstill. Va
però evidenziato che mentre lo standstill è certamente configurabile in caso
di aiuti notificati ed attuati prima della decisione della Commissione (art. 3
Reg. n. 659/1999), risulta alquanto dubbio se possa operare anche per gli
aiuti cui lo Stato membro dia corso omettendo la notifica 10.
Comunque sia, al riguardo sembrerebbe configurabile una responsabilità
risarcitoria dello Stato membro sotto i tre diversi profili:
– della funzione legislativa, per introduzione dell’aiuto senza previa notifica del progetto;
– della funzione amministrativa, per attuazione dell’aiuto in violazione
dello standstill;
– della funzione giurisdizionale, laddove, in caso di controversia, il giudice non disapplichi la misura di aiuto 11.
Tuttavia nella prospettiva in questa sede prioritariamente assunta meritano particolare attenzione taluni corollari del principio di standstill, specificamente rilevanti sul piano della tutela del contribuente, piuttosto che la pro10
Esigenze di certezza e di tutela dell’affidamento, nonché la formulazione letterale
degli artt. 10 ed 11 del Reg. n. 659/1999, inducono ad escludere che per gli aiuti per i quali
sia stata omessa la notifica possa operare lo standstill, in quanto, in tali casi, dette norme
attribuiscono alla Commissione il potere di sospendere l’esecuzione degli aiuti con apposito provvedimento; tuttavia il primato del diritto europeo, con la sua diretta ed immediata
applicabilità, potrebbe supportare la più ampia operatività dello standstill. La questione è
strettamente connessa al ruolo della decisione della Commissione ai fini del recupero degli
aiuti illegali (v. infra nel testo).
11
Per tali spunti originali v.: RACIOPPI, Principali tipologie di aiuti fiscali, in AA.VV., Aiuti
di Stato in materia fiscale, cit., pp. 458-459, e CERMIGNANI, Aiuti di Stato illegali: omessa notifica, violazione dell’obbligo di standstill e responsabilità dello Stato, in AA.VV., Agevolazioni
fiscali e aiuti, cit., p. 607 ss.; LUJA, Legal Protection of the diligent Recipient of Fiscal State Aid,
in AA.VV., Legal Remedies in European Tax Law, a cura di P. Pistone, Amsterdam, 2009,
pp. 256-258. Per un interessante caso di diretta applicazione nell’ordinamento italiano di
un decisione della Commissione UE in tema di aiuti di stato fiscali v. Cass., sez. trib., 10
dicembre 2002, n. 17564, con note di LAROMA JEZZI, Principi comunitari e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, e DORIGO, L’efficacia delle decisioni della Commissione in materia
di aiuti di Stato secondo la Corte di Cassazione: nuovi orizzonti nei rapporti tra ordinamento
europeo e nazionale, in Rass. trib., 2003, p. 1074 ss. e 1099 ss.; v. altresì SERRANÒ, L’efficacia
delle decisioni della Commissione europea nell’ordinamento tributario interno, in Riv. dir. trib.,
2003, p. 672.
Lorenzo Del Federico
597
blematica risarcitoria, che si colloca nel più generale contesto della responsabilità aquiliana dello Stato o della Pubblica Amministrazione, devoluta alla cognizione dell’AGO 12.
Si intende far riferimento in primo luogo al consolidato orientamento
della giurisprudenza europea secondo cui il soggetto pregiudicato dalla esecuzione prematura di un aiuto all’impresa concorrente, in attesa dell’autorizzazione ed in violazione dello standstill, può rivolgersi al giudice nazionale per farne dichiarare il contrasto con il diritto europeo, e quindi per ottenere la disapplicazione della misura.
Ma di recente la Corte di Giustizia ha notevolmente ampliato l’ambito di
tutela del singolo pronunciandosi su una complessa problematica in tema di
aiuti di Stato fiscali attuati mediante tributi di scopo ambientali 13.
La Corte di Giustizia ha ritenuto che il singolo contribuente inciso dal
tributo di scopo è legittimato ad invocare l’incompatibilità europea non solo al fine di far venir meno gli effetti negativi della distorsione della concorrenza, ma anche per il solo fatto di essere assoggettato ad un tributo utilizzato per il finanziamento della misura agevolativa. Tale conclusione, precisa la
Corte, trova una giustificazione nell’obiettivo di garantire l’effetto utile del
divieto di dare esecuzione agli aiuti prima che la Commissione li abbia autorizzati.
Si assiste così ad una significativa estensione della legittimazione ad invocare l’incompatibilità europea, tanto da aprire la strada a nuove ipotesi di
tutela del contribuente dinanzi ai giudici nazionali.
Il contribuente potrà quindi agire per contestare l’incompatibilità europea del tributo di scopo qualora esso concreti un aiuto illegale, a prescindere dalla esistenza di una sua legittimazione quale concorrente controinteressato pregiudicato dall’alterazione delle regole del mercato 14.
12
Al riguardo v. però, con specifico riferimento al tema degli aiuti di Stato, INGROSSO,
La responsabilità dello Stato nelle ipotesi di aiuto fiscale che causi danno alle persone, in AA.VV.,
Agevolazioni fiscali e aiuti, cit., p. 615 ss., e più in generale: GIOÈ, Profili di responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2007; AA.VV., La responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, a cura di P. Rossi, Milano, 2009.
13
Si tratta del caso olandese Streekgewest, 13 gennaio 2005, causa C-175/02, cit. (relativo ad una misura di aiuto notificata, ma attuata prematuramente, prima dell’autorizzazione); in merito v.: FONTANA, op. cit.; VERRIGNI, op. cit.; INGROSSO, La responsabilità dello
Stato nelle ipotesi di aiuto fiscale, cit., pp. 651-655.
14
Nell’ambito della giurisdizione europea è certamente configurabile un ricorso da parte
dei controinteressati rispetto ad una decisione assolutoria della Commissione, tuttavia è necessario che le imprese controinteressate abbiano già partecipato alla procedura ex art. 88
Trattato CE – ora art. 108 TFUE (Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, Cofaz, causa
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Ovviamente controversie del genere vanno incardinate dinanzi al giudice
cui sono naturalmente devolute le liti in materia tributaria, e quindi, nel sistema italiano, dinanzi alle Commissioni Tributarie 15.
La prospettiva è di notevole rilievo anche applicativo, giacché nel sistema
della giurisdizione europea si rinviene un orientamento piuttosto limitativo
per quanto riguarda la legittimazione dell’impresa potenzialmente beneficiaria ad impugnare decisioni negative della Commissione, rispetto a misure
statali aventi portata generale ed implicanti effetti giuridici nei confronti di
una categoria di soggetti considerata in modo generale ed astratto (di cui è
tuttavia ardua la qualificazione come aiuto stante la carenza selettività). E,
come è noto, questo fenomeno si verifica essenzialmente in tema di imposizione fiscale e previdenziale 16.
169/84, in Racc., p. 391, punti 20-26); mentre nel caso in cui la procedura preliminare non
sia stata aperta la legittimazione dei controinteressati è sempre configurabile (Corte di Giustizia, 19 maggio 1993, Cook, causa C-198/91, in Racc., I, p. 2487, punti 21-26). Sulla procedura di controllo ai sensi del Reg. n. 659/1999, concernente modalità di applicazione
dell’art. 88 Trattato CE (art. 108 TFUE), v.: PINOTTI, op. cit., p. 181 ss.; FEOLA-VIGLIOTTI,
La procedura di controllo, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, cit., p. 275 ss.; VIVIANO,
L’ordine di recupero, ibidem, p. 299 ss.
15
Oltre alle anticipatrici considerazioni di RUSSO, op. cit., pp. 350-351, v. VERRIGNI, op.
cit., pp. 24-26.
16
Il Tribunale di primo grado nella sentenza HFL, 11 febbraio 1999, causa T-86/96, in
Racc., II, p. 179, proprio in materia di aiuti di stato fiscali, ha ritenuto insussistente la legittimazione dell’impresa potenzialmente beneficiaria, evidenziando che: «42. ... i soggetti
diversi dai destinatari di una decisione possono essere individualmente riguardati ... solo se
tale decisione li tocchi a motivo di determinate qualità loro proprie o di una situazione di
fatto che li caratterizzi rispetto a chiunque altro e, quindi, li identifichi in modo analogo al
destinatario ... 43. ... vietando la proroga dell’art. 82f dell’EstDV ... la decisione ... incide sulla
situazione di qualsiasi persona fisica o giuridica che acquisti un nuovo aeromobile immatricolato in Germania ... Fra tali persone figurano, in particolare, le compagnie aeree, gli
operatori che acquistano aeromobili per offrirli in leasing e coloro che offrono servizi individualizzati di trasporto aereo ... 45. Poiché vieta la proroga di norme tributarie di portata generale, la decisione impugnata, sebbene sia indirizzata ad uno Stato membro, si configura nei
confronti dei potenziali beneficiari di dette norme come una misura di portata generale che si
applica a situazioni determinate oggettivamente e comporta effetti giuridici nei confronti di una
categoria di persone considerate in modo generale e astratto. 46. Di conseguenza, l’HLF non
può sostenere che il vantaggio del quale la priverebbe la decisione impugnata abbia carattere individuale. Vietando la proroga dell’art. 82f dell’EStDV, detta decisione la tocca solo
in ragione della sua qualità obiettiva di beneficiario potenziale del sistema di ammortamento controverso, al pari di qualsiasi altro operatore che si trovi, in atto o in potenza, in
una situazione identica ... 52. Infine nemmeno l’eventuale mancanza di rimedi giurisdizionali
nel diritto nazionale tedesco, asserita dall’HLF, può indurre il Tribunale a travalicare i limiti
della sua competenza stabiliti dall’art. 173, quarto comma, del Trattato ...».
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3. I parallelismi tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti di
Stato
Ogni qual volta si è posto il problema del rimborso di tributi riscossi in
violazione del diritto europeo la Corte di Cassazione ha assunto posizioni
molto rigorose e restrittive, conformandosi rigidamente al principio di equivalenza (v. infra) e ritenendo applicabili le ordinarie norme nazionali specificamente dedicate al rimborso tributario, con tutti i loro corollari in termini di oneri formali e procedimentali, termini decadenziali decorrenti dal
momento del versamento, circostanze preclusive, ecc.
Èstata tentata una estrema via d’uscita, giungendosi a negare natura strictu sensu tributaria alle controversie sulla ripetizione di “tributi” riscossi in relazione a fattispecie inibite al Legislatore nazionale, e quindi in situazioni di
carenza del potere impositivo, così da sottrarle al regime del rimborso tributario o, addirittura, alla stessa giurisdizione delle Commissioni 17. Tuttavia le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato l’irrilevanza della
situazione di carenza e ribadito l’ordinaria applicabilità delle specifiche norme sul rimborso tributario 18.
Comunque sia nell’ottica della carenza del potere emergono significativi
parallelismi tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti di
Stato fiscali, anche in ragione del fatto che in entrambi i casi debbono trovare applicazione i principi di effettività e di equivalenza.
La ferma e decisa giurisprudenza delle Sezioni Unite che ha ritenuto irrilevante la carenza dello ius impositionis al fine di qualificare il versamento di
un tributo incompatibile come indebito civilistico, così da sottrarlo allo specifico regime del rimborso tributario, assume significativo rilievo anche rispetto alla speculare, ma ben diversa, problematica della “ripetizione” (recupero) degli aiuti di Stato fiscali posti in essere in violazione del diritto europeo, sia per quanto riguarda il decorso e la natura dei termini, sia per
quanto riguarda la tenuta delle norme procedimentali interne, in ossequio al
principio di equivalenza.
Per rendersi conto della pregnanza di tale parallelismi vanno svolte alcune considerazioni in merito all’azione di recupero degli aiuti di Stato.
17
Su tali temi v. MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario interno, Milano, 2009,
p. 108 ss.; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano
2010, p. 175 ss.
18
Cass., sez. un., 12 aprile 1996, nn. 3457 3458, in Riv. giur. trib., 1996, p. 1057; Cass.,
sez. trib., 9 ottobre 2003, n. 15108.
600
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Secondo autorevole dottrina la “ripetizione dell’indebito” sarebbe concepibile soltanto successivamente alla decisione della Commissione Europea che ha accertato l’illegittimità dell’aiuto 19.
Una soluzione del genere potrebbe apparire confliggente con i fondamentali principi del primato e dell’effettività del diritto europeo, per cui si
potrebbe ipotizzare l’immediata rilevabilità dell’illegittimità dell’aiuto fiscale, da parte dell’amministrazione e del giudice, a prescindere da una apposita decisione della Commissione Europea 20.
La questione risulta quantomai complessa e delicata, sia in ragione della
difficoltà di raccordare la pregressa giurisprudenza europea con la disciplina
introdotta dal Reg. n. 659/1999, recante modalità di applicazione dell’art. 88
Trattato CE (ora art. 108 TFUE), sia in ragione della ambigua distinzione tra
aiuti illegali ed aiuti abusivi (a tacer poi dell’intricato regime transitorio) 21.
Tuttavia (ferma restando l’applicabilità della clausola di standstill, laddove sussistano i relativi presupposti) risulta preferibile la tesi che incardina la
“ripetizione” alla decisione della Commissione Europea, non soltanto per
esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento dei singoli, ma
anche per la natura del potere attribuito alla Commisione in materia di aiuti
di Stato, sussistendo margini di discrezionalità tanto ampi 22 da configurare
una vera e propria riserva di amministrazione; la necessità della decisione
della Commissione trova poi conforto nella lettera dell’art. 14 del Reg. n.
659/1999, dedicato al recupero degli aiuti.
L’azione di “ripetizione” degli aiuti fiscali può essere esperita dall’ente
concedente, in caso di agevolazioni o esenzioni che siano già state fruite, ov19
In tal senso RUSSO, op. cit., p. 350; sul tema v. altresì l’ampia ed argomentata motivazione di Cass. n. 17564/2002 cit., e gli interessanti commenti di LAROMA JEZZI, op. cit., e DORIGO, L’efficacia delle decisioni della Commissione, cit.; per un esauriente inquadramento sistematico v. infine: F. TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. trib., 2007, p.
3655; F. AMATUCCI, Il ruolo del giudice nazionale in materia di aiuti fiscali, in Rass. trib., 2008,
p. 1282; VIVIANO, op. cit., p. 299 ss., 312 ss. Sembra comunque sufficiente la decisione della
Commissione, risultando superflui appositi interventi legislativi da parte dello Stato membro, e soprattutto la puntuale abrogazione della norma agevolatrice censurata (v. specificamente ALTIERI, Competenze del giudice nazionale in materia di aiuti di Stato nel settore fiscale, in
Rass. trib., ins. 1 bis, 2003, p. 356; AULENTA, L’applicazione della normativa in materia di aiuti
di Stato da parte del giudice nazionale, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, cit., pp. 687-696).
20
Per i necessari approfondimenti v.: ORLANDI, Gli aiuti di stato nel diritto comunitario,
Napoli, 1995, p. 81 ss., 541 ss.; PINOTTI, op. cit., p. 116 ss., 320 ss.; CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., p. 354 ss. AULENTA, op. cit., p. 692 ss.
21
Su tali questioni v. ampiamente PINOTTI, op. cit., p. 182 ss.
22
V. ad es. art. 7, comma 4, del Reg. n. 659/1999.
Lorenzo Del Federico
601
vero dal contribuente, nel caso di aiuti di Stato che hanno assunto la veste di
tributi di scopo, già regolarmente versati.
In entrambi i casi qualsiasi contestazione dovrà essere portata alla cognizione del giudice tributario, sia in ragione della ormai raggiunta generalità
della giurisdizione tributaria, sia in ragione della tipologia e della natura degli atti e delle azioni esperibili; a nulla potrà rilevare l’illegittimità europea, la
disapplicabilità delle norme nazionali, la carenza di potere, ecc., per poter
sottrarre la controversia alla cognizione del giudice tributario. Le controversie sulle agevolazioni ed esenzioni saranno pur sempre riconducibili ad uno
degli atti «la cui emanazione è prevista dalle singole leggi d’imposta all’esito
dei procedimenti di controllo rivolti alla rettifica dell’imponibile o alla riliquidazione dell’imposta; pertanto si tratterà, comunque, di un atto rientrante nel catalogo degli atti impugnabili previsti dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/
1992» 23; l’azione intentata dal contribuente per la ripetizione del tributo di
scopo sarà soggetta al normale regime del rimborso tributario.
I temi sino ad ora tratteggiati consentono di cogliere un primo significativo parallelismo tra rimborso dei tributi incompatibili e recupero degli aiuti
di Stato fiscali, sotto il profilo della irrilevanza della carenza del potere rispetto ai meccanismi procedimentali e processuali applicabili.
23
È questa la condivisibile conclusione cui giunge RUSSO, op. cit., pp. 350-351; in senso
analogo: GALLO, L’inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze
sull’ordinamento fiscale interno, in Rass. trib., 2003, p. 2282; PIZZONIA, Aiuti di Stato mediante benefici fiscali ed efficacia nell’ordinamento interno delle decisioni negative della Commissione
UE. Rapporti tra precetto comunitario ne procedure fiscali nazionali, in Riv. dir. fin., 2005, p.
384; FRANSONI, op. cit., p. 142; F. TESAURO, Processo tributario, cit., pp. 3666-3667; CERMIGNANI, Primi orientamenti sul recupero degli aiuti di Stato fiscali relativi alle società per la gestione
dei servizi pubblici locali (c.d. “ex municipalizzate”), in Giust. Trib., 2008, p. 67 ss., partic. p. 83;
ANNALISA PACE, Agevolazioni fiscali, cit., p. 158.
Viceversa si mostrano favorevoli alla concezione extratributaria: FANTOZZI, Problemi di
adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte Europea, in Rass.
Trib., 2003, p. 2267, secondo il quale la natura dell’obbligazione restitutoria perderebbe
l’originaria connotazione tributaria laddove lo Stato dia corso all’azione di recupero mediante appositi interventi normativi; ATTARDI, Il ruolo della Corte Europea nel processo tributario, Milano, 2008, pp. 127-128; CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., pp. 397-403, partic.
nota 166, sulla scia di Fantozzi; GLENDI, Recupero degli aiuti di Stato nella legislazione anticrisi, in Corr. trib., 2009, p. 1000; INGROSSO, La comunitarizzazione del diritto tributario e gli
aiuti di Stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, p. 65 ss.; VIVIANO, op. cit., pp. 300-301,
qualifica l’obbligazione come extratributaria, in quanto connotata dall’interesse comunitario alla concorrenza, e non dall’interesse al prelievo, ma ritiene che l’azione di recupero
debba seguire le ordinarie procedure tributarie. Per quanto riguarda la dottrina europea su
tali problematiche v.: SOLER ROCH, op. cit.; FALCON Y R. TELLA, op. cit.
602
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RTDT - n. 3/2012
Ma un altro punto di contatto meritevole di considerazione attiene ai
principi di effettività ed equivalenza.
Al riguardo è intervenuta la Commissione Europea con la Comunicazione 2007/C272/05 in cui, al punto 21, viene chiarito che ai sensi dell’art. 14,
par. 3, del Reg. n. 659/1999 «il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione».
Risulta così confermata la tesi secondo cui in caso di recupero di aiuti di
Stato fiscali, attuati mediante agevolazioni, esenzioni, riduzioni, ecc., qualsiasi
contestazione dovrà essere portata alla cognizione del giudice tributario 24.
Tale impostazione trova conforto nel punto 52 della comunicazione,
laddove viene chiarito che «il diritto comunitario non prescrive la procedura che lo Stato membro deve applicare per eseguire una decisione di recupero. Tuttavia gli Stati membri dovrebbero essere consapevoli del fatto che la
scelta e l’applicazione di una procedura nazionale sono subordinate alla
condizione che detta procedura consenta l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. Ciò implica che le autorità responsabili devono vagliare attentamente l’intera gamma di strumenti di recupero
disponibili in base al diritto nazionale e selezionare la procedura più idonea
a garantire l’esecuzione immediata della decisione. Esse dovrebbero, ove
possibile, utilizzare procedure rapide previste dall’ordinamento giuridico
interno di ciascuno Stato membro. Secondo i principi di equivalenza ed effettività, queste procedure non devono essere meno favorevoli di quelle che
riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario».
Orbene, è a tutti noto che le procedure tributarie, rispondono puntualmente alle esigenze di esecuzione immediata ed effettiva della pretesa fiscale, giacché caratterizzate da notevoli e penetranti privilegia fisci connaturati
al tradizionale predominio dell’interesse fiscale (attività di polizia tributaria,
poteri istruttori, atti autoritativi, autotutela esecutiva, devoluzione delle con24
Fra gli autori che sostengono la tesi opposta la posizione più articolata e motivata è
certamente quella di INGROSSO, La comunitarizzazione del diritto tributario, cit., pp. 65-72,
secondo cui l’atto di recupero degli aiuti di Stato fiscali non potrebbe avere natura tributaria in quanto per un verso ha la sua fonte nell’ordinamento comunitario ed è attuativo della decisione della Commissione Europea, e per altro verso non è volto «a realizzare l’interesse fiscale nazionale, quanto piuttosto l’interesse comunitario di eliminare l’effetto distorsivo della concorrenza ...» (op. cit., p. 70).
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603
troversie alla giurisdizione tributaria, ecc.). Anche volendo prescindere dalla
natura tributaria del rapporto, non avrebbe senso alcuno ipotizzare l’utilizzo
di strumenti di recupero di matrice civilistica – si pensi ad es. alla ripetizione
dell’indebito ex art. 2033 c.c.– caratterizzati da rapporti paritetici, con la naturale cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, e tutti i conseguenziali
profili di debolezza tipici dell’esecuzione ordinaria delle pretese obbligatorie.
Invero gli studi svolti in ambito europeo, dopo aver evidenziato che nella
maggior parte degli Stati membri, la procedura di recupero è normalmente
determinata dalla natura della misura su cui si basa la concessione dell’aiuto,
riconoscono inequivocabilmente che gli strumenti pubblicistici risultano
più efficaci degli strumenti privatistici 25.
4. Il recupero degli aiuti di Stato e l’attenuazione del principio di equivalenza
È ormai pacifico come sia esclusa la configurabilità di una specifica azione di ripetizione dell’indebito europeo 26.
In base al principio di autonomia procedimentale e processuale degli
Stati membri nell’attuazione del diritto europeo tutti gli interventi ripristinatori della legalità europea, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali
o extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati, contribuenti, ecc., debbono
25
Study on the enforcement of state aid law at national level, Competition studies 6, Luxembourg, Ufficio pubbl. Comunità europee, p. 522 (http://ec.europa.eu/comm/competition/
state_aid/overview/studies.html).
26
In tal senso v. fra i tanti: COMMUNIER, Restitution de taxes percuses en violation du droit
communautarie, in Rev. jurispr. fisc., 1990, p. 85 ss.; FREGNI, In tema di tributi riscossi in violazione di norme comunitarie, in Riv. dir. fin., 1991, II, p. 10 ss.; GRATANI-TATHAM, Incidenza e
prevalenza del diritto comunitario sul diritto inglese in materia di ripetizione dell’indebito, in Dir.
com. scambi intern., 1994, p. 83 ss.; HUGLO, La répétition de l’indu communautarie dans la jurisprudence de la Cour de cassation francaise, in Rev. trim. droit eur., 1995, p. 1 ss.; F. AMATUCCI, I
vincoli posti dalla giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 291 ss.; DI VIA, La ripetizione dell’indebito, in AA.VV.,
L’attività ed il contratto, vol. III, Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, Padova,
2003, p. 682 ss.; MISCALI, Principi costituzionali, principio di ripetizione dell’indebito e diritto di
restituzione del tributo dichiarato incompatibile con il diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2006,
p. 181 ss.; MONTANARI, Evoluzione del principio di effettività e rimborso dei tributi incompatibili
con il diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, p. 89 ss.; DI PIETRO, Tutela del contribuente, primato del diritto comunitario e rimborso tributario, in AA.VV., Attuazione del tributo
e diritti del contribuente in Europa, a cura di T. Tassani, Roma, 2009, p. 13 ss.; MICELI, Indebito
comunitario, cit., p. 63 ss.; VAN THIEL, Refund of Taxes and Charges Collected Contrary to
Common Law, in AA.VV., Legal Remedies in European Tax Law, cit., pp. 287-291.
604
DOTTRINA
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essere attuati nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti. E ciò indifferentemente, sia per le azioni
di rimborso dei tributi, o degli altri prelievi pubblici, riscossi in violazione
del diritto europeo, sia per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente
fruiti.
Gli unici due limiti posti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia a
specifica garanzia dell’ordinamento europeo riguardano:
– le condizioni, le modalità ed i termini dell’azione, che non debbono essere disciplinati in modo differenziato, con regime meno favorevole di quello relativo alle normali equivalenti azioni di diritto interno;
– la effettiva possibilità di esperire l’azione, nel senso che la disciplina nazionale (quand’anche non differenziata) non deve essere così restrittiva da
rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti 27.
Tuttavia per quanto riguarda il recupero degli aiuti di stato il principio di
equivalenza viene spesso violato.
La stessa Comunicazione 2007/C272/05, pur rifacendosi ai principi di
equivalenza e di effettività, ricorda il tentativo delle Autorità tedesche di dare esecuzione a un ordine di recupero nel caso Kvaernen Warnow Werft, in
cui l’aiuto era stato concesso in base ad un accordo di diritto privato: nel
momento in cui il beneficiario ha rifiutato di rimborsare l’aiuto, l’Autorità
competente ha deciso di non adire il Tribunale civile (secondo il principio
dell’equivalenza); viceversa è stato emesso un provvedimento amministrativo con il quale si è ordinato l’immediato rimborso dell’aiuto (preferendo
valorizzare il profilo dell’effettività). Il Tribunale Amministrativo di BerlinoBrandeburgo ha ritenuto che l’Autorità competente non era obbligata a recuperare l’aiuto nello stesso modo in cui era stato concesso, ed ha ammesso
che l’effetto utile della decisione della Commissione consentiva il recupero
27
Sul principio di equivalenza v.: Corte di Giustizia, Barra, 2 febbraio 1988, causa
309/87, in Foro it., 1988, IV, p. 422; Deville, 29 giugno 1988, causa 240/87, in Dir. prat.
trib., 1990, II, p. 987; Ansaldo, 15 settembre 1998, cause C-279/96, C-280/96 e C-281/96
punto 29, in Guida dir., 1998, n. 38, p. 15 ss.; Edis, 15 settembre 1998, causa C-231/96,
punto 36, in Rass. trib., 1998, II, p. 1063; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, punto 27, in Racc., I, p. 579.
Sul principio di effettività v. Corte di Giustizia, 17 novembre 1998, causa C-228/96,
Aprile II, in Racc., I, p. 7141, punto 18; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, cit.,
punti 25 e 41-42; 8 marzo 2001, cause riun. C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft, punto 85, in Racc., I, p. 1727; Marks & Spencer, 11 luglio 2002, causa C-62/00, punti 34-38, in
Dir. e prat. trib. int., 2003, p. 308; 24 settembre 2002, causa C-255/00, G.I., in Il Fisco, 2002,
p. 7563, punti 35-37.
Lorenzo Del Federico
605
dell’aiuto attraverso un provvedimento amministrativo 28.
Su casi del genere ruota la corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 14, par. 3, del Reg. n. 659/1999, e più in generale si gioca l’equilibrio
tra interessi della Commissione, interessi degli Stati membri ed interessi dei
cittadini.
La fondamentale esigenza della certezza del diritto, la necessità di salvaguardare il legittimo affidamento, i principi di legalità, uguaglianza e sussidiarietà, inducono a connotare negativamente interventi legislativi ad hoc,
contingenti e giustificati esclusivamente dalle patologie del momento 29.
In mancanza di un (auspicabile) apposito e specifico regime europeo,
ogni e qualsivoglia intervento ripristinatorio della legalità europea deve essere attuato nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale
per le normali azioni equivalenti, ferma restando, in ogni caso, la effettiva possibilità di esperire l’azione. Viceversa le esperienze degli Stati membri sembrano proiettate schizofrenicamente ad oscillare dalla più assoluta iniziale
negligenza nell’avviare le azioni di recupero (nella prima fase in cui gli Stati
cercano di salvaguardare ad oltranza gli interessi nazionali), all’implementazione di meccanismi normativi rigorosi, asistematici e mortificatori di qualsivoglia esigenza di tutela (nella fase in cui le istituzioni europee monitorano ormai attentamente l’effettività del recupero 30).
5. La tendenza dei Legislatori nazionali ad emanare disposizioni ad hoc per
il recupero degli aiuti di Stato: l’esperienza italiana
L’orientamento dei Legislatori nazionali, e tipicamente del Legislatore italiano, che invece di attuare senza indugio le procedure esistenti, tendono ad
emanare di volta in volta disposizioni appositamente dedicate al recupero di
ogni specifico aiuto, frustra la salvaguardia degli interessi europei ed al tempo stesso le esigenze di tutela dei cittadini, creando un grave stato di incertezza e molteplici inconvenienti applicativi.
Alla luce del passaggio fondamentale della Comunicazione 2007/C272/ 05,
secondo cui il recupero va effettuato senza indugio mediante le procedure
28
Comunicazione 2007/C272/05, punto 52, nota 54.
CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., p. 403 ss.; BAGAROTTO, Il recupero degli aiuti di stato
dichiarati illegittimi ed il regime di “moratoria fiscale”, in Dir. prat. trib., 2008, I, p. 497 ss.
30
Sul ruolo delle istituzioni europee v. RAPP, La violazione delle decisioni della Commissione, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti, cit., p. 365 ss.
29
606
DOTTRINA
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previste dalla legge dallo Stato interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva (punto 21, conf. all’art. 14, par. 3, del
Reg. n. 659/1999), va radicalmente censurato il comportamento del Legislatore italiano che invece tende ad emanare di volta in volta disposizioni
dedicate al recupero di ogni specifico aiuto.
Un tale disagio risulta palese nel caso italiano del recupero nei confronti
delle ex municipalizzate in attuazione della decisione della Commissione 5
giugno 2002, 2003/193/CE.
Come è noto la vicenda ha inizio con l’art. 27 della L. 18 aprile 2005, n. 62.
Con tale primo intervento – successivo di circa tre anni rispetto alla decisione del giugno del 2002 – il Legislatore ha elaborato una procedura di recupero alquanto complessa (anche a seguito delle modifiche ex art. 1, comma 132, L. 23 dicembre 2005, n. 266). Era prevista una compartecipazione
all’attività di recupero tra Agenzia delle Entrate e Ministero dell’Interno.
L’Agenzia delle Entrate ha emanato il provv. 1 giugno 2005, attinente agli
adempimenti dichiarativi e quantitativi; il Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle finanze ed il Ministero delle Politiche comunitarie, ha poi emanato il Decreto 21 luglio 2006, con il quale sono state definite le modalità procedimentali.
Ma tutto il complesso meccanismo delineato da questo primo intervento
legislativo è rimasto sostanzialmente inattuato 31.
Con un secondo intervento, contenuto nell’art. 1, del D.L. 15 febbraio
2007, n. 10 (conv. con modif. dalla L. 6 aprile 2007, n. 46), il Legislatore ha
previsto che «l’Agenzia delle entrate, sulla base ... delle dichiarazioni dei
redditi presentate dalle società beneficiarie ... liquida le imposte con i relativi interessi; in caso di mancata presentazione della dichiarazione, l’Agenzia
... liquida le somme dovute sulla base degli elementi direttamente acquisiti.
L’Agenzia delle entrate provvede al recupero degli aiuti nella misura della
loro effettiva fruizione, notificando ... apposita comunicazione ... contenente
l’ingiunzione di pagamento ... in caso di mancato versamento ... si procede,
ai sensi del decreto ... 29 settembre 1973, n. 602 ...». Questo meccanismo
ha avuto un concreto impatto applicativo, ma sono sorte molteplici contestazioni sul procedimento e sul provvedimento di recupero, giacché se ne
sosteneva la natura civilistica e pararisarcitoria, piuttosto che tributaria, con
31
Dopo la condanna per inadempimento subita dalla Repubblica italiana con la sentenza della Corte di Giustizia, sez. I, 1° giugno 2006, causa C-207/05, la procedura di recupero è stata radicalmente modificata e semplificata (RACIOPPI, op. cit., pp. 471-477; BAGAROTTO, op. cit., p. 497 ss.).
Lorenzo Del Federico
607
tutte le ovvie conseguenze sul piano delle garanzie procedimentali e della
tutela giurisdizionale 32.
Si è infine giunti ad una terza fase con l’art. 24 del D.L. n. 185/2008
(conv. con L. n. 2/2009). Tale norma prevede che «al fine di dare completa
attuazione alla Decisione 2003/193/CE ... il recupero degli aiuti equivalenti
alle imposte non corrisposte e dei relativi interessi conseguente all’applicazione del regime di esenzione fiscale è effettuato dall’Agenzia delle Entrate
ai sensi dell’art. 1, comma 1, del Decreto Legge 15 febbraio 2007, n. 10 ...
secondo i principi e le ordinarie procedure di accertamento e riscossione
previste per le imposte sui redditi ...».
Risulta quindi ormai inequivocabilmente chiarita la natura tributaria del
procedimento e del provvedimento di recupero, in una riaffermata logica di
rispetto del principio di equivalenza. Diventa quindi agevole superare i dubbi di legittimità costituzionale in merito alla devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione tributaria 33.
Tuttavia una valutazione complessiva della vicenda non può che essere
negativa: tra interventi legislativi elusivi e variegate negligenze è stata palesemente frustrata la necessità di dare corso al recupero, senza indugio, secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato interessato, a condizione
che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva (secondo i principi
di equivalenza ed effettività).
Ma per la verità non si tratta di carenze soltanto italiane.
Dalle indagini svolte dalla Commissione risulta che non vi è stato un solo
caso in cui il recupero abbia avuto attuazione entro il termine stabilito. Nel
2004 la Commissione ha promosso uno studio comparatistico sull’attuazio32
CTP Reggio Emilia, sez. I, 17 luglio 2007, n. 439, CTP Novara, sez. I, 3 ottobre
2007, n. 80, e CTP Lucca, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 172, tutte in Giust. Trib., 2008, p. 67
ss., con nota di CERMIGNANI, Primi orientamenti sul recupero degli aiuti di stato fiscali, cit.;
CTP Teramo, sez. III, 14 novembre 2007, n. 164, CTP Milano, sez. XX, 21 aprile 2008, n.
91, CTP Savona, sez. V, 30 giugno 2008, n. 285, tutte in Giust. Trib., 2008, p. 720 ss., con
nota di CIAMPOLILLO, Le Commissioni Tributarie tornano sulla problematica del recupero
degli aiuti fiscali nei confronti delle c.d. “ex municipalizzate”.
33
Sui profili di costituzionalità v. per tutti GLENDI, Recupero degli aiuti di Stato nella legislazione anti-crisi, cit., p. 1000, il quale ritiene persistenti tali dubbi, pur a seguito dell’ord.
26 gennaio 2009, n. 36, con la quale la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la
questione sollevata da CTP Firenze, sez. XIX, 17 dicembre 2007, n. 96, ma sotto il diverso
profilo degli artt. 53 e 97 e non dell’art. 102 Cost.– per il commento di tali provvedimenti
v. CIAMPOLILLO, Società ex municipalizzate: il recupero degli aiuti di stato trova giustificazione
negli artt. 3 e 117 Cost., in Giust. Trib., 2008, p. 873.
608
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ne della politica degli aiuti di Stato UE nei differenti Stati membri 34, da cui è
risultato che «l’eccessiva durata dei procedimenti di recupero è un tema ricorrente ... per i vari paesi».
L’orientamento dei Legislatori nazionali, e tipicamente del Legislatore
italiano 35, che invece di attuare senza indugio le procedure esistenti, tendono ad emanare peculiari disposizioni dedicate al recupero di ogni specifico
aiuto, risulta pernicioso ed illegittimo sotto diversi punti di vista: richiede
tempi lunghi di elaborazione ed approvazione delle apposite disposizioni; fa
sì che molto spesso le apposite disposizioni entrino in vigore quando ormai
sono vanamente decorsi i termini prescrizionali o decadenziali contemplati
dalla naturale disciplina di settore medio tempore applicabile; crea incertezze, strumentalizzabili, sui profili del regime giuridico e della tutela giurisdizionale; consente agli operatori di pianificare sofisticati escamotages di contrasto all’azione di recupero.
Al riguardo si pongono delicate questioni, giacché secondo l’art 15 del
Reg. n. 659/1999 «i poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni» (par. 1).
Emerge ancora un’attenuazione del principio di equivalenza in tema di
recupero degli aiuti, in quanto va configurandosi la pervasiva teoria secondo
cui ogniqualvolta le procedure contemplate nell’ordinamento dello Stato
membro, non risultino utilizzabili nel momento in cui la Commissione ordina il recupero, per sopravvenuto decorso dei termini di prescrizione o decadenza, l’ultrattività dei poteri della Commissione comporterebbe l’obbli34
V. il fondamentale Study on the enforcement of state aid law at national level, cit.
Un altro caso eclatante e disdicevole si è verificato con il D.L. 24 dicembre 2002, n.
282, conv. con L. 21 febbraio 2003, n. 27, recante “Disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità”, il cui art. 1, “Completamento degli adempimenti comunitari a seguito di condanna per aiuti di Stato”, recita
«1. In ulteriore attuazione della decisione della Commissione delle Comunità europee dell’11 dicembre 2001, relativa al regime di aiuti di Stato che l’Italia ha reso disponibile in favore
delle banche ...» queste «effettuano, entro la data del 31 dicembre 2002, il versamento di
un importo corrispondente alle imposte non corrisposte in conseguenza del predetto regime ...
In caso di mancato versamento entro il 31 dicembre 2002, dal 1 gennaio 2003 è dovuta,
oltre agli interessi, una sanzione pari allo 0,5 ... 2. Per la riscossione coattiva delle somme di
cui al comma 1, effettuata ai sensi dell’articolo 17, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, provvede il Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento del
tesoro, avvalendosi dell’Agenzia delle entrate» (anche questa vicenda si è articolata in modo complesso e confuso, v. per tutti RACIOPPI, op. cit., pp. 447-459). Per la rassegna degli
interventi di recupero nell’ordinamento italiano v. CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., pp.
403-407.
35
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609
go per lo Stato di implementare apposite procedure 36 (mentre nel caso di termini nazionali ancora aperti dovrebbe operare de plano la normale procedura interna).
Tale teoria suscita profonde perplessità sotto diversi profili:
– l’art. 15, par. 1, è norma relativa ai poteri della Commissione, e non dei
singoli Stati membri 37;
– l’interpretazione pervasiva confligge con il principio di autonomia procedimentale e processuale degli Stati membri;
– sembra più ragionevole concepire il termine come decadenziale, ma al
tempo stesso proiettato a sollecitare la Commissione nel monitoraggio, puntuale e tempestivo, delle legislazioni nazionali. Si segnala peraltro che la giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione sembra orientata a ritenere che
il termine in questione abbia natura prescrizionale e che esso possa essere
interrotto dall’inizio dell’azione della Commissione e sospeso in caso di impugnativa della decisione della Commissione 38.
Tuttavia ciò che più turba è la distonia tra recupero degli aiuti di Stato fiscali e rimborso dei tributi incompatibili: nel primo caso si assiste ad una
tendenziale attenuazione del principio di equivalenza, con dilatazione dei
termini ed emanazione di norme ad hoc per la più rigorosa salvaguardia dell’effettività che prevale sull’equivalenza 39 e depotenzia i principi garantisti36
CIAMPOLILLO, Incompatibilità, cit., p. 351 ss.; MICELI, Indebito comunitario, cit., p. 144;
viceversa VIVIANO, op. cit., pp. 344-347, opta per l’assoluta prevalenza del termine di prescrizione decennale ex art. 15 cit., enfatizzando il principio di effettività.
37
In tal senso v. Corte cost., 6 febbraio 2009, n. 36, in Giur. cost., 2009, p. 287, con nota
di CELOTTO, La (corretta) presbiopia comunitaria della Corte costituzionale.
38
Cass., sez. trib., 19 novembre 2010, n. 23418, e Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n.
26286, in Giust. civ., 2011, p. 2036.
39
Si pensi altresì al principio Deggendorf, in base al quale la Commissione può richiedere agli Stati membri di sospendere l’erogazione di un aiuto compatibile a favore di un’impresa fintantoché questa non abbia rimborsato l’aiuto incompatibile oggetto procedura di
recupero (Corte di Giustizia, 15 maggio 1994, causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendor, cit.; Comunicazione della Commissione UE 2007/C272/05, verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli stati membri di recuperare gli
aiuti di stato, cit. punti 75-78). In un contesto di soft law la Commissione UE ha iniziato ad
operare avvalendosi del principio Deggendorf e soprattutto ha emanato comunicazioni raccomandandone l’adozione da parte degli Stati membri. L’applicazione sistematica di tale
principio è diventata così una delle condizioni per l’adozione di una decisione di compatibilità da parte della Commissione, la quale, in mancanza del predetto impegno, potrà – ai
sensi dell’art. 7, par. 4, Reg. n. 659/1999– emanare una decisione sottoposta a condizione,
imponendo allo Stato interessato di sospendere il pagamento del nuovo aiuto fintantoché
610
DOTTRINA
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ci 40; nel secondo caso è invece il principio di equivalenza a prevalere su quello
di effettività, come risulta palese dalla diffusa tendenza a limitare le ricadute
restitutorie delle sentenze della Corte di Giustizia (v. retro, parr. 2 e 3).
6. Il primato del diritto europeo e la disapplicazione delle norme nazionali
incompatibili
Il magmatico problema dei rapporti tra diritto europeo e legislazione nazionale è stato spesso affrontato dalla Corte costituzionale, ripetutamente costretta a mutare opinione, anche in ragione dei latenti contrasti con la Corte
di Giustizia.
La questione risulta di estrema complessità, coinvolgendo delicate problematiche di diritto costituzionale, di diritto europeo e di diritto internazionale.
Si tratta di capire come, e fino a che punto, il primato del diritto europeo
incide negli ordinamenti nazionali 41.
Soprattutto si tratta di capire quali sono i rapporti tra l’ordinamento europeo e l’ordinamento nazionale, prevalendo per lo più la tesi dualistica della separazione degli ordinamenti 42, rispetto alla tesi monistica dell’integranon sia accertato che il beneficiario abbia adempiuto ai propri obblighi di restituzione degli aiuti dei quali è stato ordinato il recupero. Per tale via il principio Deggendorf è stato
recepito con apposita norma di sistema nel nostro ordinamento, prima con l’art. 1, comma
1223, L. 27 dicembre 2006, n. 296, poi abrogato dall’art. 6, L. 25 febbraio 2008, n. 34, e da
questa reintrodotto all’art. 16 bis, comma 11, L. 4 febbraio 2005, n. 11, ed infine ribadito in
sede attuativa dai D.P.C.M. 23 maggio 2007 e 3 giugno 2009 (v. la nota Pres. Cons. Min. –
Dip. Pol. Comun., 21 luglio 2009, n. 961).
40
Dalla lettura delle sentenze della Corte di Giustizia in tema di aiuti di stato emerge la
sopravvalutazione della tutela della concorrenza – e finanche la vischiosa salvaguardia dello pseudo valore della neutralità fiscale – cui fa da pendant la recessività della certezza del
diritto e della tutela dell’affidamento, laddove tali principi garantistici risultino ostativi al recupero. V. criticamente F. AMATUCCI, Reduced Effectiveness of Legal Protection of Taxpayers
against Tax Measures Constituing State Aids, in AA.VV., Legal Remedies in European Tax Law,
cit., p. 245 ss.
41
Per un quadro di sintesi v. CONTALDI, Effetto diretto e primato del diritto comunitario,
in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, vol. III, Milano, 2003, p. 2122.
42
MORI, La recente giurisprudenza della Corte costituzionale sui rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1985, p. 782 ss.; LA PERGOLA, Il recepimento del diritto comunitario. Nuove prospettive del rapporto tra norme interne e norme comunitarie alla luce della legge 9 marzo 1989, n. 86, in AA.VV., La Corte Costituzionale tra diritto
interno e diritto comunitario, Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei
Lorenzo Del Federico
611
zione 43 (riconducibili la prima alla esclusione della subordinazione dell’ordinamento interno a quello europeo, e la seconda ad una vaga aspirazione
federalista).
Negli ultimi anni, sulla scia della persistente spinta monistica della Corte
di Giustizia, si rinvengono notevoli aperture, sia in giurisprudenza, sia in alcune norme, ed in primo luogo nel nuovo art. 117, comma 1, Cost. 44, a favore della tesi dell’integrazione, che certamente, prima o poi, finirà con l’affermarsi. Basti ricordare quelle sentenze della Corte costituzionale secondo
«il nuovo testo dell’art. 117 ... se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza» della «Corte, poiché
giorni 15-16 ottobre 1990, Milano, 1991, p. 12 ss.; PIZZORUSSO, Sull’applicazione del diritto
comunitario da parte del giudice italiano, in Quaderni regionali, 1989, p. 48 ss.; ID., L’attuazione degli obblighi comunitari. Percorsi contenuti ed aspetti problematici di una riforma del
quadro normativo, in Foro it., 1999, V, p. 226 ss.
43
Per i riferimenti alla giurisprudenza comunitaria favorevole alla tesi monista v. BARAV, Cour constitutionnelle italienne et droit communautaire: le fantome de Simmenthal, in
Rev. trim. dr. europ., 1985, p. 331 ss.; per la dottrina italiana v. LA LOGGIA, Insufficienza della
disapplicazione da parte di un giudice ordinario di una norma italiana configgente con una norma comunitaria, in Riv. dir. europ., 1987, p. 196 ss.; CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i
suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento nazionale, in Quaderni
cost., 1993, p. 29 ss.; SORRENTINO, La Costituzione italiana di fronte al processo di integrazione europea, ibidem, 1993, p. 81 ss.; GRECO, I rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale,
in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M. Chiti e G. Greco, I ed., Milano,
1997, II ed., coord. da G.F. Cartei e D.U. Galetta, Parte generale, Milano, 2007, p. 827 ss.
44
Risulta però ancora prevalente l’approccio “continuista”, ancorato alla formulazione
letterale dell’art. 117: PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i
rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001,
V, p. 194 ss.; GROPPI, L’incidenza del diritto comunitario sui rapporti Stato-Regioni dopo la
riforma del Titolo V, in AA.VV., Alla ricerca dell’Italia Federale, a cura di G. Volpe, Pisa,
2003, p. 27 ss.; SORACE, La disciplina generale dell’azione amministrativa dopo la riforma del
Titolo V della Costituzione. Prime considerazioni, in AA.VV., Annuario Associazione Italiana
dei Professori di Diritto Amministrativo, Milano 2002, p. 26 ss.; ed altresì GALLO, Ordinamento comunitario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006, pp. 10-12, sia pure con
qualche maggiore apertura.
Viceversa per gli orientamenti più sensibili alle prospettive evolutive v.: TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni,
2001, p. 1204 ss.; CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, p. 321; PIZZETTI, L’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’Unione Europea, in Le Regioni, 2002, p. 653 ss.; D’ATENA, La
nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rass. parl.,
2002, p. 924 ss.; PATERINITI, La riforma dell’art. 117, comma 1, Cost. e le nuove prospettive nei
rapporti tra ordinamento giuridico nazionale e unione europea, in Giur. cost., 2004, p. 2101.
3.
612
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel
tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in
contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non
ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in
contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due
si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del
giudice delle leggi» 45.
Ove esteso anche al diritto europeo, o quantomeno ai Trattati europei,
tale orientamento integrazionista consentirebbe di contenere gli eccessi cui
sta dando luogo la vis disapplicativa nei confronti delle norme nazionali (v.
infra).
Tuttavia, al di là delle tendenze evolutive e delle opzioni personali, in
questa sede non si può che prendere atto del persistente prevalere della tesi
dualistica della separazione tra ordinamento europeo ed ordinamento nazionale, risultando inopportune ulteriori digressioni, anche in ragione del
fatto che per la materia tributaria non emergono peculiarità di sorta 46; per
cui gli studi tributari debbono basarsi sui risultati raggiunti dalla dottrina e
dalla giurisprudenza di naturale e specifica competenza 47.
45
Così Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in senso analogo la coeva n. 349; entrambe
commentate da: CARTABIA, Le sentenze “gemelle”: diritti fondamentali, fonti, giudici, in Giur.
cost., 2007, p. 3564; GUAZZAROTTI, La Corte e la CEDU: il problematico confronto di standard
di tutela alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost., ibidem, p. 3574; SCIARABBA, Nuovi punti fermi (e
questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti nazionali ed internazionali, ibidem, p. 3579.
46
È stato comunque evidenziato che la tesi dualistica della disapplicazione ha contribuito al lassismo delle Commissioni Tributarie, troppo spesso disattente ai profili europei
della fiscalità (SACCHETTO-FREDIANI, La immediata applicabilità delle direttive comunitarie:
prime “disapplicazioni della sentenza” n. 170 della Corte costituzionale da parte delle corti di
merito, in Rass. trib., 1988, II, p. 111 ss.; ID., L’applicabilità delle direttive fiscali CEE nell’ordinamento italiano, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, p. 1098 ss.).
47
Comunque fra i tributaristi il tema è stato ampiamente studiato: CALIFANO, Ordinamento tributario e ordinamento comunitario. Profili costituzionali, pubbl. corso di perf. in diritto
tributario “A. Berliri”, Bologna, 2000, p. 6 ss.; SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, in Dir. e prat. trib. int., 2001, p. 2 ss., 13 ss.; A. AMATUCCI, La normativa comunitaria quale fonte per l’ordinamento tributario interno, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, coord. da V. Uckmar, Padova, 2005, p. 1193 ss.; FERLAZZO NATOLI, Rapporto tra ordinamento comunitario ed interno nel diritto tributario: dalla teoria dualistica alla
teoria monistica?, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e
C. Berliri, Napoli, 2006, p. 323 ss.; BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel
rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, p.
45 ss., 56 ss.; INGRAO, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori nei rapporti tra
Lorenzo Del Federico
613
Invero la giurisprudenza italiana è ancora orientata ad individuare «un
punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno; i due sistemi sono configurati come autonomi e
distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita
e garantita dal Trattato»; in tale contesto – attraverso l’art. 11 Cost.– le
norme comunitarie ricevono diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, ma ciò «non comporta la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie»; in sostanza, pur essendo prevalente, la norma europea non produce effetti estintivi e «non dà luogo ad ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità
della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di mera disapplicazione» 48. Ed è evidente l’assonanza tra soluzioni nazionali e soluzioni
comunitarie, giacché, a prescindere dalla ricostruzione dei rapporti tra ordinamenti, la disapplicazione per la quale optano i giudici nazionali assicura
effetti analoghi alla disapplicazione utilizzata dai giudici europei 49.
7. Il microsistema processuale per gli aiuti di Stato
Il tema del recupero degli aiuti di Stato presenta molteplici punti critici,
ma certamente una delle pagine più scabrose è quella del novello microsistema processuale implementato nell’ordinamento italiano nel 2008, cui si
diritto interno e comunitario alla luce del Trattato di Lisbona, in Riv. dir. trib., 2010, p. 230
ss.; per lo più tali Autori si mostrano particolarmente sensibili alla tesi dell’integrazione,
ma non in virtù di peculiarità della materia tributaria, quanto piuttosto per opzioni dogmatiche di carattere generale.
48
Così Corte cost., 5 giugno 1984, n. 170, in Riv. dir. int. priv., 1984, p. 297; in senso analogo: Corte cost., 19 aprile 1985, n. 113, in Riv. dir. int. priv., 1985, p. 817; Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389, in Corr. giur., 1989, p. 1058; Corte cost., 26 marzo 1990, n. 144, in Riv. dir.
pubbl. comun., 1991, 515; Corte cost., ord. 14 giugno 2002, n. 238, in Giur. cost., 2002, p.
1792; Cass., sez. un., 21 giugno 1996, n. 5731, in Foro it., 1997, I, p. 540; e da ultimo: Cass.,
sez. trib., 18 settembre 2009, nn. 20068 e 20069; Cass., sez. un., 17 febbraio 2010, nn. 3673,
3674 e 3676; Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26285; sull’evoluzione della giurisprudenza italiana e comunitaria in tema di disapplicazione delle norme nazionali configgenti v.
per tutti G. TESAURO, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2010, p. 201 ss.
49
V. per tutti G. TESAURO, op. cit., p. 216 ss. Per l’inquadramento critico della disapplicazione v. però l’acuta sintesi di GRECO, I rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale,
cit., p. 845 ss.; nonché di CONTALDI, Atti amministrativi contrastanti con il diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 747 ss.
614
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affiancano ulteriori peculiari interventi 50. Da ultimo l’art. 17 bis, introdotto nel D.Lgs. n. 546/1992, dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, ha escluso «le
controversie di cui all’articolo 47-bis» – appunto quelle in tema di aiuti di
Stato – dall’ambito applicativo del nuovo istituto del reclamo e della mediazione.
Al di la delle questioni di dettaglio il nucleo normativo si rinviene nel
D.L n. 59/2008, conv. dalla L. n. 101/2008, contenente disposizioni in materia di recupero di aiuti di Stato “innanzi agli organi di giustizia civile” (art.
1) 51 ed “innanzi agli organi di giustizia tributaria” (art. 2); questo decreto ha
introdotto un art. 47 bis nel D.Lgs. n. 546/1992, dal contenuto equivoco ed
asistematico, specificamente rubricato “Sospensione di atti volti al recupero
di aiuti di Stato e definizione delle relative controversie” 52.
Secondo tale norma qualora sia chiesta la sospensione di un atto volto al
recupero di aiuti di Stato in esecuzione di una decisione della Commissione
(ex art. 14 Reg. n. 659/1999) il giudice tributario può concedere la sospensione cautelare soltanto se ricorrono cumulativamente le seguenti condizioni:
– gravi motivi di illegittimità della decisione di recupero, ovvero evidente
errore nella individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di
50
Si pensi al fermo cautelare (c.d. principio Deggendorf – v. retro) da ultimo contemplato dai D.P.C.M. 23 maggio 2007 e 3 giugno 2009.
Per quanto riguarda la prassi si segnala che l’Agenzia Entr., nella Circolare 18 aprile 2008,
n. 40/E, ha affermato che dovrebbero essere esclusi dall’ambito applicativo della transazione fiscale ex art. 182 ter L. fall., non soltanto i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione
Europea, ma anche i crediti erariali a titolo di recupero di aiuti di stato dichiarati illegittimi
dalla Commissione.
51
Si segnala che in attuazione della delega volta alla riduzione e semplificazione dei riti
civili, il D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ha modificato l’art. 1 del D.L. n. 59/2008, prevedendo che «i giudizi civili concernenti gli atti e le procedure volti al recupero di aiuti di
Stato in esecuzione di una decisione ... adottata dalla Commissione europea ... sono regolati ...» dal regime processuale dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione, cui ora si applica di massima il rito del lavoro (artt. 9 e 6). A parte la modifica del rito restano sostanzialmente confermate le notevoli peculiarità di cui all’art. 1 del D.L. n. 59/2008, salvo il superamento della tutela cautelare ad tempus per la sopravvenuta questione di legittimità costituzionale (v. infra).
52
La dottrina ha criticato tale intervento sotto diversi punti di vista, v. soprattutto: GLENDI, Processo tributario e recupero degli aiuti di Stato, in Corr. trib., 2008, p. 1670; ANNALISA
PACE, Recupero di aiuti di stato e tutela cautelare, in Riv. dir. trib., 2008, p. 873 ss.; ID., Agevolazioni fiscali, cit., p. 243 ss.; MUSCARÀ, La speciale (rectius: speciosa) disciplina della tutela
cautelare in materia di atti volti al recupero di aiuti di stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e
aiuti, cit., p. 602 ss.
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615
Stato o evidente errore nel calcolo della somma da recuperare e nei limiti di
tale errore;
– pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile.
Qualora la sospensione si fondi su motivi attinenti alla illegittimità della
decisione di recupero della Commissione il giudice provvede con separata
ordinanza alla sospensione del giudizio ed all’immediato rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia, «con richiesta di trattazione d’urgenza ai sensi dell’articolo 104-ter del Regolamento di procedura della Corte di giustizia ..., se ad essa non sia stata già deferita la questione di validità
dell’atto comunitario contestato».
Comunque sia la domanda cautelare non può essere accolta per motivi
attinenti alla legittimità della decisione di recupero quando la parte istante,
pur avendone avuto facoltà, non abbia proposto impugnazione avverso la
decisione di recupero ai sensi dell’art. 230 Trattato CE (ora art. 263 TFUE),
ovvero quando, avendo proposto l’impugnazione, non abbia richiesto la sospensione della decisione di recupero ai sensi dell’art. 242 Trattato CE (ora
art. 278 TFUE), ovvero l’abbia richiesta e la sospensione non sia stata concessa.
Le giustificazioni di un così anomalo intervento legislativo sono esplicitate nei lavori preparatori e vengono ricondotte alle procedure di infrazione
pendenti contro il Governo della Repubblica Italiana per il mancato recupero di aiuti di Stato 53.
In ambito istituzionale è stato infatti evidenziato che spesso l’azione di
recupero degli aiuti di Stato viene vanificata dal diritto processuale interno e
«dalla diffusa possibilità da esso offerta ai giudici di sospendere gli effetti
esecutivi dei provvedimenti nazionali di recupero» 54.
Ma confidare nella specialità delle norme processuali (o procedimentali)
per trovare una via d’uscita rispetto alle croniche e negligenti carenze in tema di recupero degli aiuti di Stato, configura un comodo alibi nei rapporti
con le istituzioni comunitarie che tuttavia per un verso non sana le gravi
53
Dossier di documentazione della Camera dei deputati, XVI legislatura (DO 8059, 7,
55 ss.).
54
V. la relazione al Disegno di legge di conversione del D.L. n. 59/2008, Atto Camera
Deputati n. 6. Va poi segnalato che la tendenza a limitare e predeterminare la tutela cautelare, in caso di controversie sul recupero degli aiuti di Stato, trova un qualche avallo nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia, v. da ultimo 22 dicembre 2010, causa C304/09,
Commissione c. Italia, in Corr. trib., con nota di TUNDO, Aiuti di Stato e tutela cautelare: interviene la Corte di giustizia UE ma la pronuncia ha effetti limitati.
616
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inadempienze dello Stato, e per l’altro stravolge l’assetto ordinario del sistema di tutela del contribuente e del giusto processo tributario.
Del resto se i giudici nazionali accordano una tutela cautelare qualche ragione deve esserci (e se non c’è si deve operare per la salvaguardia dei pubblici interessi in ambito giurisdizionale, utilizzando i normali mezzi di difesa,
gravame, riesame, ecc.), mentre è disdicevole rafforzare l’azione di recupero
smantellando le naturali ed ordinarie garanzie del contribuente, laddove sono
comprovate le gravi inadempienze dello Stato sul piano normativo e dell’azione amministrativa.
Suscita quindi profonde perplessità il passaggio della relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del D.L. n. 59/2008, laddove si dice
che le disposizioni in questione si rendono «necessarie al fine sia di agevolare i procedimenti di recupero attualmente sospesi dinanzi ai competenti
organi giurisdizionali, sia in via più generale per conformare il diritto processuale nazionale applicabile anche in futuro ai casi di recupero di aiuti di
Stato in attuazione di decisioni della Commissione Europea ai requisiti di
immediatezza ed effettività previsti dal diritto comunitario».
8. Segue: le peculiarità della tutela cautelare
A prescindere dalla ratio, sono molteplici i profili di criticità emergenti
dall’art. 47 bis 55.
Un primo aspetto di rilievo riguarda l’oggetto della particolare tutela cautelare, e soprattutto l’individuazione dell’atto impositivo.
Al riguardo la dottrina concorda con l’Agenzia delle Entrate, il termine
«atto volto al recupero si intende riferito a tutti gli atti o provvedimenti
emessi al fine del recupero di un aiuto di Stato dichiarato illegittimo, comprendendovi, quindi, anche gli atti tipici della fase di riscossione rientranti
nella giurisdizione delle Commissioni tributarie» 56.
55
Sulle questione rilevanti in termini di ius superveniens v. CTR Toscana, sez. XXIX, 5
maggio 2009, n. 76, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 1355, con nota di BIANCHI, La sospensione
cautelare in materia di aiuti di Stato: tra esigenze comunitarie e difesa dei diritti del contribuente.
56
Così Agenzia Entr., Circolare 29 aprile 2008, n. 42/E; in senso analogo: GLENDI, Processo tributario, cit., p. 1671; ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato, cit., p. 875; MUSCARÀ, op. cit., pp. 600-602; BIANCHI, op. cit., p. 1370. Pertanto non convince il distinguo
operato da ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato, cit., p. 875, nota 17, secondo cui
«gli “atti di recupero di aiuti di Stato” non vanno ricompresi nella categoria degli “avvisi di
recupero” introdotti dalla finanziaria del 2005 (commi 420 ss. della L. 30 dicembre 2004,
Lorenzo Del Federico
617
Notevole rilievo applicativo riveste la predeterminazione normativa del
fumus boni iuris circoscritto ai gravi motivi di illegittimità della decisione di
recupero, all’errore evidente nell’individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato o nella quantificazione della somma da recuperare.
La dottrina prevalente ritiene che tali ipotesi di fumus siano meramente
esemplificative, giammai tassative, quantomeno in ottica di interpretazione
adeguatrice 57.
Quanto al raccordo tra giurisdizione tributaria italiana e la giurisdizione
europea l’art. 47 bis esplicita principi immanenti al sistema, salvaguardando
correttamente, ma alquanto pleonasticamente, il primato del diritto europeo.
Sorprende pertanto l’erroneo riferimento al rinvio ex art. 104 ter del Reg.
di procedura 58. Infatti l’ambito del procedimento ex art. 104 ter è circoscritto
alle questioni inerenti i settori rientranti nel Titolo VI Trattato UE (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) e nel Titolo IV Trattato CE
(visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione
delle persone); pertanto questo rito non è applicabile in materia tributaria.
Conseguentemente o il rinvio va ritenuto tamquam non esset, o va emendato come rinvio al procedimento accelerato ex art. 104 bis del Reg. di procedura 59 (tale istituto tende a privilegiare una determinata controversia asn. 311) per consentire agli uffici l’efficace e pronto recupero di quella particolare tipologia
di benefici fiscali rappresentata dai crediti d’imposta, ove indebitamente fruiti, anche se
evidentemente un avviso di recupero può “trasformarsi” in atto di recupero di aiuti di Stato se emanato per una simile finalità» (ma per un’attenuazione di tale posizione, e per la
valorizzazione della natura sostanziale degli avvisi di recupero, v. poi, dello stesso autore,
Agevolazioni fiscali, cit., pp. 147 ss., 154 ss.).
57
Invero la formulazione dell’art. 47 bis rievoca la vicenda che ha interessato l’art. 13,
ult. comma, L. 22 ottobre 1971, n. 865. In materia di edilizia residenziale pubblica, l’esecuzione dei provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, di occupazione temporanea e
di urgenza e di espropriazione poteva «essere sospesa solo nei casi di errore grave ed evidente nell’individuazione degli immobili ovvero delle persone dei proprietari». Ma tale
norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale per contrasto con l’art. 3, in
quanto l’esercizio del potere cautelare deve consentire di valutare caso per caso la ricorrenza
delle gravi ragioni e l’introduzione di limitazioni contrasta con il principio di uguaglianza,
qualora non ricorra una ragionevole giustificazione del diverso trattamento (Corte cost.,
27 dicembre 1974, n. 284, in Giur. cost., 1975, p. 3349, con nota di ALESSANDRO PACE, Effettività del diritto di difesa e potere giudiziario di cautela). Per tale spunto v. GLENDI, Processo tributario, cit., p. 1673, e ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato, cit., p. 877; per
ulteriori dubbi di costituzionalità v. MUSCARÀ, op. cit., p. 602 ss.
58
V. i puntuali rilievi critici di NASCIMBENE, Giudice tributario e rinvio pregiudiziale d’urgenza alla Corte di Giustizia, in Dir. e prat. trib. int., 2009, p. 12 ss.
59
Il giudice tributario che si dovesse attenere alla formulazione letterale dell’art. 47 bis
618
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sicurandole la precedenza rispetto alle altre, quand’anche iscritte a ruolo anteriormente).
Per quanto riguarda i profili procedimentali gli aspetti critici sono variegati.
Nel rinvio al procedimento ordinario di cui all’art. 47 manca il richiamo
al comma 3, che disciplina il potere del Presidente della Commissione di disporre con proprio decreto la provvisoria sospensione in caso di eccezionale
urgenza. Stante la formulazione letterale della norma di rinvio, art. 47 bis,
comma 3 (che elenca i commi dell’art. 47 ritenuti applicabili, e prospetta
una competenza della “Commissione tributaria”), il potere presidenziale di
sospensione inaudita altera parte dovrebbe ritenersi escluso 60.
Manca altresì il rinvio al comma 6 dell’art. 47, secondo cui in caso di sospensione la trattazione della controversia deve essere fissata non oltre novanta giorni dalla pronuncia cautelare, ma il comma 4 dell’art. 47 bis dispone ben più stringentemente che le controversie in questione sono definite
nel merito entro sessanta giorni dalla pronuncia dell’ordinanza di sospensione; tuttavia resta priva di disciplina la fissazione della trattazione della controversia.
Il comma 3 dell’art. 47 bis, richiama il comma 7 dell’art. 47, secondo cui
«gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado», ma il comma 4 prevede(va) che entro il termine di
sessanta giorni il giudizio di merito vada concluso e che comunque sia trascorso tale termine l’ordinanza di sospensione perda efficacia 61. Ormai, però, tali palesi irrazionalità possono essere temperate, quantomeno in via interpretativa, giacché la Corte costituzionale 62, con sentenza resa rispetto alcommetterebbe certamente un errore, con la conseguenza che la Corte di Giustizia non potrebbe che rigettare la richiesta e procedere secondo le regole ordinarie. L’art. 104 ter, par. 2,
dispone, infatti, che «qualora il rinvio non sia sottoposto al procedimento d’urgenza, il procedimento prosegue conformemente alle disposizioni dell’art. 23 dello Statuto e alle disposizioni applicabili» del Regolamento. Il giudice tributario dovrebbe quindi disapplicare la norma contrastante e, sussistendo i requisiti dell’urgenza straordinaria prevista dall’art. 104 bis,
potrebbe chiedere il procedimento accelerato, applicabile, come s’è detto, senza i limiti materiali di quello d’urgenza (in tal senso NASCIMBENE, op. cit., pp. 14-15).
60
In senso analogo MUSCARÀ, op. cit., p. 596, e SERRANÒ, La sospensione cautelare degli atti
volti al recupero di iuti di Stato: osservazioni critiche su un testo perfettibile, in Riv. dir. trib., 2010,
p. 821; BIANCHI, op. cit., p. 1374; ANNALISA PACE, Agevolazioni fiscali, cit., p. 252.
61
Su tali profili procedurali v. criticamente ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato,
cit., pp. 878-880.
62
Corte cost., 23 luglio 2010, n. 281, in Corr. trib., 2010, p. 944, con nota di GLENDI, La
Corte costituzionale sancisce l’illegittimità della tutela cautelare “ad tempus”.
Lorenzo Del Federico
619
l’omologa disposizione introdotta dall’art. 1 del D.L n. 59/2008, per le controversie in tema di aiuti di Stato dinanzi all’AGO, ha dichiarato l’illegittimità di siffatta disposizione in quanto contrastante con gli artt. 24 e 111
Cost.
A prescindere dalle tante questioni di dettaglio il rapporto tra art. 47 bis
ed impianto generale del D.Lgs. n. 546/1992 va impostato in termini di natura speciale e derogatoria del microsistema processuale in materia di recupero degli aiuti di Stato, nel senso che salvo quanto diversamente e specificamente disposto deve trovare normale applicazione la legge processuale
generale. Opinando diversamente, così da favorire una sovraesposizione
delle deroghe di cui all’art. 47 bis si darebbe concretezza a molteplici dubbi di
legittimità costituzionale 63 (dubbi che comunque risultano non del tutto superabili anche condividendo l’approccio più prudente e restrittivo – v. infra).
9. Segue: le peculiarità del giudizio di merito ed il problema dei termini
Il microsistema processuale per il recupero degli aiuti di Stato contempla
anche una serie di previsioni che riguardano più in generale lo svolgimento
del giudizio di merito ed i termini, aspetti per i quali le deroghe sono ancor
meno giustificabili di quanto possano esserlo nell’ambito della tutela cautelare 64.
La dottrina ha evidenziato un dubbio di fondo, si tratta di capire se tali
previsioni «trovino applicazione per tutte le controversie aventi ad oggetto
gli atti di recupero di aiuti di Stato o solo in quelle in cui sia stata chiesta e
positivamente esercitata la tutela cautelare» 65.
Il problema si pone per quanto riguarda:
– la deroga al regime di sospensione feriale dei termini;
– l’automatica discussione in pubblica udienza;
– la deliberazione della decisione in camera di consiglio subito dopo la
discussione;
– la redazione e la sottoscrizione del dispositivo da parte del Presidente
che ne deve dare lettura in udienza a pena di nullità;
63
Sui quali v.: MUSCARÀ, op. cit., p. 605 SERRANÒ, La sospensione cautelare degli atti, cit.,
p. 822; TUNDO, Aiuti di Stato, cit., p. 1340.
64
In tale ordine di idee v. pure MUSCARÀ, op. cit., p. 596.
65
GLENDI, Processo tributario, cit., p. 1676; ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato,
cit., p. 880.
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– l’obbligo di deposito della sentenza nella segreteria della Commissione
tributaria provinciale entro quindici giorni dalla lettura del dispositivo e la
sua comunicazione immediata alle parti;
– la riduzione alla metà dei termini del giudizio di appello, ad eccezione
di quello relativo alla proposizione del ricorso.
Per quanto riguarda poi i profili applicativi si segnala il delinearsi di alcuni significativi orientamenti.
A proposito della riduzione dei termini, la questione di fondo ha riguardato l’applicabilità della dimidiazione a tutti i giudizi, o soltanto a quelli in
cui sia stata concessa la tutela cautelare. Parte della dottrina ha osservato
che «la disposizione ... mira ad assicurare la effettività e immediatezza del
recupero e se si condivide la posizione della Commissione Europea che nel
giudizio interno, ove si prolunghi eccessivamente, individua un pericoloso
ostacolo al raggiungimento di un tale obiettivo, probabilmente può ritenersi
maggiormente condivisibile l’interpretazione più ampia ... tanto più che
l’opposta soluzione provocherebbe, all’interno del regime speciale ... una ulteriore diversificazione, dovendosi distinguere i tempi e i modi dei giudizi
avverso gli atti di recupero di aiuti di Stato a seconda che il potere cautelare
sia stato chiesto e ove richiesto se sia stato positivamente esercitato» 66. Viceversa la Corte di Cassazione ha ritenuto che il dimidiamento dei termini
riguardi soltanto i giudizi in cui è stata ottenuta la tutela cautelare dinanzi
alla Commissione Tributaria Provinciale 67.
66
Così ANNALISA PACE, Recupero degli aiuti di Stato, cit., p. 881. Del resto il comma 7
dell’art. 47 bis prevede la riduzione alla metà dei termini del giudizio di appello, salvo quello per la proposizione del gravame. Ed è stato evidenziato che nel giudizio tributario la tutela cautelare è configurabile soltanto in primo grado, per cui la riduzione dei termini del
grado di appello, del tutto svincolata dalla tutela cautelare, «conferma che l’intervento del
Legislatore va ben oltre l’esigenza di disciplinare la sospensione della procedura di recupero
avviata per abbracciare, più in generale, tutte le vicende dei giudizi che hanno ad oggetto
un atto di recupero di aiuti di Stato» (ANNALISA PACE, op. ult. cit., p. 881); in senso analogo
BIANCHI, op. cit., p. 1376, e nella conf. giurisprudenza di merito tra le tante: CTR Toscana,
sez. XXIX, 5 maggio 2009, n. 76, cit.; CTR Lombardia, sez. XLVI, 30 giugno 2010, n. 82,
in Giur. trib., 2011, p. 723.
67
Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26285; conf. Cass., sez. trib., 20 maggio 2011,
nn. 11125, 11126 ed 11127. Si tratta comunque di sentenze alquanto contraddittorie e con
motivazioni ambigue, proiettate alla strenua attuazione del recupero degli aiuti, per cui non è
affatto detto che i principi che esse affermano, nella concreta fattispecie risultanti pro fisco,
siano in futuro ribaditi, ove dovessero risultare in concreto operanti pro contribuente. Basti
considerare quel passo della motivazione della sentenza n. 11125/2010, in cui si legge «se si
aderisse alla tesi della inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, per non avere
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621
Sempre in relazione alla riduzione dei termini del giudizio di appello si ritiene che la dimidiazione non riguardi la fase della riassunzione a seguito di
sentenza resa dalla Corte di Cassazione. Ciò sia per molteplici ragioni di ordine logico-sistematico, sia in quanto la norma non parla tout court di giudizio dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale ma, meramente, di giudizio di appello 68.
La deroga al regime di sospensione feriale dei termini è stata esclusa per
l’impugnazione di sentenze relative a giudizi in cui la Commissione Tributaria Provinciale non aveva concesso la tutela cautelare 69.
In linea di principio la gran parte delle questioni più dubbie sembra risolvibile concependo l’art. 47 bis come norma di natura speciale e derogatoria, che pertanto, salvo quanto diversamente e specificamente disposto, deve lasciare spazio alla legge processuale generale.
Comunque sia l’introduzione di un siffatto microsistema processuale per
il recupero degli aiuti di Stato lascia profondamente perplessi ed induce a
conclusioni critiche.
Sul piano generale si è dimostrato che in base al principio di autonomia
procedimentale e processuale degli Stati nell’attuazione del diritto europeo
tutti gli interventi ripristinatori della legalità europea, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali o extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati,
contribuenti, ecc., debbono essere attuati nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti. E ciò indifferentemente, sia per le azioni di rimborso dei tributi, o degli altri prelievi
pubblici, riscossi in violazione del diritto europeo, sia per il recupero degli
aiuti di Stato indebitamente fruiti. Gli unici due limiti posti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia a specifica garanzia dell’ordinamento europeo
riguardano:
– le condizioni, le modalità ed i termini dell’azione, che non debbono essere disciplinati in modo differenziato, con regime meno favorevole di quello relativo alle normali equivalenti azioni di diritto interno;
– la effettiva possibilità di esperire l’azione, nel senso che la disciplina narispettato il termine dimezzato previsto da una norma che tende ad accelerare la procedura di recupero degli aiuti, si finirebbe per applicare in maniera “suicida” la stessa norma acceleratoria, che finirebbe per legittimare la perdita della possibilità di recuperare gli aiuti,
in contrasto con la normativa europea»; testualmente conf. le sentenze n. 11126/2010 e
n. 1127/2010.
68
In tal senso CTR Abruzzo, L’Aquila, sez. II, 14 luglio 2011 (inedita).
69
Cass., sez. trib., n. 26285/2010, cit.; Cass., sez. trib., nn. 11125 e 11126/2011, cit.
622
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zionale (quand’anche non differenziata) non deve essere così restrittiva da
rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti.
Risulta pertanto evidente che un microsistema processuale come quello
di cui all’art. 47 bis D.Lgs. n. 546/1992 si pone in contrasto per un verso con il
principio di equivalenza e per l’altro con i principi della nostra Costituzione.
Si ritiene infatti che la creazione di regimi di tutela differenziata tra le fattispecie di rilievo europeo e quelle di rilievo nazionale, sia censurabile sul
piano del diritto europeo, proprio in ragione del principio di equivalenza,
ogniqualvolta la fattispecie europea venga trattata in modo meno favorevole, ma al tempo stesso sia censurabile sul piano dei nostri principi costituzionali (artt. 3, 24 e 113) ogniqualvolta sia la fattispecie nazionale ad essere
trattata in modo deteriore.
10. Conclusioni: gli eccessi della vis disapplicativa rispetto alle norme procedurali
L’orientamento della Corte di Cassazione volto ad assicurare ad ogni costo il primato del diritto europeo mediante la disapplicazione delle norme e
degli atti nazionali, ancorché si tratti di norme e di atti di natura procedurale, è diffuso e sembra inarrestabile 70, così come la tendenza ad attenuare in
via di fatto il sistema delle garanzie 71.
70
Cass., sez. trib., n. 26285/2010, cit., proprio in tema di recupero degli aiuti di Stato
ha affermato il seguente principio di diritto: «il potere-dovere del giudice nazionale di conformarsi al diritto comunitario comporta la necessaria disapplicazione delle regole processuali di diritto interno che, precludendo in sede di legittimità l’esame di questioni non specificamente dedotte dal ricorrente, impediscono la piena applicazione delle norme comunitarie»; in senso analogo Cass., sez. trib., 10 novembre 2006, n. 24065, e Cass., sez. un.,
18 dicembre 2006, n. 26948.
Tuttavia, talvolta, anche laddove la Corte di Cassazione opta per la disapplicazione di
norme processuali nazionali, sotto altro e collaterale profilo si spinge a superare in via interpretativa l’efficacia preclusiva delle norme in questione, ricercando, nell’incertezza, un doppio supporto motivazionale; così ad es. Cass., sez. trib., n. 26285/2010, in tema di termini
dimidiati ex art. 47 bis, D.Lgs. n. 546/1992, che disapplica la norma, ma al tempo stesso
ritiene che la dimidiazione operi soltanto in caso di tutela cautelare concessa dalla Commissione Tributaria Provinciale.
71
È questo il caso del pretorio ridimensionamento dell’obbligo di motivazione e degli
oneri probatori gravanti sull’Agenzia delle Entrate, v. da es. Cass., sez. trib., 19 novembre
2010, n. 23414, in Giur trib., 2011, con nota critica di TUNDO, Il recupero degli aiuti di Stato
alle ex municipalizzate e la necessaria motivazione degli atti impositivi; per ulteriori argomen-
Lorenzo Del Federico
623
Si tratta di orientamento che trova avallo nell’indirizzo dualista della
Corte costituzionale, nonché in alcune importanti pronunce della Corte di
Giustizia, secondo cui il diritto europeo osta all’applicazione di una norma
processuale nazionale che vieti al giudice nazionale di valutare d’ufficio la
legittimità di un provvedimento amministrativo, ovvero la compatibilità di
una norma nazionale, con una norma europea, nel caso in cui quest’ultima
non sia stata invocata entro un breve termine di decadenza 72.
Al riguardo è stato criticamente evidenziato che tali notevoli aperture
erano in realtà spiegabili solo in ragione della specificità del caso, e che comunque «con una più recente sentenza la Corte di Giustizia ha precisato e
circoscritto il proprio orientamento, imponendo la disapplicabilità anche
d’ufficio dell’atto amministrativo comunitariamente illegittimo, solo se analogo potere sussiste con riferimento alla violazione di norme nazionali» 73;
in altri termini, la Corte di Giustizia si sarebbe limitata a riaffermare il principio dell’equivalenza.
Tuttavia il rilievo non è affatto risolutivo, giacché la giurisprudenza europea continua ad oscillare e sembra lontana dal trovare un assetto condiviso con le magistrature superiori degli Stati membri 74; inoltre, sotto diversi
tazioni volte ad attenuare termini, regole e garanzie, in tema di recupero degli aiuti di Stato v. altresì Cass., sez. trib., n. 26285/2010, cit., e soprattutto Cass., sez. trib., nn. 11125, 11126 ed
11127/2011, cit., nonché Cass., sez. trib., n. 23418/2010, Cass., sez. trib., n. 26286/2010 e
Cass., sez. trib., 20 maggio 2011, n. 11228, che giungono a disapplicare le norme sulla prescrizione (la terza disapplica anche l’art. 2909 per evitare gli effetti preclusivi di un giudicato interno).
72
Si tratta delle sentenze Seduta Plenaria, Peterbroeck, 14 dicembre 1995, causa C-312/
93 (in Racc., 1995, I, p. 4599, e Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, p. 688), e Seduta Plenaria, van
Schijndel, 14 dicembre 1995, cause C-430 e C-431/93, in Giur. it., 1996, I, 1, p. 1289, con
nota adesiva di CARANTA, Impulso di parte e iniziativa del giudice nell’applicazione del diritto
comunitario. In chiave critica v. tuttavia BARBIERI, Poteri del giudice amministrativo e diritto
comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, p. 692 ss.; ID., Poteri dei giudici nazionali e situazioni soggettive di diritto comunitario, ibidem, 1997, p. 144 ss.; per un tentativo di equilibrare i diversi valori v. CONTALDI, Atti amministrativi, cit., p. 750 ss.
73
Così GRECO, L’incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi nazionali, in
Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p. 946, in relazione a Corte di Giustizia, Seduta Plenaria, Kraaijeveld, 24 ottobre 1996, causa C-72/95, in Racc., p. 5403, ed in Riv. it.
dir. pubbl. com., 1997, p. 130; su tale sentenza v. amplius BARBIERI, Poteri dei giudici nazionali, cit.
74
Si pensi alla prudente sentenza Santex resa dalla Corte di Giustizia nel 2003, in tema
di vizi e regime dell’atto amministrativo in contrasto con il diritto europeo (27 febbraio
2003, causa C-327/00, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, p. 838), poi seguita da alcune radicali sentenze della stessa Corte in tema di riesame di decisione amministrativa definitiva
624
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profili, emerge la più assoluta insoddisfazione sotto il profilo del principio di
equivalenza.
Comunque sia non può che prendersi atto del fatto che la giurisprudenza
della nostra Corte di Cassazione si è fermamente orientata nel ritenere che
il giudice nazionale, in ossequio ai principi del primato e dell’effettività del
diritto europeo, deve verificare la compatibilità del diritto interno con le
norme comunitarie, dando a queste ultime applicazione anche d’ufficio; con
la conseguenza che nel giudizio di legittimità, il predetto controllo di compatibilità non è condizionato dalla deduzione di uno specifico motivo e le
relative questioni possono essere conosciute anche d’ufficio, purché l’applicazione del diritto interno sia ancora controversa, costituendo oggetto del
dibattito introdotto con i motivi di ricorso 75.
Ciononostante suscita profonde perplessità la tendenza della giurisprudenza, europea e nazionale, ad assicurare sempre e comunque il radicale primato del diritto europeo, giungendo a disapplicare non solo le singole norme nazionali specificamente in contrasto con il diritto europeo (norme confliggenti), e se del caso i provvedimenti amministrativi emessi in attuazione
di tali norme, ma anche tutte le norme procedurali la cui normale operatività risulti in concreto tale da precludere la riaffermazione del diritto europeo
violato (norme strumentali) 76.
ma in contrasto con una sopravvenuta sentenza europea (7 gennaio 2004, causa C-201/02
Wells, in Racc., I, p. 725; 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kuhne & Heitz, ibidem, p. 837;
19 settembre 2006, cause riun. C-392/04 e C-422/04, Arcor, ibidem, p. 8559); per la dottrina v.: CONTALDI, Atti amministrativi, cit.; M.A. SANDULLI, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, p. 37 e MONTEDORO, Il giudizio amministrativo
fra annullamento e disapplicazione (ovvero dell’“insostenibile leggerezza” del processo impugnatorio), ibidem, 2008, p. 519. Ovviamente l’orientamento sulla doverosità del riesame di una
decisione amministrativa definitiva, ma in contrasto con il diritto europeo, è stato criticato
dalla dottrina più attenta all’uso equilibrato e rigoroso delle tradizionali categorie giuridiche in
tema di provvedimento amministrativo (GRECO, L’incidenza del diritto comunitario sugli atti
amministrativi, cit., p. 984).
75
In tal senso ex multis: Cass., sez. trib., 9 giugno 2000, n. 7909, in Giur. imp., 2000, p.
1348; Cass., sez. trib., n. 17564/2002, cit.; Cass., sez. trib., 28 marzo 2003, n. 4702; Cass.,
sez. trib., 28 marzo 2003, n. 4703, in Il Fisco, 2003, p. 2987; per la dottrina v. favorevolmente GALLO, L’applicazione d’ufficio del diritto comunitario da parte del giudice nazionale
nel processo tributario e nel giudizio di Cassazione, in Rass. trib., 2003, p. 311 ss., il quale invoca
al riguardo il principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., chiarendo che l’applicabilità
d’ufficio opera sia nel processo tributario di merito, sia nel giudizio di legittimità dinanzi
alla Corte di Cassazione (op. cit., pp. 315-316).
76
L’esempio più clamoroso, proprio in materia di aiuti di Stato, riguarda la disapplicazione delle norme nazionali sul giudicato: Grande Sezione della Corte di Giustizia, 18 lu-
Lorenzo Del Federico
625
Si consideri infatti che il principio del primato del diritto europeo limita
la capacità degli Stati membri di esercitare le loro competenze in un settore
determinato, nella misura in cui ciò crea (o può creare) un conflitto con le
disposizioni adottate dall’Unione Europea nell’esercizio delle proprie competenze nello stesso settore 77. Ma tale principio non può essere esteso oltre
i limiti di ripartizione delle competenze che ne giustificano la significativa
incisività 78.
Del resto dopo la vivace e sofferta stagione del rimborso della c.d. “tassa
sulle società”, sopitisi gli entusiasmi suscitati dalla Corte di Giustizia con la
glio 2007, causa C-119/05, Lucchini, in Rass. trib., 2007, p. 1581, con nota di BIAVATI, La
sentenza Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario; v. altresì: CONSOLO, La
sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2007, p. 225; PETRILLO, Il “caso Lucchini”: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Dir. prat. trib., 2008, p. 425. Ma
merita di essere ricordata anche la successiva, per certi versi analoga, Corte di Giustizia, 3
settembre 2009, causa C-2/08, Olimpiclub, in Rass. trib., 2009, p. 1839, con nota di MICELI,
Riflessioni sull’efficacia del giudicato tributario alla luce della recente sentenza Olimpiclub; v.
altresì F. TESAURO, The EU Prohibition of Abuse of Law and the Limits of the Principle of “External” Res Judicata in Conflict with European Law, in AA.VV., Legal Remedies in European
Tax Law, cit., p. 507 ss.
77
V. ad es. Corte di Giustizia 19 marzo 1993, parere 2/91, Convenzione n. 170 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in materia di sicurezza durante l’impiego delle sostanze chimiche sul lavoro, in Racc., 1993, I, p. 1061. Del resto anche la dottrina più sensibile alle
esigenze dell’Unione Europea fonda la disapplicazione sul primato del diritto europeo nei
settori di propria competenza (v. per tutti G. TESAURO, op. cit., p. 220).
78
In tale contesto merita particolare considerazione il nuovo corso della Corte costituzionale tedesca: con la sentenza 30 giugno 2009 sul Trattato di Lisbona (www.bundesverfassungsgerichts.de) la Corte tedesca ha affermato che gli Stati conservano una sfera di prerogative sovrane in corrispondenza di un gruppo di «materie specialmente sensibili» (tra
le quali figura anche quella fiscale), nel cui ambito il diritto europeo non può ingerirsi senza una specifica approvazione da parte degli Stati (v. per tutti POIARES MADURO-GRASSO,
Quale Europa dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona?, in
Dir. Un. Eur., 2009, p. 503 ss.). Si assiste quindi ad una inversione di tendenza da parte di
una delle corti costituzionali più sensibili all’integrazione europea. Secondo alcuni studiosi
tale orientamento «rischia di porre un freno a quel fenomeno, per molti aspetti positivo,
specie per quel che riguarda la tutela dei diritti del contribuente, di “armonizzazione giudiziaria” che l’attenta ed equilibrata giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ... consentito
di realizzare in ambito tributario» (DORIGO, La Corte di Giustizia tra primato del diritto
comunitario in ambito fiscale e tentazioni regressive da parte delle Corti costituzionali nazionali, in Dir. e prat. trib. int., 2010, pp. 491-492); viceversa si ritiene che si tratti di una risposta
agli eccessi creativi del “primato”, e, stando al nostro tema, all’insoddisfacente contemperamento tra autonomia procedimentale degli Stati, equivalenza ed effettività, nel tentativo
di ricondurre l’integrazione a sistema, in coerenza con gli stessi principi cardine del diritto
europeo e con i valori costituzionali.
626
DOTTRINA
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sentenza Ponente Carni del 1993, la prospettiva di una tutela rafforzata del
contribuente europeo si è involuta 79, il tema della restituzione dei tributi incompatibili con l’ordinamento europeo è stato metabolizzato e ridimensionato 80; nel dibattito su diritto europeo e fiscalità la sfera delle garanzie del
contribuente risulta oggi recessiva.
Oltre che ai rigori in tema di recupero degli aiuti di Stato, si può pensare
all’incompatibilità europea dei condoni in materia di IVA, alla matrice europea del divieto di abuso nella pianificazione fiscale, ecc., nonché, conseguentemente, alla disapplicazione del giudicato 81, alla disapplicazione delle
norme e degli atti in tema di aiuti di Stato fiscali illegittimi 82, alla disapplicazione delle norme e degli atti sui condoni IVA 83 ecc.
Ma questa vis disapplicativa è priva di base normativa, risulta distonica rispetto all’equilibrio tra salvaguardia dei valori costituzionali e salvaguardia
dei valori europei, e sopratutto si pone in contrasto con il principio di autonomia procedurale degli Stati membri nell’attuazione del diritto europeo e
nella tutela delle situazioni soggettive, affermato dagli artt. 5, 7 e 10 Trattato
CE (ora artt. 5, 13 e 4 TUE riformato).
È vero che per assicurare l’effettiva attuazione del diritto europeo la Corte di Giustizia ha elaborato quali limiti dell’autonomia dei singoli Stati il
79
DEL FEDERICO, Tutela del contribuente, cit., p. 151 ss., 212 ss. V. comunque per ulteriori riferimenti e variegate posizioni: MARCHESSOU, La tutela del contribuente nel diritto
europeo: l’esperienza francese, in AA.VV., La tutela europea ed internazionale del contribuente
nell’accertamento tributario, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2009, p. 7 ss., 17 ss.; MALHERBEVERSTRAETEN, La tutela del contribuente nel diritto europeo: l’esperienza belga, ibidem, p. 29 ss.
80
MICELI, Indebito comunitario, cit., p. 191 ss.; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente,
cit., p. 175 ss.
81
Corte di Giustizia, sentenze Lucchini del 18 luglio 2007, cit., ed Olimpiclub del 3
settembre 2009, cit.
82
Cass., sez. trib., n. 17564/2002, cit.; Cass., sez. trib., n. 24065/2006, cit.; Cass., sez.
un., n. 26948/2006, cit.; in particolare Cass., sez. trib., n. 23418/2010, Cass., sez. trib., n.
26286/2010 e Cass., sez. trib., n. 11228/2011, hanno disapplicato le norme sulla prescrizione (la terza ha disapplicato anche l’art. 2909 per evitare gli effetti preclusivi di un giudicato interno).
83
Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068 e n. 20069, Va evidenziato che tali sentenze hanno fatto riferimento alle norme sul condono IVA di cui alla L. 31 dicembre 1991,
n. 413, e non a quelle di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, sulle quali si è pronunciata la
giurisdizione europea (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 17 luglio 2008, Commissione c
Italia, causa C-132/06, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 334, con nota di FALSITTA, I condoni fiscali IVA come provvedimenti di natura agevolativa violatori di neutralità del tributo); viceversa sulla disapplicazione del condono IVA ex art. 9 bis, L. n. 289/2002 v. Cass., sez. trib.,
20 novembre 2011, n. 19546, e Cass., sez. trib., 23 maggio 2012, n. 8110.
Lorenzo Del Federico
627
principio di equivalenza (la tutela delle situazioni soggettive comunitarie
non può essere disciplinata in modo sfavorevole rispetto alle equivalenti tutele di diritto interno), ed il principio di effettività (la disciplina interna non
può rendere praticamente impossibile la tutela). Ma per l’appunto tali principi possono giustificare la disapplicazione delle norme procedurali (norme
strumentali) soltanto laddove esse rendano praticamente impossibile la tutela o siano proprio finalizzate a precludere, differenziare e penalizzare le situazioni soggettive di rilievo europeo.
Pertanto in base al principio dell’autonomia procedurale degli Stati
membri tutti gli interventi ripristinatori della legalità europea, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali o extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati, contribuenti, ecc., debbono essere attuati nei modi e termini previsti
da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti.
Laddove la tutela delle situazioni soggettive interne lese da leggi e provvedimenti attuativi in contrato con le norme costituzionali si risolva sul piano della illegittimità, collocare la tutela delle situazioni soggettive di rilievo
europeo sul piano della disapplicazione configura una disparità di trattamento intollerabile rispetto all’equilibrio tra valori costituzionali e valori europei, e ciò soprattutto nel caso in cui la disapplicazione sia spinta sino ad
inibire le ordinarie e comuni norme procedurali.
Pertanto la diffusa vis disapplicativa in ossequio al “primato”, devia dalle
logiche della graduale e capillare integrazione funzionale europea, è priva di
base normativa, risulta distonica rispetto all’equilibrio tra salvaguardia dei
valori europei e salvaguardia dei valori costituzionali, ma sopratutto si pone
in contrasto con il principio di autonomia procedurale degli Stati membri
nell’attuazione del diritto europeo e nella tutela delle situazioni soggettive.
Ed è chiaro a tutti che gli eccessi del “primato” e la mortificazione delle specificità nazionali contribuiscono ad alimentare il crescente riflusso antieuropeo.
628
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
Marco di Siena
NOTE SPARSE A MARGINE DEL RINNOVATO REGIME
DI RIPORTO DELLE PERDITE FISCALI
DA PARTE DEI SOGGETTI IRES
SOME THOUGHTS CONCERNING THE NEW REGIME
OF LOSSES CARRY FORWARD BY IRES TAXPAYERS
Abstract
Il D.L. n. 98/2011 innova sensibilmente il regime di riporto delle perdite fiscali
da parte dei soli soggetti IRES, configurando un trattamento asimmetrico con i
soggetti IRPEF. In un’ottica di compromesso tra l’esigenza di rimuovere svantaggi competitivi rispetto agli altri ordinamenti europei e le intrascurabili ragioni
di cassa, da un lato, viene eliso il termine quinquennale al carry forward delle
perdite fiscali, e dall’altro, si introduce un limite quantitativo di compensazione
pari all’80% del reddito conseguito nei periodi d’imposta successivi. Gli obiettivi
di semplificazione e di contrasto alla crisi economica che ispirano la novella, tuttavia, appaiono poco incisivi laddove non sono stati rimossi taluni profili oramai
asistematici dell’istituto (è il caso della disciplina di riporto in presenza di utili
esenti o il rigido riferimento alla data di costituzione della società identificato
quale termine a quo per l’individuazione delle perdite formatesi nei primi tre periodi d’imposta).
Parole chiave: perdite fiscali, riporto, nuovo regime, svantaggi competitivi, semplificazione
The Legislative Decree n. 98/2011 considerably reforms the regulation of company
tax losses, implementing an asymmetric system with the other taxpayer. On the basis
of a compromise perspective between the need to remove competitive disadvantages in
respect to the other European tax systems and the considerable cash reasons, on the
one hand the five-year limit to carry forward of the tax losses is repealed, on the other
hand a limit to set off equal to 80% of tax income in subsequent tax periods is introduced. The simplification and anti – crisis objective inspiring the aforementioned
630
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
amendment of Law, however, is not effective where it does not remove certain aspects
which are not yet in line with the current framework of the specific tax regulation (e.g.
the loose of carry forward in presence of non-taxable profits or the constraining reference to the date of incorporation as term to select the tax losses arising in the first
three-year tax period).
Keywords: tax losses, carry forward, new regulation, competitive disadvantages, simplification
SOMMARIO:
1. Una premessa ed un giudizio di sintesi. – 2. I profili soggettivi della rinnovata disciplina di
riporto delle perdite fiscali. – 3. La dinamica oggettiva dell’istituto del riporto delle perdite fiscali come modificato dal D.L. n. 98/2011. La struttura essenziale del nuovo regime e la decorrenza temporale dello stesso. – 4. Cenni sul nuovo regime del riporto delle perdite fiscali realizzate nei primi tre periodi d’imposta. – 5. Un profilo di dettaglio: la disciplina del riporto delle
perdite fiscali in presenza di utili esenti. Un caso clinico di perdurante irragionevolezza normativa. – 6. Considerazioni conclusive.
1. Una premessa ed un giudizio di sintesi
Il recente intervento normativo in tema di riporto delle perdite fiscali 1 da
parte dei soggetti IRES 2 si presenta, a bene considerare, come una scelta legislativa di compromesso tra esigenze antitetiche. Da un lato, la necessità di
rimozione del limite quinquennale (invero ormai poco giustificabile in un
contesto globalizzato e contraddistinto da una sempre più accesa tax compe1
Per un primo commento alla nuova disciplina si rinvia a FERRANTI, La disciplina del
riporto delle perdite si adegua alla crisi economica, in Corr. trib., n. 31, 2011, p. 2477 ss.; sulla
medesima tematica si veda altresì la Circolare 14 settembre 2011, n. 24/IR del Consiglio
Nazionale dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili (documento accessibile sul
sito www.irdcec.it); FERRANTI, La nuova disciplina del riporto delle perdite secondo l’Istituto di
Ricerca DCEC, in Corr. trib., n. 38, 2011, p. 3097 ss.
2
Faccio riferimento alle modifiche introdotte dall’art. 23, comma 9, del D.L. 6 luglio
2011, n. 98 conv., con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111 (nel prosieguo di trattazione – per semplicità – “D.L. n. 98/2011”). Su tale intervento normativo si veda l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate formalizzata con la Circolare 6 dicembre 2011, n.
53/E. Per un’approfondita disamina dell’intervento novellistico e dell’interpretazione fornita in proposito dall’Agenzia delle Entrate si veda anche la Circolare Assonime, 22 dicembre 2011, n. 33 avente ad oggetto “La nuova disciplina del riporto delle perdite per i soggetti IRES”.
Marco di Siena
631
tition 3 alla possibilità di riporto 4 e, dall’altro, quella di evitare a livello macroeconomico delle significative perdite di gettito. Queste contrapposte esigenze hanno quindi trovato composizione in un rinnovato assetto che: i) in
prima istanza, riconosce il carattere strutturale del riporto illimitato pro futuro delle perdite fiscali (carry loss forward secondo la terminologia anglosassone) consentendone la compensabilità sine die 5 da parte dei cosiddetti
soggetti IRES (sulla scarsa apprezzabilità di questo discrimen soggettivo, peraltro, rinvio a quanto infra esposto); ii) in secondo luogo, allinea l’ordinamento nazionale a quelli più avanzati eliminando (o, comunque, attenuando) un effetto di spiazzamento competitivo che da tempo caratterizzava la fiscalità nazionale su questo specifico profilo 6; iii) da ultimo, tuttavia, non
3
Per riflessioni in tal senso v. TANZI, Globalizzazione e sistemi fiscali, Arezzo, 2003; CEvoce) Competitività dei sistemi fiscali, in Enc. giur. Treccani, Appendice XXI Secolo, Roma, 2010. Per considerazioni circa l’istituto del riporto delle perdite fiscali a livello
di singoli Stati UE v. ZIZZO, Considerazioni sistematiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. trib., n. 4, 2008, p. 929.
4
Sulla scarsa ragionevolezza del limite temporale suindicato soprattutto in periodi di
prolungata recessione economica v. DELLA VALLE, Perdite fiscali e recessione, in Corr. trib.,
n. 13, 2009, p. 987 ss. In tale contributo l’autore, peraltro, cita anche le differenti interpretazioni elaborate nel corso del tempo nella prospettiva di attribuire giustificazione concettuale al limite quinquennale mostrando (se non erro) di condividere l’opinione di chi (in
tal senso v. ZIZZO, Profili di incostituzionalità del regime dell’utilizzo delle perdite nelle imposte sul reddito, in Corr. trib., n. 24, 2007, p. 1990 ss.) riteneva che tale dinamica cronologica
configurasse una arbitraria modalità di incremento del gettito erariale in contrasto con lo
stesso principio di capacità contributiva. Per quanto mi concerne, infine, ritengo che la limitazione temporale al riporto delle perdite fiscali – al di là di ogni riflessione pure sviluppata al riguardo dalla dottrina – rispondesse (e risponda per i contribuenti differenti da
quelli cui si applica il modificato regime – v. infra –) a mere ragioni di cautela erariale e di
semplificazione e non potesse (possa) essere giustificata se non in un’ottica di garanzia
delle entrate fiscali e non certamente in una prospettiva sistematica.
5
Laddove, per converso, nel pregresso regime applicabile ai soggetti IRES si poteva essere indotti a ritenere (a mio giudizio in modo sostanzialmente ingiustificato) che la facoltà di riporto illimitato sancita per le (sole) perdite realizzate nel corso dei primi tre periodi
d’imposta costituisse una forma di agevolazione (una considerazione giustamente stigmatizzata da FRANSONI, Le perdite fiscali ed il perduto ingegno del legislatore, in Dialoghi trib.,
2007, p. 541 e segnatamente sub pp. 543-544).
6
Non sfugge, infatti, come la fictio (di natura organizzativa vale a dire tesa a consentire
il regolare funzionamento della vita aziendale) della suddivisione in esercizi ed il principio
(fiscale) della autonomia dei periodi di imposta – avuto riguardo alla (già) prevista impossibilità di riporto ultraquinquennale della perdita a fini fiscali – configuravano una vera e
propria distorsione; ciò in quanto il combinato dei due criteri finiva per impedire il recupero
fiscale di un eventuale deficit reddituale allorquando invece – come noto – a livello aziendale il reddito (in astratto) si determina come la differenza algebrica fra il capitale di funRIANI, (sub
632
DOTTRINA
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trascura di tutelare l’interesse erariale (inducendo una forma di stabilizzazione del gettito) per effetto dell’introduzione di un limite quantitativo alla
possibile compensazione. Si tratta di una struttura che costituisce quasi un
unicum nel panorama internazionale delle forme d’imposizione personale 7 e
che, senza dubbio, presenta luci ed ombre come tutte le scelte di compromesso. Volendo anticipare un giudizio di sintesi sul rinnovato regime, tuttavia, mi sembra che nell’attuale contesto fiscale nazionale in cui la razionalità
del sistema risulta sovente recessiva rispetto alle più immediate esigenze di
finanziamento delle spese pubbliche, la modifica normativa sia – nel suo
complesso – abbastanza bilanciata ed anche comprensibile alla luce dell’ormai prolungato periodo di recessione economica 8 (una tale finalità di politica economica, del resto, risulta in modo esplicito dalla stessa relazione governativa al D.L. n. 98/2011). Una tale valutazione complessiva (che, peraltro, non deve indurre a passare sotto silenzio quelle che restano talune significative aree grigie della disciplina che l’intervento novellistico non ha modizionamento alla conclusione dell’attività e l’analogo dato all’inizio della medesima. In tal
senso, per tutti, v. CAPALDO, Reddito, capitale e bilancio di esercizio: una introduzione, Milano, 1998, p. 42 laddove l’autore afferma che «(...) il reddito di periodo è piuttosto una convenzione, perché esso riguarda l’esercizio (...) il quale, in un’impresa in funzionamento, si presenta come un fenomeno, come un’entità priva di ogni autonomia logico-economica; come un
fenomeno che può essere configurato solo spezzando una realtà essenzialmente unitaria, qual è
la gestione d’impresa nel suo indefinito fluire. E per questa ragione, il risultato ottenuto a seguito
di una tale frattura, a seguito di una vera e propria forzatura della realtà e della logica economica, non può che essere privo di oggettività e, quindi, puramente convenzionale».
7
Essendo palese come l’istituto del riporto delle perdite sia caratteristico delle forme
d’imposizione personale laddove, invece, i tributi a carattere reale (quale è, nell’attuale sistematica impositiva, l’IRAP ovvero era, in passato, l’ormai abrogata ILOR) escludono in
radice tale possibilità non avendo a riferimento la persona del contribuente (e, quindi, la
sua dinamica reddituale diacronica). Sulle caratteristiche (e l’evoluzione) delle forme di
tassazione personale (in contrapposizione dialettica a quelle di natura reale) nell’ordinamento italiano v. FEDELE, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, in
Riv. dir. fin., 2002, I, p. 450 ss.
8
Laddove, per converso, appare poco coerente con l’attuale contesto di prolungata recessione economica il regime dei contribuenti che si trovino in cosiddetta perdita sistematica,
ossia realizzino perdite fiscali in più di un periodo d’imposta. Dei contribuenti per i quali è
stato dapprima introdotto una sorta di monitoraggio fiscale in ragione di una loro presunta
maggiore rischiosità fiscale (v. art. 24 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 conv. dalla L. 30 luglio
2010, n. 122) ed a cui da ultimo – ad opera del D.L. n. 138/2011 (vale a dire da un provvedimento pressoché coevo al D.L. n. 98/2011 che ha inteso rendere più flessibile la dinamica
IRES delle perdite fiscali al fine di apportare un correttivo normativo alla crisi economica) – è
stata disposta l’applicazione del regime delle società non operative di cui all’art. 30 della L. n.
724/1994 (in tal senso v. art. 2, comma 36 decies del citato D.L. n. 138/2011).
Marco di Siena
633
ficato) risulta in qualche maniera avvalorata dall’ulteriore riflessione tale per
cui l’eliminazione del limite temporale al riporto in avanti esclude in nuce le
possibilità di cosiddetto refreshing delle perdite fiscali 9. Questo fenomeno
(di natura elusiva), infatti, per sua natura era inevitabilmente correlato all’esigenza da parte del contribuente di generare materia imponibile (in modo
artificioso) così da compensare eventuali perdite fiscali suscettibili di scadenza ma, al tempo stesso, da generare l’emersione di maggiori valori fiscalmente riconosciuti (e, come tali, suscettibili di successiva spendita con
conseguente abbattimento dei futuri imponibili). La riforma introdotta dal
D.L. n. 98/2011, quindi, determina il venire meno di ogni esigenza di refreshing proprio perché elimina la causa che ingenerava detta manovra elusiva,
vale a dire l’eventualità che sopravvenga la impossibilità di impiegare in
compensazione le perdite per il prefigurarsi della scadenza naturale delle
stesse. Al di là di un giudizio di valore di ordine complessivo – tuttavia – ciò
che mi preme porre in rilievo, seppure in sintesi, è il complesso delle principali caratteristiche del regime come, da ultimo, modificato; e ciò nei termini
che seguono.
2. I profili soggettivi della rinnovata disciplina di riporto delle perdite fiscali
Da un punto di vista soggettivo evidenzio in via preliminare come le modifiche introdotte dal D.L. n. 98/2011 accentuino la cesura concettuale fra la
sfera dei soggetti (esercenti attività d’impresa) rientranti nel campo di applicazione dell’IRES e quella dei contribuenti (ugualmente esercenti attività
d’impresa) estranei all’ambito applicativo di tale tributo (vale a dire gli imprenditori individuali e le società di persone di cui all’art. 5 del TUIR). All’intervento operato con riguardo all’art. 84 del TUIR, infatti, non ha fatto
da pendant alcuna modifica per i soggetti imprenditori sprovvisti di persona9
Sul fenomeno elusivo del cosiddetto refreshing delle perdite fiscali v. GARBARINO, Riporto delle perdite ed elusione, in Riv. dir. trib., 2001, I, p. 85; CROVATO, Riporto delle perdite
ed operazioni straordinarie, in AA.VV., La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, a
cura di R. Lupi e D. Stevanato, Milano, 2002, p. 607 ss.; più di recente, sulla medesima tematica, segnalo altresì ANDRIOLA, Limiti al commercio delle perdite nel passaggio dall’Irpeg
all’Ires: stabilità e mutamento delle strategie di pianificazione fiscale, in Rass. trib., 2005, p.
792 ss. In generale sull’utilizzo patologico (non di matrice esclusivamente italiana) delle
perdite fiscali da parte di soggetti titolari di reddito d’impresa rinvio al documento OCSE
rubricato Corporate loss utilisation through aggressive tax planning dell’agosto del 2011 il cui
summary è accessibile sul sito www.oecd.org.
634
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
lità giuridica o comunque estranei all’elencazione di cui all’art. 73 del TUIR.
Il che, oggettivamente, determina una anomala situazione nell’ordinamento
nazionale atteso che, mentre il limite temporale alla riportabilità delle perdite fiscali (pur con le sue luci ed ombre di cui dirò) è venuto meno per i (soli)
soggetti IRES, sussiste tuttora – invece – la tradizionale limitazione cronologica per gli imprenditori meno giuridicamente strutturati (ossia quelli che
gestiscono l’attività d’impresa commerciale in forme sprovviste di personalità giuridica). La razionalità di questa discrasia è invero difficilmente apprezzabile 10 e, tuttavia – sebbene inopportuna – non mi sembra presentare quegli estremi di evidente irragionevolezza che soli legittimerebbero una censura di costituzionalità. Detto ciò in termini generali, è bene comunque declinare l’evocato ambito soggettivo di applicazione del novellato art. 84 del
TUIR evidenziando come lo stesso sia destinato a trovare applicazione: i) in
prima istanza, nei confronti di tutte le società di capitali di cui alla lett. a)
dell’art. 73 del TUIR; ii) in secondo luogo per i cosiddetti enti commerciali
citati alla successiva lett. b); iii) da ultimo, a condizione che producano reddito d’impresa sul territorio della Repubblica italiana a mezzo di una stabile
organizzazione, nei confronti di società non residenti ex lett. d) della suddetta disposizione 11. Restano perciò esclusi dal nuovo regime oltre che, come detto, le società personali e gli altri cosiddetti soggetti IRPEF anche gli
enti non commerciali disciplinati dall’art. 73, comma 1, lett. c) del TUIR
laddove esercitino un’attività d’impresa 12.
Ciò che viene immediatamente in rilievo, pertanto, è come le modifiche
recate dal D.L. n. 98/2011 finiscano per rendere ancora più evidente
l’eterogeneità della dinamica delle perdite fiscali tipica dei soggetti IRES rispetto all’analogo regime caratterizzante i contribuenti estranei all’elencazione di cui all’art. 73 del TUIR. Considerata quella che (in astratto) do10
Sotto questo profilo mi sento, peraltro, di condividere l’interpretazione di FERRANTI,
La nuova disciplina, cit., p. 3097 il quale intravede la ratio sottesa alla scelta legislativa nella
«(...) considerazione che le perdite di entità più rilevante sono, in via di principio, realizzate
dalle società di capitali ed enti commerciali che hanno, quindi, maggiore interesse all’eliminazione del limite temporale per il loro riporto in avanti».
11
Al riguardo vale rammentare come – in antitesi a quanto avviene per le società fiscalmente residenti in Italia – le società non residenti risultano soggetti IRES a prescindere
dalla circostanza che siano dotate di personalità giuridica o meno.
12
D’altronde, a tale proposito, vale rammentare come nell’inattuato schema delineato
dalla riforma IRES (v. L. 7 aprile 2003, n. 80) gli enti non commerciali dovevano transitare
nella sfera dei soggetti d’imposta IRPEF risultando così espunti dal novero dei contribuenti ex art. 73 del TUIR.
Marco di Siena
635
vrebbe essere una sorta di invarianza della forma giuridica rispetto all’esercizio dell’impresa (e, quindi, alla configurazione del relativo reddito su cui – in
coerenza con il principio costituzionale di capacità contributiva – è modulata l’imposizione) l’asimmetrica disciplina dell’istituto del riporto delle perdite fiscali per i soggetti IRPEF 13 e per i contribuenti IRES rischia, infatti, di
apparire – come anticipato – poco comprensibile. V’è da dire – peraltro – che
è ormai da tempo (per motivazioni spesso di natura metagiuridica) che gli
specifici regimi applicabili all’una ed all’altra categoria di soggetti passivi si
caratterizzano per dinamiche evolutive eterogenee che ne hanno fatto – al
di là della sostanza comune (vale a dire la generazione di una perdita) – assetti difficilmente riconducibili ad unità. Le modifiche (sovente episodiche
ed instabili) che si sono susseguite a decorrere dal D.L. n. 223/2006, infatti,
hanno accentuato un carattere di separatezza artificioso fra il regime IRPEF
e quello IRES delle perdite fiscali che, seppure non condivisibile, rappresenta ormai un elemento normativamente acquisito 14. In un contesto dalla razionalità complessiva così poco netta, pertanto, non deve – a mio giudizio –
stupire un intervento palesemente asimmetrico come quello operato dal
D.L. n. 98/2011.
Anche in questa prospettiva estremamente pragmatica, tuttavia, l’elisione del limite cronologico al riporto in avanti delle perdite fiscali per i soli
contribuenti di cui all’art. 73 del TUIR non può (e non deve) passare inosservata. Il contenuto dell’intervento infatti – seppure non palesemente censurabile in termini di discrezionalità legislativa e giustificato (con tutta evidenza) da ragioni di cautela finanziaria (l’estensione alla platea dei soggetti
IRPEF della riportabilità senza limiti temporali avrebbe inevitabilmente reso gli effetti della modifica meno controllabili in termini di gettito e meno
prevedibili ex ante) – pone in evidenza le contraddizioni concettuali irrisolte
dell’approccio legislativo alla disciplina delle perdite fiscali. Se, infatti, si
conviene sulla circostanza che l’istituto del riporto non costituisce un’opzione legislativa rispondente ad una logica agevolativa, ma rappresenta un elemento strutturale immanente alla dinamica del reddito d’impresa, è indubbio allora che il limite cronologico all’impiego delle stesse va apprezzato
(solo) come uno strumento tecnico di cautela per l’Erario e come una mo13
V. artt. 8 e 56 del TUIR.
Senza peraltro considerare che, anche in ambito IRPEF, la disciplina è frammentaria
come dimostrato dalla perdurante compensabilità orizzontale delle perdite generate per le
sole imprese minori di cui all’art. 66 del TUIR (per le quali, tuttavia, è esclusa ogni forma
di riporto in avanti).
14
636
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
dalità di semplificazione e di certezza dei rapporti fra i soggetti dell’obbligazione tributaria (vale a dire un accorgimento di dettaglio che non nega la
coerenza del principio generale rappresentato dalla facoltà, per i contribuenti
titolari di reddito d’impresa, di compensare gli imponibili positivi con le
perdite). Tuttavia – se si condivide questa impostazione (il che, francamente, mi sembra incontestabile atteso che il limite cronologico al riporto delle
perdite – in ragione del carattere convenzionale del frazionamento della vita
dell’impresa in singoli esercizi sociali – non è giustificabile se non in una
prospettiva di specialità e sulla base di esigenze di semplificazione e di tutela
erariale) e se, quindi, si apprezza il riporto illimitato nel tempo come il regime fisiologico delle perdite, l’asimmetria soggettiva introdotta in subiecta materia dal D.L. n. 98/2011 non può che lasciare perplessi. A volere assumere
un atteggiamento tranchant, infatti, è facile affermare come – avuto riguardo
a quelle ragioni di certezza e di cautela individuate nel corso del tempo quale giustificazione del limite cronologico al riporto delle perdite – delle due è
necessariamente vera l’una: o tali ragioni sono sempre riscontrabili in concreto ovvero non lo sono mai.
Appare, invece, difficile individuare in tali esigenze la ratio normativa di
un istituto (il limite cronologico al fenomeno del riporto delle perdite) se il
medesimo assume una dinamica legislativa vagamente carsica. In altri termini, se è (in qualche modo) comprensibile la scelta normativa di limitare
cronologicamente il riporto delle perdite, è evidente che – ad eccezione di
situazioni marginali – una tale limitazione (se esistente) deve applicarsi a
tutta la platea dei contribuenti titolari di reddito d’impresa, risultando quanto meno singolare che ai fini dell’applicazione di un tale istituto si possa discernere solo in ragione della forma giuridica rivestita dai contribuenti interessati 15. Non è un caso, quindi, che a tale impostazione sostanzialmente
(ancorché non del tutto) omogenea rispondesse l’assetto normativo anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 98/2011. La terza via risultante
dalla novella, di contro, frantuma questa omogeneità (per quanto poco condivisibile la stessa potesse essere a causa della previsione di un limite temporale sconosciuto a grande parte degli ordinamenti esteri con cui quello ita15
E ciò anche a prescindere dalla considerazione elaborata da autorevole dottrina tale
per cui le perdite (al pari dei redditi) sarebbero geneticamente riferibili alla attività piuttosto che alla persona (e, quindi, alla forma giuridica) del contribuente. In tal senso depone
– in particolare – la complessiva riflessione di FEDELE il quale l’ha ribadita, da ultimo, anche con riguardo all’imposizione immobiliare come desumibile dal contributo L’imposizione immobiliare dalla metafora della fonte all’intenzionalità del risultato produttivo, in Riv. dir.
trib., n. 5, 2011, p. 534 ss.
Marco di Siena
637
liano si trova a competere in termini istituzionali) ed ingenera così evidenti
difficoltà ad individuare una giustificazione sistematica (pur in un’ottica di
deroga ad un regime fisiologico) a forme di limitazione temporale al riporto
delle perdite. Se, infatti, il riporto sine die rappresenta (concettualmente) la
regola e la novella si giustifica (anche) in un’ottica di apprezzamento legislativo delle difficoltà cui vanno incontro le imprese in periodi – come l’attuale –
di recessione (contraddistinti da estrema volatilità ed incertezza dei margini
reddituali e, quindi, da notevoli difficoltà nell’impiego in compensazione in
un ristretto arco temporale dello stock di perdite fiscali pregresse) non si comprende perché il modificato regime debba applicarsi ai soli soggetti IRES e
non anche ai contribuenti IRPEF.
Mi risulta, infatti, disagevole individuare una giustificazione di ordine sistematico adeguatamente spendibile al riguardo, così come del resto – in
termini aziendali – trovo difficile comprendere per quale motivo il legislatore del D.L. n. 98/2011 abbia inteso agevolare (allungando la tempistica di recupero delle perdite fiscali) i soli soggetti IRES – di norma più strutturati e
dotati sotto il profilo patrimoniale – rispetto ai contribuenti IRPEF i quali,
quanto meno per l’assenza di autonomia patrimoniale perfetta, espongono i
propri soggetti economici a maggiori responsabilità e non sono di certo esenti dalle difficoltà economiche connesse all’attuale periodo di recessione. Si
tratta – a bene considerare – delle scorie (forse inevitabili ma non per questo
meno censurabili) di un modus di legiferare necessitato, coartato dalle cosiddette esigenze di cassa a fronte delle quali la razionalità dell’intervento
normativo diviene recessiva e che fa delle modifiche introdotte in tema di
perdite fiscali dal D.L. n. 98/2011 quella opzione di compromesso di cui ho
detto in principio. Un minimo di attività di fine tuning normativo sul punto
pertanto – essenzialmente nella prospettiva di ripristinare omogeneità soggettiva in tema di gestione delle perdite fiscali (estendendo, con le modifiche del caso, anche ai contribuenti IRPEF l’elisione del limite temporale al
riporto) – sarebbe perciò estremamente auspicabile. È, tuttavia, ragionevole
dubitare che ciò possa avvenire in tempi rapidi anche tenuto conto di un
contesto generale come quello attuale in cui maiora premunt. Se questa (facile) previsione dovesse essere confermata, sarà la razionalità complessiva del
regime del riporto delle perdite fiscali a soffrirne, sottoposto come è a continue modificazioni (basti pensare alle innovazioni, spesso ellittiche, verificatesi a decorrere dal luglio del 2006) le quali – non rispondendo ad una visione d’insieme ma ad esigenze episodiche – rendono sempre più sfibrata la
trama sistematica dell’istituto.
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3. La dinamica oggettiva dell’istituto del riporto delle perdite fiscali come modificato dal D.L. n. 98/2011. La struttura essenziale del nuovo regime e la
decorrenza temporale dello stesso
Come anticipato il nucleo essenziale della rinnovata disciplina risiede
nella combinazione, da un lato, dell’elisione del limite quinquennale al riporto in avanti della perdita fiscale conseguita e, dall’altro, nell’introduzione
di un limite quantitativo alla compensazione dell’imponibile realizzato negli
esercizi futuri commisurato all’80% del reddito di ciascun periodo d’imposta. In ultima analisi, l’interazione dei due richiamati principi: i) per un verso, elimina in radice l’eventualità (ferma restando l’applicazione dei regimi
antielusivi specifici in tema di riporto delle perdite come previsti dalle norme relative alle operazioni straordinarie i quali, tuttavia, rispondono ad una
ratio differente) che le perdite fiscali possano subire forme di decurtazione
in ragione del trascorrere del tempo; ii) per altro verso, tuttavia, esclude la
possibilità di compensazione integrale, limitando il set off all’80% dei redditi
imponibili futuri realizzati in ciascun periodo d’imposta 16 (il che sta a significare che viene meno la possibilità di non corrispondere l’IRES in ragione
della mera titolarità di perdite fiscali pregresse atteso che «(...) l’effetto fiscale derivante dal nuovo sistema di riporto delle perdite consiste nel tassare comunque nell’esercizio futuro – n.d.r. – il venti per cento del reddito prodotto» 17.
Il modificato regime trova applicazione per tutte le perdite fiscali disponibili
da parte dei contribuenti IRES interessati alla data di entrata in vigore del
D.L. n. 98/2011 vale a dire il 6 luglio 2011 18 (il che equivale a dire a decorrere dal periodo d’imposta 2011 per i contribuenti che abbiano esercizio sociale coincidente con l’anno solare). Questa soluzione – giustificata dalla
prassi interpretativa dell’Amministrazione finanziaria sulla scorta di ragioni
di ordine sistematico e di semplificazione 19 – non era invero pacificamente
16
Il che, peraltro, fa sì che – nell’ipotesi in cui la perdita fiscale pregressa sia inferiore al
citato limite commisurato all’80% del reddito imponibile realizzato in un futuro periodo
d’imposta – detta perdita risulterà comunque integralmente compensabile. In tal senso v.
LUGANO-NESSI, I nuovi criteri di utilizzo delle perdite fiscali previsti per i soggetti IRES, in Riv.
dott. comm., 2011, p. 853 ss. (segnatamente sub p. 854 laddove gli autori affermano che
«(...) se la perdita riportata da esercizi precedenti è inferiore all’80% del reddito dell’esercizio
essa sarà interamente utilizzabile (si consideri l’ipotesi di una perdita riportata pari a 100 ed
un reddito pari a 180. In questo caso la perdita potrà essere integralmente utilizzata in compensazione, tale per cui il reddito imponibile sarà pari a 80)».
17
In tal senso la richiamata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 53/E/2011 sub par. 1.2.
18
V. art. 23, comma 6, del D.L. n. 98/2011.
19
Così la richiamata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 53/E/2011 sub par. 1.7.
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639
desumibile dal testo normativo ma deve essere valutata in modo estremamente positivo in quanto riveste il pregio di evitare una segmentazione cronologica nel regime di riporto delle perdite fiscali. Una circostanza che, non
solo, avrebbe inevitabilmente appesantito la gestione operativa dei contribuenti (imponendo loro obblighi di identificazione specifici) ma, soprattutto, avrebbe oltremodo esasperato (almeno nell’immediato) eventuali forme
di aggressiva pianificazione fiscale tese all’illegittima trasformazione di perdite fiscali realizzate prima del 2011 in analoghe grandezze formalmente generate in un momento successivo (e, quindi – come rappresentato – riportabile sine die). Un fenomeno elusivo (quello del cosiddetto refreshing delle
perdite) che, invece, la disciplina introdotta dal D.L. n. 98/2011 ha inteso
eliminare in modo radicale.
Proprio l’affermazione dell’applicabilità del modificato regime a tutte le
perdite fiscali ancora suscettibili di impiego alla data di entrata in vigore della novella costituisce l’occasione per apprezzare le conseguenze del recente
intervento normativo per quanto attiene alla redazione del bilancio e, segnatamente, con riferimento all’iscrivibilità da parte dei contribuenti di una posta a titolo di imposte differite attive (cosiddette imposte anticipate) rappresentativa del minore carico fiscale futuro scaturente dall’utilizzo in compensazione delle perdite medesime 20. Si tratta, a stretto rigore, di un profilo di
ordine non prettamente fiscale e che tuttavia riveste una non trascurabile
importanza pratica (come è facile intuire ove si consideri che l’iscrizione di
imposte anticipate a fronte del beneficio impositivo prospettico connesso
alla titolarità di perdite fiscali dà luogo alla rilevazione di un componente
positivo di reddito che incide in modo diretto sulla determinazione del risultato economico). Al riguardo, un primo elemento che viene in rilievo è
rappresentato senz’altro dalla possibilità da parte dei soggetti IRES titolari
di reddito d’impresa di fare riferimento ad un più ampio arco temporale nel
formulare il giudizio prognostico circa il possibile recupero della perdita fiscale conseguita (rectius circa la possibile compensazione con futuri redditi). Se in precedenza, infatti, il limite cronologico quinquennale – unitamente alla particolare prudenza suggerita dai principi contabili – costituiva motivo per apprezzare con estrema attenzione il fenomeno dell’iscrivibilità delle imposte anticipate, l’introduzione del riporto sine die dovrebbe agevolare
20
Sulla dinamica di gestione delle imposte anticipate a fronte del conseguimento di
perdite fiscali, rinvio al principio contabile OIC 25 per i contribuenti che applichino gli
standard contabili domestici ed allo IAS 12 per le imprese le quali facciano riferimento agli
IAS/IFRS.
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l’analisi estimativa di competenza dell’organo amministrativo inducendolo
– se del caso – anche a rivedere precedenti valutazioni formulate con riguardo a perdite anteriori all’entrata in vigore del D.L. n. 98/2011. Con ciò non
intendo significare che si possa dare luogo a giudizi avventati in subiecta materia (con rischio di alterazione della stessa situazione reddituale e patrimoniale di periodo). Ai sensi degli standard contabili di riferimento (sul punto
sussiste una sostanziale conformità fra i principi nazionali e gli IAS/IFRS),
infatti, l’iscrizione di imposte differite attive a fronte della titolarità di perdite fiscali non può prescindere da una costante analisi della redditività prospettica dell’azienda e, quindi, dell’effettiva e concreta possibilità di spendere
in futuro tali perdite fiscali. Pur a fronte di ciò, tuttavia, mi sembra innegabile come il rinnovato regime introdotto dal D.L. n. 98/2011 finisca per attribuire maggiori margini di flessibilità al giudizio discrezionale degli amministratori dei soggetti IRES; e ciò in un contesto – quello della redazione del
bilancio – in cui, come noto, la nozione di discrezionalità non equivale ad arbitrio e lo stesso bilancio quale strumento d’informazione esterna – a dispetto della sua configurazione formalmente oggettiva – costituisce un sistema
di valori, vale a dire un documento recante informazioni qualitative e quantitative la cui elaborazione rappresenta l’esito di un ponderato esercizio dell’attività valutativa dei suoi redattori i quali non possono prescindere dalle
peculiarità del caso concreto e dalle finalità perseguite attraverso l’elaborazione del documento medesimo 21.
4. Cenni sul nuovo regime del riporto delle perdite fiscali realizzate nei primi
tre periodi d’imposta
Nel rinnovato contesto normativo le perdite fiscali conseguite nel corso
dei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione serbano un tratto
differenziale rispetto a quelle realizzate negli esercizi successivi. È noto che,
nel pregresso assetto come a suo tempo delineato in parte qua dal D.Lgs. n.
358/1997 22, la maggiore qualità che l’ordinamento accordava a tale species
21
Sul bilancio quale sistema di valori v. CAPALDO, Qualche riflessione sull’informazione
esterna d’impresa, in Riv. dott. comm., 1975, p. 833 (anche in Scritti sparsi di Pellegrino Capaldo, Milano, 1995); più recentemente v. BIANCHI, Scritti in materia di bilancio di esercizio,
Roma, 1998, p. 23.
22
A cui si deve l’introduzione di questa prescrizione di favor per le perdite fiscali dei
primi tre periodi d’imposta come chiaramente desumibile dalla relativa Relazione gover-
Marco di Siena
641
di perdite fiscali era rappresentata dalla possibilità di riporto sine die a fronte
di un regime ordinario incardinato, invece, sull’esistenza di un limite quinquennale per l’impiego in compensazione di imponibili futuri 23. L’elisione
tout court della limitazione cronologica dal testo dell’art. 84 del TUIR costituisce, tuttavia, la cifra strutturale dell’intervento operato dal D.L. n. 98/2011
di talché il legislatore – nell’intento di serbare comunque, anche in un contesto contraddistinto senz’altro da maggiore omogeneità, una disciplina di
maggiore favore per le perdite realizzate nella fase di cosiddetta start up
(una fase identificata ex lege nei primi tre periodi d’imposta a decorrere dalla
costituzione del soggetto) – ha previsto che per tale species di perdite fiscali
il limite quantitativo alla compensazione non trovi applicazione. In termini
sintetici, quindi, mi sembra lecito affermare che – per effetto della novella –
con riguardo allo specifico profilo si è passati da una forma di privilegio incentrata sull’assenza di limitazioni cronologiche al riporto ad una che risulta
basata sulla carenza di limiti quantitativi alla compensazione 24.
In realtà, in esito alle modifiche di cui al D.L. n. 98/2011, l’intensità del
vantaggio competitivo accordato alle perdite del primo triennio mi sembra
sensibilmente attenuata. Se, infatti, nel vigore del precedente assetto normativo, tali perdite erano contraddistinte da una maggiore potenzialità economica e finanziaria rispetto alle altre, allo stato attuale, esse godono di un atout
di ordine esclusivamente finanziario. Anteriormente al D.L. n. 98/2011 – infatti – le perdite dei primi tre periodi d’imposta avevano la possibilità di elinativa di accompagnamento all’art. 8 del D.Lgs. n. 358/1997 la quale poneva in luce come
«(...) il conseguimento di perdite negli anni iniziali costituisce, nella maggior parte dei casi, un
evento fisiologico».
23
Una circostanza che rendeva ulteriormente recessiva, a mio giudizio, l’opinione di
quanti ritenevano che la ratio sottesa al limite cronologico al riporto delle perdite fiscali
fosse ravvisabile in una sorta di simmetria con il regime temporale di decadenza dell’azione di accertamento dell’Amministrazione finanziaria come previsto dall’art. 43 del D.P.R.
n. 600/1973 (in tal senso – se non equivoco – v. CROVATO, L’imputazione a periodo nelle
imposte sui redditi, Padova, 1996, p. 33 ss.). La modifica dei termini decadenziali fissati dal
richiamato art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e la successiva introduzione (ad opera del
D.Lgs. n. 358/1997) del regime di riporto illimitato per le cosiddette start up, infatti, avevano totalmente destrutturato questa ricostruzione interpretativa rilevando il carattere episodico (o al massimo rispondente a sole esigenze di semplificazione) della limitazione
cronologica di cui all’art. 84 del TUIR.
24
Si veda la richiamata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 53/E/2011 sub par. 1.3
laddove si afferma «(...) il limite di utilizzo delle perdite previsto dalla disciplina in esame non
si applica dunque alle perdite generate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione
le quali sono utilizzabili senza alcun limite temporale (come, peraltro, quelle realizzate in
esercizi successive – n.d.r. –) e quantitativo».
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dere in modo integrale l’onere a titolo di IRES di un determinato periodo
d’imposta anche a distanza di oltre un lustro dal loro conseguimento allorquando, invece, tale possibilità era irrimediabilmente preclusa per le perdite
realizzate ex post. A questo vantaggio di ordine economico si accompagnava,
poi, un coté finanziario connesso alla possibilità di minimizzare il flusso di
cassa necessario per pagare le imposte dirette di periodo. La nuova disciplina, invece, tende ad omogeneizzare sensibilmente lo status delle due categorie di perdite elidendo il potenziale vantaggio di ordine economico che il pregresso assetto normativo garantiva a quelle realizzate nel primo triennio (la
compensabilità integrale sine die a prescindere dall’annualità di formazione,
infatti, fa sì che tutte le perdite fiscali siano sostanzialmente fungibili in termini economici almeno in una prospettiva diacronica 25). Permane (ed in
tempi di restrizione dell’accesso al credito non è comunque profilo di poco
conto) il vantaggio finanziario connesso alla possibilità di annullare integralmente e nell’immediato il reddito imponibile degli esercizi successivi
evitando così una forma di cash out che una perdita fiscale ultratriennale
(suscettibile di impiego nel limite quantitativo dell’80% dell’imponibile
IRES compensabile) avrebbe comunque determinato. In termini comparativi e conclusivi, pertanto, sono dell’avviso che la modifica apportata dal
D.L. n. 98/2011 segni un’attenuazione della maggiore vantaggiosità immanente alla disciplina delle perdite realizzate in fase di start up; una situazione
forse migliorativa a livello sistematico (costituisce, infatti, un disincentivo a
possibili condotte di refreshing delle perdite) ma tale da rendere meno appetibile il complessivo regime delle nuove iniziative produttive che in sede di
dibattito legislativo si afferma costantemente di volere privilegiare.
5. Un profilo di dettaglio: la disciplina del riporto delle perdite fiscali in presenza di utili esenti. Un caso clinico di perdurante irragionevolezza normativa
In un contesto normativo così significativamente modificato sussistono,
invece, alcuni aspetti dell’art. 84 del TUIR – tutt’altro che marginali – che
sono stati confermati tout court quand’anche, oggettivamente, abbiano in pas25
Sulla possibilità da parte del contribuente di combinare l’impiego cronologico delle
perdite fiscali realizzate nel corso dei primi tre periodi d’imposta e quelle conseguite ex
post secondo (o meno) una rigida sequenza temporale rinvio alle considerazioni formulate
nel paragrafo conclusivo del presente elaborato.
Marco di Siena
643
sato suscitato perplessità quanto alla loro ragionevolezza ed opportunità. È
il caso (forse maggiormente esemplificativo) di quanto previsto per il contribuenti «(...) che fruiscono di un regime di esenzione dell’utile» 26 per i quali
«la perdita è riportabile per l’ammontare che eccede l’utile che non ha concorso
alla formazione del reddito negli esercizi precedenti» 27. Si tratta di una disposizione 28 della cui coerenza, sin dalla sua introduzione, la dottrina ha dubitato 29 e che finisce (in modo invero poco comprensibile) per limitare la riportabilità della perdita fiscale (la quale – come in precedenza evidenziato – non
rappresenta un’agevolazione ma costituisce il fisiologico profilo fiscale della
convenzionale suddivisione della vita aziendale in singoli esercizi) da parte
dei soggetti d’imposta che fruiscano di un’esenzione IRES del risultato di
periodo (esenzione, questa sì, che risponde ad una logica incentivante). L’aspetto paradossale, infatti, è che la richiamata prescrizione finisce per amputare la normale dinamica di un regime fisiologico (il riporto pro futuro delle
perdite fiscali) a fronte della concessione di un’agevolazione (tale essendo
considerata, nella prospettiva legislativa tributaria, l’esenzione IRES dell’utile). È in questa amputazione, perciò, che è ravvisabile l’irrazionalità della
specifica prescrizione limitativa del normale operare del carry loss forward.
Se, infatti, il mancato concorso alla formazione del reddito imponibile IRES
dell’utile costituisce un’agevolazione e le esigenze di cassa sempre più pressanti impongono al legislatore nazionale una selezione accurata dell’an e del
quantum dei singoli interventi agevolativi, allora, il buon senso vorrebbe che
sia l’incentivazione a recedere rispetto al regime naturale e non viceversa.
In altri termini, evitare di incrinare il regime naturale del riporto delle perdite fiscali (applicabile alla generalità dei contribuenti) doveva rappresenta26
Si tratta di una disposizione che trova applicazione principalmente nei confronti dei
quei soggetti d’imposta (quali le cooperative a mutualità prevalente di cui all’art. 12 della
L. n. 904/1977) che fruiscono di un regime di esenzione dell’imponibile commisurato alla
quota di utile accantonata a riserva indisponibile.
27
V. art. 84, comma 1, secondo periodo, del TUIR. Del pari, peraltro, il D.L. n. 98/2011
non è intervenuto sulla specifica limitazione al riporto delle perdite per i contribuenti che
fruiscano di un regime di esenzione del reddito (come, ad esempio, i soggetti che rientrano
nel regime di tonnage tax) per i quali è stata mantenuta la previsione (attualmente contenuta
nell’art. 83, comma 1, secondo periodo, del TUIR) che impone una necessaria simmetria fra
l’imponibilità del risultato positivo e la deducibilità del risultato negativo.
28
Applicabile ai redditi prodotti ed agli utili realizzati a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2006 (in tal senso v. art. 1, comma 73, della
L. 27 dicembre 2006, n. 296).
29
V. LUPI, Quando l’agevolazione si trasforma in una penalizzazione: si può razionalizzare
l’assurdo. Esenzioni e simmetrie, in Dialoghi trib., 2007, p. 549.
4.
644
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re – a mio giudizio – l’obiettivo prioritario del legislatore il quale, ove necessario, avrebbe potuto realizzare i propri obiettivi di gettito modulando l’esenzione sotto il profilo qualitativo e quantitativo ma pur sempre nel perimetro soggettivo dei beneficiari della stessa ed agendo a livello dell’agevolazione. L’intervento effettuato dal D.L. n. 98/2011, quindi, poteva costituire
l’occasione per un revirement legislativo in materia, evitando che un vantaggio di ordine speciale (id est l’esenzione IRES dell’utile) continuasse a risolversi nell’impossibilità di dare corso ad un meccanismo fisiologico (vale a dire il riporto delle perdite fiscali considerato che, per quanto detto, tale istituto non rappresenta un vantaggio ma un regime strutturale). Purtroppo ciò
non è affatto avvenuto e l’art. 84 del TUIR mantiene un assetto che non esito a definire sostanzialmente scomposto in quanto priva della possibilità di
riporto pro futuro della perdita fiscale quei contribuenti che abbiano fruito
in passato (anche solo in maniera episodica) dell’agevolazione consistente
nel mancato concorso alla base imponibile IRES di una porzione dell’utile
di periodo. Da un punto di vista applicativo il meccanismo è noto e si sostanzia nel «(...) memorizzare l’utile che non concorre alla formazione del reddito poiché lo stesso assumerà rilevanza nei periodi d’imposta successivi per stabilire l’importo della perdita fiscalmente riportabile» 30. In altri termini, la perdita fiscale eventualmente realizzata in un determinato periodo d’imposta
non è integralmente riportabile pro futuro ma solo nella misura (inferiore)
che si determina apprezzando in minus gli eventuali utili che non abbiano
concorso ex ante alla formazione dell’imponibile IRES.
È lecito, quindi, concludere sul punto affermando che il D.L. n. 98/2011
rappresenta un’occasione mancata per razionalizzare una previsione collocata normativamente in modo asistematico? A mio giudizio non è solo questo. Sotto determinati profili, infatti, ritengo che la novella costituisca un ulteriore peggioramento (forse involontario) della rilevata asistematicità. Nella propria prassi interpretativa, infatti, l’Amministrazione finanziaria aveva
(in modo invero coerente) affermato che il limite al riporto delle perdite (id
est l’utile escluso dalla formazione del reddito imponibile) doveva soggiacere alle medesime regole «dettate dall’art. 84 del TUIR in ordine alla riportabilità delle perdite» con la conseguenza che «(...) al fine di ridurre l’importo
della perdita fiscalmente riportabile, il limite non assume rilevanza oltre il quinto periodo d’imposta successivo a quello della sua formazione» 31. Più chiara30
In tal senso la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 13 dicembre 2010, n. 129/E.
Faccio riferimento alla menzionata Risoluzione n. 129/E/2010 e segnatamente al riscontro al quesito sub 1.2.
31
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645
mente, l’utile escluso dalla formazione dell’imponibile IRES – in modo simmetrico a quanto previsto dall’art. 84 del TUIR – decadeva dalla propria funzione di potenziale elemento rettificativo delle future perdite fiscali una volta spirato il quinto periodo d’imposta successivo alla sua realizzazione 32. In
ultima analisi – sino al riordino di cui al D.L. n. 98/2011 – si era in presenza
di una sorta di recapture dell’agevolazione IRES limitata nel tempo 33 (così
come, peraltro, era cronologicamente limitato il carry loss forward). Nell’attuale formulazione dell’art. 84 del TUIR, invece – una volta sancita la possibilità di riporto delle perdite fiscali sine die – il rilevato principio di simmetria fa sì che anche l’efficacia decadenziale dell’agevolazione IRES non sia più
limitata nel tempo. L’effetto asistematico che ne deriva (già immanente – come rappresentato – alla specifica previsione legislativa) risulta così amplificato. Ai fini del riporto delle perdite fiscali, la fruizione di un’agevolazione
IRES anche in un periodo assai risalente nel tempo diviene, infatti, un elemento la cui potenzialità rettificativa non termina mai di esplicare efficacia.
Una situazione, non solo particolarmente difficile da gestire in termini aziendali (in quanto impone l’obbligo di tenere memoria costante della porzione
di utile che non abbia concorso alla determinazione dell’imponibile IRES
così da nettare in modo puntuale le eventuali future perdite fiscali), ma soprattutto idonea ad annullare tout court l’effetto agevolativo in un qualsiasi
momento successivo. Il che rende ancora più attuale un quesito semplice
ma che mi sembra ineludibile: ma non sarebbe stato più semplice evitare
tutte queste complicazioni rimodulando ad hoc le specifiche agevolazioni ed
evitando così ogni inquinamento della disciplina delle perdite fiscali?
6. Considerazioni conclusive
Le modifiche al regime di riporto delle perdite fiscali dei soggetti IRES,
pur nel proprio approccio compromissorio, non sono da apprezzare negati32
Dal che derivava che, il conseguimento di un utile esente IRES non avrebbe mai inficiato il quantum di perdita fiscale riportabile pro futuro laddove quest’ultima fosse stata
realizzata, ad esempio, nell’ottavo esercizio successivo a quello di fruizione dell’agevolazione
IRES.
33
Tale è l’espressione impiegata da STEVANATO, Prime riflessioni sulle nuove norme in
materia di inutilizzabilità delle perdite in presenza di esenzioni del reddito o dell’utile, in Dialoghi trib., 2007, p. 545 e segnatamente sub p. 549 laddove fa riferimento ad un «(...) preciso
meccanismo di recapture di un’agevolazione effettivamente fruita» tale da determinare «(...) un
chirurgico recupero dell’agevolazione goduta a carico dei redditi (utili) degli esercizi successivi».
646
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vamente. Di certo – tanto a livello di disegno sistematico sotteso all’intervento quanto in un’ottica di dettaglio normativo – il legislatore avrebbe potuto osare di più eliminando, fra l’altro, alcune rigidità applicative caratterizzanti l’istituto ed introducendo (sulla base dell’esperienza di altri ordinamenti 34 ed in analogia a quanto già previsto dall’art. 165 del TUIR in tema
di cosiddetto foreign tax credit) forme di riporto all’indietro della perdita fiscale tali da permettere di operare la riliquidazione dell’IRES risultante da
dichiarazioni già ritualmente presentate. In relazione ai suindicati profili, infatti, l’intervento operato con il D.L. n. 98/2011 mi appare poco incisivo. Il
mantenimento di un’impostazione focalizzata esclusivamente sul principio
loss carry forward, infatti, fa sì che il sistema mantenga una certo livello di
anelasticità nel recupero della perdita fiscale. Il che rischia di rendere meno
immediato l’effetto compensativo, con conseguente scarsa aderenza della
disciplina del reddito d’impresa al principio di capacità contributiva e configurazione di debiti d’imposta solo per effetto della combinazione del principio economico-aziendale (e, tralatiziamente, civilistico) di parcellizzazione
della dinamica operativa in singoli esercizi sociali e del criterio fiscale dell’autonomia dei singoli periodi d’imposta. Sotto altro profilo, peraltro, il recente intervento normativo non ha modificato alcuni aspetti della vigente
disciplina il cui carattere disincentivante pure è stato da tempo denunziato in
dottrina. È in tale prospettiva, pertanto, che le selettive limitazioni al riporto
delle perdite previste per talune operazioni riorganizzative di carattere neutrale come la fusione e la scissione (i cosiddetti test di vitalità e del patrimonio netto) avrebbero potuto formare oggetto di un (almeno parziale) ripensamento evitando di attribuire al contribuente interessato all’operazione per
ragioni industriali l’onere di richiederne sempre la disapplicazione attraverso
la procedura disciplinata dall’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973 35;
in alternativa – per non essere troppo radicali – la formalizzazione da parte
dell’Agenzia delle Entrate delle prime direttive interpretative circa il rinnovato regime 36 avrebbe comunque potuto rappresentare l’occasione per l’ela-
34
Al riguardo v. FERRANTI, La disciplina, cit., p. 2478.
In tal senso mi sento di condividere le considerazioni formulate dalla Assonime nella
propria richiamata Circolare n. 33/2011 secondo cui «(...) è pur vero che le imprese potrebbero, tuttora, ottenere vantaggi fiscali nel ricorso a tali operazioni visto che esse potrebbero consentire un’accelerazione del processo di recupero delle perdite pregresse ma, in questi casi, la negazione tout court del riconoscimento delle perdite costituirebbe (...) una reazione spropositata
rispetto alle pur comprensibili esigenze di tutela delle ragioni erariali».
36
Mi riferisco alla richiamata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 53/E/2011.
35
Marco di Siena
647
borazione di criteri ermeneutici idonei a rendere l’analisi da esperire in sede
di interpello (cosiddetto) disapplicativo meno ancorata al dato letterale di
quanto sinora avvenuto nella prassi.
Del pari, con riguardo alle perdite fiscali realizzate nei primi tre periodi
d’imposta (di cui – come detto – è stata introdotta, quale agevolazione differenziale rispetto alle perdite conseguite nei periodi successivi, l’assenza di
limitazioni quantitative alla compensazione), sono dell’avviso che la novella
avrebbe potuto costituire l’occasione per attenuare le limitazioni (particolarmente criticate in dottrina 37 a suo tempo introdotte dall’art. 36, comma 12,
del D.L. n. 223/2006 ed incentrate sull’effetto combinato delle nozioni di
data di costituzione (quale momento a decorrere dal quale computare i primi
tre periodi d’imposta di cui al comma 2 dell’art. 84 del TUIR) e di nuova
iniziativa produttiva 38 (quale attività economica da cui debbono scaturire le
perdite de quibus 39. In altri termini, la circostanza che – nel rinnovato asset37
V. BEGHIN, L’illimitato riporto delle perdite nell’IRES tra nuovi soggetti e nuove attività,
in Corr. trib., n. 37, 2006, p. 2945 ss.; in senso ugualmente critico v. STEVANATO, Il riporto
delle perdite di start up tra referenti soggettivi e inerenza alla (nuova) attività, in Dialoghi trib.,
2008, p. 136 ss.
38
Intendo riferirmi alla circostanza che il riporto illimitato previsto dall’art. 84, comma
2, del TUIR è consentito soltanto per le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta
dalla data di costituzione ed a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva.
39
Un criterio, a bene considerare – quello della riferibilità delle perdite fiscali ad una
nuova attività produttiva – che introduce in un istituto tipicamente ispirato ad una logica di
imposizione personale evidenti tratti di realità atteso che finisce per recidere il legame fra il
soggetto d’imposta e la perdita fiscale per sostituirlo (in termini concettuali) con una relazione con l’organizzazione produttiva (o, se si preferisce, con l’attività) generatrice della
perdita medesima. Una circostanza già posta in rilievo dalla dottrina secondo cui «(...) la
considerazione delle perdite solo a livello dell’attività accentua in modo estremamente rilevante
il carattere reale dell’imposizione in contrasto sia con i presupposti di partenza del nostro sistema impositivo, sia con la logica stessa dell’imposizione reddituale» (così FRANSONI, Finanziaria 2008 e modifiche della disciplina delle perdite, in Riv. dir. trib., I, 2008, p. 651 ss. e segnatamente sub p. 661). Nello specifico, peraltro, l’autore stigmatizza la rilevata tendenza ritenendola antitetica rispetto alla logica stessa dell’imposizione reddituale. Al riguardo, sono
dell’avviso che siffatto giudizio – pur assolutamente coerente in astratto – tenda a sottovalutare la sempre più evidente tendenza dell’ordinamento nazionale a privilegiare forme di
tassazione reale ancorate alle res produttive o se si preferisce alla attività produttiva come
peraltro, da tempo, evidenziato in dottrina (exempli causa, v. TREMONTI, Le imposte dell’idealismo e le imposte del consumismo, in Il pensiero economico moderno, Pisa, vol. 12, n. 1-2,
1992, p. 65 ss.; in senso analogo v. TREMONTI, Una nota di politica fiscale: la crisi dell’IRPEF
e la questione della progressività. Il caso dell’Italia, in Riv. dir. fin., I, 1999, p. 3 ss. D’altronde,
con peculiare riguardo al regime delle perdite fiscali, la sussistenza di una linea di tendenza
ispirata a criteri di maggiore realità mi sembra confermata anche dalle assai limitate possi-
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to – la possibilità di compensazione senza limiti cronologici e quantitativi
sia limitata alle sole perdite realizzate a fronte di nuove attività produttive
(dal che l’inapplicabilità dell’istituto del riporto sine die e senza limite, ad
esempio, per tutti i soggetti d’imposta neo – costituiti che acquisiscano un
compendio aziendale in forza di un’operazione riorganizzativa strutturalmente neutrale 40 ma anche – a bene considerare – per i contribuenti che si rendessero cessionari o affittuari di aziende già operative) mi appare una tutela
comprensibile ma non sempre del tutto giustificabile (soprattutto tenuto
conto del rilevato approccio molto formale adottato dall’Amministrazione
finanziaria in sede di vaglio delle istanze presentate ai sensi del richiamato
art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973). Come già osservato in dottrina 41, infatti, non è inusuale l’acquisizione di rami d’azienda già operativi
(e, quindi, tali da non qualificare l’attività d’impresa come nuova nell’ottica
dell’art. 84, comma 2, del TUIR) i quali – post acquisizione – vengono assoggettati a forme di così incisiva razionalizzazione e riconversione da rendere assai tenue il vincolo relazionale con la pregressa attività (sebbene, se
del caso, il settore di attività resti il medesimo o molto prossimo 42). Ebbene,
in tale prospettiva, il limite della novità dell’attività produttiva se poteva giustificarsi nel pregresso assetto – contraddistinto da un generale termine quinquennale alla possibilità di riporto che, tuttavia, per ragioni agevolative non
bilità di compensazione orizzontale (ossia in compensazione di redditi differenti da quello
d’impresa) garantite dall’ordinamento anche per i soggetti IRPEF (essendo tale possibilità
concessa alle sole imprese minori di cui all’art. 66 del TUIR alle quali, peraltro, è precluso
il riporto in avanti). La maggiore semplicità di un approccio reale al fenomeno impositivo
nei sistemi più avanzati mi sembra un profilo condiviso anche da LUPI, Manuale professionale di diritto tributario, Milano, 2011, pp. 456-457.
40
Intendo riferirmi, con tutta evidenza, alle operazioni di fusione, scissione e di conferimento d’azienda di cui agli artt. 172, 173 e 176 del TUIR.
41
V. DELLA VALLE, op. cit., p. 989 e la dottrina ivi richiamata.
42
In tal senso è sufficiente porre mente a quanto si verifica sempre più spesso per taluni
compendi in dismissione da parte di grandi gruppi industriali i quali vengono acquisiti da
new companies (ovvero formano oggetto di spin off e successiva alienazione a favore di
nuovi investitori) e, una volta riorganizzati, operano in settori contigui (o finanche nel medesimo settore) a quello originario. Mi sembra opinabile che, in tali situazioni, si verta in
costanza di una nuova attività produttiva ex art. 84, comma 2, del TUIR e – tuttavia – non
sfugge come, aderendo a siffatta interpretazione restrittiva, il soggetto (lato sensu) acquirente finisca per trovarsi gravato oltre che degli oneri di ristrutturazione inevitabilmente
incidenti sul proprio conto economico anche dell’impossibilità di compensare integralmente le eventuali perdite fiscali realizzate nel periodo di riconversione (ossia proprio
quando lo sforzo economico è massimo a fronte di una presumibile sensibile contrazione
dei ricavi).
Marco di Siena
649
era previsto per le cosiddette società in fase di start up 43 – mi appare meno
rilevante nel modificato assetto di cui al D.L. n. 98/2011.
L’elisione generalizzata del termine di riportabilità, infatti, rende più
omogeneo il regime delle perdite realizzate nel primo triennio a quello delle
perdite conseguite nei periodi d’imposta successivi. È pur vero che permane, come detto, un tratto differenziale rappresentato dalla compensabilità
con i futuri imponibili la quale risulta integrale per la prima species di perdite
e solo parziale per la seconda categoria ma si tratta – a bene considerare – di
un elemento discretivo meno significativo rispetto al passato. Ciò fa sì – a
mio avviso – che l’esigenza di cautela cui rispondeva il criterio normativo
della nuova attività produttiva (un’esigenza molto avvertita in un contesto,
quale quello pregresso, segnato da forte discontinuità fra la prima categoria
di perdite – quelle da attività da start up – e la seconda – quelle realizzate a
decorrere dal quarto periodo d’imposta successivo alla data di costituzione) è
oggi – ceteris paribus – meno rilevante ed avrebbe potuto rappresentare l’occasione per indurre il legislatore a delineare in parte qua una disciplina più
snella e priva di riferimenti al criterio della novità dell’attività produttiva 44.
43
Il che, oggettivamente, costituiva motivo per cercare di evitare che – per effetto del
semplice mutamento della veste giuridica (id est per effetto dell’attribuzione di una vecchia
attività ad una entità societaria neo-costituita) – i contribuenti, ponendo in essere operazioni strumentali, riuscissero a trasformare perdite suscettibili di scadenza in perdite riportabili senza limitazione temporale.
44
Come evidenziato nel corpo del testo, infatti, nell’attuale sistematica le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta si contraddistinguono essenzialmente per l’assenza
di limiti di ordine quantitavo alla compensazione. Una siffatta qualità, tuttavia, non mi
sembra di tale intensità da potere costituire ex se motivo per l’implementazione di manovre elusive (quali quelle al cui contrasto tende il criterio della nuova attività produttiva introdotto dal D.L. n. 223/2006). Ben differente, invece, era l’assetto anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 98/2011 in cui l’incentivo alla trasformazione (illegittima) di
perdite suscettibili d’impiego cronologico limitato in perdite riportabili sine die era senz’altro molto più forte. La considerazione circa l’accentuata omogeneità del regime delle perdite appartenenti alle due categorie mi sembra viepiù veritiera ove si ritenga che l’utilizzo
prioritario delle perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta costituisca la regola in
ragione della previsione (non modificata dal D.L. n. 98/2011) secondo cui «(...) la perdita
di un periodo (...) può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi (...) per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi»
(in tal senso il comma 1 dell’art. 84 del TUIR alle cui modalità rinvia per relationem il comma 2 della medesima disposizione concernente le perdite realizzate nei primi tre periodi
d’imposta). Una posizione (quella dell’assenza di discrezionalità nell’impiego temporale
delle perdite fiscali) apparentemente condivisa dall’Assonime nella propria richiamata Circolare n. 33/2011 e che, tuttavia, non parrebbe confermata dall’Agenzia delle Entrate.
Quest’ultima, infatti, si è espressa in proposito nel corso della manifestazione Telefisco 2012
650
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Nella stessa direzione di semplificazione, peraltro, anche il concorrente
criterio della nuova costituzione della società (ugualmente serbato da parte
del D.L. n. 98/2011 nel corpo del comma 2 dell’art. 84 del TUIR) e quello
(conseguente) dell’identificazione delle perdite fiscali relative ai primi tre
periodi d’imposta a decorrere dalla data di costituzione avrebbero potuto
formare oggetto di una adeguata rivisitazione. Nella prassi aziendale, infatti,
non sempre l’effettiva operatività imprenditoriale e la costituzione della società risultano perfettamente sincrone, ben potendosi verificare dei casi in
cui un determinato contribuente, ancorché regolarmente costituito, si trova
in uno stato di (spesso eterodeterminata) quiescenza operativa per un periodo più o meno prolungato e ciò in ragione di eventi del tutto estranei alla
propria volontà 45. In tale situazione, perciò, è evidente come la rigida identificazione della data di costituzione quale momento a quo ai fini dell’individuazione delle perdite fiscali relative ai primi tre periodi d’imposta rischia di
risultare pregiudizievole. Un contribuente, infatti, si potrebbe trovare costretto a consumare una porzione più o meno rilevante del menzionato triennio in uno stato di sostanziale inoperatività, in attesa del rilascio dell’autorizzazione così come potrebbe trovarsi a subire impreviste battute d’arresto
del proprio progetto imprenditoriale finendo in maniera incolpevole per
realizzare in un arco temporale successivo quelle perdite che, in condizioni
ordinarie, avrebbe realizzato nel corso del primo triennio 46. Del pari, il necessario riferimento alla nuova costituzione della società operato dall’art. 84,
comma 2, del TUIR (e mantenuto come tale) rischia di rappresentare un
elemento di rigidità applicativa non sempre rispondente alle peculiarità dei
evidenziando come «(...) in assenza di regole al riguardo, si ritiene che il contribuente abbia la
facoltà (e non l’obbligo) di utilizzare prioritariamente le perdite relative ai primi tre periodi
d’imposta potendo, in alternativa, scegliere di impiegare dapprima quelle maturate negli esercizi
successivi»).
45
Si pensi a quanto può avvenire in alcuni settori vigilati in cui una determinata società,
seppure ritualmente costituita – prima di potere concretamente operare – deve attendere
il rilascio formale dell’autorizzazione da parte delle competenti Autorità di vigilanza. Analoga situazione, peraltro, può verificarsi in tutte quelle ipotesi in cui l’avvio concreto dell’attività d’impresa dipende da vincoli (seppure non formali) di natura esterna non sempre
adeguatamente ponderabili ex ante (è il caso di quanto avviene nel settore delle costruzioni e delle opere pubbliche).
46
Una situazione a cui, oggettivamente, non sembra potersi porre rimedio neanche
mediante proposizione di un interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del
D.P.R. n. 600/1973 atteso che, nell’occasione, più che su di una disapplicazione l’Agenzia
delle Entrate verrebbe chiamata a pronunziarsi su di una possibile integrazione del dettato
normativo.
Marco di Siena
651
casi concreti. Sebbene, infatti, la ratio della specifica prescrizione risulti comprensibile e sia ravvisabile nell’esigenza di identificare in modo oggettivo le
nuove iniziative produttive nulla vieta che una nuova iniziativa imprenditoriale sia avviata da un vecchio contribuente (ossia costituito da più di tre periodi d’imposta). Se così è, tuttavia, risulta evidente come – ceteris paribus (e
cioè a parità di novità dell’attività d’impresa) – l’art. 84, comma 2, del TUIR,
pur nella rinnovata formulazione risultante dal D.L. n. 98/2011, discrimina
soggettivamente (e cioè tende ad individuare differenti regimi fiscali ai fini
dell’istituto del riporto delle perdite) solo in ragione della differente data di
costituzione; un elemento che potrebbe essere anche del tutto episodico considerato ad esempio che – soprattutto nell’ambito dei grandi gruppi d’imprese – si è soliti costituire società di capitali da serbare in stato di quiescenza
operativa (e, quindi, ai fini di cui trattasi in una situazione idonea a consumare in tutto ovvero in parte i primi tre periodi d’imposta) ma pronte ad essere destinate con immediatezza allo svolgimento di una nuova missione imprenditoriale non appena se ne profili la necessità ovvero l’opportunità.
Ebbene su tutti questi profili il D.L. n. 98/2011 non è in alcun modo intervenuto lasciando così immutato lo status quo con tutti i commoda et incommoda del caso. In termini generali la specifica circostanza non mi stupisce nella misura in cui rappresenta la naturale conseguenza di quell’approccio compromissorio di cui ho detto in principio di trattazione. Certo è, tuttavia, che se l’obiettivo della riforma doveva essere (anche) quello di rendere
sensibilmente più competitivo il regime domestico delle perdite fiscali rispetto a quanto previsto dagli ordinamenti stranieri integrando, al tempo stesso,
un rimedio di politica economica di ordine anticongiunturale, la novella non
è forse del tutto adeguata per un eccesso di timidezza. A mio avviso, infatti, il
mantenimento delle numerose prescrizioni di dettaglio stratificatesi nel tempo per ragioni di tutela erariale finisce per attenuare sensibilmente quell’effetto anticiclico cui pure avrebbe dovuto rispondere l’intervento normativo. Forse, date le condizioni generali, non si poteva oggettivamente di più ma ciò
non toglie che all’esito dell’analisi della novella resti una sensazione di incompiutezza per ciò che avrebbe potuto essere ed in realtà non è stato.
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Gianni Marongiu
IL PARLAMENTO CONVERTITO ALLE “CONVERSIONI”:
L’ABUSO DEL DECRETO-LEGGE FISCALE
THE PARLIAMENT CONVERTED TO THE “CONVERSIONS”:
THE ABUSE OF THE LAW DECREE IN TAX MATTERS
Abstract
Diffusa è la constatazione che l’abuso del decreto-legge in materia fiscale, e questo articolo ne è la testimonianza, comporta non solo una disciplina torrentizia,
contradditoria, irrazionale, che mina la certezza del diritto, premessa indispensabile per la corretta e meno costosa applicazione dei tributi.
Esso mina, altresì, il principio plurisecolare che i tributi si legittimano e sono legittimati solo dal consenso espresso dalle aule parlamentari, in esito a un dibattito adeguato e non mortificato.
Di qui l’appello non solo agli organi che istituzionalmente garantiscono lo Stato
di diritto e la divisione dei poteri, ma all’autocoscienza dello stesso Parlamento
affinché riprenda il ruolo che la storia e la Costituzione gli affidano.
Parole chiave: tecnica legislativa, decreto-legge, certezza del diritto, ruolo del
Parlamento, ruolo del Governo
There is a firm belief that the abuse of law decrees in tax matters, and this article testifies it, brings to a torrential, contradictory and irrational discipline capable of jeopardizing the certainty of law, which is the fundamental premise for a correct and more
efficient enforcement of taxes. It also undermines the secular principle according to
which taxes shall be legitimised and are legal only through the consensus expresses by
the Parliament, after an adequate and not mortified debate.
In this sense, an appeal should be addressed not only to the bodies that institutionally
guarantee the rule of law and the division of powers, but also to the Parliament itself
in order to reconquer the function attributed to it by history and the Constitution.
Keywords: lawmaking techniques, law decree, certainty of law, function of the Parliament, function of the Government
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SOMMARIO:
1. La decretazione d’urgenza: una legislazione torrenziale. – 2. Il vano tentativo dello Statuto
del contribuente di contenere l’abuso del decreto-legge. – 3. Il Parlamento anoressico. – 4. Un
esempio di decreto-legge virtuoso. – 5. Una decretazione d’urgenza bulimica. – 6. Una decretazione d’urgenza televisiva. – 7. Una decretazione d’urgenza asseritamente “concentrante” ma in
realtà sconcertante. – 8. Una decretazione d’urgenza anticipata ... – 9. e una posticipata. – 10.
Una decretazione d’urgenza per la istituzione di un tributo ordinario: la Robin Hood Tax. – 11.
La decretazione d’urgenza in uno Stato interventista. – 12. I garanti dell’equilibrio dei poteri: i
giudici e la Corte costituzionale. – 13. L’appello all’autocoscienza del Parlamento. – 14. Il recente e non trascurabile depotenziamento di un organo di garanzia: la mortificazione del garante del contribuente. – 15. “Vulnera” ripetuti alle stesse Commissioni tributarie.
1. La decretazione d’urgenza: una legislazione torrenziale
Nel 1996 l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, rispondendo al “grido di dolore” del presidente del Consiglio nazionale del
notariato, che gli aveva manifestato il profondo disagio della categoria di
fronte alle conseguenze dell’abuso della decretazione d’urgenza, riconosceva che la situazione venutasi a creare presentava ormai «tali aspetti di
patologia istituzionale da non poter essere più sostenibile o da creare seria
minaccia alla certezza del diritto, che deve, invece, costituire elemento
fondante degli atti con i quali si definiscono e si regolano le situazioni giuridiche».
Erano gli anni nei quali anche la Corte costituzionale, mutando giurisprudenza, insegnò che «il difetto dei requisiti del caso straordinario di necessità ed urgenza, anche una volta intervenuta la conversione del decretolegge, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge onde l’esistenza
dei cennati requisiti può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità» 1.
Principio che è stato ribadito negli anni successivi perché «affermare che la
legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del governo quanto alla produzione delle norme primarie».
Pertanto, ha concluso la Corte, in un caso in cui ha dichiarato incostituzionale un precetto contenuto in un decreto-legge convertito in legge, «occorre verificare, alla stregua di indici estrinseci alla disposizione impugnata,
1
Così Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29.
Gianni Marongiu
655
se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del
caso di necessità e d’urgenza cui provvedere» 2.
Interventi così autorevoli e ripetuti non hanno, per altro, sortito un grande effetto se, anni dopo, sono i numeri che parlano inequivocabilmente.
Tra il 2006 e il 2008, con il “governo Prodi”, su 24 leggi approvate dal
Parlamento, 3 sole erano di origine parlamentare; ben 21 erano di origine governativa di cui 13 di conversione di decreti-legge.
La situazione è ulteriormente peggiorata nel solo primo anno del “governo Berlusconi”: a febbraio 2009 rispetto alle 45 leggi approvate 1 sola era
di origine parlamentare e ben 44 di origine governativa e di queste 25 erano
conversioni di decreti-legge con l’apposizione della fiducia per 11 volte.
E la marea non si è arrestata ma è venuta meno la pazienza di contare gli
uni (i decreti-legge) e le altre (le fiducie) 3.
Sta di fatto che l’85% delle leggi approvate dal Parlamento è di iniziativa
governativa, le rimanenti leggi sono sempre meno importanti e le Assemblee rappresentative della volontà popolare sono sostanzialmente esautorate dalla funzione legislativa a beneficio del governo 4.
«I parlamentari – si scrive – sono continuamente impegnati a convertire
rapidamente decreti-legge governativi scritti frettolosamente, e la settimana
parlamentare è sempre più breve. Le manovre economiche vengono approvate a scatola chiusa, magari sulla base di maxiemendamenti presentati alla
fine della discussione parlamentare. Perfino i lobbisti trascurano i parlamentari e preferiscono concentrare le loro attenzioni sui ministri e sui loro collaboratori. Diminuisce perfino il numero dei disegni di legge governativi: se
2
Così Corte cost., 23 maggio 2007, n. 171.
È appena il caso di ricordare qui, come molto spesso discipline fiscali innovative si
rinvengano nei cosiddetti maxiemendamenti delle cosiddette “finanziarie” di fine anno e
come la dottrina costituzionalistica sia sostanzialmente concorde nel segnalare, da tempo,
l’illegittimità costituzionale del fenomeno degli emendamenti-controprogetti specie quando esso si abbina alla questione di fiducia.
Ancora più recentemente si è denunciata la prassi del maxiemendamento come «indecorosa e spudorata frode alla Costituzione, avallata dalla compiacenza dei presidenti delle
due Camere» perché «non può essere seriamente contestato che un articolo composto di
100 commi od oltre (l’autore era ancora ottimista) è un fatto abnorme, sicuramente proposto al solo fine di aggirare la Costituzione» (così RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna,
1998, p. 139 e anche, con ulteriori riferimenti dottrinali, LUPO, Il potere di emendamento e i
maxiemendamenti alla luce della Costituzione, in Quaderni regionali, Rivista quadrimestrale
fondata da F. Cuocolo, 2007, n. 1-2, p. 243 ss. e spec. p. 261 ss.).
4
Si veda CAMERA DEI DEPUTATI-OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2009 sulla
legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Roma, Camera dei deputati, 2009, p. 260.
3
656
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è così facile inserire le disposizioni volute dai ministri in decreti-legge, che
entrano immediatamente in vigore, perché perdere tempo a fare proposte al
Parlamento?
La qualità delle leggi ne risente. Il controllo sulla loro redazione, operato
dall’esperta burocrazia parlamentare, è spesso precluso. È il Presidente della
Repubblica, di conseguenza, l’unico a potersi fare carico di un minimo controllo di legittimità costituzionale e di ragionevolezza con i propri uffici, che
però sono molto più ridotti di quelli parlamentari. Non è un caso che, sempre più spesso, il Presidente rimandi al Governo gli atti legislativi inviati per
la promulgazione, suggerendo modifiche.
Dal punto di vista della produzione normativa, nell’ultimo quindicennio
si è avuto un netto spostamento dell’equilibrio. Prima era il Parlamento ad
abusare della propria potestà legislativa: in assenza di una riserva di regolamento e di garanzie delle attribuzioni del Governo esso amministrava attraverso le leggi. Oggi, è il governo che, in assenza di un controllo efficace sull’uso dei provvedimenti d’urgenza, abusa della possibilità di sostituirsi al
Parlamento nell’esercizio di quella potestà» 5.
Si pongono, quindi, delicati problemi di equilibri istituzionali e costituzionali e al riguardo non è significativa solo la constatazione che «fino a tutti gli anni settanta vi è stata una tendenza all’accrescimento dei poteri del
Parlamento, mentre dagli anni ottanta c’è una tendenza all’accrescimento
del ruolo del governo», ma sono significative anche le locuzioni usate «attraverso meccanismi surrettizi, attraverso cortocircuiti» e l’esempio addotto «tutta la questione della decretazione d’urgenza» 6.
2. Il vano tentativo dello Statuto del contribuente di contenere l’abuso del decreto-legge
Le conseguenze negative, la torrenzialità delle norme, la loro frammentarietà, la volatilità, le inesorabili contraddizioni, la difficoltà della interpretazione sistematica, la loro vita, molto spesso effimera, non risparmiano certamente, anzi, il cosiddetto ordinamento tributario.
5
Così MATTARELLA, La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, 2011, pp.
31-32.
6
Così BALDOCCHI-CORBELLINI ANDREOTTI (a cura di), Sudditi e cittadini. Per uno studio della storia costituzionale italiana, Manduria (TA), 1997, p. 192.
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Potrà stupirsi il lettore ricordando che la L. n. 212/2000 (meglio conosciuta come lo “Statuto del contribuente”) statuì (e statuisce) che «non si
può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere
l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti», ove palese è
l’intento della legge, che per la prima volta ha dettato i principi generali dell’ordinamento tributario, di contenere l’uso del decreto-legge.
Ma, ahimè, proprio l’impatto dello Statuto sull’ordinamento fiscale necessita di qualche puntualizzazione perché i giudizi sulla sua operatività sono i più disparati.
Al riguardo è, quindi, indispensabile porsi in una prospettiva e la più corretta appare quella dei destinatari cui si rivolge lo Statuto stesso.
In primis (ben si intende non in ordine di importanza) vi sono gli studiosi e fra essi gli elogi allo Statuto sono, oggi, direbbe una celebre canzone,
“senza fine”: non solo gli sono state dedicate specifiche monografie e dotti
articoli ma non v’è istituto tributario che non sia stato rivisitato alla luce dei
suoi principi onde è come se la letteratura fosse datata prima e dopo il 2000.
Ugualmente dicasi per la pubblica amministrazione, certo con qualche
maggiore fatica e con qualche resistenza, ove si ricordino i timori suscitati
dalla norma sull’interpello e la capacità, oggi, di gestirlo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione e delle Commissioni tributarie ha assunto lo Statuto come una stella polare. È sufficiente ricordare: a)
l’affermazione che i principi dello Statuto hanno una superiorità assiologica
e hanno funzione di orientamento ermeneutico vincolante per l’interprete;
b) il riconoscimento che il principio di buona fede vale anche nei confronti
del tributo; c) la emendabilità di tutti gli errori del contribuente testuali ed
extra testuali, di fatto e di diritto, riconoscibili e non riconoscibili; d) la tutela dello “spatium deliberandi” (60 giorni) nell’ipotesi di notifica di p.v.c.; e)
il rispetto dell’obbligo di motivazione; f) il riconoscimento del contraddittorio quale principio generale 7.
A quest’ultimo riguardo il Supremo Collegio significativamente soggiunge che «Questa interpretazione rappresenta una lettura costituzionalmente
orientata delle disposizioni della legge istitutiva dell’accertamento sulla base
di parametri in quanto: a) da un lato, il contraddittorio deve ritenersi un
elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l’azione ammini7
Al riguardo e per una esposizione dettagliata di tutte le questioni affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza si veda MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente2, Torino,
2010.
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strativa (in questo senso v. Cass. n. 2816/2008, sulla base di argomentazioni
che il collegio condivide e conferma); b) dall’altro, esso è il mezzo più efficace per consentire un necessario adeguamento della elaborazione parametrica alla concreta realtà reddituale oggetto dell’accertamento nei confronti
di un singolo contribuente cioè alla sua capacità contributiva» 8.
Discorso ben diverso va fatto nel giudicare il rapporto tra Statuto del
contribuente e legislatore.
Il primo statuisce la eccezionalità delle leggi interpretative e il secondo le
approva a man salva.
Il primo indica le irretroattività della legge come un principio generale e
il secondo continuamente deroga un precetto posto a garanzia della certezza del diritto.
Il primo esige la chiarezza e la reperibilità delle norme e, nel concreto, il
governo e il Parlamento annegano i precetti in un mare di disposizioni che
si susseguono a centinaia, senza distinzioni in articoli, senza partizioni interne, senza titoletti onde è persino difficile (prima ancora che intendere) reperire la disciplina cui riferirsi: anche per la eterogeneità dei provvedimenti
tra loro frammischiati 9.
Il primo cerca di contenere l’uso del decreto-legge in ambiti fisiologici e
il secondo ne abusa impunemente, nonostante il disposto statutario e ancorché l’art. 77 Cost. statuisca che solo «in casi di straordinaria necessità e
urgenza il governo può, sotto la propria responsabilità, emanare atti aventi
valore di legge».
Ne abusa il governo e il Parlamento converte e si converte in un mero
“ratificatore”.
3. Il Parlamento anoressico
Impegnato in tante conversioni di decreti fiscali, il Parlamento ignora
questioni di notevole rilievo per i cittadini che pagano i tributi: questioni che
coinvolgono la libertà, la certezza del diritto, il rispetto del canoni costituzionali e la semplicità e il costo degli adempimenti fiscali.
Al riguardo, se è comprensibile che il governo sia, oggi, impegnato ad affrontare pressanti emergenze, frutto anche della trascuratezza dei governi pre8
Così Cass, sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26635.
Si veda alla nota 4, cui adde AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, RomaBari, 2010, p. 3 ss. e LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, p. 29 ss.
9
Gianni Marongiu
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cedenti, non è, invece, giustificabile che il Parlamento non trovi le energie e
l’entusiasmo per porre mano a eliminare una grave lacuna del nostro ordinamento tributario, specifica dell’Italia, la mancanza di un “Codice tributario”.
L’avvio dei lavori nel senso auspicato sembrava imminente allorquando,
nel 2003, fu approvata una legge delega (L. 7 aprile 2003, n. 80) che avrebbe dovuto realizzare una riforma generale del sistema tributario italiano.
La delega fu, allora, portata a compimento solo in modesta parte ma il
Parlamento, nei nove anni seguenti, non ha più dato alcun segno di vita
mentre esso dovrebbe essere il geloso custode dei principi disciplinanti il
prelievo fiscale ove ricordasse che le istituzioni parlamentari hanno trovato
alimento e vigore proprio in rivoluzioni, quella “gloriosa” inglese, quella
nordamericana e quella francese, volte anche ad affermare che i tributi sono
legittimati dal consenso e devono essere ripartiti secondo equità e vanno applicati con regole ferme nel tempo e quindi conosciute e conoscibili.
Non a caso i principi e i criteri direttivi del codice, da ripartirsi in una
parte generale e in una parte speciale, erano i seguenti: a) rispetto dei principi costituzionali di legalità e capacità contributiva e uguaglianza; b) adeguamento ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario; c) rispetto dei principi di chiarezza, semplicità, conoscibilità ed irretroattività; d) divieto di doppia imposizione giuridica; e) divieto di applicazione analogica
delle norme sostanziali; f) tutela dell’affidamento e della buona fede; g) disciplina unitaria per tutte le imposte del soggetto passivo, dell’obbligazione
fiscale, delle sanzioni e del processo; h) minimizzazione del carico di adempimento sul contribuente; i) riconducibilità della sanzione al soggetto che
ha tratto beneficio dalla violazione fiscale; l) applicazione della sanzione
penale solo ai casi di frode e grave danno per l’erario.
Senza entrare nel merito dei singoli principi allora formulati, e nei quali
era evidente l’influenza dello Statuto del contribuente, occorre ribadire che
l’idea di un codice tributario, quale, “contenitore” del complesso normativo
che usiamo designare come “sistema tributario”, sarebbe un approdo felice,
ancorché assai tardivo, per il legislatore italiano.
Infatti, i principali e più “civili” Paesi del mondo dispongono, da tempo,
di uno strumento codicistico e in Italia se ne parla dai tempi degli studi di
Ezio Vanoni (1937-1938) ma sempre con magrissimi risultati.
È auspicabile, perciò, che la delega del 2003 sia ripresa perché anche solo
la codificazione della parte generale dell’ordinamento tributario avrebbe
benefici effetti su più versanti.
In primis perché la certezza della legge, l’affidamento dei cittadini nella
sicurezza giuridica costituisce un essenziale elemento dello Stato del diritto
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e un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità, o, meglio,
della tranquilla operosità di tutti.
In secondo luogo, la garantita stabilità e la conseguente prevedibilità darebbero maggiori garanzie agli investitori anche a quelli stranieri che trascurano l’Italia non solo per la pressione della malavita e della corruzione e neppure solo per il peso dei tributi (la pressione fiscale è più pesante che in Francia e in Germania) ma per la inaffidabilità delle nostre scelte fiscali e per la
continua loro mutevolezza.
Inoltre, la stabilità e la tendenziale unicità delle procedure applicative faciliterebbero, in quanto ripetute nel tempo, gli adempimenti di tutti i contribuenti, li renderebbero meno onerosi e diminuirebbero, quindi, il costo
dell’obbedienza fiscale, calcolata in una percentuale pari al 10-12% dei tributi pagati.
In sintesi, il codice fiscale costituirebbe, oggi, la più importante e vantaggiosa riforma fiscale a “costo zero” e il Parlamento potrebbe dare un grosso
contributo alla sua realizzazione riprendendo in mano le fila di una buona
legge delega quale fu quella del 1971, ricordata come esempio dell’ottimo
lavoro di Assemblee che rappresentano la volontà popolare e non abdicano
al loro ruolo.
Né si obietti che le difficili contingenze impediscono un sereno e proficuo
lavoro perché, in altri tempi, non meno difficili, non meno segnati da continue emergenze, interne e internazionali (è sufficiente qui ricordare i quindici
anni successivi all’unità d’Italia) i governi le seppero affrontare e il Parlamento di allora non solo collaborò ma trovò la volontà, il tempo e le energie per
andare al di là del “quotidiano” e dettare discipline fiscali sostanziali, formali e
procedurali che rimasero in vita per decenni e per intere generazioni.
4. Un esempio di decreto-legge virtuoso
Il Parlamento, quindi, può muoversi (anche nelle difficili stagioni emergenziali) e ha mostrato di saperlo fare quando, assieme al governo, cancellò
una scelta frutto della sola demagogia.
Nel 2001 (con la L. 18 ottobre 2001, n. 383) fu soppressa l’imposta sulle
successioni 10 che, solo un anno prima (con la L. 21 novembre 2000, n. 3429),
10
La legge abrogativa era intitolata “Primi interventi per il rilancio dell’economia” e
copiosi sono stati i frutti di quei primi interventi e dei successivi.
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661
era stata opportunamente ridisciplinata: nel 2000 era stata, infatti, finalmente abrogata l’imposta globale e progressiva sulle successioni (una anomalia
che caratterizzava negativamente l’ordinamento italiano dal 1942), erano
state introdotte moderate aliquote proporzionali in specie nelle trasmissioni
in linea retta ed erano state apportate non poche modificazioni normative
che la collettività e gli operatori avevano apprezzato.
Nessun italiano ha mai compreso, al di là delle palesi ragioni elettorali,
perché nel 2001 fu soppressa una delle pochissime imposte che, in Italia,
colpiva e colpisce il patrimonio.
Si disse, allora, che la ragione stava nel suo scarso gettito ma si trattava,
all’evidenza, di un argomento pretestuoso perché, in un Paese connotato da
un cronico e pesante debito pubblico (i cui interessi si pagano con il gettito
dei tributi), allorquando una imposta colpisce una incontestabile manifestazione di capacità contributiva, se ne migliora la disciplina (come era accaduto nel 2000), la si potenzia, se del caso, ma non la si abolisce.
Sta di fatto che, per cinque anni, l’Italia fu l’unico Stato membro delle
Nazioni Unite a non avere un tributo di successione (una delle più vecchie e
ragionevoli imposte inventate dall’uomo: irragionevole può essere la misura, che era stata non a caso rivista dal legislatore del 2000, ma non l’imposta
in sé) e questo vuoto costò all’erario italiano più di 10.000 miliardi di vecchie lire (lo si scrive in lire non per un rimpianto, anzi, della nostra vecchia
moneta, ma perché specie i meno giovani, per esprimere i grandi valori, hanno più confidenza con la lira che con l’euro).
Ben a ragione, quindi, nel 2006 il nuovo governo reintrodusse il tributo
con un decreto-legge (D.L. 3 ottobre 2006, n. 362) per riparare, con urgenza, a una palese disarmonia creata, nel 2001, in quello che significativamente
la Costituzione definisce “il sistema tributario”.
5. Una decretazione d’urgenza bulimica
Il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, istitutivo dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), nel definirne il presupposto, prevedeva all’art. 1, comma
2, e all’art. 2, comma 1, lett. a), che fossero soggetti a imposizione solo i fabbricati iscritti o iscrivibili nel catasto edilizio urbano: pertanto i fabbricati durevolmente asserviti al fondo, iscritti nel catasto terreni, in qualità di pertinenza dello stesso fondo agricolo, non rientravano nel presupposto dell’ICI
e ne erano esclusi.
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Il D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, conv. dalla L. 26 febbraio 1994, n. 143,
istituì (in luogo del Catasto edilizio urbano) il “catasto dei fabbricati” provvedendo al censimento di tutti i fabbricati o porzioni di fabbricati rurali e alla loro iscrizione (per realizzare un inventario completo del patrimonio edilizio) e all’art. 9 stabilì che i fabbricati rurali avrebbero mantenuto tale qualificazione giuridica solo se avessero soddisfatto le condizioni tassativamente
previste nei nn. 3 e 3 bis riferibili, distintamente, ai fabbricati rurali destinati
all’uso abitativo e a quelli destinati a un uso strumentale.
Successivamente intervennero altre norme (dettate nel 1998), e non poteva mancare l’ennesimo decreto-legge (1° ottobre 2007, n. 159 conv. nella
L. 29 novembre 2007, n. 222), che, per altro, non riuscirono nell’intento di
superare i dubbi e le divaricazioni giurisprudenziali sulla assoggettabilità ad
ICI dei fabbricati rurali.
Lo riconobbe la stessa Suprema Corte allorquando (prima della legge interpretativa cui qui di seguito si accenna) statuì che «in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il requisito della “ruralità” del fabbricato, ai fini del trattamento agevolato, non esclude l’assoggettamento del medesimo
all’imposta, ma produce effetti solo ai fini dell’accatastamento e dell’eventuale attribuzione della rendita, poiché l’iscrizione nel catasto dei fabbricati
e l’attribuzione della rendita costituiscono presupposti (contestabili unicamente nei confronti dell’organo preposto alle relative operazioni e non nei
confronti del comune) necessari e sufficienti ai fini dell’assoggettamento dell’immobile all’imposta stessa, senza che possano indurre a diversa conclusione il
D.L. 30 dicembre 1993, n. 557 (conv. in L. 26 febbraio 1994, n. 133) e le successive modifiche ed integrazioni di cui al D.P.R. 23 marzo 1998, n. 139, e al
D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (convertito in L. 29 novembre 2007, n. 222), che
hanno influito sui criteri della classificazione catastale e dell’attribuzione della
rendita, ma non hanno determinato la non assoggettabilità all’ICI del fabbricato qualificato come rurale» (Cass. n. 15321/2008, in senso conforme Cass.
n. 20532/2008).
Fu, quindi, la volta dell’ennesimo decreto-legge (30 dicembre 2008, n.
207 conv. nella L. 27 febbraio 2009, n. 14) che, con norma dichiarata espressamente di interpretazione autentica, sancì che, ai fini dell’applicazione dell’ICI, non si considerano fabbricati le unità immobiliari, anche se iscritte o iscrivibili nel catasto dei fabbricati, per le quali ricorrono i requisiti di ruralità
di cui al più volte citato art. 9 del D.L. n. 557/1993.
Questo decreto-legge riuscì, finalmente, a dare un contributo tant’è che
la Corte di Cassazione mutò giurisprudenza e sancì che «in tema di imposta
comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto
Gianni Marongiu
663
fabbricati come rurale, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o
D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal
D.L. n. 557 del 1993, art. 9, conv. con L. n. 143 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto del
D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1 bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, comma 1, lett. a)» 11.
Ma quello stesso legislatore consumò una estrema sopraffazione (che era
anche una palese contraddizione, trattandosi di una disciplina interpretativa
e quindi retroattiva) cui pose rimedio la Corte costituzionale riconoscendo
la incostituzionalità della norma che prevedeva la irripetibilità di quanto
versato a titolo di ICI per le annualità precedenti l’anno 2008.
E la Corte non mancò, in quella occasione, di sottolineare ciò che solo gli
estensori del decreto d’urgenza avevano mostrato, impavidi e avidi, di ignorare e cioè che «è costante, al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare la illegittimità costituzionale di disposizioni le quali, posto che
non sia dovuta una prestazione tributaria (o comunque patrimoniale), prevedono poi la irripetibilità di quanto sia stato versato nell’apparente adempimento della (inesistente) obbligazione (sentenze n. 330 del 2007, n. 320
del 2005 e n. 416 del 2000)» 12.
Nel frattempo erano trascorsi 17 anni dall’introduzione dell’ICI ma non
furono sufficienti perché, da ultimo, sulla questione sono intervenute le norme dettate dall’art. 7, commi da 2 bis a 2 quater del D.L. n. 70/2011 per le
quali «ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili ai sensi dell’art.
9, D.L. n. 557/1993, i soggetti interessati possono presentare all’Agenzia del
Territorio una richiesta di variazione della categoria catastale, per l’attribuzione all’immobile della categoria A/6 oppure D/10, entro il termine del 30
settembre 2011, a cui dovrà essere allegata un’autocertificazione nella quale
il richiedente dichiari che l’immobile possiede, in via continuativa, a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda, i
requisiti di ruralità necessari ai sensi dell’art. 9 del D.L. 557/93».
6. Una decretazione d’urgenza televisiva
Una supina acquiescenza, più ancora che una subalternità istituzionale, il
Parlamento mostrò, invece, quando convertì in legge un decreto “televisivo”
11
12
Così Cass., sez. un., 21 agosto 2009, n. 18565.
Così Corte cost., 22 luglio 2009, n. 227.
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trasfuso in un decreto-legge del maggio del 2008, con il quale fu disposto
che, a decorrere dall’anno 2008 (D.L. 27 maggio 2008, n. 93), sarebbe stata
esclusa dall’ICI l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo. Mancavano, ovviamente, i requisiti previsti dall’art. 77 Cost. a
meno di ritenere un caso straordinario di necessità e d’urgenza la pronta esecuzione di una incauta promessa elettorale e fu un record quanto alla violazione dei principi e alle contraddizioni.
In una stagione di conclamato e avviato federalismo fiscale, mentre il legislatore nazionale sottraeva, indiscriminatamente, ai Comuni una risorsa
importantissima, i difensori delle autonomie, tutti, avrebbero dovuto opporsi
invocando, a ragione, il rispetto delle regole e osservando che i Comuni
avrebbero potuto essere facoltizzati (e non obbligati) a non applicare il tributo: in questo modo ciascuno di essi avrebbe deciso autonomamente in relazione alla propria specifica situazione.
Analogamente avrebbero dovuto opporsi tutti coloro che indulgono
all’uso di una sedicente lingua inglese perché in tutto il mondo anglosassone
(e non solo) i tributi sulla proprietà immobiliare sono applicati e gestiti dalle autonomie locali ed esse possono decidere se applicarli e in quale misura
e con possibili esenzioni (in Italia ovviamente con il doveroso rispetto
dell’art. 23 Cost. che consente anche tributi locali facoltativi).
Ma non meno dura avrebbe dovuto essere l’opposizione di coloro che sono attenti (o dicono di essere attenti) all’equilibrio dei conti pubblici, equilibrio che, in nome e in applicazione della responsabilità, non può non riguardare anche i Comuni: invece, proprio mentre erano ridotti i trasferimenti
dal centro alla periferia, le autonomie locali furono strozzate, tra la sottrazione di un cespite da esse disciplinato e la riduzione dei trasferimenti, con
ciò incidendo anche sul loro ruolo di erogatori di servizi ai cittadini.
Infine, ferma avrebbe dovuto essere l’opposizione di coloro che amano la
trasparenza (e ovviamente non prediligono le mistificazioni) perché, essendo stato sottratto ai Comuni il gettito di un loro tributo, le compensazioni
erariali furono “pagate” anche con i denari di coloro che immobili non ne
possedevano.
Insomma, il legislatore nazionale, tra tante complicità e silenzi, preferì
mettersi le penne del pavone (dimenticando che il “pavoneggiarsi” è effimero e pericoloso nei tempi difficili), le autonomie furono mortificate e i cittadini di ciascun Comune furono espropriati del loro potere di controllo e molto spesso danneggiati vuoi dall’aumento rilevante degli altri tributi comunali
Gianni Marongiu
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vuoi dalla diminuzione della quantità e della qualità dei servizi 13.
In sintesi, in nome di un asserito e straordinario caso di urgenza e di necessità, il Parlamento mostrò una pronta vitalità nel mortificare il proprio
vaglio.
7. Una decretazione d’urgenza asseritamente “concentrante” ma in realtà
sconcertante
Ugualmente significativa è la vicenda relativa alla disciplina delle sanzioni amministrative tributarie.
Nel 1997, nel momento in cui si dettò una disciplina di principi, si scelse
di colpire l’autore della violazione 14.
La legge delega per la riforma dell’ordinamento tributario statale, nella
primavera del 2003, riaprì il fronte delle problematiche là dove statuiva che
«la sanzione fiscale amministrativa si concentra sul soggetto che ha tratto
effettivo beneficio dalle violazioni».
Il “revirement”, brusco e inatteso, destò perplessità per più ragioni, fermo
rimanendo che la regola “societas delinquere non potest” ha una sua relatività
storica e politica onde non può costituire un ostacolo insormontabile alla introduzione di misure sanzionatorie di carattere patrimoniale che, “concentrando” la sanzione sul soggetto che ha tratto beneficio dalla violazione, assumono come possibile soggetto passivo direttamente anche gli enti collettivi.
A livello dell’opportunità si pose l’interrogativo se, fatta una scelta nel
1997, a distanza di pochi anni fosse così urgente rovesciarla, ma lì non si fermarono le critiche perché, mentre il decreto legislativo del 1997 stabiliva e
stabilisce le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia
tributaria”, la legge delega del 2003 riguardava esclusivamente la riforma del
sistema fiscale statale. Quindi, a delega attuata (se attuata), l’unità dell’ordinamento sanzionatorio fiscale, perseguita per decenni, si sarebbe spaccata tra
una disciplina per le sanzioni dei tributi comunali, provinciali e regionali e
una disciplina per i tributi statali.
13
Lo si ricorda perché il provvedimento abrogativo del tributo del maggio 2008 era
provvidenzialmente intitolato “Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto
delle famiglie”.
14
«La sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione» statuisce l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, recante le disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme
tributarie.
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Un bel colpo alla coerenza e alla semplicità dettate dalla lett. c) dello
stesso art. 2 della legge delega.
Sorprendente appariva, inoltre, la formulazione della legge delega per la
sua stringatezza e per il totale atecnicismo delle locuzioni usate dal legislatore delegante stante che le sanzioni si applicano (a), si irrogano (a), si determinano (a carico di) mentre è ben difficile che possano “concentrarsi”: verbo che, secondo il dizionario della lingua italiana, significa radunare, raccogliere in un dato luogo, far convergere verso il centro (!).
Meglio avrebbe fatto a “concentrarsi” il legislatore ma al riguardo non è il
caso di aggiungere altro perché la delega, in parte qua, non fu attuata 15.
In sua vece, all’interno di un decreto-legge dell’autunno del 2003, nel
quale v’era di tutto, fu dettato un precetto che così recita: «Le sanzioni
amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica.
Le disposizioni del comma 1 si applicano alle violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione non sia stata irrogata alla data di entrata in
vigore del presente decreto.
Nei casi di cui al presente articolo le disposizioni del D.Lgs. 18 dicembre
1997, n. 472, si applicano in quanto compatibili» 16.
Questa norma suscitò immediate perplessità 17 ed è ben comprensibile.
Nel 1997, nel momento in cui si era dettata una disciplina di principi si
era scelto di colpire l’autore della violazione. Nel 2003 si decise di rovesciare il principio ma, mentre nella primavera, nella legge delega, si voleva la
concentrazione delle sanzioni amministrative, sui soggetti, su tutti i soggetti,
che avessero tratto effettivo beneficio dalla violazione, nell’autunno dello
stesso anno solo per alcuni enti si scelse di adottare questa regola.
Evidentemente nell’estate del 2003 era accaduto un fatto straordinario
che aveva reso necessario e urgente adottare la regola “societas delinquere potest” solo per quelle dotate di personalità giuridica mentre, fino ad allora, e
per decenni, si erano contese il campo due soluzioni o la sanzionabilità dell’autore della violazione o la sanzionabilità del contribuente.
15
Per la illustrazione del troncone di riforma attuata alla luce dei diversi significati della
locuzione “certezza del diritto” si veda FALSITTA, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, p. 446 ss.
16
Così l’art. 7 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, conv. nella L. 24 novembre 2003, n. 326.
17
Si veda MARONGIU, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario,
in Riv. dir. trib., 2004, I, pp. 373-416.
Gianni Marongiu
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E così, oggi, in Italia vige, quanto alle sanzioni amministrative, un sistema
binario, privo di qualsiasi ragionevolezza perché non è facile spiegare al ragioniere di una società in nome collettivo che, in quanto possibile autore
della violazione, ne risponde mentre il ragioniere di una s.r.l. ne va esente.
Ma forse proprio questo era il caso urgente, impedire che si consolidasse
qualsiasi principio e porre l’interprete ancora una volta di fronte a difficoltà
e perplessità che, nel 1997, si erano volute superare.
Dubbio che è avvalorato dalla lettura dell’ultimo comma del citato art. 7
per il quale “nei casi previsti” dalla nuova disposizione, le antecedenti norme del decreto del 1997 “si applicano in quanto compatibili”.
È una di quelle formulazioni che ci si augurava proprio di non leggere più.
Essa confligge, infatti, con l’art. 2 dello Statuto dei diritti del contribuente perché la chiarezza e la trasparenza delle disposizioni tributarie esigono
che sia il legislatore a precisare quali norme di altri provvedimenti si intendono applicare. Confligge, altresì, con la Direttiva del Ministro delle finanze
del 12 settembre 2000 secondo cui «d’ora in avanti particolare attenzione
andrà riservata alla qualità dei testi normativi, essendo evidente che lo Statuto in questa parte si rivolge sia al Governo che al Parlamento».
Ed è scelta ancora più sorprendente perché la legge delega per la riforma
del sistema fiscale statale (del 2003) aveva recepito lo Statuto e sanciva che
«le norme fiscali, in coerenza con le disposizioni contenute nella legge 27 luglio 2000, n. 212 (recante lo Statuto dei diritti del contribuente) sono informate ai principi di chiarezza, semplicità, conoscibilità effettiva» (art. 2, lett. c).
Insomma, il legislatore della legge delega, e cioè il Parlamento, nell’indicare i principi e i criteri direttivi relativi anche alle sanzioni, nella primavera
esigeva chiarezza, semplicità e conoscibilità; il Governo legislatore, nell’autunno, inserì, invece, nella disciplina delle sanzioni un “ibis redibis non morieris in bello” che scarica sull’interprete l’onere di mettere le virgole e contraddice le regole sancite dallo Statuto e richiamate dalla legge delega pochi
mesi prima.
Ma, in realtà, il ministro delle finanze e la sua burocrazia, autori del decreto-legge del 2003, e quindi anche dell’ultimo comma dell’art. 7, riuscirono
a fare ben di più perché contraddissero la Direttiva data dallo stesso Ministro (ci si riferisce alle istituzioni non alle persone) nel 2000 che richiamava
l’obbligo di garantire “la qualità dei testi normativi”.
E il Parlamento rimase silente di fronte a precetti tanto ondivaghi quanto
equivoci e per di più relativi a sanzioni, mentre «la correttezza e la buona fede
nei confronti del contribuente debbono essere osservate non solo dall’ammi-
668
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nistrazione finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore all’atto dell’emanazione delle fonti normative, come emerge in particolare dall’art. 2 dello Statuto che detta i criteri di chiarezza e trasparenza che debbono
essere osservati nelle disposizioni tributarie» 18.
8. Una decretazione d’urgenza anticipata ...
La conseguenza è ovvia e ineluttabile nel senso che i governi si accorgono del loro crescente ed esclusivo potere in materia fiscale e lo esercitano
ben sapendo che tutto è tollerato, non solo che il governo contraddica se
stesso ma anche che vanifichi i principi posti dallo stesso Parlamento.
Ne costituisce esempio il decreto-legge con il quale si è modificata la disciplina del cosiddetto accertamento sintetico e redditometrico 19.
Ebbene, per quanto riguarda l’applicazione temporale del nuovo accertamento sintetico, l’art. 22 stabilisce che esso dispiegherà la propria efficacia
«... con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto ...» e quindi anche per gli accertamenti relativi ai redditi del periodo
d’imposta 2009. Di conseguenza, per i periodi precedenti ancora accertabili,
ossia quelli che vanno dal 2005 al 2008, l’accertamento sintetico e il redditometro continueranno ad essere applicati sulla base del testo dell’art. 38
antecedente alle modifiche e ciò non soltanto in relazione agli avvisi di accertamento che sono stati già emanati, ma anche a quelli che invece lo saranno negli anni futuri.
Invece, per l’anno 2009, per l’anno 2010 (e ovviamente per quelli successivi) si applicherà la nuova normativa ancorché dettata nel 2010.
Il legislatore ha ritenuto, evidentemente, di essere svincolato dal rispetto
del principio di irretroattività della legge tributaria, ribadito dallo Statuto
del contribuente 20 e presidiato dall’art. 53 Cost. e dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale che lo considera «principio generale dell’ordinamento,
cui il legislatore deve, in linea di principio attenersi» 21.
18
Così Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080.
Si veda il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. dalla L. 30 luglio 2010, n. 127.
20
«Le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo» dispone il suo art. 3.
21
Così, ex plurimis, Corte cost., 4 novembre 1999, n. 416 e Corte cost., 13 ottobre 2000,
n. 419.
19
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Né sembra convincente la replica che le norme di carattere procedimentale possono applicarsi anche ai rapporti sorti prima dell’entrata in vigore
delle stesse, senza violare il principio di irretroattività e che l’accertamento
sintetico e redditometrico è privo di una reale portata innovativa, raccordandosi allo strumentario già previsto dal modificato art. 38 del quale altro non
sarebbe che un aggiornamento operativo.
Oggi, infatti, alla luce dei principi generali e dello Statuto, questa ultima
prospettiva è contestabile sotto più profili e la scelta del legislatore appare
comunque censurabile, se non altro perché l’accertamento sintetico e redditometrico è nuovo nella sostanza essendosi mutati i requisiti per la sua applicazione (è sufficiente lo scarto del 20% per un anno) ed essendo radicalmente innovato l’ordito normativo.
Conseguentemente, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio generale, figlio dell’affidamento del contribuente nella sicurezza e nella certezza del diritto e dettato dall’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente,
(legge ordinaria fortemente voluta dal Parlamento) per il quale non solo le
disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo ma, relativamente ai tributi periodici, le modificazioni legislative si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono.
Il legislatore dello Statuto, infatti, proprio per tutelare l’affidamento, ha
dettato una regola e cioè che occorre avere riguardo al periodo d’imposta e
solo ad esso per decidere quale disciplina si applica nella successione delle
norme, ed è regola logica perché esso, e cioè il periodo d’imposta, è la dimensione temporale nella quale si produce e va accertata e valutata la capacità
contributiva specificatamente tassata.
Invece, il decreto-legge del 2010 ha attirato nella nuova disciplina gli anni “2009” e “2010” a conforto della conclusione che il governo-legislatore ritiene talmente irrilevanti i principi dettati dal Parlamento-legislatore che non
sente neppure la necessità di derogarli esplicitamente.
Semplicemente li ignora confidando che la trascuratezza dell’una o meglio dei due, la Camera e il Senato, e l’applicazione di vecchi criteri di valutazione valgano a mortificare il riscontro della possibile violazione di un principio generale e di una regola dettata dallo Statuto con i quali, invece, occorre, comunque, fare i conti.
Infatti, a tutela dell’affidamento, della buona fede e del diritto di difesa, il
contribuente deve essere edotto, sin dal momento della predisposizione della
dichiarazione dei redditi, dei fatti, degli indizi, delle modalità e degli strumenti attraverso i quali la amministrazione può procedere alla rettifica della di-
670
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chiarazione stessa proprio perché la prova e la documentazione ex post delle
circostanze possono essere più difficili e addirittura impossibili. Non a caso
l’art. 5 dello Statuto del contribuente statuisce che «l’amministrazione finanziaria deve portare a conoscenza dei contribuenti tempestivamente con mezzi
idonei, tutte le circolari e le risoluzioni da essa emanate, nonché ogni altro atto o decreto che dispone sulla organizzazione, sulle funzioni e sui procedimenti»
(così il comma 2).
Obbligo che, all’evidenza, è funzionale al fatto che il contribuente, nel
momento in cui è chiamato ad assolvere i propri doveri, deve essere posto in
grado di conoscere le conseguenze delle proprie scelte economiche 22 onde
non possono trovare applicazione retroattiva né le norme sostanziali né
quelle procedimentali 23.
Significativamente in una recente sentenza della Corte di Cassazione si
legge: «L’utilizzo dei coefficienti presuntivi indicati nel redditometro sui
redditi dei periodi di imposta anteriori comporta l’applicazione retroattiva
di disposizioni normative contraria allo Statuto del contribuente e quindi
vietata quando i nuovi decreti prendono in considerazione indici di capacità
contributiva prima ininfluenti e quindi lungi dal rappresentare un semplice
aggiornamento Istat delle tabelle precedenti stabiliscono una normativa diversa di calcolo, con differenti parametri di base e con nuovi coefficienti di
valutazione, il tutto con incidenza sull’ammontare del tributo richiesto» 24.
Invece, quel governo, il legislatore dell’urgenza ha ignorato tutto, ha ignorato la giurisprudenza che applica i principi e i principi stessi e ha irriso il Parlamento che tollera tanta burbanza.
E così, mentre nel decreto-legge, entrato in vigore nel mese di maggio
del 2010, si fa riferimento, a un emanando decreto ministeriale, che dovrà
rendere operativi i criteri indicati dalla legge per il nuovo redditometro, nel
mese di marzo del 2012, si è ancora in attesa del provvedimento amministrativo e la sua approvazione è prevista per il prossimo mese di giugno.
Il che fa onore all’amministrazione che intende garantire un lavoro curato e ben meditato ma pone un serio interrogativo sull’esistenza, nella primavera del 2010, della necessità e urgenza del decreto-legge.
22
Si veda al riguardo MARONGIU, Lo Statuto, cit., spec. p. 127 ss.
Si veda ancora MARONGIU, Lo Statuto, cit., p. 92 ss.
24
Così Cass., sez. trib., 29 aprile 2009, n. 10028, in GT, 2009.
23
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671
9. e una posticipata
Alla luce di queste considerazioni ha suscitato e suscita non minore stupore la cosiddetta concentrazione della riscossione nell’accertamento. Con
l’art. 29 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (conv. nella L. 30 luglio 2010, n.
122) si è sovvertito un sistema più che secolare che prevedeva la distinzione
tra la fase di accertamento di un tributo e quella successiva della sua riscossione e quindi la notificazione di due diversi atti.
Oggi, invece, a seguito della novella si sono concentrati in un unico atto
l’accertamento, il titolo esecutivo e il precetto.
Riforma forse necessaria ma che avrebbe richiesto una maggiore riflessione, un più ampio coinvolgimento dei tecnici, una migliore informazione.
Lo conferma il fatto che, a fronte delle difficoltà interpretative, conseguenti
a «una voluntas legislativa non ancora ben definita e vagamente indirizzata
in conati disciplinari piuttosto approssimativi» 25, il governo è dovuto intervenire, con un secondo decreto-legge (13 maggio 2011, n. 70) e con un terzo decreto (D.L. 6 luglio 2011, n. 98 conv. con la L. 15 luglio 2011, n. 111)
ha posticipato al 1° ottobre 2011 l’applicazione della nuova normativa.
Constatazioni che fanno giustizia anche delle argomentazioni secondo
cui il decreto-legge garantirebbe la rapidità delle decisioni e la loro migliore
formulazione perché questo e i casi sopra ricordati mostrano proprio il contrario e cioè che decreti-legge raffazzonati richiedono modificazioni, ripensamenti, proroghe.
Luigi Einaudi, al termine del suo mandato presidenziale, asserì che quelle
condizioni che sono solitamente ricordate: «impossibilità delle camere di
provvedere a tutto per mancanza di tempo; assorbimento di esse da altri affari, esigenza di affidare al governo il potere di legiferare nell’interesse del paese sono talmente vaghe che consentirebbero qualunque usurpazione da parte
del governo del potere legislativo; ed anche qui l’esperienza del tempo fascistico dovrebbe ammonire» 26.
25
Si veda GLENDI-UCKMAR (a cura di), La concentrazione della riscossione nell’accertamento, Padova, 2011, pp. 5-6 e si vedano anche le considerazioni conclusive di GLENDI
(pp. 711-715).
26
Così EINAUDI, Lo scrittoio del presidente (1948-1955), Torino, 1956, p. 15; si veda
anche infra al par. 12.
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10. Una decretazione d’urgenza per la istituzione di un tributo ordinario: la
Robin Hood Tax
Si infittiscono, così, le censure di incostituzionalità come è accaduto al
decreto-legge istitutivo della c.d. “Robin Tax” che merita una distinta e autonoma riflessione.
Lo Statuto del contribuente opportunamente prevede che «non si può
disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti».
È una regola che trova la sua origine nell’intento di evitare «l’incauta introduzione di nuove forme di imposta» con decreto-legge 27 e, se ben intesa,
e quindi distinguendo tra tipologie di tributi, non costringe il legislatore in
un letto di Procuste.
Per convincersene è sufficiente ricordare che l’urgenza, secondo l’autorevole insegnamento di Livio Paladin, va intesa, ex art. 77 Cost., in stretto rapporto con la funzione propria del decreto-legge quale strumento “eccezionalmente” destinato a sostituire la legge ordinaria e quindi richiede che, malgrado l’importanza e la improrogabilità delle misure progettate dal governo,
queste non possano, per motivi tecnici, «compiersi efficacemente e immediatamente dalle Camere» 28.
D’altro canto, il presupposto della straordinarietà implica il verificarsi di
situazioni eccezionali e imprevedibili 29 o, comunque, non frequenti né sistematiche 30.
Orbene, se ex art. 77 Cost., particolare deve essere la necessità, se eccezionale e imprevedibile deve essere la situazione, se impellente deve essere
l’esigenza, con specifico riguardo alla materia tributaria il decreto-legge può
essere utilizzato per provvedere ad eventuali, urgenti necessità finanziarie
non solo con le manovre sulle aliquote di tributi esistenti ma anche istituendo nuove imposte, a condizione per altro, che siano straordinarie e cioè non
destinate a durare.
È il caso, concreto, della cosiddetta Socof (1983) o della cosiddetta ISI
(1992), istituite entrambe, per un solo anno per fare fronte a specifiche, eccezionali e imprevedibili necessità.
27
Così MINISTERO PER LA COSTITUENTE, Rapporto della Commissione economica, vol. V,
Finanza, Relazione, Roma, 1946, p. 20.
28
Così PALADIN, In tema di decreti-legge, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, p. 557.
29
Così SORRENTINO, Le fonti del diritto, Genova, 2002, p. 87.
30
Si veda anche VIESTI, Il decreto-legge, Napoli, 1967, p. 118.
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Lo rilevò la Corte, con riguardo all’imposta straordinaria sugli immobili
che essa «costituisce un tributo la cui istituzione, come emerge dai lavori
parlamentari, aveva il fine di reperire mezzi per il bilancio dello Stato in una
situazione economica del Paese che appariva di notevole gravità, esigendo
dai cittadini sacrifici straordinari per altro limitati a un solo anno» 31.
La legittimità di questo tributo non fu, allora, contestata sotto il profilo
qui considerato ma se questa censura fosse stata fatta, ad essa avrebbe potuto replicarsi che, per sopperire alle straordinarie e urgenti necessità della finanza pubblica, può utilizzarsi uno strumento legislativo non ordinario, quale
è il decreto-legge, e quindi con esso istituire anche un tributo straordinario,
destinato a vivere una breve stagione, quella dell’emergenza. Insomma una
sequenza ineccepibile: esigenze gravi ed eccezionali, necessità anche di un
tributo straordinario, strumento legislativo derogatorio delle normali competenze.
Non appare, invece, compatibile con il principio statutario l’istituzione,
con decreto-legge, di un tributo ordinario perché è contradditorio provvedere, con esso, a soddisfare un’esigenza straordinaria, urgente e imprevedibile.
Per questo motivo manifestammo i nostri dubbi sulla legittimità costituzionale del decreto-legge istitutivo della c.d. Robin Tax 32, dubbi che la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia ha ritenuto non manifestamente infondati sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art.
81, commi 16, 17, 18 del D.L. 26 giugno 2008 (conv. nella L. 6 agosto 2008,
n. 133) per violazione degli artt. 3, 23, 41, 53, 77 e 117 Cost. 33.
Nella ben argomentata ordinanza si legge, fra l’altro, che «il decreto-legge in esame è stato emanato in carenza del presupposto del caso straordinario di necessità di urgenza in quanto l’addizionale è stata istituita per un tempo illimitato, ha carattere di tributo autonomo e ordinario, incide, perciò,
strutturalmente nell’ordinamento tributario e non è conseguentemente misura straordinaria e temporanea per rispondere a una situazione di fatto improvvisa e straordinaria, determinatasi nel mercato degli idrocarburi liquidi
e gassosi» (omissis).
E proprio essa conferma che v’è la possibilità di affrontare anche l’emergenza rispettando i canoni dello Stato di diritto e i precetti costituzionali e
quindi distinguendo tra la fiscalità ordinaria e quella straordinaria.
31
Così Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 21.
Si veda al riguardo MARONGIU, Robin Tax: Taxation without “Constitutional Principles”?, in Rass. trib., 2008, n. 5).
33
Si veda l’ord. 26 marzo 2011 pubblicata in Dir. prat. trib., 2011, II, p. 1185 ss. con nota di MARONGIU.
32
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11. La decretazione d’urgenza in uno Stato interventista
Piena è, ovviamente, la consapevolezza che l’abuso del decreto-legge non
riguarda solo la produzione delle norme fiscali.
Così come è vano riandare o rimpiangere tempi passati e lontani nei quali i
fondatori del moderno costituzionalismo diedero un vigoroso contributo
all’affermazione del principio “No taxation without representation”. Non solo, infatti, ritenevano che «Il potere del legislatore, essendo derivato dal popolo per mandato e istituzioni positivi e volontari, non può essere altro che
ciò che in quel mandato si esprime, cioè di fare leggi, non di fare legislatori
onde il legislativo non può avere alcun potere di trasferire la propria autorità
di legiferare e porla in altre mani»; insegnavano anche che «il legislatore non
deve imporre tasse sulla proprietà del popolo senza il consenso dato dal popolo direttamente o per mezzo dei deputati»: e ciò perché «se vero che il governo non può essere esercitato senza grandi spese ed è giusto che chiunque
goda di questa protezione versi dai suoi averi una parte corrispondente», è
altrettanto vero che «chiunque pretenda di imporre e riscuotere tasse dal popolo per autorità propria e senza il relativo consenso popolare, usurpa la legge
fondamentale della proprietà e sovverte i fini del governo» 34.
Lo Stato di diritto, oggi evocato più che rispettato, viveva, infatti, all’ombra della legge intesa come norma “generale e astratta” mentre il nuovo interventismo statale e la sostituzione di quelle leggi con leggi provvedimento
hanno fatto saltare gli argini (definiti, da altri, paletti per sottolinearne la debolezza) che lo stato di diritto aveva posto a tutela delle libertà individuali 35.
Lo stato sociale ha alimentato una continua produzione legislativa che ha
minato, col tempo, la certezza del diritto (bene pubblico anch’esso oggi più
evocato che rispettato) la cui esistenza, come già si è detto, è strettamente
dipendente dalla persistenza nel tempo di un numero limitato di leggi 36.
E questi processi, ineluttabili in uno Stato democratico, hanno avuto e
hanno importanti ripercussioni istituzionali perché entra in crisi la separazione dei poteri.
34
Così LOCKE, Trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Roma, 1974, pp. 155-156 e
anche p. 7, ove la introduttrice scrive che «i due saggi sono ispirati entrambi alla stessa situazione politica concreta e al concreto impegno di Locke in quella situazione: la lotta, gestita dal partito Whig, negli anni in cui egli scriveva, contro l’assolutismo politico e religioso degli Stuarts, lotta destinata a culminare in quella che amò poi definirsi la “gloriosa rivoluzione”, la rivoluzione costituzionale del 1688-89».
35
Si veda REBUFFA, Costituzioni e costituzionalismi, Torino, 1990, p. 137 ss.
36
Si veda LEONI, La libertà e la legge (1961), Macerata, 1991.
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Insomma, per dirla con le parole di Panebianco, lo «stato interventista è
in grado di eludere i vincoli, di sbarazzarsi di molti limiti e mostra la fragilità
dell’opinione di chi pensava che i nuovi diritti sociali si potessero sommare,
senza contraccolpi, senza ferite, ai vecchi diritti di libertà» 37: questi, e in primis il diritto di proprietà, fondamento della libertà economica e quindi delle
libertà, nel corso del Novecento, sono stati, invece, compressi dall’interesse
pubblico, quando addirittura non sono stati ritenuti meri privilegi e quindi
comprimibili e revocabili a discrezione 38.
Non occorre, quindi, pensare a uno Stato totalitario per cogliere i pericoli di governi che, ampliando i propri campi di influenza, possono incidere
sulle speranze, sulle ambizioni e sui timori dei singoli.
«Se – scrive John Stuart Mill in proposito – strade, ferrovie, banche, assicurazioni, grandi società per azioni, università e opere benefiche fossero
tutte delle branche del governo; se inoltre le amministrazioni municipali e
locali, con tutte le loro attuali competenze diventassero dipartimenti dell’amministrazione centrale; se i dipendenti di tutte queste aziende e istituzioni
fossero nominati e pagati dal governo e si rivolgessero a esso per ogni miglioramento della loro qualità di vita, tutta la libertà di stampa e tutta la democraticità del potere legislativo non renderebbero questo o alcuna altro paese
libero se non di nome» 39.
Ebbene, è facile immaginare quale dialettica possa sopravvivere in un
paese nel quale strade, ferrovie, banche, università, strumenti di comunicazione del pensiero già siano o possano essere influenzati dal governo, se anche le legislazione ne diviene quotidianamente espressione: in specie quella
fiscale.
12. I garanti dell’equilibrio dei poteri: i giudici e la Corte costituzionale
Per altro, è anche vero che proprio la tragica esperienza dei totalitarismi
del ventesimo secolo ha dato nuovo vigore al costituzionalismo e vita ad alcune importanti Costituzioni, quale è quella italiana, introducendo, questa è
la principale novità, il controllo di costituzionalità delle leggi a presidio anche del bilanciamento dei poteri.
37
Si veda PANEBIANCO, Il potere, lo Stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bologna, 2004, p. 148.
38
Si veda REBUFFA, op. cit.
39
Così J.S. MILL, Saggio sulla libertà2, con prefazione di Giorello e Mondadori, Milano,
1999, p. 127.
5.
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Per porre termine alla descritta situazione altro non resta, quindi, che
confidare nelle istituzioni che, all’interno del nostro sistema costituzionale,
garantiscono l’equilibrio dei poteri 40.
Di contro attenuare o non praticare il controllo sui casi straordinari di necessità e di urgenza, accontentarsi di leggi delega vaghe, appiattire il principio di capacità contributiva sul principio di uguaglianza e su un flebile controllo di razionalità 41 significa azzoppare il costituzionalismo, significa renderlo monco e perciò affidare il potere impositivo a una burocrazia sempre
più pervasiva, a un potere sempre più forte e irresponsabile nei confronti dell’opinione pubblica e dei suoi rappresentanti.
E non v’è da stupirsi che quella stessa burocrazia, oltre ad applicare e accertare i tributi (ruolo rilevantissimo) sia tentata di scriversi le leggi, di modificarle, di abrogarle, di interpretarle anche autenticamente (!). E un pericolo più che concreto, denunciato in una sede autorevolissima e al quale
possono porre rimedio solo i giudici e la Corte costituzionale.
Vale al riguardo il severo monito della Corte di Cassazione che, a proposito di una delle numerose norme interpretative (introdotta con decretolegge), scrive: «Si aggiunga, poi, che, come è accaduto nel caso di specie, in
materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto
dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate). Non
sono ispirati, quindi, alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa. Ciò non facilita l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra amministrazione e contribuente basato
sul principio della collaborazione e della buonafede, come vorrebbe lo Statuto del contribuente (art. 10, comma 1, della L. n. 212/2000).
Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’Amministrazione finanziaria,
parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la cui approvazione è
stata condizionata dal voto di fiducia al Governo.
40
«La nostra Costituzione non ha seguito l’idea radicale della concentrazione del potere nell’assemblea del popolo, anzi è partita da una certa diffidenza nei confronti di qualsiasi eccessiva concentrazione del potere ... e quindi ha predisposto congegni di suddivisione e di articolazione dei poteri (due Camere, un presidente della Repubblica garante,
un potere giudiziario indipendente, una Corte costituzionale abilitata ad annullare anche
gli atti del Parlamento, ecc.)» (così V. ONIDA, La Costituzione2, Bologna, 2004, p. 91).
41
Per queste ragioni vanno apprezzate, difese e diffuse le posizioni di chi, come Enrico
De Mita e Gaspare Falsitta, ha posto al centro della propria vita accademica i valori costituzionali: si omettono le indicazioni dei numerosi lavori ben noti a chi li ha letti, inutili da
ricordare a chi intende continuare sulla strada della minimizzazione in nome di una asserita tutela del bene pubblico!
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677
Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del collegio (rispetto alla
scelta legislativa), non ci si sarebbe potuti esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, comma 2, del D.L. n. 23/2006,
con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 Cost., che presuppone una
posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’Amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in
causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della
norme sub iudice» 42.
13. L’appello all’autocoscienza del Parlamento
Necessario e doveroso è, quindi, l’intervento di quelle istituzioni, in primis la Corte costituzionale, cui l’ordinamento affida il compito di controllare
e garantire l’equilibrio dei poteri.
Ma non è sufficiente perché un sistema istituzionale è tanto più salvaguardato se ognuno dei diversi attori istituzionali orienta il proprio comportamento a difesa degli equilibri voluti dalla Carta costituzionale.
Anche il Parlamento, proprio perché la spesa pubblica va finanziata con i
tributi (per evitare la tragica deriva degli anni “’80”) dovrebbe esercitare i
poteri che sono all’origine della sua esistenza, da un lato tenere sotto controllo la spesa 43 e dall’altro ripartire il costo dei servizi pubblici secondo i criteri costituzionalmente fissati (artt. 3 e 53 Cost.). Infatti non essendovi
simmetria tra chi contribuisce con le imposte e chi fruisce dei servizi pubblici, con il fisco e con la spesa si esercita una funzione distributiva, allocativa
ed essa può spettare solo alla istituzione più rappresentativa della volontà
popolare.
Non a caso lo Statuto albertino sanciva, all’art. 30, che «nessun tributo
può essere imposto e riscosso se non con il consenso della Camera e la sanzione regia».
42
Così Cass. civ., sez. un., 30 novembre 2006, n. 2550; a commento FALSITTA, op. cit.,
p. 531.
43
Nel decennio 2001-2011 (Bankitalia lo definisce il decennio “orribile”), secondo
uno studio edito dal Mulino per la fondazione “Astrid” (e curato da Luigi Fiorentino), mentre la ricchezza prodotta pro capite è diminuita in termini reali di quasi il 5%, le uscite correnti, al netto degli interessi, sono salite dal 37,6 al 43,2% del Pil (secondo la GGIA di Mestre, nello stesso decennio la spesa corrente è cresciuta di 142 miliardi di euro).
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Certo, oggi, l’art. 23 utilizza una formulazione più moderna e quindi sancisce che «nessuna prestazione patrimoniale o personale può essere imposta se non in base alla legge»; con la conseguenza che v’è spazio anche per la
legge delega e per il decreto-legge, ma solo la legge ordinaria realizza il principio primo e fondamentale dei tributi, l’auto imposizione, la tassazione con
consenso.
In questo quadro, il decreto-legge è, e deve rimanere, uno strumento eccezionale di legislazione.
Lo volevano proprio i padri costituenti 44, memori dell’abuso dei decretilegge perpetrato in età liberale 45 e in misura massiccia dal regime fascista 46 e
ben consapevoli di quello che sarebbe accaduto se non si fosse adottata una
formula stringente. Scrivevano, infatti: «È universale il rilievo che il sistema
della legislazione per decreto-legge ha creato una situazione caotica, frammentaria, insostenibile nella legislazione tributaria; che il normale cittadino con una
normale diligenza non arriva a conoscere tutti gli obblighi e tutti gli adempimenti che gli sono richiesti dalle leggi d’imposta, per cui nella confusione
e complicazione delle norme trova un facile alibi per violare anche gli obblighi essenziali per la buona amministrazione dei tributi; che gli stessi funzionari della pubblica amministrazione si orientano difficilmente nella selva
selvaggia delle norme tributarie; che il troppo rapido variare delle regole dei
tributi e l’incauta introduzione di nuove forme d’imposta rinnova continuamente gli attriti propri delle nuove imposte, irritando le economie, rendendo instabili gli accomodamenti e gli equilibri dei rapporti, creando e mantenendo
nocive ragioni di incertezza nelle previsioni degli operatori. In sostanza, questi rilievi si risolvono e si concludono nell’affermazione che il sistema tributario, per essere efficace e per essere sopportato coi minori inconvenienti, deve
avere un fondamentale carattere di permanenza nel tempo, in particolare
44
«È anche nella determinazione delle modalità di esercizio della funzione legislativa che
la Costituente parve volere impedire ogni pericolo di usurpazione da parte del Governo del
potere normativo, memore sia dell’esperienza vissuta in età liberale, sia di quella ben più pesante, dei tempi della dittature fascista. Così, infatti, la Costituzione, pur prevedendo la possibilità dell’emanazione da parte dell’esecutivo di decreti-legge e di leggi delegate, circonda
l’esercizio di queste facoltà di una serie di garanzie e di controlli al fine di impedire ogni abuso ai danni del Parlamento, effettivo titolare delle funzioni legislative» (così GHISALBERTI,
Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, 2 voll., Roma-Bari, vol. II, 1977, p. 420).
45
Si veda MARONGIU, La politica fiscale dell’Italia liberale, con prefazione di Pescosolido,
Firenze, 2010, p. 446 ss.
46
Si veda MARONGIU, La politica fiscale del fascismo, con prefazione di Perfetti, Lungro
di Cosenza (CS), 2005, p. 120 ss.
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nella sua struttura formale; e tale permanenza si pensa di realizzare richiedendo forme rigorose per l’approvazione delle leggi d’imposta» 47.
Sembrano parole scritte oggi e, invece, sono solo profetiche di una realtà
alla quale occorre provvedere per ridare al Parlamento il ruolo che gli compete proprio perché, osservava De Viti de Marco a conclusione di alcune
pagine classiche, «il diritto dei contribuenti di consentire le imposte e di ripartirle tra le singole spese è il contenuto economico più importante del moderno diritto costituzionale ed è elemento integrante necessario della teoria
moderna dell’imposta» 48.
Non a caso Luigi Einaudi che, nel suo lungo magistero, mai si stancò dal
porre in evidenza la delicatezza e la difficoltà nella ripartizione del costo dei
servizi pubblici a mezzo dell’imposta 49 difese il Parlamento contro l’accusa
di “vanità nelle discussioni” 50, e, con altrettanta dottrina Ezio Vanoni discutendosi «se dovesse prevalere il principio di una più ristretta competenza
della seconda Camera rispetto alla prima», disse che «non vi è dubbio che
la materia finanziaria, in particolare per quanto attiene all’approvazione delle leggi di imposta e delle leggi di bilancio, è materia tanto delicata e grave
da imporre l’esame da parte di entrambi i consessi legislativi» 51.
E a provvedere il Parlamento dovrebbe essere spinto non solo dall’orgoglio ma anche dall’interesse. Infatti, non è senza conseguenze che si conviva
con un sistema impositivo di stampo burocratico (il governo di cui al precetto costituzionale significa in concreto il ministro competente e questi rimanda alla propria burocrazia) che, alla possibile arbitrarietà, aggiunge la
certezza di essere privo di consenso espresso nelle aule parlamentari perché
istituire con decreto-legge i tributi (o modificarne di continuo la disciplina)
e porre sulla legge di conversione la fiducia significa strozzare il vaglio, il dibattito e quindi “il consenso” del Parlamento 52.
47
Così MINISTERO PER LA COSTITUENTE, op. cit. p. 20.
Così DE VITI DE MARCO, Principi di economia finanziaria, prefazione di Einaudi, Torino, 1953, p. 124.
49
Si veda EINAUDI, Principi di scienza delle finanze, Torino, La riforma sociale, 1932, p.
85 ss.
50
Nella stessa occasione Einaudi scrisse che «deve essere respinta qualsiasi norma la
quale favorisca il ricorso ai decreti-legge e qui, fortunatamente, la legislazione vigente è
abbastanza rigida» (così EINAUDI, Lo scrittoio del presidente, cit., pp. 12-17).
51
Così VANONI, Diritto all’imposta e formazione delle leggi finanziarie, cap. primo del
Rapporto della Commissione economica, cit., ora anche in VANONI, Opere giuridiche, a cura di
Forte e Longobardi, 2 voll., Milano, vol. II, 1962, pp. 472 ss.
52
Si veda BASILAVECCHIA, La crisi nella produzione delle norme tributarie: soluzioni auspicabili e interventi possibili, in Neotera, 2012, vol. I, p. 31 e spec. p. 33.
48
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Se si tollera tutto ciò il baricentro del potere si sposta non solo dal Parlamento al governo ma all’amministrazione e la sua espansione ne fa un potere sempre più autonomo con propri interessi e con una forte capacità di
condizionamento sullo stesso potere politico.
Non a caso, e potrebbe essere oggetto di una riflessione dei Deputati e
dei Senatori, l’esperienza quotidiana dimostra che, oggi, «i funzionari ministeriali tendono a essere oggetto delle cure dei lobbisti più degli stessi parlamentari» 53.
In sintesi, se, come prescriveva il progetto di costituzione della Repubblica napoletana (1799) il fondamentale diritto del popolo è quello di stabilirsi una libera Costituzione, cioè di prescriversi le regole colle quali vuole
vivere in corpo politico, è altrettanto «un diritto inalienabile del popolo farsi da per sé o per mezzo dei suoi rappresentanti delle leggi conformi alla Costituzione che si ha stabilito».
Il che significa che se la deroga, stretta, concessa dall’art. 77 Cost. non
soddisfa più l’esigenza dei “tempi moderni”, vanno trovate nuove soluzioni
tecniche (e vi sono) ma non si possono farisaicamente tollerare ripetute violazioni del disposto costituzionale e poi assurgere a vestali della immutabilità della Costituzione: il documento fondativo della comune convivenza o lo
si rispetta o lo si muta, ma non se ne può fare strame sol perché si ha il potere e chi ha altri poteri, seppure sollecitato, non li esercita.
14. Il recente e non trascurabile depotenziamento di un organo di garanzia:
la mortificazione del garante del contribuente
Gli strappi al disposto costituzionale e le relative preoccupazioni sono
tanto più gravi oggi stagione nella quale si profila una nuova minaccia, il depotenziamento delle stesse istanze di garanzia.
È purtroppo una realtà con riguardo al “garante del contribuente” che,
voluto dalla legge istitutiva 54 come «organo collegiale costituito da tre componenti, inopinatamente è stato radicalmente riformato nella sua natura e
composizione a decorrere dal 1° gennaio 2012: e ciò al dichiarato scopo di
53
Così MATTARELLA, op. cit., p. 61.
Art. 13, comma 2, della L. 27 luglio 2000, n. 212; a commento si veda Commentario
breve alle leggi tributarie a cura di FALSITTA-FANTOZZI-MARONGIU-MOSCHETTI, Padova,
2011, tomo I, p. 587 ss.
54
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concorrere “al raggiungimento degli obiettivi di riduzione della spesa del
Ministero dell’economia e delle finanze”» 55.
Il Garante del contribuente diviene, così, per espressa previsione normativa. “organo monocratico” 56.
Tutto ciò non può non riflettersi sulla efficienza, sulla funzionalità e
sull’effettività delle garanzie poste a tutela dei diritti sanciti dallo Statuto.
A parte i rilievi di ordine costituzionale che possono muoversi alla norma
in esame – palese è la violazione dell’art. 97 Cost. in punto di “buon andamento” dell’Ufficio – è di tutta evidenza che il vulnus arrecato allo Statuto
dei diritti del contribuente, appena dopo un decennio dalla sua entrata in vigore, incrina ulteriormente il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria solennemente affermato nell’art. 10 dello stesso Statuto e
richiamato espressamente nell’art. 13 quale oggetto dell’attività demandata
al Garante.
Fiducia che deve, in ogni occasione, essere rafforzata e non sminuita perché giova all’obbedienza fiscale la consapevolezza del cittadino che le istituzioni, nel loro concreto agire, sono in grado di raggiungere gli obiettivi per i
quali sono state volute.
Invece, a seguito della riduzione del numero dei componenti, è impensabile che il garante monocratico, sfornito di mezzi tecnici adeguati – la cui
fornitura spetta pur sempre all’Amministrazione finanziaria, in particolare
alla direzione regionale delle entrate (art. 13 comma 4) – privo di accesso alla
rete internet e alle banche dati, ospitato in edifici ove si trovano gli uffici della stessa Amministrazione, possa far fronte, con la dovuta efficacia e tempestività, come fino ad oggi è avvenuto, alle richieste di intervento sollecitate
dai contribuenti, spesso i meno provveduto di risorse economiche e di cultura adeguata; inoltre la materia tributaria, per la sua particolare complessità, resa ancora più impervia dalla mancanza di una legislazione organica, soggetta per di più a continue modifiche, necessita di una molteplicità di conoscenze ed esperienze professionali che ben raramente si trovano in capo ad
una sola persona. Non a caso il legislatore ordinario, nell’art. 13 dello Statuto, aveva individuato diverse categorie di nominabili espressioni di culture
ed esperienze diverse e tutte di qualità.
Significativamente, anche alle Commissioni tributarie ottocentesche, ancorché qualificate allora come organi amministrativi e non giurisdizionali, fu
sempre garantita la collegialità.
55
56
Art. 14, comma 27 della L. 12 novembre 2011, n. 183 (c.d. legge di stabilità 2012).
Si veda l’art. 4, commi 36 e 37, della L. 12 novembre 2011, n. 183.
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DOTTRINA
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E non a caso quando la giustizia tributaria era affidata ancora al giudice
ordinario, mai fu deferita all’organo monocratico (allora il pretore) ma sempre agli organi collegiali, il Tribunale e la Corte d’Appello.
Stupisce, quindi, anzi addolora, che solo per il Garante si sia verificata una
situazione anomala rispetto a tutte le altre Autorità di garanzia ove si consideri che lo stesso legislatore, a distanza di poco più di un mese, con la L. 22
dicembre 2011, n. 214 pur riducendo i costi di funzionamento delle Autorità
di Governo, del CNEL, delle autorità indipendenti e delle Province ha, tuttavia, salvaguardato il principio di collegialità.
L’averlo sostanzialmente indebolito avrà quale inevitabile conseguenza
quella di rendere gli Uffici finanziari e gli agenti della riscossione sempre più
autoreferenziali indebolendo in essi lo stimolo ad osservare, nel loro concreto agire, nei rapporti con il contribuente. i principi dello Statuto. E ciò proprio nel momento in cui si fa più intenso il contrasto all’evasione fiscale che
richiede incisività nelle ricerche e rigore nel rispetto delle garanzie 57.
15. “Vulnera” ripetuti alle stesse Commissioni tributarie
Accade, invece, e purtroppo, che, anche con riguardo alle Commissioni
tributarie, si colgano segnali inquietanti.
È emblematico, quanto alla superficialità, il recentissimo caso della modificazione subita dal processo tributario.
L’art. 39, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 (conv., con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111) ha introdotto, per le pretese fiscali non
superiori a 20.000 euro (al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni), il
reclamo e la mediazione tributaria, prevista a pena di inammissibilità del ricorso (!).
È significativo il linguaggio, farisaico, con il quale le novità sono state presentate: da un lato si è parlato di liti “bagatellari”, quasi a sopire l’attenzione
dell’opinione pubblica, e dall’altro si è qualificato il nuovo istituto come una
mediazione, dimenticando che il mediatore, per essere tale, deve essere distinto e diverso dall’autorità che ha emanato l’atto (al riguardo si sarebbe potuto ricorrere al garante irrobustito invece che mortificato).
57
Al riguardo si veda il saggio di LUPI, Evasione fiscale, istituzioni e accordi, in LA ROSA
(a cura di), Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, p. 29 ss.
Gianni Marongiu
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Per di più, nella disciplina, il provvedimento mostra una vistosa lacuna
perché omette qualsiasi riferimento alla, imprescindibile, tutela cautelare giurisdizionale.
Ebbene, nonostante che la nuova disciplina, introdotta il 6 luglio del
2011, si applichi con riferimento agli atti suscettibili di reclamo notificati a
decorrere dal 1° aprile 2012 (scelta di per sé corretta, quella di differire l’applicazione di nuove normative) né il governo né il Parlamento hanno ritenuto di dovere utilizzare i 9 mesi per colmare la vistosa lacuna sulla quale un
concerto di commentatori ha, invano, tentato di richiamare l’attenzione.
A conferma di almeno due annotazioni. La prima è che il governo è ormai il protagonista assoluto e totalizzante della produzione delle discipline
fiscali ed è comprensibile che la burocrazia non mostri una particolare propensione per le “sospensive”; la seconda è che il Parlamento ha completamente perso il gusto e la sensibilità per le discipline di garanzia dei diritti
dell’individuo, onde se essi non fossero presidiati dagli studi della dottrina e
dalla giurisprudenza, il contribuente sarebbe solo “corveabile” non solo dai
tributi ma anche dalle omesse garanzie, ancorché doverose.
E le preoccupazioni derivano dal fatto che alle manomissioni non corrisponde alcuna reazione.
Nei dibattiti parlamentari, nelle trasmissioni televisive più diffuse, sui
quotidiani tanto si parla di giustizia ma mai della giustizia tributaria ancorché essa coinvolga, ogni anno, milioni di persone, certo più di quella civile e
di quella penale e ancorché essa sia divenuta costosa.
Nel silenzio, e quindi, nella generale complicità, si depotenzia, anche
economicamente, il consiglio di presidenza della giustizia tributaria, si continuano a denominare gli organi della relativa giustizia “Commissioni” quasi
che essa fosse una giustizia minore 58 e non si garantisce a questi giudici la
piena autonomia finanziaria attraverso l’utilizzazione dei contributi unificati, già previsti dalla legge, per compensare i giudici tributari in misura adeguata alla qualità e alla quantità delle funzioni espletate (nonché delle segreterie).
Vi dovrebbero essere, invece, segnali importanti volti a fugare il dubbio
che le necessità e i difficili momenti delle emergenze siano utilizzati per indebolire lo Stato di diritto.
58
Per la trattazione del processo tributario alla luce della istanza del giusto processo e
dei principi del diritto europeo si veda DEL FEDERICO, Tutela del contribuente e integrazione
giuridica europea, Milano, 2010, p. 299 ss. e, ivi, la illustrazione analitica delle numerose
“anomalie” da cui è ancora gravato.
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DOTTRINA
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È questa una tentazione che si ripete nel tempo ma cui occorre resistere perché gli Stati “burocratici” sono una delle tante forme degli assetti autoritari.
59
59
Si veda MOSCHETTI, Il “principio democratico” sotteso allo Statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva, in AA.VV., Consenso, imparzialità ed equità nello Statuto del
contribuente, Studi in onore del prof. G. Marongiu, Torino, 2012.
Salvatore Muleo
IL PRINCIPIO EUROPEO DELL’EFFETTIVITÀ
DELLA TUTELA E GLI ANACRONISMI
DELLE PRESUNZIONI LEGALI TRIBUTARIE ALLA LUCE
DEI POTENZIAMENTI DEI POTERI ISTRUTTORI
DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
THE EUROPEAN PRINCIPLE OF EFFECTIVE PROTECTION
AND THE ANACHRONISMS OF LEGAL TAX PRESUMPTIONS
IN THE LIGHT OF THE STRENGTHENING OF THE TAX
ADMINISTRATION’S POWERS
Abstract
I poteri dell’amministrazione finanziaria sono stati significativamente incrementati dalle recenti disposizioni normative e la perdurante presenza di diverse presunzioni legali richiede una riflessione sulla loro compatibilità con essi.
La permanenza di alcune presunzioni legali nell’ordinamento italiano può esser
messa in dubbio, poiché dev’esser costantemente verificata alla luce del principio
europea di effettività della tutela.
Il principio di vicinanza della prova, inizialmente elaborato dalla giurisprudenza
civile e quindi diffuso nelle altre discipline, è il riferimento da prendere in considerazione con riferimento alla distribuzione dell’onere della prova.
Parole chiave: diritto interno, prova, effettività della tutela, vicinanza della prova, disapplicazione presunzioni legali
The tax administration’s powers have been significantly strengthened by recent laws;
the concurrence of several legal tax presumptions requires to analyze their compatibility with the former. The provision of legal tax presumptions is doubtful in the light
of the European principle of effective protection.
The principle of the proximity of the evidences, initially worked out by the jurisprudence of civil courts and then spread into other branches of the legal system, has to be
evaluated with regard to the rules on the distribution of the burden of proof.
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DOTTRINA
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Keywords: national law, proof, effective protection, proximity of the evidences, nonapplication of presumptions
SOMMARIO:
1. L’ingigantimento dei poteri istruttori in capo all’Amministrazione finanziaria e precipuamente all’Agenzia delle Entrate. – 2. Il ruolo delle presunzioni legali nei sistemi probatori ed il
criterio della vicinanza o della disponibilità della prova a partire dalle elaborazioni civilistiche. –
3. La problematica coesistenza di presunzioni legali e di poteri ingigantiti per il discoprimento
della prova nell’ordinamento tributario ed i dubbi sulla disapplicazione delle presunzioni legali
alla luce del principio di effettività della tutela.
1. L’ingigantimento dei poteri istruttori in capo all’Amministrazione finanziaria e precipuamente all’Agenzia delle Entrate
Negli ultimi anni, come noto, si è assistito ad un sensibile potenziamento
dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria. Tale fenomeno, al quale si è assistito nel nome della lotta all’evasione fiscale, è per certi versi condivisibile e per altri meno.
Nel primo senso sono sicuramente da condividere tutte quelle disposizioni che, superato l’antico baluardo del segreto bancario, hanno esteso le
potestà investigative sui conti bancari anche ad ipotesi in cui l’accertamento
del fatto riguardasse la realizzazione di un presupposto rilevante ai fini dell’imposta di registro. Una regola siffatta è certamente opportuna, giacché evita che si creino delle differenze assiologiche tra le varie imposte 1 ed in definitiva fornisce (seppur farraginosa) attuazione alla necessità di previsione di
identiche regole per l’accertamento tributario, esigenza alla quale ordinamenti viciniori hanno risposto, come noto, mediante la positivizzazione di
un’unica legge sul procedimento tributario 2.
1
L’idea che esistano imposte aventi valori maggiori di altre non è condivisibile: se si
comprende che alcune imposte, per la loro derivazione comunitaria e la loro funzione di finanziamento anche parziale delle necessità dell’UE, possano avere alcuni profili differenziati
in ragione delle rigidità da ciò derivanti, tuttavia andrebbe rivisto il posizionamento differenziato previsto, per esempio, dalla legge fallimentare in ordine ai gradi di privilegio, posizionamento che appare ispirato a risalenti destinazioni del gettito delle rispettive imposte.
2
I primi riferimenti che vengono alla mente sono all’Abgabenordnung tedesco o al Livre
des procedures fiscales francese.
Salvatore Muleo
687
Per altro verso, seri dubbi devono essere avanzati invece in ordine alla recente previsione in base alla quale 3 gli operatori finanziari sono tenuti a comunicare periodicamente all’anagrafe tributaria le movimentazioni dei conti bancari ed assimilati. Si tratta, invero, di un obbligo mai previsto in precedenza 4, la cui attuazione causa una lesione della privacy dei contribuenti
dalle dimensioni inestimabili ed in realtà dipendenti dalle modalità con cui
tale potere sarà esercitato. Se l’accesso a quella banca dati sarà limitato allo
specifico verificatore del contribuente, la questione si prospetterà negli stessi termini in cui essa era precedentemente inquadrabile e la lesione della
privacy sarà l’ineluttabile sacrificio conseguente all’esercizio di un potere diretto a dare attuazione all’interesse fiscale. Analogamente si dovrà concludere per il caso di verifica a carico di terzi. Ma, al di fuori di dette ipotesi, l’eventualità che i conti correnti siano visionati indipendentemente da verifiche in corso o per tentare ispezioni random lascia profondamente perplessi.
E peraltro si deve anche censurare il sostanziale arbitrio che il legislatore ha
contemplato, allorquando ha permesso che il Direttore dell’Agenzia delle entrate disponesse praticamente ad nutum le modalità della comunicazione e
della conservazione dei dati bancari, dopo aver solo sentito le Associazioni
di categoria degli operatori finanziari ed il Garante per la protezione dei dati
personali ma senza obbligo di adeguarsi alle eventuali prescrizioni che quei
soggetti dovessero indicare.
Tuttavia, prendendo atto della regolamentazione esistente 5, occorre inquadrarla nel sistema probatorio tributario complessivamente applicabile all’ordinamento italiano, non senza rimarcare che, a seguito della ricordata addizione normativa, all’Agenzia delle entrate è stato conferito un potere di accesso alle prove di cui al momento persino il Procuratore della Repubblica
non dispone. Ed è evidente che ciò è paradossale.
3
Si veda in proposito l’art. 11, commi 2 e 3, del D.L. n. 201/2001, come conv. in L. n.
214/2011.
4
È singolare osservare come sia passato sostanzialmente sotto silenzio, nell’opinione
pubblica, un provvedimento che nemmeno nella fantasia orwelliana di “1984” era stato
immaginato; o forse semplicemente esso non è stato compreso.
5
Tale provvedimento è stato interpretato come necessitato alla luce delle emergenze
finanziarie ben note dal Garante per la privacy pro tempore nel proprio parere al provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, come riportato da Il Sole 24 Ore del 19
aprile 2012. Non può condividersi tuttavia la focalizzazione del parere del Garante sui soli
profili della trasmissione dei dati e non anche su quelli, che sembrano altrettanto e forse
anche più rilevanti, della gestione dei dati, una volta acquisiti.
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2. Il ruolo delle presunzioni legali nei sistemi probatori ed il criterio della vicinanza o della disponibilità della prova a partire dalle elaborazioni civilistiche
Alla base della decisione giudiziale, ed anche della decisione amministrativa, è, evidentemente, l’apprensione del fatto da sussumere nella fattispecie
legale. I modelli processuali (e procedimentali) hanno da sempre risolto il
problema dell’accertamento del fatto consentendo alle parti di accedere al
materiale probatorio oppure colmandone le lacune conoscitive attraverso la
previsione di presunzioni legali.
È noto, peraltro, che la regola civilistica che definisce le presunzioni legali come «le conseguenze che la legge trae da un fatto noto per risalire ad un
fatto ignorato», infelicemente accomunate dall’art. 2727 c.c. alle praesumptiones hominis 6, fonda la sua ratio nel favorire la posizione processuale di una
delle parti, rendendone più agevole l’esercizio di un diritto, allorquando la
prova specifica di un fatto risulti gravosa o impossibile 7.
In altri termini, l’ordinamento soccorre la parte ritenuta debole (non sotto il profilo sostanziale, bensì quanto alle facoltà di accesso al materiale probatorio), applicando delle inferenze desunte da verificate ricorrenze e, soprattutto, invertendo l’onere della prova.
Occorre però domandarsi se il legislatore abbia una libertà totale nel prevedere presunzioni legali (che del resto, come noto, sono tipiche). Il che è
come chiedersi se il criterio di riparto degli oneri probatori secondo cui essi
sono ordinariamente addossati all’attore trovi fondamento e garanzia in una
norma sovraordinata.
È usualmente riportata come regola generale in tema di onere della prova quella fornita dall’art. 2697 c.c., per la quale colui il quale vuol far valere
un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento,
mentre il convenuto deve fornire la prova delle proprie eccezioni.
Sebbene in carenza di richiami espliciti tra la materia tributaria e quella
civilistica, questa regola è stata pacificamente ritenuta applicabile all’ambito
6
È pacifico in dottrina come si tratti di fenomeni del tutto differenti: v. per tutti TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 443 nota 108, ANDRIOLI, (voce) Presun-
zioni, in Nov. Dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 766.
7
Così TARUFFO, (voce) Onere della prova, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIII, Torino,
1997, p. 76, ID., (voce) Presunzioni, I, Diritto processuale, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, p. 1, ID., Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992,
pp. 733-756, ANDRIOLI, (voce) Presunzioni (diritto civile e diritto processuale civile), in Nov.
Dig. it., XIII, Torino, 1968, p. 767.
Salvatore Muleo
689
tributario, quanto meno a partire dagli ultimi decenni 8, in quanto espressione della regola generale dell’ordinamento secondo cui l’onere della prova
incombe su colui il quale afferma qualcosa.
Ma, in realtà, proprio nell’elaborazione dell’Allorio la soluzione in ordine
al riparto dell’onere della prova era ricollegata, sulla scorta dell’osservazione
del dato normativo, alla facilità della prova stessa 9, sostanzialmente affermando che la giustificazione dell’onere (o dell’incombenza, utilizzando la terminologia preferita dall’Autore) della prova potesse risiedere nelle numerose
presunzioni legali volte ad alleggerire i “pesi probatori” dell’ufficio 10-11.
Non sono mancate, nell’elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale, anche nella materia tributaria le pronunzie che hanno inciso su
disposizioni che limitavano il potere di difendersi provando 12.
Tuttavia, una tale interpretazione si è limitata a considerare le vicende
probatorie in termini classici ed a riflettere esclusivamente sul ruolo delle presunzioni legali in sé 13.
8
Sul punto v. CIPOLLA, L’onere della prova, in AA.VV., Il processo tributario, a cura di
TESAURO, Giur. Sist. di dir. trib., Torino, 1998, p. 532 s.
9
Si veda ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, p. 384 s.
10
L’osservazione rimane esatta anche se si rileva, con TARUFFO, op. loc. cit., che le presunzioni legali esulano in realtà dal fenomeno probatorio, poiché Allorio non a caso parlava di
“alleggerimento” dei normali pesi probatori. Nel senso che le presunzioni legali relative
comportano un alleggerimento degli oneri probatori posti a carico dell’amministrazione finanziaria, si veda anche FALSITTA, Le presunzioni in materia di imposte sui redditi, in AA.VV.,
Le presunzioni in materia tributaria, a cura di GRANELLI, Atti del Convegno nazionale di Rimini del 22-23 febbraio 1985, Rimini, 1987, p. 59 ss.; LA ROSA, Principi di diritto tributario,
Torino, 2006, p. 327; CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo, Padova, 2005, p. 637.
11
A non diverso risultato era giunto nella sua famosa opera MICHELI, L’onere della prova, Padova, rist. 1966, nella prefazione; ma v. p. 237 per una differenziazione della soluzione a seconda che si trattasse di lite avente ad oggetto tributi nel processo tributario o nel
normale processo civile.
12
Si veda, per esempio, la sentenza 25 febbraio 1999, n. 41 Cost. in merito all’art. 26
della legge di registro, di cui si dirà appresso nel testo.
13
La necessità che le norme in tema di presunzioni legali relative rispettino il diritto di
difesa del contribuente ed un generale criterio di ragionevolezza, nonché il principio di capacità contributiva, era già stata posta in rilievo da CIPOLLA, La prova, cit., p. 652. In senso
analogo MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore,
Torino, 2008, p. 44. Le opinioni degli Autori sono condivisibili, precisando però che si potrebbe dubitare sull’idoneità del principio di ragionevolezza a fungere da parametro di costituzionalità, sebbene la stessa Corte costituzionale ne faccia spesso uso. Difatti, esso si
risolve o nel richiamo ad altro principio costituzionale ed allora è inutile (ad esempio, è
irragionevole poiché viola l’art. 3 Cost.) o nell’evocazione di valori esogeni alla Carta costi-
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Può essere invece ora avviata una nuova riflessione, che prenda le mosse
dagli orientamenti che la giurisprudenza, soprattutto in materia civile e del
lavoro, ha assunto nel corso dell’ultimo decennio.
A far data dalla ben nota sentenza della Corte Cass., sez. un., n. 13.533/
2001 14, difatti la giurisprudenza ha affermato che l’onere della prova deve essere ripartito tenendo conto della possibilità in concreto per l’una o per l’altra
parte di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione 15.
Nel nome di questo principio, denominato della vicinanza o della disponibilità o della riferibilità dei mezzi di prova, essa ha fornito una lettura della
norma dell’art. 2697 c.c. consistentemente differente da ogni possibile interpretazione letterale e sostanzialmente contraria, in alcune ipotesi, al dato
testuale.
Ha superato, cioè, il riferimento normativo all’incombenza dell’onere in
capo a colui il quale affermi la titolarità del diritto per spostarlo in capo a colui il quale abbia la disponibilità del (od anche si trovi più vicino al) materiale probatorio.
Tale orientamento, che rimane da ultimo confermato 16, di fatto stravolge
il significato proprio delle parole dell’art. 2697 c.c. in nome di principi sotuzionale ed allora non è consentito. La tematica, della quale si è in tal modo sintetizzata la
posizione condivisa, è però evidentemente vasta e non può qui nemmeno accennarsi.
14
La si veda in Riv. dir. civ., 2002, 5, p. 707 s. con nota di VILLA, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalità economica, ove sono esaminati i criteri di riparto dell’onere della prova anche alla luce della razionalità economica ed è compiuto un interessante
parallelo rispetto alle esperienze di alcuni ordinamenti stranieri.
15
In materia di lavoro per analoga conclusione v. Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n.
141, in Foro it., 2006, 3, 1, p. 704, con nota di DALFINO, PROTO PISANI.
16
Si veda in tal senso Cass., sez. VI, 23 marzo 2012, n. 4721, in Banca dati Leggi d’Italia
Professionale (che peraltro ha utilizzato il principio della vicinanza della prova in un giudizio di responsabilità disciplinare di un notaio, valorizzando la mancata produzione da parte di questi di alcune fatture comprovanti il suo rapporto con un altro studio, fatture che la
Co.Re.Di. non poteva acquisire e produrre). Ma v. anche Cass., sez. lav., 5 marzo 2012, n.
3.415, in Banca dati Leggi d’Italia Professionale, ove si veda l’interessante specificazione che
il criterio della vicinanza della prova non costituisce regola autonoma sull’onere della prova, bensì criterio per la sussunzione degli elementi di talune fattispecie tipiche nell’ambito
dei fatti costitutivi o di quelli impeditivi a norma dell’art. 2697 c.c., e Cons. Stato, sez. IV,
26 marzo 2012, n. 1750, in Banca dati Leggi d’Italia Professionale, ove è riportato invece che
il principio di vicinanza della prova è principio regolatore della disciplina della distribuzione dell’onere della prova tra le parti processuali (conf. Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2011,
n. 1672, in Danno e resp., 2011, 5, p. 544, e Cons. Stato, sez. V, 28 aprile 2011, n. 2541, in
Dir. e giust., 2011; la valutazione della difficoltà della prova per il cittadino e della facilità
della stessa per la p.a. era già presente in VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, p. 401).
Salvatore Muleo
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stanziali ispirati, come è dato desumere dalle fattispecie richiamate nelle singole sentenze, a ragioni di giustizia sostanziale.
Nondimeno il procedimento ermeneutico seguito, sino a quando rimane
interno all’ordinamento italiano, non può andar esente da censure quanto alla
metodologia, giacché esula in realtà anche dagli stilemi di un’interpretazione adeguatrice (alla stregua del canone dell’art. 24 e/o dell’art. 111 Cost. 17
per sconfinare in una vera e propria correzione del testo normativo.
Per quanto la stessa sentenza capostipite della Cass., sez. un., n. 13.533/
2001 si sia sforzata di sottolineare che il ragionamento giudiziale si svolgeva
in un percorso argomentativo interno all’art. 2697 c.c., in realtà non risulta,
come pure le successive numerose pronunzie che l’hanno seguita 18, convincente sul punto, essendo al contrario evidente l’ottica di valorizzazione del
diritto di difesa delle parti coinvolte e di attuazione del giusto processo (principi, questi, ovviamente condivisi).
Il principio di vicinanza della prova è stato anche esaminato dalla dottrina tributaria, che ne ha valutato l’applicabilità alla materia tributaria 19, talora
anche valorizzando principi propri della materia amministrativa 20.
Queste posizioni vanno però riesaminate alla luce dei principi europei di
effettività della tutela e del giusto processo, che consentono ed anzi obbligano (essi sì) la disapplicazione di norme interne in contrasto con essi 21.
17
L’impostazione privilegiata nel testo considera le presunzioni legali come norme
processuali, aderendo all’impostazione di TESAURO, AA.VV., Le presunzioni nel processo
tributario, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di GRANELLI, cit., p. 47.
18
Ad esempio, si vedano Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582 a proposito di colpa
medica (ma già, sullo stesso tema, Cass., 2 febbraio 2007, n. 2308, Cass. n. 23918/2006,
Cass. n. 3651/2006, Cass. n. 11316/2003) nonché Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n.
577, in Foro it., 2008, 2, I, p. 455, a proposito di responsabilità contrattuale.
19
V. CIPOLLA, op. ult. cit., p. 562 ss. che, sul punto, richiama l’art. 6, comma 4, dello Statuto dei diritti del contribuente.
20
Così, secondo COLLI VIGNARELLI, Ambito di operatività dei poteri istruttori del giudice
tributario (e connesso problema della prova e dell’onere della prova) in alcune sentenze della
Corte di cassazione, in Riv. dir. trib., 2004, p. 1191 s., secondo il quale la disposizione di cui
all’art. 18 della L. n. 241/1990 (invero prevista per l’ambito procedimentale) influenzerebbe, se non si è mal compreso, anche la materia processuale tributaria. Sul punto si veda
anche CIPOLLA, op. ult. cit., p. 563, secondo il quale il criterio della disponibilità della prova
potrebbe essere considerato come un corollario del principio costituzionale di imparzialità
amministrativa.
21
In un’occasione la Corte di Giustizia UE, sez. II, 7 settembre 2006, n. 526/04, in Dir.
com. on line, 2006, ha concluso che per assicurare il rispetto del principio di effettività, il
giudice nazionale, se constata che l’onere della prova, posto a carico del contribuente, può
rendere impossibile o eccessivamente difficile la produzione di tale prova, in particolare
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Nel quadro di una tutela multilivello 22 l’esistenza della norma europea sovraordinata obbliga al suo rispetto, vuoi attraverso la disapplicazione della
norma domestica contrastante vuoi utilizzando un’interpretazione ad essa
adeguatrice ove possibile.
Per questa via – si ripete, per nulla esplicitata nelle sentenze esaminate –
la giurisprudenza della Corte di Cassazione appare allora corretta nel superamento del testo della norma cardine a proposito dell’onere della prova,
che avverrebbe in base ai criteri dell’effettività della tutela e del giusto processo.
Ma affermar ciò equivale a reputare che il principio di riparto dell’onere
della prova in base alla vicinanza del materiale probatorio alle parti abbia valenza sovraordinata; o, che è lo stesso, che dal principio di effettività della
tutela scaturisca come corollario il riparto dell’onere della prova sulla scorta
della vicinanza della stessa.
È ben chiaro, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che le
presunzioni legali in materia tributaria non devono giungere all’opposto effetto di render ardua la difesa, a pena di disapplicazione 23.
perché quest’ultima si fonda su informazioni di cui la parte stessa non può disporre, è tenuto a ricorrere a tutti mezzi procedurali messi a sua disposizione dal diritto nazionale, tra
cui quello di ordinare le necessarie misure istruttorie, inclusa la produzione di un atto o di
un documento ad opera di una delle parti o di un terzo. Una siffatta asserzione non è condivisibile in uno schema processuale fortemente dispositivo, quale quello adottato dal nostro ordinamento; sembra invece più corretto, per le ragioni esposte nel testo, procedere
alla disapplicazione della disposizione che pone quell’onere della prova a carico del contribuente, pervenendo a risultati similari da quelli prefigurati dalla CGCE, ma senza fornire al
giudice tributario alcuna ulteriore facoltà che egli già non abbia.
22
Sul punto da ultimo v. CARDONE, (voce) Diritti fondamentali (Tutela multilivello dei),
in Enc. dir., Annali, IV, 2011, p. 335.
23
V. in proposito Corte di Giustizia UE, sez. V, 9 febbraio 1999, n. 343, in GT-Riv. giur.
trib., 2000, p. 97, con nota di GRATANI. Per Corte di Giustizia UE, 9 novembre 1983, n.
199/82, in Dir. prat. trib., 1984, II, p. 3 «Sono incompatibili col diritto comunitario le modalità di prova che abbiano l’effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente
difficile ottenere il rimborso di tributi nazionali riscossi in contrasto col diritto comunitario, anche se il rimborso di una parte considerevole o anche di tutte le imposte, dazi e tasse
nazionali riscossi in contrasto col diritto nazionale, è soggetto alle stesse condizioni restrittive. Ciò vale in particolare per le presunzioni o i criteri di prova che tendono a far gravare
sul contribuente l’onere di provare che i tributi indebitamente pagati non hanno dato luogo a rivalsa su terzi, o per le particolari limitazioni in merito alla forma della prova da fornire, come l’esclusione di qualsiasi prova non documentale. Una volta stabilita l’incompatibilità della riscossione col diritto comunitario, il giudice nazionale dev’essere libero di valutare se l’onere del tributo abbia dato luogo, in tutto o in parte, a rivalsa». E la Corte di
Giustizia UE, 17 luglio 1997, n. 242, in Cons. Stato, 1997, II, p. 2109, ha stabilito che «in
Salvatore Muleo
693
Tuttavia, questo passaggio ulteriore della connessione del riparto dell’onere con il criterio della vicinanza non pare ancora approfondito da parte
della giurisprudenza.
Se l’intuizione è corretta, ciò varrebbe a significare che ogni presunzione
legale, che importi variazione del riparto ordinario dell’onere della prova,
debba esser verificata alla luce della rispondenza del canone legale alla vicinanza della prova 24. E siccome le presunzioni legali in ambito tributario operano fisiologicamente nel senso di addossare l’onere in capo al contribuente, spostandolo dalla ordinaria incombenza in capo all’amministrazione finanziaria, ciò implicherebbe la verifica della regola nel caso concreto, pur
con una disamina, da parte del giudice, che tenga conto della possibilità di
difesa in casi similari.
A conclusione identica dovrebbe pervenirsi allorquando il legislatore agisca direttamente sull’inversione dell’onere della prova, senza prevedere espressamente una presunzione legale. A maggior ragione a tale risultato dovrebbe giungersi in sede interpretativa, ad esempio nel caso in cui l’inversione
dell’onere della prova si faccia derivare, come fa una non condivisibile giurisprudenza 25, dall’assimilazione di determinate fattispecie alle eccezioni: così,
mancanza di disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di
ciascuno Stato membro (...) stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto. Tuttavia, dette modalità non possono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
comunitario», ribadendo che, nelle controversie di rimborso di tributi riscossi da uno Stato membro in violazione del diritto comunitario, sarebbero incompatibili con il diritto comunitario le condizioni di prova di ogni genere che abbiano «l’effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere detto rimborso». Dalle sentenze della
Corte di Giustizia UE emerge che il giudizio sulle inversioni dell’onere della prova è talora
effettuato alla luce dei canoni della ragionevolezza e della proporzionalità. Tali requisiti, in
assenza di una vera e propria carta costituzionale dell’UE, assurgono a canoni di coerenza
logica e di rispondenza a valori condivisi comunemente, e devono esser interpretati alla
stregua del diritto vivente. Per un’illustrazione delle posizioni giurisprudenziali sul tema v.
AMATUCCI, Inversione dell’onere della prova a fini elusivi ed antievasivi e compatibilità con il
diritto UE, Relazione al Convegno Burden of proof in Tax Law, Milano, 11 febbraio 2011.
24
In tal modo è superata la necessità dell’analisi delle presunzioni legali a seconda che
esse cristallizzino una massima di esperienza o costituiscano una mera facilitazione per la
parte pubblica (v. sul punto TESAURO, Le presunzioni nel processo tributario, cit., p. 45, e più
diffusamente MARCHESELLI, op. cit., p. 20 s.).
25
Da ultimo, Cass., sez. V, sentenza 4 aprile 2012, n. 5377, in Banca dati Leggi d’Italia
Professionale, che in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, ha ritenuto che
incombesse sull’impresa contribuente l’onere di provare i presupposti dell’esclusione di al-
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DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
per le agevolazioni che potrebbero definirsi strutturate non pare che la sussistenza dell’agevolazione possa rappresentare tecnicamente un’eccezione né
che esistano ragioni per reputare il materiale probatorio meno vicino all’amministrazione finanziaria 26 di quanto non esso non sia in condizioni normali e
quindi, in definitiva, per legittimare l’alterazione dell’ordinario criterio di riparto dell’onere della prova.
3. La problematica coesistenza di presunzioni legali e di poteri ingigantiti per
il discoprimento della prova nell’ordinamento tributario ed i dubbi sulla
disapplicazione delle presunzioni legali alla luce del principio di effettività
della tutela
Alla luce di quanto esposto, risulta allora paradossale la coesistenza, nel
sistema tributario italiano, di poteri istruttori talmente ingigantiti in capo
all’amministrazione finanziaria e la possibilità per quest’ultima di utilizzare
presunzioni legali.
Come già detto, la possibilità di utilizzare presunzioni rappresenta lo
strumento con il quale l’ordinamento cerca di colmare le lacune conoscitive
di una delle parti; tuttavia, si deve prendere atto che siffatto utilizzo è strettamente correlato con il rapporto che le parti hanno con le situazioni di fatto e con la rispettiva possibilità di ottenere efficace tutela dall’ordinamento.
Difatti, il principio europeo di effettività della tutela, posto dall’art. 47
della Carta di Nizza-Strasburgo e richiamato dall’art. 6 TUE, costituisce la
chiave di volta che i sistemi probatori devono rispettare.
Si deve escludere, di conseguenza, che un ordinamento domestico possa
prevedere situazioni processuali di vantaggio per una delle parti in contesa.
In quest’ottica, la stessa incisione di un ordinamento sugli oneri della prova deve rispondere a conclamate ricorrenze che giustifichino il discostamencune aree dalla superficie tassabile, ponendosi tale esclusione come eccezione alla regola
generale per la quale al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che
occupano o detengono immobili nel territorio comunale. In tal senso, si vedano anche
Cass., sez. trib., 9 marzo 2004, n. 4766, in Dir. e giust., 2004, 27, p. 109; Cass., sez. trib., 2
settembre 2004, n. 17703/2004, Giust. civ. Mass., 2004, p. 9; Cass., sez. trib., 14 gennaio
2011, n. 775, in Giust. civ. Mass., 2011, 1, p. 58).
26
Condivisibilmente Cass., sez. trib., 14 aprile 2010, n. 8845, in Corr. trib., 2010, p. 1729,
ha concluso che in tema di agevolazioni ICI non ricade sul contribuente l’onere di provare
la ruralità dell’immobile, se esso è iscritto in catasto con attribuzione di una categoria che
presuppone siffatto requisito.
Salvatore Muleo
695
to dai criteri generali, a pena di disapplicazione per conflitto con l’anzidetto
principio generale.
Ed allora, giacché alla luce degli attuali poteri d’indagine spettanti all’amministrazione finanziaria la permanenza di lacune conoscitive tali da giustificare l’inversione dell’onere della prova risulta poco verosimile nell’attuale
momento storico, si può avanzare il fondato dubbio che molte presunzioni
legali previste in favore dell’amministrazione finanziaria costituiscano una
violazione del principio di effettività della tutela e per tal verso siano disapplicabili 27.
Ciò in primo luogo si verifica con riguardo alle presunzioni iuris et de iure,
peraltro abitualmente nemmeno inquadrabili tra le regole relative ai fenomeni probatori, ma ascrivibili a veri e propri spostamenti delle fattispecie impositive.
Si pensi alla presunzione di liberalità dei negozi tra padre e figlio che era
prevista dall’art. 26 della legge di registro; essa però è stata profondamente
incisa dalla sentenza 25 febbraio 1999, n. 41 Cost., con la quale è stata dichiarata l’illegittimità nella parte in cui non consentiva la prova contraria, e
di conseguenza la presunzione è mutata, diventando juris tantum. A parte
tale profilo, peraltro estremamente rilevante, va osservato che la stessa disciplina del registro contempla tuttavia, e condivisibilmente, a far data dal
D.L. 4 luglio 2006, n. 223, le attribuzioni ed i poteri previsti dagli artt. 31 ss.
del D.P.R. n. 600/1973 per le imposte sui redditi, tra cui il potere di effettuare accertamenti bancari nei confronti delle parti del negozio. Se quindi
quella presunzione (nata come assoluta) aveva una giustificazione in una
fase storica in cui determinate tipologie di poteri d’indagine non erano esercitabili ai fini dell’imposta di registro, a conclusione difforme si sarebbe dovuto comunque giungere dopo l’equiparazione richiamata.
Ma anche nel caso delle presunzioni legali juris tantum occorre domandarsi se il risultato dell’inversione dell’onere della prova sia conforme al
principio dell’effettività della tutela e se il legislatore domestico possa godere di assoluta discrezionalità nella ripartizione dell’onere probatorio, stante
lo strettissimo legame che sussiste tra la regola di riparto e il principio dell’effettività della tutela. Alla luce di tale principio, deve ribadirsi la necessità
27
I risultati interpretativi suggeriti non sono contraddetti dall’esistenza di poteri istruttori in capo alle commissioni tributarie, essendo questi ultimi finalizzati alla verifica delle
acquisizioni probatorie effettuate nel procedimento e non potendo il giudice tributario
modificare od integrare il quadro motivazionale e probatorio. Sul punto sia consentito rinviare a MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento,
Torino, 2000, p. 397 s.
696
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
della disapplicazione delle norme che prevedono presunzioni (ossia agevolazioni probatorie) in favore della parte che pur si trova nella piena disponibilità della prova stessa e in sfavore dell’altra. Difatti, se la tutela non può
dirsi effettiva quando è totalmente preclusa, ad egual conclusione deve giungersi quando è resa difficile o nella sostanza impossibile 28.
Si esamini, per esempio, il caso della previsione di cui all’art. 32 del D.P.R.
n. 600/1973, secondo la quale i prelevamenti bancari dei quali il contribuente
non indichi il soggetto beneficiario sono “posti come ricavi o compensi” a base delle rettifiche ed accertamenti; tale norma, come noto, è generalmente inquadrata dalla dottrina maggioritaria come ipotesi fondante l’inversione
dell’onere della prova 29, posta così a carico del contribuente. Peraltro,
nell’interpretazione giurisprudenziale 30, la controprova richiesta al contribuente non è integrata solamente, come la lettura della norma chiede, dalla
indicazione del beneficiario, bensì anche dal rapporto negoziale sottostante
alla dazione di denaro. La norma è volutamente onnicomprensiva (come si
desume dal riferimento ai ricavi o compensi) e riguarda quindi la ricostruzione del fatto sia per imprenditori sia per professionisti 31. Il problema è però
28
Pur senza richiami al principio europeo dell’effettività della tutela, ha concluso come
non potesse risolversi in una prova impossibile l’onere probatorio a carico del contribuente di superare la presunzione di corrispondenza tra il corrispettivo della cessione del bene,
o il suo valore venale nell’ipotesi di destinazione a finalità estranee, e il valore accertato definitivamente ai fini dell’imposta di registro CTR Lombardia, sez. XLIV, 11 novembre
2011, n. 169, in GT-Riv. giur. trib., 2012, p. 244 s.
29
Così, AMATUCCI, Le indagini bancarie nella determinazione del maggior reddito tassabile,
in Riv. dir. trib., 2010, 11, p. 1019; SCHIAVOLIN, Segreto bancario, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, p. 4; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Padova, 1990, pp. 243-244; CORDEIRO GUERRA, Questioni aperte in tema di
accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti, in Rass. trib., 1998, II, p. 560; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte Prima, Torino, 2011, p. 189.
30
Si veda, da ultimo, Cass., sez. V, sentenza 27 gennaio 2012, n. 1180, in Fisco online,
2012; Cass., sez. V, 30 novembre 2011, n. 25502, in Il Fisco, 2011, 47, p. 7687; Cass., sez.
V, 13 maggio 2011, n. 10578, in CED Cassazione, 2011; Cass., sez. V, 25 marzo 2011, n.
6906, in Società, 2011, 5, 590; Cass., sez. V, 28 febbraio 2011, n. 4775, in Fisco online, 2011;
Cass., sez. V, 14 gennaio 2011, n. 767, in Boll. trib., 2011, 6, p. 465.
31
Tale norma, come noto, è stata sottoposta più volte al vaglio della Corte costituzionale per la sospetta lesione degli artt. 3, 24 e 53 Cost. La Corte ha ritenuto manifestamente
infondate plurime rimessioni (v. Corte cost., ord. 6 luglio 200, n. 260, 26 febbraio 2002, n.
33, ord. 23 maggio 2008, n. 173 anche in relazione alla prospettata lesione dell’art. 97
Cost.) non senza dar luogo talora a provvedimenti interpretativi di rigetto (v. Corte cost.,
ord. 8 giugno 2005, n. 225, in cui ha concluso per la legittimità costituzionale della norma,
atteso che «in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza per-
Salvatore Muleo
697
che l’ipotesi, che la norma suppone desunta da ricorrenze di massima, consiste nella vendita con un ricarico del 100% di ciò che si presume sia stato acquistato senza formalizzazione documentale 32. Per alcuni imprenditori ed alcuni professionisti o artisti si può escludere però anche come ipotesi teorica
l’eventualità che essi possano rivendere beni o servizi di terzi non tracciabili
(si pensi all’imprenditore che effettui solo appalti stradali o all’ingegnere o al
cantante). Così, curiosamente, l’ipotesi ricostruttiva ottenuta mediante la
presunzione legale può non esser rispondente né alle ricorrenze di massima
né persino alle eventualità possibili. Per altro verso, qualora il prelievo fosse
stato effettuato per motivi personali correttamente non sarebbe stato assoggettato agli obblighi di documentazione e di registrazione; la controprova,
soprattutto se richiesta a distanza di tempo dal prelievo medesimo, potrebbe
allora essere di difficile concretizzazione già quanto alla ricostruzione dell’evento (ed a maggior ragione quanto al reperimento dei mezzi di prova). Il
risultato di tale meccanismo consisterebbe, quindi, stando alla c.d. presunzione legale, nell’accettazione della ricostruzione di una situazione di fatto in effetti differente da quella vera e nella estremamente ardua possibilità di tutela
per il contribuente al quale quella presunzione sia esposta. E ciò andrebbe in
conflitto con il principio di effettività della tutela 33.
In talune situazioni potrebbe in conclusione doversi concludere per la
disapplicazione delle presunzioni legali previste dall’ordinamento, per violazione del principio europeo dell’effettività della tutela.
centuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati»); una riflessione a parte merita l’ord. 23 novembre 2011, n. 318, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile, sostanzialmente per censure rivolte alle modalità di
redazione dell’ordinanza di remissione da parte del giudice tributario, la questione di legittimità costituzionale posta per l’art. 32, D.P.R. n. 600/1973 in relazione all’art. 24 Cost.
32
Come noto, questa è l’unica lettura in base alla quale la norma può non esser censurata
di incostituzionalità: vale a dire, che a fronte di una uscita finanziaria si supponga un pari costo per acquisto di beni o servizi rivendibili e si supponga altresì la rivendita con un ricarico
del 100%, per cui, sottraendo l’acquisto iniziale, l’utile derivante dalla supposta operazione è
pari al (sempre supposto) costo di acquisto. Qualora si ipotizzasse, invece, un ruolo di sanzione per la reticenza del contribuente, sarebbero violati il principio costituzionale di capacità contributiva e quello che esclude che possano esser previste sanzioni improprie.
33
A maggior ragione il principio sarebbe violato qualora il contribuente avesse fatto
delle spese personali, per esempio, per ragioni di gioco o per altri eventi tollerati dall’ordinamento, ma per i quali non compete azione. Non si vede, secondo le nozioni comuni
come il contribuente possa ottenere dalle persone riceventi la dazione di denaro una qualsiasi documentazione in epoca successiva; né peraltro egli era tenuto a richiedere documentazione probatoria all’epoca del pagamento, trattandosi di atti rilevanti nella sola sfera
personale.
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Maria Rodriguez-Bereijo Leòn 1
NORMAS TRIBUTARIAS ANTI-ABUSO Y CARGA DE LA PRUEBA
EN EL DERECHO TRIBUTARIO ESPAÑOL
NORMA ANTI-ABUSO ED ONERE DELLA PROVA
NEL DIRITTO TRIBUTARIO SPAGNOLO
ANTI-ABUSE RULE AND THE BURDEN OF PROOF
UNDER SPANISH TAX LAW
Abstract
La modalità di ripartizione dell’onere della prova costituisce questione fondamentale in materia fiscale, spesso elemento risolutivo delle controversie affrontate dalla giurisprudenza. Tale questione è, inoltre, oggetto di uno specifico interesse da parte dei legislatori nazionali. Nelle questioni concernenti l’abuso del diritto l’onere della prova è spesso spostato in capo al contribuente, in modo tale
da rafforzare la posizione dell’amministrazione finanziaria. Nell’ordinamento
tributario spagnolo tale caratteristica è rinvenibile in numerose disposizioni speciali anti-abuso dettate in materia di situazioni transfrontaliere e transazioni internazionali. Scopo del presente lavoro è: I) definire la funzione dell’onere della
prova nella legislazione fiscale; II) analizzare la ripartizione dell’onere della prova
nelle clausole anti-abuso generali e nelle principali disposizioni anti-abuso spagnole; III) verificare la compatibilità di tali previsioni con la legislazione europea
e la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.
1
Una versión de este trabajo ha sido publicado en España en el número 344/ 2011 de
la Revista de Contabilidad y Tributación del Centro de Estudios Financieros y recibió un
Accésit Premio de Estudios Financieros 2011. La autora desea mostrar su agradecimiento a
Pietro Mastellone por su ayuda para la publicación en Italia de este trabajo, así como al
profesor Lorenzo del Federico y al resto del Comité de dirección de la revista por su efectiva publicación.
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Parole chiave: onere della prova, clausole generali anti-abuso, norme antielusive
specifiche, transazioni internazionali, legislazione fiscale europea
How the burden of proof is allocated is an important issue in legal disputes concerning
tax matters. Courts often hear tax cases in which the allocation of the burden of proof
is an essential element for the decision. The national tax legislators also show a special
interest in how the burden of proof is allocated. In abusive situations the burden of
proof is often shifted to the taxpayer. This thereby strengthens the position of the tax
administration. Under Spanish tax law this can be identified in many special antiabuse provisions in the context of cross-borders/international transactions. The EU
Court of Justice (CJEU) has held that when a taxpayer has to provide proof in a tax
case, this may only take place on the assumption that he is able to do so without undue administrative constraints. The purpose of this work is: (I) to assess the functions
of the burden of proof rules in tax law; (II) to analyze the division of the burden of
proof in general anti-abuse clauses and in the main special anti-abuse provisions under Spanish law; (III) to verify the compatibility of these clauses with EU law and
with the jurisprudence of the CJEU.
Keywords: burden of proof, general anti-abuse clauses, specific anti-abuse clauses,
cross-border transactions, European Union tax law
SOMMARIO:
I. Carga de la prueba y aplicación del derecho. – II. Carga de la prueba y derecho tributario. – 1. El
“standard of proof” en el Derecho Tributario. – 2. “Burden of production” e inversión de la
carga de la prueba. – III. Las normas tributarias anti-abuso en el ordenamiento tributario español y la
atribución de la carga de la prueba. – 1. La carga de la prueba en las normas generales anti-abuso de
la LGT. – 2. La carga de la prueba en las normas específicas anti-abuso. – IV. Implicaciones de la
jurisprudencia del tjue en relación con la carga de la prueba. – 1. La carga de la prueba en la construcción y aplicación de las normas tributarias anti-abuso. – 2. La carga de la prueba en las operaciones vinculadas: el principio de proporcionalidad y la sentencia del TJUE en el caso SGI. –
V. Conclusiones generales.
I. Carga de la prueba y aplicación del derecho
El punto de partida para la carga de la prueba se sitúa en la duda del juez
u órgano encargado de la aplicación del derecho en el momento de dictar resolución, cuando no ha logrado la certidumbre necesaria en torno al supuesto fáctico que debe enjuiciar, generalmente por insuficiencia probatoria. Pero
¿cuánto se necesita para poder considerar probado un hecho? Esto es lo que
Maria Rodriguez-Bereijo Leòn
701
se ha denominado dosis de prueba, coeficiente de prueba o “standard of
proof” en el derecho anglosajón, que es el nivel de evidencia necesaria para
satisfacer la carga primaria de la prueba y ésta es aquella que la ley atribuye a
una de las partes 2. La determinación de este coeficiente de prueba está en
relación con el tipo de ámbito procesal en que nos encontremos, pues en cada ámbito procesal opera un estándar diferente, en función de los valores
jurídicos en juego. En el ámbito penal es sobradamente conocido el “beyonda-reasonable-doubt” standard de la doctrina anglosajona, en cuya virtud no
puede existir ninguna duda razonable o probabilidad prevalente de la culpabilidad del procesado 3. En el ámbito civil, en cambio, la doctrina anglosajona ha acuñado la regla de la “preponderance of the evidence” o “balance of probabilities”, que implica un sistema de pesos y contrapesos que aboca a un balance sobre cuál de las dos probabilidades representadas en las alegaciones
de las partes tiene más peso. Es decir, que frente a lo que ocurre en el ámbito penal, donde el error de condenar a un inocente se considera mucho más
grave que el de dejar en libertad al culpable, en los contextos civiles el error
en la falta de compensación del demandante no es menos serio que el de determinar erróneamente sobre la responsabilidad del demandado. A igual
consideración de los errores en una escala de valoración, el estándar de prueba seleccionado no es sino reflejo de esa igualdad bajo la que son vistas las
posiciones de las partes en el ámbito civil 4.
La decisión final del órgano encargado de la aplicación del derecho no
es, sin embargo, el único momento en que actúan las normas sobre la carga
de la prueba, sino que como hemos explicado supra, éstas pueden ser igualmente importantes para determinar el contenido de las varias decisiones anteriores que conducen al resultado final, distribuyendo la prueba de los hechos entre las partes a través de las llamadas reglas de distribución de la car2
Vid. MUÑOZ SABATE, Fundamentos de la prueba judicial civil, Barcelona, 2001, pág. 169.
Ello requiere que el juez u órgano juzgador han de tener un alto grado de convencimiento en cuanto a la culpabilidad del procesado para condenarlo, que responde a uno de
los dogmas jurídicos más aceptados y se remonta a la idea que expresara William Blackstone en 1769: «The Law holds, that is better that ten guilty persons escape, than that one
innocent suffer». BLACKSTONE, Commentaries*, on the Laws of England, London, 1966,
pág. 358. Según relata en su reciente libro F. Schauer, Blackstone no fue, sin embargo, el
primero en expresar esta idea, pues ya John Fortescue había escrito en 1471: «I should,
indeed, prefer twenty guilty men to escape through mercy, than one innocent to be condemned». Vid. SCHAUER, Thinking like a lawyer. A new introduction to legal reasoning, Cambridge, MA, pág. 221.
4
Vid., SCHAUER, Thinking like a lawyer, cit., pág. 222.
3
702
DOTTRINA
RTDT - n. 3/2012
ga de la prueba, especialmente en los ámbitos regidos por el principio dispositivo. Esta función no es, desde luego, de menor importancia que la que
representa la regla de juicio, hasta el punto de que se ha llegado a afirmar que
una adecuada y prudente distribución de la carga de la prueba es una de las instituciones más necesarias o por lo menos más deseables del orden jurídico 5. Es
más, este aspecto de la distribución de la carga de la prueba es, quizá, el más
relevante a pesar de que no tiene un carácter imperativo para las partes, sino
meramente indicativo u orientativo, pues lo decisivo de la carga de la prueba
es que se trata de un instrumento estratégico en manos del legislador y de
los jueces y tribunales que permite inducir los comportamientos procesales
y extraprocesales deseados. Las normas sobre distribución de la carga de la
prueba imponen a las partes una auténtica carga procesal, en el sentido del
término acuñado por GOLDSCHIMDT, que lo definió con gran lucidez como
“un imperativo del propio interés”, a diferencia de los deberes, que siempre
se presentan como imperativos impuestos por el interés de un tercero o de
la comunidad 6. Son auténticas cargas y no obligaciones jurídicas por cuanto
que su incumplimiento no determina la imposición de una sanción, sino el
riesgo procesal de que sus pretensiones o resistencias no encuentren amparo en la resolución que ponga fin al conflicto. Por ello, si bien en general las
partes son libres para proponer los medios de prueba pertinentes para su defensa (art.24.2 CE), en todo caso estarán estimuladas a procurar la prueba de
los hechos sobre los cuales se cierne la carga en cuanto regla de juicio 7.
II. Carga de la prueba y derecho tributario
1. El “standard of proof” en el Derecho Tributario
Con carácter general, el umbral de certidumbre o grado de convicción
que viene requerido para aplicar la norma tributaria, viene determinado por
el principio de legalidad de la imposición, que al tiempo que garantiza la determinación legal de la deuda tributaria, debe asegurar que la imposición de5
WACH, ZZP, 29, pág. 365. Vid., ROSENBERG, La carga de la prueba, Montevideo-Buenos
Aires, 2002, pág. 115.
6
GOLDSCHIMDT, Derecho Procesal Civil, Barcelona, 1936, pág. 203.
7
Es la function estimulativa que Carnelutti reconociera a la carga de la prueba. Vid.,
CARNELUTTI, “Pruebas civiles y pruebas penales”, en Estudios de Derecho Procesal, Buenos
Aires, 1952, pág. 107.
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703
seada por la ley sólo se aplique «cuando se den en la realidad los presupuestos
de hecho (hechos imponibles) previstos por la ley» y, por tanto, cuando se pruebe la realización de las circunstancias integrantes del hecho imponible 8. En
principio, pues, puede afirmarse que la carga primaria de la prueba, en tanto
regla de juicio, la carga material u objetiva de la prueba, recae sobre la Administración Tributaria. Ello es también consecuencia de la presunción de
certeza que rige en el Ordenamiento Tributario respecto de los datos y elementos de hecho suministrados por los contribuyentes en sus declaraciones
o contestaciones a requerimientos de información exigidos por la Administración Tributaria. Así, en el caso de que la Administración Tributaria proponga una liquidación adicional a la efectuada por el contribuyente debe
justificar que la información suministrada por el contribuyente es incorrecta, incompleta o falsa, soportando la carga de la prueba tanto por lo que respecta a las rentas o ingresos como por lo que respecta a los gastos o costes
que pueden minorar la tributación. Esto es válido, con carácter general, para
los procedimientos de aplicación de los tributos.
Sin embargo, ello no permite sostener la vigencia para el ámbito tributario de un standard probatorio equiparable al del proceso penal, de tal forma
que pueda afirmarse la vigencia de una especie de regla de in dubio pro contribuens, pues hacer recaer siempre el riesgo derivado de la falta de prueba
sobre la Administración Tributaria supondría premiar a los sujetos remisos
a colaborar 9, frente a, como dijera el Tribunal Constitucional, «otros con más
espíritu cívico o con menos posibilidades de defraudar» 10. Para evitarlo, el Ordenamiento Tributario regula la posibilidad de recurrir a la estimación indirecta, en determinados casos en que la Administración Tributaria se encuentre ante una imposibilidad objetiva de determinar y fijar los hechos. Puesto
que la estimación es una solución de la mayoría de los ordenamientos fisca8
PALAO TABOADA, “La prueba en el procedimiento de gestión tributaria”, en Comentarios
a la Ley General Tributaria y líneas para su reforma. Homenaje a Fernando Saínz de Bujanda,
vol. II, Madrid, 1991, pág. 1452. En este sentido también, RUIZ GARCÍA, La liquidación en el
ordenamiento tributario, Madrid, 1987, págs. 157 y 203; PONT MESTRES, “Comprobación y
liquidación”, en AA.VV., Comentarios a la Ley General Tributaria y líneas para su reforma
(Homenaje a Fernando Sainz de Bujanda), vol. II, Madrid, 1991, pág. 1413;. En la doctrina
extranjera, OSTERLOH, Gesetzesbindung und Typisierungssplielraümen bei del Anwendung der
Steuergesetze, Baden-Baden, 1992, pág. 222; WITTMANN, “Mitwirkungspflicht und Aufklärungspflicht in der AO”, en Steuer und Wirtschaft, 1, 1987, pág. 36; TIPKE-LANG, Steuerrecht, 16ª ed., Köln, 1996, § 22, marg. 3; NIERHAUS, Beweismass und Beweislast. Untersuchungsgrundsatz und Beteiligtenmitwirkung im Verwaltungsprozess, München, 1989, pág. 259.
9
PALAO TABOADA, “La prueba en el procedimiento”, cit., pág. 1454.
10
Sentencia del Tribunal Constitucional (STC) 76/1990, de 26 de abril, Fjº 3.
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les para resolver determinadas situaciones de non liquet, al igual que lo son
las reglas sobre la carga de la prueba, su presencia lo que hace es reducir el
ámbito de actuación para las decisiones basadas en la carga de la prueba,
como regla de juicio, que resulta ser así mucho menor que en el caso de las
controversias civiles o penales. Por ello, aunque ha sido siempre muy discutida la naturaleza de la estimación indirecta y su correcta incardinación en el
marco de la carga de la prueba o en el marco de la valoración de la prueba 11,
resulta evidente que la estimación complementa en el ámbito tributario a la
carga de la prueba, como regla de juicio, pues cumple la misma función:
señala al órgano decisor cuál ha de ser su umbral de certidumbre ante determinadas situaciones de oscuridad en los hechos que son imputables a los
contribuyentes.
2. “Burden of production” e inversión de la carga de la prueba
El Ordenamiento Tributario español establece en el artículo 105 de la
Ley General Tributaria (LGT) una regla general de distribución de la carga
de la prueba, que cabe interpretar en la línea del criterio general civilista propuesto por G.A. Micheli basado en el efecto jurídico pretendido por las partes con la acción ejercitada 12. Dice el artículo 105 LGT: «1. En los procedimientos de aplicación de los tributos quien haga valer su derecho deberá probar
los hechos constitutivos del mismo. 2. Los obligados tributarios cumplirán su deber de probar si designan de modo concreto los elementos de prueba en poder de
la Administración tributaria».
Se trata de una regla legal que como viene reconociendo nuestra jurisprudencia, impone a cada parte la prueba del hecho constitutivo de su pretensión, en términos afines a las tradicionales doctrinas civilistas, nacidas de
los antiguos artículos 1214 y siguientes del Código Civil y hoy recogidas con
mayor precisión en el artículo 217. 2 y 3 de la Ley de Enjuiciamiento Civil
(LEC), en cuya virtud corresponde al actor o demandado reconviniente la
carga de la prueba de los hechos constitutivos y al demandado o actor reconvenido la de los hechos impeditivos, extintivos y excluyentes. Se apoya en la
distinción de Rosenberg, que parte de una diferenciación jurídico material
entre hechos constitutivos de la pretensión, favorables al actor y hechos im11
Vid., MARÍN-BARNUEVO FABO, Presunciones y técnicas presuntivas en Derecho Tributario,
Madrid, 1996, págs. 34-35.
12
MICHELI, Curso de Derecho Procesal Civil, vól. II, Buenos Aires, 1970, pág. 200 y ss.
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peditivos, favorables al que niega la pretensión, no exenta de problemas, por
cuanto que la naturaleza de un hecho depende de múltiples factores: la posición procesal que ocupe la parte que lo alega, las pretensiones o las consecuencias jurídicas que las partes pretendan conseguir. Por ello, es difícil construir a partir de este criterio general reglas de distribución de la carga de la
prueba totalmente generalizadas y abstractas y estas reglas vienen siendo
completadas por la jurisprudencia con arreglo a criterios como los de la buena fe y la facilidad probatoria, que pueden llevar a una alteración o inversión
de la carga de la prueba en el caso concreto.
Otra forma muy habitual de llevar a cabo una alteración o inversión de la
carga de la prueba en el ámbito tributario es a través de las presunciones legales, que son anteriores a la aplicación de la carga de la prueba como regla de
juicio, pero están íntimamente relacionadas con la carga de la prueba, porque
típicamente lo que hacen es establecer quien tiene la carga de la prueba, con
independencia del grado de prueba o evidencia requerido para satisfacer dicha carga. Al mismo tiempo, las presunciones señalan cuales serán las consecuencias de que la parte cargada con la carga de la prueba en un caso determinado no cumpla con ella, especificando: qué hechos habrán de ser tenidos por ciertos si la parte a quien corresponde la carga de la prueba no la
satisface y qué otros hechos adicionales habrán de ser tenidos por ciertos si
una de las partes prueba un hecho particular 13.
El establecimiento de presunciones para actuar un reparto de la carga de
la prueba se suele producir en relación con situaciones donde la prueba presenta dificultades y en donde a través del mecanismo de la presunción se
alivia la investigación de la Administración desplazando o invirtiendo la carga de la prueba hacia el contribuyente. Esto ocurre muy a menudo en las situaciones tributarias en las que hay algún componente de ultraterritorialidad o cuando se regulan operaciones con personas o entidades localizadas
en paraísos fiscales. La doctrina ya ha llamado la atención sobre la proliferación de este tipo de normas en que se invierte la carga de la prueba sobre el
contribuyente, que son también habituales en Ordenamientos fiscales de
nuestro entorno 14 y ello nos suscita dos tipos de reflexiones.
Una primera reflexión es que con ello se está poniendo de manifiesto una
nueva “funcionalidad” de las normas sobre la carga de la prueba en relación
con la construcción de normas fiscales anti-abuso. Es una funcionalidad que
13
SCHAUER, Thinking like a lawyer, cit., pág. 224.
MARINO, “Brevi note sull’onere della prova nel dirtitto tributario internazionale”, en
Dir. prat. trib. int., vol. V, núm. 1, 2008, pág. 224.
14
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va mas allá del papel tradicionalmente asignado a las normas sobre la carga
de la prueba, frecuentemente concebidas como normas de Derecho formal
y resalta la profunda vinculación del tema de la carga de la prueba con el Derecho sustancial. En la medida en que aquí la atribución de la carga de la prueba se convierte en un elemento principal de la construcción de las norma
anti-abuso, su empleo no puede ser ajeno a la doctrina del Tribunal de Justicia de la Unión Europea (TJUE) en relación con las normas anti-abuso y en
relación con el establecimiento de requisitos probatorios adicionales para las
situaciones que pueden ser consideradas potencialmente significativas de fraude o elusión fiscal internacional.
La segunda reflexión es que aunque la justificación de un diferente trato
procesal para las situaciones domésticas y las internacionales está en la base
del Derecho Tributario Internacional y deriva formalmente del principio de
territorialidad, cabe plantearse si su justificación puede seguir manteniéndose en todo caso en los momentos actuales, considerando los avances (tímidos) en materia de asistencia administrativa mutua. A este respecto, el análisis de la jurisprudencia del TJUE plantea dudas al respecto. Por un lado, el
TJUE ha excluido que pueda establecerse un régimen discriminatorio para
las operaciones que posean una conexión transnacional cuando el fundamento principal de ese trato discriminatorio sean las dificultades de control
fiscal de una operación debido a su carácter transfronterizo, en la medida en
que los Estados miembros pueden exigir al contribuyente las pruebas que consideren oportunas para aplicarles el “régimen general” 15. Asímismo, el TJUE
también señaló hace ya tiempo, que los requisitos probatorios de las normas
fiscales no pueden establecerse de forma discriminatoria o distinta según que
la operación posea o no una conexión transfronteriza 16. Sin embargo, también es cierto que el TJUE ha admitido recientemente la posibilidad de una
regulación diferenciada en el tratamiento de las operaciones vinculadas, en
función de su carácter interno o internacional 17. Como veremos, en el principio de proporcionalidad parece estar la clave.
15
Casos Bachmann, c-204/90, 1992 y Comision/Bélgica, C-300/90, 1992. Vid., CALDECARRERO-MARTÍN JIMÉNEZ, “Las normas antiparaíso fiscal españolas y su compatibilidad con el Derecho Comunitario: el caso específico de Malta y Chipre tras la adhesión a
la Unión Europea”, en Crónica Tributaria, núm. 111, 2004 (41-98), pág. 68.,
16
Vid., Stjue caso Vestergaard (C-55/1998, 1999).
17
Caso SGI, C-311/2008, Stjue de 21 de enero de 2010.
RÓN
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III. Las normas tributarias anti-abuso en el ordenamiento tributario
español y la atribución de la carga de la prueba
1. La carga de la prueba en las normas generales anti-abuso de la LGT
La Ley General Tributaria Española (LGT) establece dos normas generales anti-abuso, una es la norma contenida en su artículo 15 y otra es la contenida en su artículo 16, que establecen dos mecanismos generales anti-abuso, que a pesar de tener perfiles cercanos en su configuración teórica, son
distintos en cuanto a los presupuestos para su aplicación por parte de la Administración y en cuanto a sus consecuencias jurídicas para los contribuyentes. En la práctica, la distinción entre ambos expedientes normativos suele
ser una ardua cuestión porque ambos casos se basan en la idea de que se ha
utilizado para la operación que se quiere realizar una forma o configuración
jurídica que no se corresponde con la finalidad perseguida por ésta. En el
artículo 15 esto se quiere combatir mediante un expediente basado en la
figuras del fraude de ley o abuso en las posibilidades de configuración jurídica
(“abuse du droit”, “fraus legis”, “abuse of rights”), hoy bajo el nombre de “conflicto en la aplicación de la norma”. En el artículo 16 se consagra la figura de la
simulación (sham) 18.
A este mecanismo general anti-abuso del artículo 15 de la LGT se le han
señalado unos contornos muy similares a los de la claúsula general anti-abuso recogida en el § 42 de la Ordenanza Tributaria Alemana 19. La existencia
del abuso se puede apreciar «cuando se evite total o parcialmente la realización del hecho imponible o se minore la base o la deuda tributaria mediante actos o negocios en los que concurran las siguientes circunstancias: (a) que, individualmente considerados o en su conjunto, sean notoriamente artificiosos o impropios para la consecución del resultado obtenido (b) que de su utilización no
resulten efectos jurídicos o económicos relevantes, distintos del ahorro fiscal y de
los efectos que se hubieran obtenido con los actos o negocios usuales o propios».
De modo, pues, paralelo, al mecanismo en dos fases establecido en la norma
alemana, la norma española basa su aplicación en un sistema de carga de la
18
Sobre la diversidad de figuras legales para combatir el abuso o la elusión fiscal y las
dificultades que plantea véase las conclusiones de J. Schwartz al Congreso de la IFA celebrado en Kyoto en 2007: SCHWARTZ, “Abuse and EU Tax Law”, en Bulletin for International
Taxation, vól. 62, núm. 7, 2008, págs. 289-290.
19
Vid., PALAO TABOADA, La aplicación de las normas tributarias y la elusión fiscal, Valladolid, 2009, pág. 175; RUIZ ALMENDRAL, El fraude a la ley tributaria a examen, Pamplona,
2006, pág. 79.
6.
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prueba en dos pasos 20. En el primer paso, la Administración debe apreciar que
los actos o negocios son notoriamente artificiosos o impropios para la consecución del resultado obtenido, aportando las pruebas relativas a esta artificiosidad. En puridad, se tratará más bien de una justificación o motivación de
esta “impropiedad” del negocio, puesto que esto es más bien una cuestión jurídica. El problema principal es determinar hasta cuándo o hasta donde se
puede entender que el negocio es “apropiado” al fin perseguido por el contribuyente y esto es una cuestión, más que de hecho, de interpretación jurídica.
Ahora bien, si la Administración sostiene la impropiedad o artificiosidad del
negocio, en un segundo paso, tiene la carga de probar que los actos o negocios no tienen «motivos económicos o jurídicos válidos», distintos del mero
ahorro fiscal.
Precisamente, uno de los aspectos que más se elogió con motivo de la
introducción del artículo 15 en la LGT, fue su funcionamiento como mecanismo de atribución de la carga de la prueba, ya que en su virtud la Administración no deberá probar la existencia de una intención fraudulenta en el
contribuyente, ni que el contribuyente tuvo ánimo de eludir el tributo, sino
que concurren los “elementos esenciales” para poder considerar que una
determinada operación o negocio ha sido abusivo 21. Así, es posible afirmar
que la Administración sigue corriendo con la carga de la prueba de que el
contribuyente ha tenido el propósito de eludir el pago del tributo, pero esto
se trata de facilitar en la norma a través de la determinación de una serie de
elementos o circunstancias objetivizadas, a través de las cuales se puede determinar la existencia del abuso:
– que exista una ventaja fiscal para el contribuyente por la estructura de
la operación que se ha adoptado;
– que los actos o negocios realizados sean notoriamente artificiosos o
impropios para la consecución del resultado obtenido;
– que la forma elegida para la operación no produzca efectos jurídicos o
económicos relevantes mas allá de la obtención de una ventaja tributaria.
Estos elementos o requisitos “objetivos” para la aplicación de la norma,
son una serie de indicios presuntivos de fraude, que pueden ser rebatidos
20
En referencia a la norma alemana, véanse los Comentarios de K.D. DRÜEN al §42 de
la Ordenanza Tributaria Alemana, en TIPKE-KRUSE, Abgabenordnung Finanzgerichtsordnung
Kommentar zur AO und FGO, Köln, t. I, 2010.
21
Vid., LOPEZ TELLO, “La claúsula antiabuso del Anteproyecto de la nueva Ley general
Tributaria”, en Actualidad Jurídica Uría & Menéndez, núm. 5, 2003, pág. 52; GARCÍA NOVOA, La claúsula antielusiva en la nueva LGT, Madrid, 2004, pág. 370.
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por el contribuyente articulando prueba en contrario, por ejemplo, probando que la operación llevada a cabo fue genuina porque tuvo una racionalidad más allá de la obtención de la ventaja tributaria y un propósito comercial no artificioso 22. Lo cierto, sin embargo, es que cabe preguntarse hasta
qué punto se trata realmente de una “contraprueba” o, más bien, implica
una inversión de la carga de la prueba sobre el contribuyente, en la medida
en que ésta es la única prueba mediante la cual el contribuyente puede
quedar exonerado de la presunción de fraude, que es probando las razones o
“motivos económicos válidos” de la operación o negocio efectuado. De hecho, en Alemania se sostiene que ello conduce a una inversión de la carga de
la prueba sobre el contribuyente, que está justificada en la medida en que el
proporcionar las pruebas para superar el “test del propósito negocial” pertenece a la esfera de responsabilidad del contribuyente 23.
El otro tipo de claúsula general anti-abuso de nuestro Ordenamiento
Tributario es la contenida en el artículo 16 LGT, que recoge una regla para
corregir los efectos de la simulación en materia tributaria, disponiendo que:
«1. En los actos o negocios en que exista simulación, el hecho imponible gravado
será el efectivamente realizado por las partes. 2. La existencia de simulación será
declarada por la Administración tributaria en el correspondiente acto de liquidación, sin que dicha calificación produzca otros efectos que los exclusivamente tributarios. 3. En la regularización que proceda como consecuencia de la
existencia de simulación se exigirán los intereses de demora y, en su caso, la sanción pertinente» 24.
Tanto la doctrina como la jurisprudencia han coincidido en afirmar que
la simulación que aquí se contempla coincide con la acepción técnicojurídica de simulación, tal y como ha sido establecida en el derecho privado
y debe entenderse en el sentido dado a la misma en la doctrina y jurisprudencia civiles 25. Siguiendo esta postura mayoritaria, en los términos, hoy ya
22
En contra, sin embargo, SIMÓN ACOSTA, “Del fraude de Ley al conflicto en la aplicación de las normas”, en AA.VV., Economía, Derecho y Tributación. Homenaje a Gloria Begué
Cantón, Salamanca, 2005, pág. 834.
23
DRÜEN, Comentarios al §42 de la Ordenanza Tributaria Alemana, en TIPKE-KRUSE,
Abgabenordnung, cit.
24
También con respecto a esta figura de la simulación se ha destacado su paralelismo con
el parágrafo 41 de la Ordenanza tributaria alemana de 1977. Vid., ZORNOZA PÉREZ, “La simulación en Derecho Tributario”, en ARRIETA MARTÍNEZ DE PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA PÉREZ (Dir.), Tratado sobre la Ley General Tributaria, Pamplona, 2010, pág. 530.
25
Vid., PÉREZ ROYO-AGUALLO AVILÉS, Comentarios a la reforma de la Ley General Tri-
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clásicos, de D. FEDERICO DE CASTRO Y BRAVO, la simulación negocial existe
cuando se oculta bajo la apariencia de un negocio jurídico normal otro propósito negocial distinto, ya sea éste contrario a la existencia misma del negocio (simulación absoluta), ya sea el propio de otro tipo de negocio (simulación relativa). En el primer caso, la declaración falsa no encubre otra cosa
que la carencia de causa, mientras que en el segundo, la declaración falsa
vendría a encubrir otro negocio, este sí con una causa verdadera, de modo
que la simulación resultaría de una condición especial de la causa 26. La simulación descansa, pues, en la existencia de un pacto simulatorio y se produce normalmente a través del abuso del derecho y de las formas jurídicas
con el propósito de desviar el fin típico o natural de un negocio jurídico (su
causa) a otra finalidad indirecta y oculta. Lo que distingue a la simulación es
la voluntad compartida por quienes contratan de encubrir una determinada
realidad (anti)jurídica.
De acuerdo con esta concepción, han de concurrir en la simulación tres
elementos: 1º) Una expresión simulada, es decir, el negocio o declaración de
voluntad simulados que se exteriorizan o aparentan frente a los terceros; 2º)
El acuerdo o pacto de simular (consilium simulationis) alcanzado entre las partes y que permanece oculto a los terceros; y 3º) La intención o voluntad disimulada, que sólo conocen quienes toman parte en el acuerdo simulatorio y
que puede ser la de crear la apariencia de un negocio al que realmente no se
quiso dar vida, o la de encubrir otro negocio que se desea disimular 27.
Hay, por tanto, en la simulación una divergencia querida y deliberadamente provocada por las partes entre la que es su verdadera voluntad y su
manifestación externa, con la finalidad de crear una apariencia jurídica que
oculte a los terceros dicha voluntad. De modo que es inherente a la simulación la existencia de ocultación, pero puesto que es posible imaginar supuebutaria, Pamplona, 1996, pág. 68 y ss.; ZABALA RODRÍGUEZ-FORNOS, “Simulación y levantamiento del velo en el ámbito tributario”, en Tribuna Fiscal, núm. 85, 1997, pàgs. 61 y ss.;
ROSEMBUJ, El fraude de ley, la simulación y el abuso de las formas en el Derecho Tributario, 2ª
ed., Madrid, 1999, pàgs. 232-233; ZORNOZA PÉREZ, “La simulación en Derecho Tributario”, en Boletín del Ilustre Colegio de Abogados de Madrid (BOICAM), núm. 16, 3ª epca, septiembre 2000, pág. 169 y ss. y también posteriormente en “La simulación en Derecho Tributario”, en ARRIETA MARTÍNEZ DE PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA PÉREZ (Dir.),
Tratado, cit., pág. 531.
26
DE CASTRO Y BRAVO, El negocio jurídico, 1ª reimpr., 1ª ed., Madrid, 1991, pàg. 334;
DÍEZ PICAZO, Fundamentos del Derecho Civil patrimonial, vol. I, 2ª ed., Madrid, 1983, pàgs.
158-159.
27
Vid., GOMEZ CALLE, (Voz) “Simulación”, en Enciclopedia Jurídica Básica, t. IV, Madrid, 1995, pàg. 6217 y ss.
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stos en que la ocultación pueda resultar legítima, se ha insistido en la importancia de que concurra el acuerdo simulatorio entre las partes para apreciar
la existencia de simulación. Esto es, que exista una voluntad común a ambas
partes sobre el carácter meramente aparente de las declaraciones de voluntad que realizan, hasta el punto de que sin la existencia de este pacto o voluntad común, no podría hablarse de simulación en sentido jurídico 28. Éste
es incluso, de acuerdo con un sector de la doctrina y la jurisprudencia, el
elemento clave para distinguir entre las figuras de la simulación y el fraude
de ley, de modo que la simulación es un problema de hecho, de prueba de la
existencia del pacto simulatorio entre las partes, mientras que el fraude a la
ley es una cuestión de calificación, es decir, de interpretación 29.
La prueba adquiere, pues, una relevancia indudable en la figura de la simulación, máxime teniendo en cuenta que la Administración tiene la facultad de declarar por sí misma su existencia, sin necesidad de ejercitar la correspondiente acción ante los Tribunales, en el curso del correspondiente procedimiento de regularización 30. A lo largo de este procedimiento, y de acuerdo con la regla general sobre la carga de la prueba, incumbe a la Administración la carga de probar que los hechos declarados por el interesado
constituyen una simple apariencia, fruto de la simulación y que, por tanto,
no se debe impedir el gravamen de la realidad disimulada u oculta 31.
Este criterio de atribución de la carga de la prueba ha sido también aplicado por los Tribunales españoles cuando han enjuiciado casos de simulación tributaria, afirmando de forma unánime que recae sobre la administra28
Vid., ZORNOZA PÉREZ, “La simulación en Derecho Tributario”, en Boletín, cit., pág.
171. En este sentido también, HERRERA MOLINA-MARTÍN FERNÁNDEZ, “El fraude a la ley
tributaria en el derecho español”, en SOLER ROCH-SERRANO ANTÓN, Las medidas antiabuso en la normativa interna española y en los Convenios para evitar la doble imposición internacional y su compatibilidad con el Derecho comunitario, Madrid, 2002, pág. 43.
29
Vid., LOPEZ MOLINO, “Los negocios en fraude de ley tributaria, los negocios simulados y los negocios indirectos (arts. 24, 25 y 28.2 LGT)”, en Crónica Tributaria, núm. 85,
1998, pág. 174; PALAO TABOADA, “Nuevas posibilidades de la lucha contra el fraude (II):
valoración de las nuevas soluciones a la luz de la experiencia comparada y la jurisprudencia
comunitaria”, Ponencia presentada al Seminario La nueva Ley General Tributaria, celebrado por la UIMP, Santander, 8 de julio de 2003, pág. 12. ZORNOZA PÉREZ, “La simulación
en Derecho Tributario”, en ARRIETA MARTÍNEZ DE PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA
PÉREZ (Dir.), Tratado, cit., pág. 540.
30
ZORNOZA PÉREZ, “La simulación en Derecho Tributario”, en ARRIETA MARTÍNEZ DE
PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA PÉREZ (Dir.), Tratado, cit., pág. 540.
31
ZORNOZA PÉREZ, “La simulación en Derecho Tributario”, en ARRIETA MARTÍNEZ DE
PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA PÉREZ (Dir.), Tratado, cit., pág. 540.
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ción la carga de la prueba de la existencia de simulación 32. Ahora bien, lo
que es destacable es la interpretación jurisprudencial de la carga de la prueba en tanto dosis o coeficiente de prueba (“standard of proof”), esto es, el nivel de evidencia necesaria para satisfacer la carga primaria de la prueba atribuida a la Administración, que queda lejos del beyond a reasonable doubt
propio del Derecho Penal y se admite con mucha facilidad que quede resuelto por la aportación de indicios de fraude fiscal que invierten la carga de
la prueba sobre el contribuyente 33. Así, es frecuente que cuando la existencia de simulación se discute en el marco de planificaciones fiscales basta con
que el tribunal alcance un grado de convicción razonable sobre la ausencia
de efectos económicos reales del negocio, para que pueda entenderse que
existe un principio de prueba suficiente de simulación, invirtiéndose a partir
de ese momento la carga de la prueba sobre el contribuyente, quien para
defenderse debe articular prueba en contrario sobre los efectos y razones económicas del negocio que se cuestiona como simulado 34.
Por otra parte, tanto la práctica administrativa como los tribunales de
justicia admiten que la simulación sea probada a través de indicios o presunciones, dada la dificultad de su prueba, lo cual, resulta perfectamente admisible en el ámbito tributario. Sin embargo, no siempre aparece correctamente explicitado el necesario enlace entre los indicios, que deben ser probados, y el hecho que se presume 35.
2. La carga de la prueba en las normas específicas anti-abuso
Más allá de los expedientes generales para combatir la elusión fiscal, los
Ordenamientos fiscales están cada vez más repletos de normas específicas
32
Vid, por ejemplo, SSTS de 20 de septiembre de 2005; 25 de junio de 2008 (RJ 2008,
4295); 25 de junio de 2008 (RJ 2008, 3282); 1 de julio de 2008 (RJ 2008, 4028) o 26 de
noviembre de 2009 (RJ 2010, 3954).
33
En este sentido, véase el sorprendente razonamiento de la Sentencia del Tribunal
Supremo español (STS) de 26 de noviembre de 2009 (RJ 2010, 3954) y de 1 de julio de
2008 (RJ 2008, 4028), fjº 14.
34
Así, la STS de 27 de mayo de 2008 y la STS de 15 de julio de 2008, califican de simulación absoluta a negocios jurídicos con respecto a los cuales no se ofrece una explicación razonable de la realidad económica. Véase la crítica de SOLER ROCH, “El fraude a la ley tributaria en la jurisprudencia europea y española”, en V Congreso Tributario: Cuestiones tributarias
problemáticas y de actualidad, Estudios de Derecho Judicial, núm. 156, 2009, pág. 397.
35
Como muestra, véase, por ejemplo, la citada STS 26 de noviembre de 2009 (RJ
2010, 3954), fjº séptimo.
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anti-fraude o anti-elusión para combatir fenómenos concretos que son habituales en ciertos ámbitos. Típicamente, uno de estos ámbitos es el de las
transacciones internacionales o transfronterizas, para las que es frecuente
que se establezca un tratamiento probatorio diferenciado, debido a las mayores dificultades de aclaración fáctica que suponen estas situaciones para
las Administraciones Tributarias de los países. En estas normas específicas
anti-abuso tienen gran relevancia los aspectos probatorios, porque precisamente muchas de ellas se construyen o aplican a partir de una distribución
ad hoc de la carga de la prueba o del establecimiento de un específico nivel
de prueba para alguna de las partes. Con mucha frecuencia, este tipo de normas requieren al contribuyente un esfuerzo probatorio mucho mayor que el
que está implícito en los mecanismos generales anti-fraude anteriormente
descritos y también es frecuente que en ellas la carga de la prueba se desplace hacia el contribuyente, que se sitúa así en cierta posición de desventaja
frente a la Administración 36. El mecanismo a partir del cual se invierte la
carga de la prueba hacia el contribuyente consiste en el establecimiento de
presunciones, en las que está implícita la consideración de que la transacción u operación en cuestión se llevó a cabo con un propósito elusivo. La justificación, en general, para dispensar un tratamiento procesal desigual en
las transacciones internacionales frente a las domésticas, ha de buscarse en
los principios del Derecho Tributario Internacional y en el principio de territorialidad 37. Sin embargo, tampoco puede perderse de vista que este tipo de
inversiones probatorias, basadas en presunciones iuris tantum, suponen, en
abstracto, una negación del principio procesal de igualdad de armas, que
puede venir justificada cuando la paridad de las partes quede salvada por la
equivalencia de as situaciones sustanciales, pero tampoco pueden admitirse
sin más. Así que a pesar de que el empleo de este tipo de presunciones pueda estar genéricamente justificado, la cuestión es si esa justificación puede
seguir siendo convincente en el actual contexto europeo, con los actuales mecanismos de asistencia mutua e intercambio de información entre Estados 38.
36
Esto es un fenómeno universal a los Ordenamientos Fiscales en el tratamiento de
este tipo de situaciones. Puede comprobarse comparando los distintas Informes Nacionales presentados al congreso de la EATLP, disponibles en www.eatlp.org.
37
MARINO, “Brevi note sull´onere della prova”, cit., pág. 234; SEER, “The burden of
proof- National Report: Germany”, The Burden of Proof in Tax Matters, EATLP Congress,
2011, disponible en www.eatlp.org.
38
Vid., MARINO, “Brevi note sull´onere della prova”, cit., pág. 234; SEER, “The burden
of proof- National Report: Germany”, cit., pág. 6.
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Pues, al final, uno no puede sustraerse de tener la sensación de que la regulación fiscal de las operaciones transfronterizas, por mor de las dificultades
probatorias objetivas que plantean para la Administración, las convierte es
situaciones elusivas por sí mismas 39.
En la normativa española, son varios los ejemplos de normas específicas
anti-abuso en donde se pueden apreciar estas consideraciones. Veamos algunos de ellos.
2.1. La normativa anti-paraíso fiscal
En relación con los países o territorios calificados como paraísos fiscales
nuestro ordenamiento tributario regula toda una batería de “medidas defensivas”, que establecen especiales cautelas o excluyen la aplicación de determinadas medidas fiscales, como bonificaciones de diversa índole, cuando
intervienen personas o entidades allí localizadas en transacciones con sujetos residentes en España 40. En ellas, es frecuente que se produzca una alteración de la carga de la prueba a través del mecanismo de las presunciones,
en donde para superar la falta de información que frecuentemente se produce en el ámbito de estas jurisdicciones se invierte la carga de la prueba sobre el contribuyente. Ejemplos de este tipo de medidas pueden encontrarse,
por ejemplo, en los artículos 9.1.a) de la Ley del Impuesto sobre la Renta de
las Personas Físicas (LIRPF) y en los artículos 8.1 y 107.12.2º del Texto refundido de la Ley del Impuesto sobre Sociedades (TRLIS).
El artículo 9.1.a) LIRPF establece un régimen especial para aquellos casos
en que la residencia fiscal se acredita en un país o territorio considerado como
paraíso fiscal, estableciendo que la Administración podrá exigir al contribuyente que pruebe que ha permanecido en el paraíso fiscal durante 183 días en
el año. Es decir, que se atribuye al contribuyente la carga de la prueba de su
permanencia efectiva durante al menos 183 días en el año en el país o territorio donde alega ser residente. Ello implica una inversión de la carga de la
prueba sobre el contribuyente, ya que de este modo la Administración no tiene que probar si el cambio de residencia a un paraíso fiscal es real o no, si no
que puede exigir esta prueba al contribuyente más allá de lo que aparente39
Vid., MARINO, “Brevi note sull´onere della prova”, cit., pág. 234.
Ya se ha señalado, por ello, la instrumentación de la normativa española de “paraísos fiscales” como parte integrante de un régimen con finalidad antielusión fiscal, no exenta de
complicaciones a la hora de enjuiciar su compatibilidad con el Derecho Comunitario. Vid.,
CALDERÓN CARRERO-MARTÍN JIMÉNEZ, “Las normas antiparaíso fiscal españolas”, cit., pág. 44.
40
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mente acredita su certificado de residencia fiscal en ese territorio.
Otra presunción similar es la contenida en el artículo 8.1 LIS, tras la
redacción dada a este precepto por la Ley 36/2006, de Medidas para la Prevención del Fraude Fiscal (LMPFF), que autoriza a la Administración tributaria a presumir que una entidad radicada en algún país o territorio de nula
tributación o considerado como paraíso fiscal tiene su residencia en territorio español cuando se de cualquiera de estas dos circunstancias:
– que sus activos principales, directa o indirectamente, consistan en bienes situados o derechos que se cumplan o ejerciten en territorio español;
– o que su actividad principal se desarrolle en territorio español.
Se configura así un nuevo criterio para determinar la residencia fiscal de
las entidades empleando la técnica de la presunción iuris tantum con una
clara finalidad anti elusión 41. De acuerdo con ello, la Administración no
tiene que probar que la entidad tiene su residencia en territorio español, sino
simplemente que cualquiera de estas circunstancias ha tenido lugar, con lo
que se alivia notablemente la prueba que le corresponde a la Administración
al alterarse el objeto de la prueba, como efecto típico de la presunción. Al
mismo tiempo, puesto que la presunción se configura como una presunción
iuris tantum, el contribuyente (en este caso, la entidad) puede destruir la
presunción si prueba que:
– su dirección y efectiva gestión tienen lugar en aquel país o territorio;
– así como que la constitución y operativa de la entidad responde a
motivos económicos válidos y razones empresariales sustantivas distintas de
la simple gestión de valores u otros activos.
De modo que la presunción, al tiempo que alivia la posición de la Administración al alterar el objeto a probar, especifica quien tiene en este caso la
carga de la prueba respecto del hecho de que la entidad tenga una vinculación real de carácter económico con el territorio español, el contribuyente,
actuándose así una inversión de la carga de la prueba. Repárese pues, en que
aquí la norma sobre carga de la prueba se emplea como parte de la construcción de la norma anti-abuso, configurando una “vía de escape” a la aplica41
Palao Taboada, “ New Income Tax Law and anti-fraud legislation in Spain”, en Bulletin
for International Taxation, vol. 61, núm. 4, 2007, pág. 144; GARCÍA CARRTERO, “La presunción de residencia fiscal introducida por las Ley 36/2006, de Medidas para la Prevención
del fraude fiscal con relación a las entidades radicadas en países o territorios de nula
tributación o considerados como paraísos fiscales”, en Quincena Fiscal, núm. 12, 2008, pág. 4.
716
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RTDT - n. 3/2012
ción de la presunción a través de la prueba por parte del contribuyente de
los “motivos económicos válidos” 42.
Otro ejemplo de este tipo de presunciones que alteran la regla general
sobre la carga de la prueba en operaciones con entidades radicadas en paraísos fiscales es la contenida en el artículo 107. 12.2º TRLIS. Este artículo
establece normas especiales en la aplicación del régimen de transparencia
fiscal para los supuestos de participación por parte de una entidad residente
en España en una entidad residente en un paraíso fiscal. Estas normas especiales consisten básicamente en presunciones que afectan tanto al presupuesto de hecho de la norma que permite la aplicación del régimen de transparencia fiscal, como a la consecuencia jurídica del régimen de la transparencia fiscal. En tales casos, corresponde a la administración la carga de la
prueba del hecho base de la presunción: la participación, en las condiciones
generales exigidas por el régimen de transparencia fiscal internacional, por
parte de una entidad residente en España en una entidad residente en un
paraíso fiscal. Esta prueba, puede no resultar fácil para la Administración
por la escasa colaboración que suelen prestar las administraciones de dichos
territorios. El contribuyente puede, en todo caso, destruir la presunción
mediante prueba en contrario.
2.2. La normativa sobre transparencia fiscal
El régimen de la transparencia fiscal internacional (Controlled Foreign
Corporation Legislation, CFC Legislation en la doctrina anglosajona) se encuentra previsto en el artículo 107 del TRLIS. Como es sabido, el régimen
se dedica al tratamiento fiscal de las llamadas “controlled foreign companies” o
sociedades extranjeras controladas (SEC) y apunta directamente a la utilización de las llamadas “base companies”, compañías situadas en territorios
42
La bibliografía en relación con los motivos económicos válidos y su papel en la construcción de normas anti-abuso es abundante tanto fuera como dentro de nuestras fronteras. En España, pueden destacarse los trabajos clásicos del profesor PALAO, “Los motivos
económicos válidos en el régimen fiscal de las reorganizaciones empresariales”, hoy compendiado en su libro La aplicación de las normas tributarias y la elusión fiscal, Valladolid,
2009, pág. 201 y ss.; DURÁN-SINDREU BUXADÉ, Los motivos económicos como técnica contra
la elusión fiscal: Economía de opción, autonomía de la voluntad y causa en los negocios, Navarra,
2007 y recientemente CALDERÓN CARRERO-RUIZ ALMENDRAL, “La codificación de la “doctrina de la sustancia económica” en EE.UU como nuevo modelo de norma general antiabuso: la tendencia hacia el sustancialismo”, en Quincena Fiscal, núm. 15, 2010, Navarra,
pág. 1 y ss., también disponible en www.westlaw.es (BIB 2010\1686).
Maria Rodriguez-Bereijo Leòn
717
de favorable o baja tributación, destinadas a remansar rentas sin que éstas
lleguen a tributar en el Estado de residencia de su beneficiario último. El régimen especial consiste en la extensión del principio de tributación por la
renta mundial, por medio de la inclusión en la base imponible de las entidades residentes en España, de determinadas rentas- rentas pasivas- obtenidas por filiales extranjeras y ello independientemente de que éstas hayan
procedido a distribuir beneficios a sus matrices. La transparencia fiscal sólo
se aplica respecto de entidades no residentes controladas por un residente,
sólo actúa respecto de determinadas rentas y tiene en cuenta en su aplicación el bajo nivel de tributación de la entidad no residente.
En cuanto al primero de estos aspectos, referido a las condiciones subjetivas de aplicación del régimen, el control de la entidad sometida a transparencia, el artículo 107 dispone que el régimen se aplicará a entidades no
residentes en las cuales el sujeto pasivo residente, por sí solo o conjuntamente con personas o entidades vinculadas, tenga una participación igual o
superior al 50% en el capital, los fondos propios, los resultados o los derechos de voto de la entidad no residente en territorio español, en la fecha
de cierre del ejercicio social de esta última. En relación con este requisito se
ha planteado el problema de las participaciones fiduciarias o de las rentas
obtenidas por cuenta de una entidad no residente susceptible de hallarse en
transparencia internacional 43. Como se ha señalado, esto aboca a un problema de prueba de esa relación fiduciaria, porque el régimen de transparencia
fiscal debe aplicarse a entidades cuya titularidad real corresponda a una
entidad o una persona física residente en España, aunque esa participación
aparezca a nombre de otro que no es el verdadero titular o aunque ese último sea el verdadero titular legal, a través de un trust de derecho extranjero,
cuando el residente es el beneficiario de esa situación jurídica con unos derechos actuales definidos 44.
En relación también con el ámbito subjetivo de aplicación, el régimen de
transparencia fiscal internacional previsto en las leyes españolas no se aplica
cuando la entidad tranparente resida en otro Estado miembro de la Unión
Europea (Art. 107.15). Pero para ello se hace recaer sobre el contribuyente
la carga de la prueba, debiendo éste probar que la constitución y operativa de
la entidad responden a motivos económicos válidos y que la entidad realiza ac43
DELGADO PACHECO, “Las medidas antielusión en la fiscalidad internacional”, en
Nuevas Tendencias en Economía y Fiscalidad Internacional, núm. 825, septiembre-octubre
2005, pág. 106.
44
DELGADO PACHECO, “Las medidas antielusión”, cit., págs. 106-107.
718
DOTTRINA
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tividades empresariales, ya que la excepción a la aplicación del régimen para
las operaciones europeas aparece redactada del modo siguiente: «lo previsto
en este artículo no será de aplicación cuando la entidad no residente en territorio
español sea residente en otro Estado miembro de la Unión Europea, siempre que
el sujeto pasivo acredite que su constitución y operativa responde a motivos
económicos válidos y que realiza actividades empresariales».
En definitiva, la norma española, modificada por la Ley 4/2008, de 23 de
diciembre, resolvió el problema de la aplicación del régimen de transparencia fiscal internacional a los supuestos en que la entidad no residente resida
en otro Estado miembro de la Unión Europea precisamente a través de una
inversión de la carga de la prueba sobre el contribuyente, que es quien deberá probar, si quiere escapar a su aplicación, que la entidad se ha constituido
por motivos económicos válidos 45. Precisamente, esta modificación respondió
básicamente al objetivo de hacer compatible la normativa doméstica sobre
transparencia fiscal internacional con los requerimientos derivados del Derecho Comunitario y la doctrina emanada del TJUE en relación con la configuración de normas de transparencia fiscal internacional por parte de los
Estados Miembros. No cabe, sin embargo, descartar hacia el futuro una reconfiguración de las condiciones de aplicación del régimen de transparencia
fiscal internacional a las SEC comunitarias en consonancia con el Derecho
Europeo en la materia 46 y si ello sucede el legislador deberá tener especial
cuidado en la construcción de la norma desde el punto de vista de la carga
de la prueba.
2.3. La normativa anti-subcapitalización
El artículo 20 de la LIS establece, como es sabido, una norma para combatir aquellos supuestos en que la financiación externa de las sociedades se
obtenga a través de entidades no residentes vinculadas en una cuantía
superior a la que se hubiera obtenido en condiciones normales de mercado
entre partes independientes. El objetivo es evitar lo que en definitiva se considera como un fenómeno de elusión fiscal: que la tributación de entidades
residentes en España se reduzca como consecuencia de un endeudamiento
45
El test de los motivos económicos válidos o de la sustancia económica de la operación, actúa así a modo de “puerto seguro” (safe harbor). Vid., CALDERÓN CARRERO, “La
coordinación europea de las normas de transparencia fiscal internacional y de subcapitalización”, en Revista de Contabilidad y Tributación, Madrid, núm. 328, 2010, pag. 13.
46
CALDERÓN CARRERO, “La coordinación europea”, cit., pág. 16.
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719
excesivo con entidades vinculadas. Para ello, la norma impide la deducción
como gastos de los intereses devengados como consecuencia de un endeudamiento que el legislador reputa excesivo y es merecedor del tratamiento
de los fondos propios, cuya retribución en forma de dividendos no resulta
deducible 47.
La norma española anti-subcapitalización responde esencialmente a las
características fundamentales de este tipo de normas en el Derecho Tributario Internacional 48, pero presenta una serie de características propias que
precisamente por sus implicaciones probatorias plantean ciertas dudas en
cuanto a su compatibilidad con el Derecho Europeo y con la jurisprudencia
del TJUE en esta materia, como tendremos ocasión de comprobar más adelante. Estas características del régimen español son esencialmente las siguientes:
a) El legislador español construye la norma anti-subcapitalización sobre
una “ratio fija” de endeudamiento de 3 a 1. La norma refiere esta ratio al endeudamiento neto remunerado el cual, como el capital fiscal, se tomará por
su estado medio a lo largo del periodo impositivo. La norma afecta por completo a las reglas sobre la carga de la prueba, en la medida en que exime a la
Administración de probar que el endeudamiento excesivo de las sociedades
se debe a motivaciones exclusivamente fiscales, precisamente para evitar
que los contribuyentes pudieran beneficiarse ilícitamente de las dificultades
probatorias que ello supondría. El problema, a efectos probatorios, es que
no permite a las empresas articular prueba en contrario y probar que su
endeudamiento efectivamente responde a condiciones de mercado 49. El
apartado 3 del artículo 20 establece que los contribuyentes pueden someter
a la Administración una propuesta para la aplicación de una ratio o coeficiente distinto, pero ello ha de ser con carácter previo a la realización del
hecho imponible. Sin embargo, en el marco de una inspección fiscal la entidad debería siempre poder justificar que su ratio de endeudamiento con la
47
Sobre la norma española en materia de subcapitalización, véase PALAO TABOADA, “La
subcapitalización y los convenios de doble imposición”, en Revista de Contabilidad y Tributación, Madrid, núm. 137-138, 1994, pág. 79 y ss.; SANZ GADEA, “La subcapitalización”, en
Revista de Contabilidad y Tributación, Madrid, núm. 206, 2000, pág. 28; VEGA BORREGO,
“La norma tributaria en materia de subcapitalización: incidencia de los convenios de doble
imposición y el derecho comunitario”, en Crónica Tributaria, núm. 104, 2002, pàg. 89 y ss.
48
DELGADO PACHECO, “Las medidas antielusión”, cit., págs. 100-101.
49
Vid., por todos, CENCERRADO MILLÁN, “La subcapitalización”, en CORDÓN EZQUERRO, (Dir.), Fiscalidad de los precios de transferencia (operaciones vinculadas), Madrid, 2010,
pág. 678. En contra, SANZ GADEA, “La subcapitalización”, cit., pág. 54.
720
DOTTRINA
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entidad vinculada es acorde a la que se habría obtenido en condiciones de
mercado de libre competencia. En el momento actual, salvada la compatibilidad con el derecho comunitario a raíz de la exclusión de su aplicación a
entidades residenciadas en otro Estado miembro de la UE, esta característica de la norma sigue planteando serias dudas acerca de su compatibilidad
con el MC OCDE (artículo 9) y con la doctrina del TJUE en materia de
operaciones vinculadas, en la medida ello parece requerir una aplicación
flexible de la normativa de subcapitalización que de la posibilidad a las
empresas afectadas de probar que habrían podido obtener esa financiación
de una entidad independiente en condiciones de libre competencia (at arm's
length) 50. En realidad, es precisamente la configuración “probatoria” de la
norma, que no parece admitir prueba en contrario, lo que impide la adecuación del artículo 20 LIS a las exigencias derivadas del artículo 9 MC OCDE
y el principio de plena competencia, salvo que su aplicación se haga de acuerdo con este principio 51.
b) La norma española alude expresamente al endeudamiento indirecto
entre la entidad prestataria residente y una entidad vinculada no residente.
En relación con ello, los problemas han surgido en relación con el concepto
de endeudamiento indirecto. Al respecto, la doctrina administrativa española ha extendido la norma al terreno de las garantías prestadas por entidades
vinculadas, pero ha hecho depender este criterio de condiciones probatorias
(proff requirements) bastante elevadas e inciertas. La administración española ha aceptado que la aplicación del límite que supone la norma de subcapitalización exige probar bien que, por las circunstancias de las operaciones,
la entidad no residente avalista está llamada a hacer frente al préstamo, o
bien que la entidad prestataria no habría obtenido en condiciones normales
de mercado tales garantías, que le hubiesen permitido logar esa financiación
de un tercero independiente 52. Lo cual entraña, la aplicación de una regla de
juicio (carga de la prueba) que implica un elevado umbral de convicción.
Desde el punto de vista de la parte a quien corresponde la carga de la prueba
(el contribuyente), ello implica un standard probatorio muy elevado, que
pueden tornar imposible la prueba en contrario.
50
Vid., DELGADO PACHECO, “Las medidas antielusión”, cit., pág. 104.
Esto es, precisamente, lo sostenido por algunas sentencias, como la STSJ de Madrid de
15 de octubre de 2003, la SAN de 15 de enero de 2004 y la STSJ de Madrid de 28 de marzo
de 2008. Sostener esta interpretación, no obstante, obliga a la Administración a probar en
todo caso que el endeudamiento concertado no podría haber sido acordado en condiciones
de independencia. Vid., CENCERRADO MILLÁN, “La subcapitalización”, cit., pág. 680.
52
Vid., DELGADO PACHECO, “Las medidas antielusión”, cit., pág. 102 y ss.
51
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721
c) La norma de subcapitalización se aplica cuando el prestamista reside
en un país o territorio calificado como paraíso fiscal. En este caso, la entidad
residente no puede someter propuesta para alguna para alterar el coeficiente
de endeudamiento, de modo que aquí no cabe la prueba en contrario.
d) Por último, la norma de subcapitalización no se aplica cuando el prestamista resida en otro Estado miembro de la Unión Europea 53.
2.4. La norma anti-abuso del artículo 87 de la Ley del Impuesto sobre el Valor
Añadido
Otro ejemplo de norma específica anti-abuso de nuestro ordenamiento,
esta vez en el ámbito del Impuesto Sobre el Valor Añadido (IVA), puede
considerarse el apartado Cinco del artículo 87 de la LIVA, introducido en
virtud de la LMPFF para combatir el llamado “fraude carrusel” en el IVA que
se comete a través de las llamadas sociedades “pantalla” o “buffer” en la terminología anglosajona 54, norma que estuvo directamente inspirada por la
legislación británica 55. En similitud a la norma británica 56, la norma española establece la responsabilidad de los adquirentes “que debieran razonablemente presumir” que el impuesto repercutido o que hubiera debido repercutirse por el empresario o profesional que realiza operaciones gravadas
por el impuesto, no haya sido ni vaya a ser objeto de declaración e ingreso.
En este caso, la responsabilidad establecida en la norma española es subsidiaria, lo cual significa que sólo será exigida si el sujeto suministrador de
los bienes y servicios y sujeto pasivo del IVA por las operaciones gravadas
en el impuesto deviene insolvente.
El legislador subordina la posibilidad de calificar como responsable al empresario o profesional destinatario de las operaciones gravadas al hecho de
53
De acuerdo con la reforma introducida por la Ley 4/2008, de 23 de diciembre, de medidas fiscales, administrativas y del orden social, para solucionar la ya denunciada incompatibilidad de la norma con el derecho comunitario especialmente tras la Sentencia del TJUE
de 12 de diciembre de 2002 en el asunto Lankhorst-Hohorst, c-324/00, que declaró contraria a derecho comunitario una normativa alemana similar a la española. En relación con
esta incompatibilidad se había pronunciado ya el TEAC en resoluciones de 8 de noviembre de 2006, 28 de septiembre de 2006, 21 de diciembre de 2006 y 19 de enero de 2007.
54
Sobre ello, véase ÁLVAREZ BARBEITO, “Reflexiones sobre la aplicación de la responsabilidad subsidiaria prevista en la LGT a los partícipes en las tramas de fraude del IVA”,
en ARRIETA MARTÍNEZ DE PISÓN-COLLADO YURRITA-ZORNOZA PÉREZ (Dir.), Tratado, cit.,
pág. 1023 y ss.
55
En este sentido, PALAO TABOADA, “New Income Tax Law”, cit., pág. 147.
56
Sec. 77ª, VAT Act 1994.
722
DOTTRINA
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que éste haya podido “razonablemente presumir” que el importe del IVA que
se le ha repercutido o que se le hubiera debido repercutir, no haya sido o vaya
a ser objeto de declaración e ingreso. Para ello, se parte de la estimación de
que el adquirente ha podido “razonablemente presumir” estas circunstancias
cuando el precio pagado haya sido “notoriamente anómalo”, debido precisamente a juicio del legislador a la omisión del pago del impuesto. El precio no
podrá considerarse “notoriamente anómalo” si se puede justificar por la
existencia de factores económicos distintos a la aplicación del impuesto, y la
carga de la prueba de esta circunstancia correrá, claro, a cargo del sujeto que
recibe la imputación de responsabilidad.
En consonancia con su construcción como norma anti-abuso, recae sobre
la Administración la carga de la prueba de que el IVA fue repercutido o
hubiera debido ser repercutido, pero no fue objeto de declaración e ingreso.
Sin embargo, esta carga se atempera o facilita en la medida en que la norma se
construye sobre una presunción, la presunción “razonable” del conocimiento
del fraude 57, que a su vez apoya su aplicación sobre una serie de de indicios
objetivados recogidos en la propia norma. Son los indicios relativos a la
concurrencia de un precio “notoriamente anómalo” en la operación, que se
dará, salvo prueba en contrario, cuando el precio pagado sea “sensiblemente
inferior”:
a) Al correspondiente a dichos bienes en las condiciones en que se ha
realizado la operación o al satisfecho en adquisiciones anteriores de bienes
idénticos.
b) Al precio de adquisición de dichos bienes por parte de quien efectúa
la entrega.
Esta construcción de la norma, basada en una presunción de conocimiento que en definitiva está en función de la consideración del precio como notoriamente anómalo y que puede recaer sobre cualquier empresario o
profesional, presenta notables dificultades de aplicación 58 y mas allá de las
críticas suscitadas 59, implica el establecimiento de una presunción de fraude
57
ÁLVAREZ BARBEITO, “Reflexiones”, cit., pág. 1030.
ÁLVAREZ BARBEITO, “Reflexiones”, cit., pág. 1031.
59
FALCÓN Y TELLA, “Las cadenas de fraude del IVA y la STSJ de 12 de enero de 2006:
la incompatibilidad con la Sexta Directiva de los supuestos de responsabilidad previstos en
la Ley General Tributaria y en el anteproyecto de Ley de Prevención del Fraude”, en
Quincena Fiscal, núm. 2, 2006; GARCÍA NOVOA, “El proyecto de ley de prevención del fraude (II)”, en Quincena Fiscal, núm. 10, 2006, pág. 12 y ss.
58
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723
o abuso sobre todas aquellas operaciones en las se haya obtenido una ventaja económica, ya forme parte o no del tráfico comercial habitual del destinatario de los bienes. Por todo ello, ya se le ha reprochado a la norma que
difícilmente puede considerarse adecuada a los estándares de certeza y
proporcionalidad requeridos por el TJUE en relación con la construcción
de las normas anti-abuso 60.
En nuestra opinión, quizá una vez más la cuestión dependerá de cómo
interpreten los órganos encargados de la aplicación de la norma, Administración y Tribunales, los ambiguos términos en que está redactada y en
cómo se fije el umbral de certidumbre requerido por la norma para entender
cumplida la carga de la prueba. Por lo que respecta a la carga primaria de la
prueba, atribuida a la Administración, esto viene facilitado por los indicios
presuntivos de fraude. Pero por lo que respecta al contribuyente, no está claro
el umbral de certidumbre requerido para destruir la presunción. Pues en
definitiva, la posibilidad de que el contribuyente pueda defenderse de la
presunción de abuso depende de cómo se interprete la justificación basada en
la existencia de factores económicos distintos a la aplicación del impuesto.
Esencialmente, se trata de que la interpretación de la norma no implique una
prueba excesivamente difícil de forma que el sistema pueda desembocar en
una responsabilidad sin culpa.
2.5. Las normas anti Directive-Shopping del Impuesto sobre la Renta de los No
Residentes
La Ley del Impuesto sobre la Renta de los No Residentes (en adelante,
LIRNR) contiene varias previsiones que pueden calificarse de normas
específicas anti-abuso 61. Una de ellas es la contenida en el artículo 14.1.h)
de la ley, donde precisamente la clausula anti-abuso se construye a partir de
la carga de la prueba. En efecto, este artículo establece, en lo que supone una
transposición al derecho español de la Directiva Matriz-Filial, la exención
del impuesto para los beneficios distribuidos por las sociedades filiales residentes en territorio español a sus sociedades matrices residentes en otros
Estados miembros de la Unión Europea (UE), cuando se den determinados
requisitos. Al mismo tiempo, establece una clausula especial anti-abuso,
60
PALAO TABOADA, “New Income Tax Law”, cit., pág. 148.
Vid., CALDERÓN CARRERO-MARTÍN JIMÉNEZ, “Las normas antiparaíso fiscal españolas”, cit., pág. 74 y ss.
61
724
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concretamente una medida anti Directive-Shopping 62, que consiste en que la
exención no será aplicable cuando la mayoría de los derechos de voto de la
sociedad matriz se posea directa o indirectamente, por personas físicas o
jurídicas que no residan en Estados miembros de la Unión Europea, salvo
que se pruebe que:
– la sociedad matriz realiza efectivamente una actividad empresarial
directamente relacionada con la actividad de la filial, o
– la sociedad matriz tiene por objeto la dirección y gestión de la sociedad
filial mediante la adecuada organización de medios materiales y personales, o
– la sociedad matriz se ha constituido por motivos económicos válidos y
no para disfrutar indebidamente del régimen especial.
Este último requisito exige que la sociedad cuestionada pruebe su constitución “por motivos económicos válidos”, incorporando así de nuevo el
test del propósito negocial o business purpose test. Pero repárese en que con
ello, la norma realiza a inversión de la carga de la prueba sobre el contribuyente que plantea dos tipos de problemas a efectos probatorios 63:
– que la inversión de la carga de la prueba se sustenta sobre una presunción de fraude fiscal que está construida sobre un hecho objetivo, como es
el que la sociedad matriz última resida fuera de la UE, lo que en sí mismo no
tiene porque ser revelador de evasión fiscal. De acuerdo con doctrina del
TJUE en relación con la construcción de normas anti-abuso por los Estados
miembros al amparo de la Directiva matriz-filial, tan sólo deberían quedar
excluidas de los beneficios de la directiva aquellas sociedades que no tengan
un vínculo económico estable con el Estado de establecimiento. De modo
que para que esta inversión de la carga de la prueba resulte compatible con
el Derecho comunitario debería interpretarse en este sentido. No parece
haber sido así, sin embargo, como lo ha hecho nuestro TEAC, que ha venido a configurar un standard of proof o umbral de certidumbre en relación
con la carga de la prueba tan elevado, que en la práctica hacen la contraprueba del contribuyente virtualmente imposible 64.
62
Al respecto véase el trabajo de los profesores CALDERÓN CARRERO-RUIZ-ALMENDRAL,
“¿Es compatible la norma española anti “Directive-Shopping” con el Derecho Comunitario?
(A propósito de la Resolución del TEAC de 15 de octubre de 2004)”, en Jurisprudencia Tributaria Aranzadi, núm. 11, 2005 y disponible en www.westlaw.es (BIB 2005\1708), págs. 1-23.
63
CALDERÓN CARRERO-RUIZ-ALMENDRAL, “¿Es compatible la norma española anti “Directive-Shopping”, cit., pág. 21.
64
Vid., CALDERÓN CARRERO-RUIZ-ALMENDRAL, “¿Es compatible la norma española an-
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725
El segundo problema es que la norma además de exigir al contribuyente
que pruebe que se ha constituido por “motivos económicos válidos”, le exige
que pruebe que no lo ha hecho para disfrutar indebidamente del régimen
previsto. Esto implica una prueba de hechos negativos, probatio diabólica 65,
que sitúa el umbral de certidumbre requerido por la norma para cumplir con
la carga de la prueba tan alto, que ello puede tornarse virtualmente imposible
para el contribuyente cargado con ella. Una vez más, la adecuación de la
norma al Ordenamiento Jurídico interno y la doctrina europea en relación
con las normas anti-abuso, dependerá en última instancia de cómo es aplicadala norma por el órgano administrativo y en última instancia, de cómo es interpretada por nuestros Tribunales en relación con la carga de la prueba.
Pues, en definitiva, el contribuyente debe siempre tener la posibilidad de probar en contra de cualquier presunción legal de abuso, que sus operaciones
fueron realizadas de buena fe, aunque puedan integrarse a priori en el ámbito
de una norma anti-abuso nacional 66. La posibilidad de que esta prueba en
contrario esté correctamente articulada depende también de la forma en que
se aplique la carga de la prueba en tanto regla de juicio (standard of proof).
IV. Implicaciones de la jurisprudencia del tjue en relación con la carga
de la prueba
Conviene comenzar recordando que la regulación de la carga de la prueba es una cuestión que compete a las autoridades legislativas de los Estados
miembros y el TJUE así lo ha señalado 67. Al mismo tiempo, el TJUE les ha
reconocido a las Administraciones tributarias de los Estados un papel activo
en lo que se refiere a la recopilación de pruebas, conforme a la regulación de
su Derecho nacional 68. Sin embargo, puesto que la cuestión de la carga de la
prueba es muchas veces una cuestión de vital importancia para la resolución
del caso, el TJUE se ha encontrado frente a esta cuestión como otros Triti “Directive-Shopping”, cit., pág. 21, en relación con la interpretación mantenida por el
TEAC en su Resolución de 15 de octubre de 2004.
65
Vid., CALDERÓN CARRERO-RUIZ-ALMENDRAL, “¿Es compatible la norma española anti “Directive-Shopping”, cit., pág. 21.
66
TERRA-WATTEL, European Tax Law, Kluwer, 2001, pág. 366.
67
STJUE de 24 de abril de 2008, asunto Arcor AG & Co. KG y Bundesrepublik Deutschland, C-55/06.
68
Casos Bachman y Comisión v. Belgica.
726
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bunales de Justicia. Por otra parte, la tendencia de los legisladores nacionales a desplazar la carga de la prueba sobre el contribuyente en la regulación
de normas anti-abuso, especialmente si la normativa recae sobre situaciones u operaciones transfronterizas, plantea contradicciones con las libertades comunitarias, tradicionalmente entendidas como derechos de acceso al
mercado.
1. La carga de la prueba en la construcción y aplicación de las normas tributarias anti-abuso
La cuestión de la carga de la prueba es, en general, una cuestión clave para la aplicación de todas las normas fiscales, también para las normas antiabuso, por ello el TJUE que ha ido configurando una aquilatada doctrina en
materia de abuso, se ha visto obligado a lidiar con esta cuestión. Evidentemente, la cuestión reviste gran importancia puesto que los legisladores nacionales en su lucha frente a los fenómenos de evasión y fraude fiscal tienden a diseñar normas de alcance general, que describan los supuestos antiabuso de forma tipológica, pues, en definitiva, la operación de legislar entraña siempre una cierta generalización. Pero puesto que el abuso no puede
presuponerse sin más, sólo la prueba, caso por caso, de que una concreta
operación o transacción fueron realizadas con finalidad abusiva o fraudulenta, puede salvar la norma. De cómo esté diseñada la norma anti-abuso en relación con la prueba, va a depender en gran parte, como veremos, su compatibilidad con el Derecho Europeo y la doctrina del TJUE sobre normas tributarias anti-abuso.
En relación con la configuración probatoria de las normas anti-abuso y la
distribución de la carga de la prueba en las situaciones de abuso podemos
destacar las siguientes sentencias del TJUE: la sentencia Leur-Bloem 69, de 17
de julio de 1997; la sentencia Cadbury-Schweppes 70 de 12 de septiembre de
2006, la sentencia Modehius A.Zwijnenburg 71, de 20 de mayo de 2010 y la
sentencia Foggia-SGPS, de 10 de noviembre de 2011 72.
En la sentencia Leur-Bloem, de 17 de julio de 1997, el TJUE interpretó el
69
Caso C-28/95.
Caso C-196/04.
71
Caso C-352/08.
72
Caso C-126/10.
70
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alcance del artículo 11 de la Directiva 90/434/CEE, de 23 de julio, en adelante Directiva de fusiones, que como es sobradamente conocido contiene
una cláusula anti-abuso que permite a los Estados miembros denegar la ventaja fiscal derivada del régimen de fusiones cuando «la operación tenga como principal objetivo o como uno de los principales objetivos el fraude o la
evasión fiscal». Este artículo 11 de la Directiva debe interpretarse, a juicio
del Tribunal, en el sentido de que en esa determinación de si la operación
tuvo como uno de sus principales objetivos el fraude o la evasión fiscal, las
autoridades de los Estados miembros deben hacer un examen general de la
operación que debe ser caso por caso. Este examen queda sujeto a su posterior revisión judicial por los Tribunales de Justicia. El Tribunal consagra la
prohibición de que las normativas nacionales establezcan «presunciones
irrefutables de fraude fiscal» para aquellos casos en que entran en juego circunstancias transfronterizas, implicando a contribuyentes no residentes o
que trasladan su residencia a otro Estado miembro y reitera la doctrina vertida en el caso Centros (C-212/97): el establecimiento de una norma de alcance general que prive automáticamente de una ventaja fiscal a determinadas categorías de operaciones basándose en este tipo de criterios, excede de lo necesario
para evitar el fraude o la evasión fiscal y va en contra de los objetivos perseguidos
por el Tratado.
La necesidad de proceder caso por caso a un examen general o global de
la operación por parte de las Administraciones Tributarias nacionales, ha
sido reiterada como criterio en el reciente caso Foggia-SGPS, en relación
con la interpretación de la cláusula anti-abuso del artículo 11.1.a) de la Directiva de Fusiones, donde el TJUE ha entendido que el ahorro de los costes estructurales resultantes de los gastos administrativos y de gestión derivados de una reestructuración o racionalización de un grupo no constituye
un motivo económico válido que excluya la presunción de fraude o evasión
fiscal recogida en el artículo 11.1.a) de la Directiva de Fusiones, a la vista de
las circunstancias del caso 73. En esta sentencia, el TJUE parece abogar en el
caso de reestructuraciones empresariales por la necesidad de un análisis casuístico y global de por parte de la Administración Tributaria que tenga en
cuenta tanto el motivo económico válido de la reestructuración, como el
peso de la ventaja fiscal que ello entraña. En el caso de la sentencia FoggiaSGPS, se analiza una operación de fusión por absorción que se realiza en el
73
Sobre ello, véase CALDERON CARRERO, “Una vuelta de tuerca a la interpretación europea de la cláusula antiabuso de la Directiva de Fusiones: ¿Hacia motivos económicos válidos
de “alto voltaje?”, en Revista de Contabilidad y Tributación, núm. 347, 2012, pág. 3 y ss.
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marco de una reestructuración empresarial donde se produce racionalización de actividades del grupo y reducción de costes estructurales, pero a la
vez existen indicios de fraude fiscal, como que el hecho de que la sociedad
absorbida tuviese importantes pérdidas fiscales (2 millones de euros) con
un origen dudoso a compensar por la sociedad absorbente. En tal contexto,
el TJUE trata de llegar a un equilibrio en un caso donde la operación tiene
cierta sustancia económica, pero a la vez existe una ventaja fiscal significativa y se dan indicios de evasión o fraude fiscal 74. Siguiendo la líneas argumentales trazadas en la sentencia Leur-Bloem, la sentencia Foggia anuda la
falta de prueba de un motivo económico válido a la presunción de fraude o
evasión fiscal. Ello significa que esta presunción iuris tantum invierte la carga de la prueba sobre el contribuyente, que debe acreditar que la reorganización no constituye una operación elusiva o fraudulenta 75.
De todo ello pueden extraerse las siguientes directrices en relación con la
carga de la prueba:
1. Los Estados Miembros no pueden configurar en su derecho nacional
normas anti-abuso partiendo, a priori, de la presunción de que una determinada operación se ha llevado a cabo con una finalidad abusiva o fraudulenta,
al tiempo que permiten al contribuyente que articule prueba en contrario.
Esta inversión de la carga de la prueba en perjuicio del contribuyente es
contraria al Derecho Europeo.
2. En los casos de abuso o fraude fiscal, la carga de la prueba del abuso
recae sobre la Administración, que debe probar que el motivo de una determinada operación o transacción fue la evasión o el fraude fiscal, realizando un examen caso por caso.
3. No obstante, y en relación con las operaciones de reestructuración
empresarial, el contribuyente también debe desplegar su actividad probatoria en relación con la concurrencia de elementos objetivos que acrediten la
concurrencia de motivos económicos válidos, no puramente fiscales (Caso
Foggia-SGPS).
La sentencia Cadbury-Schweppes 76 de 12 de septiembre de 2006, asunto
c-196/04, constituye otro de los leading cases del TJUE en su doctrina anti-
74
Vid., CALDERON CARRERO, “Una vuelta de tuerca”, cit., pág. 14.
Vid., CALDERON CARRERO, “Una vuelta de tuerca”, cit., págs. 25-27.
76
Caso C-196/04.
75
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abuso a la luz de las libertades fundamentales 77, en el que se dilucida por primera vez sobre la adecuación al derecho comunitario del régimen de la transparencia fiscal internacional (TFI) 78. En esta sentencia, el TJUE perfecciona
su doctrina anterior sobre el establecimiento de presunciones generales de
fraude y evasión fiscal, dando entrada a la posibilidad de que los ordenamientos nacionales utilicen este tipo de presunciones en sus normas anti-abuso.
Pero para que la construcción de normas anti-abuso a partir de este tipo de
presunciones sea acorde con el Derecho Europeo, la norma anti-abuso debe
estar diseñada para combatir los “montajes puramente artificiales” cuyo
objetivo sea eludir la ley nacional: «un obstáculo a una libertad de circulación
garantizada por el Tratado únicamente puede estar justificado por la lucha contra
la evasión fiscal si la legislación controvertida tiene por objeto específico excluir de
una ventaja fiscal los montajes puramente artificiales cuyo objetivo sea eludir la ley
nacional» 79. En tales casos, el tribunal sí admite que el riesgo de la prueba recaiga sobre el contribuyente, que es quien puede probar que existe una implantación real en el Estado de establecimiento y un sustrato económico real
en las transacciones: «recaerá sobre el contribuyente no residente, que está mejor
situado para tal fin, la carga de la prueba de la realidad de sus actividades, que le
permite invocar en su favor las libertades fundamentales» 80. La norma controvertida (en tal caso era la norma británica sobre TFI) salva su compatibilidad
con la doctrina europea anti-abuso en la medida en que permita al contribuyente probar la sustancia económica de la operación 81.
El Tribunal reitera el criterio de que es preciso que la norma quede abierta a la prueba, posibilitando el análisis caso por caso: «para que pueda estar
justificada por la lucha contra la evasión fiscal la legislación nacional no debe
limitarse a referirse a una situación definida en términos generales, sino que debe
permitir al juez nacional denegar, en cada caso concreto, el beneficio del Derecho
Comunitario a determinados contribuyentes o a determinadas sociedades que
hayan realizado un montaje artificial con la finalidad de eludir el impuesto» 82.
77
RUIZ ALMENDRAL, “¿Tiene futuro el test de los ‘motivos económicos válidos’ en las
normas anti-abuso?”, en Revista de Conabilidad y Tributatión, núms. 329-330, 2010, pág. 42.
78
Vid., PALAO TABOADA, “Transparencia fiscal internacional y Derecho Europeo: conclusiones del abogado general en el asunto Cadbury Schweppes”, en ID., La aplicación de las
normas tributarias, cit., pág. 275.
79
Vid., párrafo 87 de la sentencia y asuntos ICI, X e Y, Lankhorst y Lasteyrie du Saillant.
80
Vid., párrafos 69-72 de la sentencia.
81
Vid., párrafo 151 de las conclusiones del Abogado General Léger al caso.
82
Vid., párrafo 92 de la sentencia.
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De este pronunciamiento cabe deducir las siguientes directrices en cuanto a la carga de la prueba:
1. Los Estados miembros no pueden tener una regla general en virtud de
la cual en los casos en que entren en juego elementos transfronterizos, la
carga de la prueba se desplace automáticamente sobre el contribuyente.
2. Sí es posible, sin embargo, que en situaciones transfronterizas la carga
de la prueba de la sustancia económica de la operación recaiga sobre el contribuyente, en la medida en que éste está mejor situado para probar la realidad de sus actividades, que le permiten invocar en su favor las libertades fundamentales.
La reciente sentencia Modehius A.Zwijnenburg 83, de 20 de mayo de 2010,
analiza el problema de si el artículo 11 de la Directiva de fusiones puede
emplearse para negar la ventaja fiscal derivada de la norma en el caso de que
la operación de reestructuración empresarial se haya hecho con la finalidad
de eludir un impuesto (el Impuesto sobre Transmisiones neerlandés) distinto de aquellos (Impuesto sobre Sociedades) a los se refieren las ventajas
que establece dicha Directiva. La respuesta es negativa. El Tribunal recuerda que la cláusula anti-abuso específica del artículo 11 de la Directiva sólo es
aplicable en relación con el régimen especial de fusiones, escisiones y aportaciones de activos, sin que pueda entenderse como un principio general, ni
aplicarse cuando no exista norma que lo prevea 84. Cuestión distinta, es si
ante un caso como ese, el fraude o abuso puede combatirse mediante una
norma general anti-abuso, si es que el ordenamiento en cuestión prevé una
norma de este tipo, similar a la contenida en nuestro artículo 15 de la LGT 85.
Pero ello significa, tal y como vimos supra: i) que recae sobre la Administración la carga de la prueba de que la operación ha sido abusiva o fraudulenta;
ii) el umbral de certidumbre de esta carga de la prueba será el objetivado en
el artículo 15 de la LGT. La Administración deberá acreditar que: ha existido una ventaja fiscal en las operaciones; que las operaciones son notoria-
83
Caso C-352/08.
Vid., párrafo 47 de la sentencia.
85
Véase RUIZ ALMENDRAL, “¿Tiene futuro el test de los “motivos económicos válidos””,
cit., pág. 30, y FALCON Y TELLA, “El limitado alcance de la exigencia de un motivo económico
distinto del ahorro fiscal: la necesidad de una cláusula antiabuso específica (STJ 20 mayo
2010, Zwijnenburg) y la posibilidad de aprovechar las ventajas derivadas de calificaciones
“híbridas” en el IVA (STJ 22 diciembre 2010, RBS)”, en Quincena Fiscal, nùm. 6, marzo
2011, pág. 9.
84
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731
mente artificiosas o impropias y que carecen de sentido más allá de la ventaja fiscal. A la vista de la configuración de la norma, hoy por hoy, no parece
que el móvil fiscal, pese a ser lícito, pueda ser el único que motive las operaciones, pero quizá ello deba replantearse 86.
2. La carga de la prueba en las operaciones vinculadas: el principio de proporcionalidad y la sentencia del TJUE en el caso SGI
En este apartado son reseñables tres sentencias del TJUE: la sentencia
Lankhorst-Hohorst, de 12 de diciembre de 2002, la sentencia Test Claimants
in the Thin Cap Group Litigation, de 13 de marzo de 2007 y la reciente sentencia de 21 de enero de 2010 en el asunto SGI, (C-311/08). En puridad, la
última sentencia es la que se refiere a la regulación de las operaciones vinculadas, estrictamente dichas, mientras que las anteriores son pronunciamientos sobre la compatibilidad comunitaria de las cláusulas de subcapitalización. Por ello, nos centraremos en este último pronunciamiento, si bien la
hermandad de naturaleza entre ambos regímenes es evidente. El asunto SGI
analiza la normativa belga sobre operaciones vinculadas aplicable sólo a
operaciones con no residentes. En virtud de esta normativa, establecida con
el objetivo de impedir la evasión fiscal, debían incluirse en los beneficios de
las sociedades residentes en Bélgica los ingresos no obtenidos a consecuencia de la concesión de ventajas anormales o benévolas a sociedades no residentes con las que aquellas mantenían vínculos de dependencia. Ello permitía gravar con cargo a la sociedad residente las cantidades equivalentes,
según el caso, al excedente pagado por la sociedad residente en comparación con el precio que se habría pagado en una situación de plena competencia, o al lucro cesante experimentado por esta misma sociedad 87. Al mismo tiempo, en el caso de que quien recibiera el pago fuera una sociedad
con pérdidas nacionales, la norma belga imponía que la sociedad no pudiera
compensar las pérdidas con beneficios “fuera de mercado”. El resto de operaciones vinculadas nacionales parece que no se incluían en el ámbito de
aplicación de la norma. El hecho de que esta normativa tuviese distintos efectos en función de si la sociedad vinculada que recibía el pago era o no re-
86
87
Vid., FALCON Y TELLA, “El limitado alcance”, cit., pág. 11.
Vid., párrafo 26.
732
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sidente en Bélgica, es lo que podía suponer un obstáculo o restricción a la libertad comunitaria de establecimiento. Dicho obstáculo o restricción puede, no obstante, entenderse justificado, a juicio de la Abogado General Kokott, en función de dos exigencias imperativas de interés general: el reparto
equilibrado de la potestad tributaria y la lucha contra el fraude fiscal. Sin
embargo, para ello la medida debe ser “proporcionada” y este test de proporcionalidad depende precisamente, en opinión de la Abogado General, de la
posibilidad de prueba en contrario por el contribuyente: es necesario permitir
que el contribuyente pueda probar que su conducta responde a motivos económicos válidos, a razones comerciales que justifiquen la divergencia con respecto al
precio de mercado en sus operaciones con partes vinculadas 88.
El TJUE confirma la opinión de la AG y llega a la conclusión de que la
normativa belga está justificada, a pesar de que no sea una medida destinada
a excluir únicamente los montajes puramente artificiales, como sucedía en
casos anteriores como Cadbury Schweppes o en Test Claimants in the Thin
Cap Group Litigation. El TJUE entiende que una normativa nacional como
la belga, que no tiene por objeto específico excluir de la ventaja fiscal que establece los montajes puramente artificiales, carentes de realidad económica, puede, no obstante, reputarse justificada por el objetivo de prevenir la evasión
fiscal, considerado junto con el mantenimiento del reparto equilibrado del
poder tributario entre los Estados miembros 89. En este sentido, el Tribunal
reconoce que permitir a las sociedades residentes que concedan ventajas anormales o benévolas a sociedades con las que mantienen vínculos de interdependencia y que están domiciliadas en otros Estados miembros sin establecer ninguna
medida fiscal correctora implica el riesgo de que, mediante montajes puramente
artificiales, se organicen trasferencias de ingresos en el seno de un grupo de sociedades hacia los Estados que apliquen tipos más moderados o en los que esos ingresos no se graven 90.
A pesar de esta justificación, la normativa controvertida debe ser además
“proporcionada” (no ir más allá de lo necesario para alcanzar los objetivos de
reparto equilibrado de la potestad tributaria y prevención de la evasión fiscal).
La medida será proporcionada cuando 91:
88
Vid., Conclusiones de la AG Kokott, párrafo 77.
Vid., párrafo 66 de la sentencia.
90
Vid., párrafo 67 de la sentencia.
91
Vid., párrafos 71 y 72 de la sentencia.
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733
– El contribuyente pueda presentar (probar), sin estar sujeto a restricciones administrativas excesivas, elementos relativos a los posibles motivos
comerciales por los que celebró la transacción.
– Si la comprobación de tales elementos lleva a la conclusión de que la
transacción va más allá de lo que las sociedades habrían convenido en circunstancias de plena competencia, la medida fiscal correctora se limite a la
fracción que supere lo que habría sido convenido de no existir una relación
de interdependencia.
Según el Gobierno belga, ello quedaría asegurado puesto que la carga de
la prueba de la existencia de una ventaja “anormal” o “benévola” en el sentido de la normativa sobre operaciones vinculadas incumbe a la Administración tributaria y cuando la Administración aplica dicha normativa el contribuyente puede presentar elementos relativos a las eventuales razones comerciales
por las que se celebró la transacción de que se trate. Señala que el contribuyente dispone para ello del plazo de un mes y si la Administración persiste en su
voluntad de liquidar el impuesto, el contribuyente puede impugnar la liquidación ante los Tribunales 92. El TJUE remite la comprobación de estos extremos al Tribunal nacional, pero en la medida en que no hace observaciones al respecto parece dar a entender que si efectivamente la distribución de
la carga de la prueba está así establecida, la normativa belga sobre operaciones vinculadas será proporcionada 93. Cuestión distinta, que la sentencia no
deja clara, es cuál ha de ser en el caso de las operaciones entre partes vinculadas el umbral de certidumbre o “standard of proof” que deba cumplir, en
particular, el contribuyente, para cumplir con la caga de probar que su transacción tuvo razones comerciales. El TJUE parece exigir tan sólo que el contribuyente pruebe que tuvo razones o motivos comerciales válidos, sin embargo la AG identifica dichas razones o motivos comerciales con la conducta que habrían tenido partes independientes en condiciones de libre concurrencia, lo cual reconduce la prueba a que en las transacciones efectuadas
entre partes vinculadas se hayan utilizado precios de mercado. Sin embargo,
la existencia de “motivos económicos válidos” desde el punto subjetivo de
las partes vinculadas puede ser independiente de ello, como se puso de ma92
Vid., párrafo 73 de la sentencia.
En este sentido, vid., MARTÍN JIMENEZ, “Operaciones vinculadas y Derecho Comunitario: ¿Es necesaria una nueva reforma del artículo 16 TRLIS?”, en CORDON EZQUERRO, (Dir.) Fiscalidad de los precios de transferencia (operaciones vinculadas), Madrid, 2010,
pág. 101.
93
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nifiesto en los casos Lankhorst o Thin Cap Group Litigation, donde el TJUE
admitió los motivos comerciales subjetivos de los grupos empresariales que
justificaban el nivel de endeudamiento de sus filiales 94.
Conclusiones en relación con la carga de la prueba:
1. Como regla general, en las operaciones vinculadas la carga primaria de
la prueba de que el precio de transferencia pagado en una transacción ha sido anómalo o benévolo (no ha sido conforme a mercado) corresponde a la
Administración.
2. No obstante, la normativa sobre operaciones vinculadas, siempre debe
permitir al contribuyente poder probar frente a la Administración los motivos o razones comerciales por los que celebró la transacción.
3. La posibilidad de probar en contrario para el contribuyente no debe
estar sujeta a restricciones administrativas excesivas (principio de proporcionalidad).
V. Conclusiones generales
La cuestión de la carga de la prueba presenta dos facetas que cumplen
funciones distintas, como regla de juicio (standard of proof, burden of persuasion) y como carga de aportación de la prueba (burden of production). En
Derecho Tributario, es indiscutible la vigencia del primero de estos aspectos, pero es más discutible el segundo por la presencia de obligaciones formales que actúan una distribución “encubierta” de la carga de la prueba. Sin
embargo, en determinados ámbitos, como en la regulación de operaciones
vinculadas, quizá debiera replantearse esta configuración teniendo en cuenta que uno de los efectos más importantes de la distribución de la carga de la
prueba es precisamente que permite al legislador inducir los comportamientos procesales y extraprocesales deseados. Sin perjuicio de ello, el correcto
cumplimiento de sus obligaciones por parte del contribuyente debe reflejarse en una eventual decisión basada en la carga de la prueba como regla de
juicio, modulando sus resultados.
Otra forma muy frecuente de establecer normas de distribución de la
carga de la prueba en Derecho Tributario es a través de presunciones. Estas
94
Vid., CALDERÓN CARRERO, “La coordinación europea”, cit., pág. 15; MARTÍN JIMENEZ,
“Operaciones vinculadas”, cit., pág. 90.
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735
pueden invertir la carga de la prueba sobre el contribuyente y ello es muy
frecuente en situaciones tributarias transfronterizas. Especialmente en el
ámbito de normas fiscales anti-abuso del Derecho Tributario Internacional.
Ello resalta una nueva funcionalidad de la carga de la prueba como instrumento legislativo en la lucha contra el abuso fiscal, que no puede ser ajena a
la doctrina del Tribunal de Justicia sobre normas tributarias anti-abuso y
carga de la prueba, cuyas directrices van a jugar un importante papel. Quizá
la lucha contra el abuso en materia fiscal debiera abordarse cada vez más como una cuestión “de hecho”, no sólo como una “cuestión de derecho”, valga
la simplificación.
736
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GIURISPRUDENZA
SOMMARIO:
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126 (udienza del 17 gennaio 2012) – Primo
Pres. f.f. Preden; Rel. Piccininni, con nota di M. Mauro, Rilievi critici sull’orientamento della Cassazione a Sezioni Unite in tema di insinuazione dei
crediti tributari al passivo fallimentare (Critical remarks on the decision of the
Italian Supreme Court (Grand Chamber) concerning the lodgement of tax
claims in the bankruptcy proceedings)
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10 – Pres. Lenaerts, Rel. Arestis, con nota di R. Miceli, Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA (New national perspectives on VAT refund)
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10 –
Pres. Tizzano, Rel. Lenaerts, con nota di V. Russo, Exit taxes e diritto dell’Unione Europea: quale “modello” compatibile? (Exit taxes and EU law:
which “model” can be considered compatible?)
738
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
739
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126 (udienza del 17 gennaio 2012) –
Primo Pres. f.f. Preden; Rel. Piccininni
Fallimento – Stato passivo – Formazione – Credito tributario – Iscrizione a ruolo – Cartella di pagamento – Notificazione – Necessità – Limiti – Agente della
riscossione – Amministrazione finanziaria – Legittimazione – Sussiste.
L’insinuazione al passivo fallimentare può essere proposta, alternativamente, sia
dall’Agente della riscossione sia dall’Amministrazione finanziaria, la quale mantiene la
titolarità del credito tributario. Qualora l’Amministrazione finanziaria presenti domanda di ammissione allo stato passivo della procedura fallimentare, la stessa potrà essere
proposta anche in assenza di preventiva iscrizione a ruolo del credito insinuato e di notifica al curatore della cartella di pagamento.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – Con ricorso L. Fall., ex art. 101, il Ministero dell’Economia e delle Finanze,
unitamente all’Agenzia delle Entrate, proponeva istanza di ammissione al passivo del
fallimento della ... s.r.l. per ... in privilegio e ... in chirografo, allegando a sostegno della
richiesta copia dei fogli di prenotazione, quali titoli definitivi dei crediti vantati. Il curatore contestava la fondatezza della pretesa in ragione dell’avvenuta presentazione di
valida istanza di condono (cui non aveva però fatto seguito il conseguente pagamento) e dell’assenza di un titolo giustificativo del credito, argomentazioni sostanzialmente condivise dal Tribunale di Napoli, che all’esito dell’istruttoria rigettava quindi la
domanda.
La sentenza, impugnata dall’Amministrazione Finanziaria, veniva poi confermata
dalla Corte di Appello di Napoli, che in particolare sui diversi punti sottoposti al suo
esame rilevava: a) che a torto l’appellante aveva ritenuto che i titoli erariali, i fogli prenotati a ruolo, le sentenze tributarie che avevano rigettato i relativi ricorsi potessero
essere interpretati come prova dell’esistenza di credito, essendo l’esito positivo della
domanda di ammissione al passivo subordinato alla formazione del ruolo e alla notifica della cartella di pagamento, atti questi che «costituiscono il titolo della pretesa tributaria» (pp. 4, 5); b) che ai sensi della normativa vigente l’Amministrazione Finanziaria sarebbe stata tenuta «a notificare al curatore, a pena di decadenza, l’atto di contestazione di cui all’art. 16 (ed anche 16 bis) entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione» (p. 5), notifica di cui non vi sarebbe
prova, risultando anzi la prova del contrario; c) che la statuizione di condanna alla refusione delle spese di lite emessa in primo grado nei confronti dell’appellante sarebbe
7.
740
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GIURISPRUDENZA
stata condivisibile, perché disposta in applicazione della regola della soccombenza e perché comunque l’accertamento del credito erariale da parte del giudice tributario non
avrebbe potuto determinare l’insinuazione del credito al passivo, mancando «quelle formalità che sono prescritte per legge a pena di decadenza» (p. 6).
2.a) – Avverso la detta decisione il Ministero dell’Economia e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione affidato ad un motivo, cui resisteva il fallimento ... con controricorso contenente due ricorsi incidentali, di cui il secondo condizionato, anch’essi affidati ad un solo motivo.
2.b) – Successivamente [...] la prima sezione di questa Corte disponeva la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ritenendo la questione prospettata di massima importanza, in quanto attinente ai modi ed alle forme delle attività di riscossione coattiva in sede concorsuale dei
crediti erariali di natura tributaria.
In particolare la rilevanza della questione è stata affermata sotto il profilo della necessità di stabilire, ai fini del decidere, «se, nel quadro normativo vigente al momento
della presentazione dell’istanza di ammissione, questa dovesse essere o meno preceduta dalla iscrizione a ruolo dei crediti erariali azionati e dalla notifica della cartella di pagamento» (p. 5) e se analogamente fosse ammissibile un’azione esecutiva intrapresa
senza l’intervento del concessionario, a ciò deputato per legge.
(Omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
3.a – Disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., si osserva che con
quello principale i ricorrenti hanno denunciato violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997,
art. 16 e 17, art. 25, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58, D.P.R. n. 602 del 1973,
art. 52, D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, D.L. 26 febbraio 1990, art. 19, sotto i seguenti
aspetti: a) la Corte di Appello avrebbe a torto omesso di considerare i titoli posti a base della pretesa creditoria, dal cui esame sarebbe emerso che si trattava di accertamenti
IVA 1977, 1978, 1979, 1980 [...] rispetto ai quali la P.A. aveva accertato maggiori imposte ed irrogato sanzioni (in tal senso la sentenza di secondo grado della Commissione Tributaria di Napoli); b) l’evocato decreto legislativo n. 472 del 1997 sarebbe
stato in realtà inapplicabile, sia perché si sarebbe trattato di atti anteriori al 1 aprile
1983 (circostanza da cui sarebbe poi discesa la non configurabilità delle violazioni degli artt. 17 – omessa iscrizione a ruolo – e 20 – decadenza –), sia perché, pur prescindendo dalla inesattezza del richiamo per quanto concerne sorte ed interessi, l’iscrizione a ruolo diretta delle sanzioni tributarie sarebbe stata possibile nei soli casi di sanzioni per omesso o ritardato versamento, e non anche «in quelli di accertamento puro
quali quelli oggetto di causa»; c) nella specie sarebbe stato applicabile il D.P.R. n. 633
del 1972, per il quale sanzioni e maggiore imposta sono irrogate con lo stesso avviso
(art. 58), avviso che sarebbe stato risalente al 1983 e che per ciò avrebbe escluso il ve-
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741
rificarsi della decadenza; d) in caso di fallimento del debitore l’Erario, ai fini del riconoscimento di un proprio credito, sarebbe tenuto ad insinuarsi al passivo ed il suo titolo ben potrebbe essere correttamente individuato in un «accertamento confermato in
secondo grado»; e) la domanda di ammissione al passivo non richiederebbe la preventiva emissione del ruolo, ed in tal senso deporrebbe il D.M. 28 febbraio 1990, art.
19, comma 1, che espressamente prevede che l’Amministrazione a ciò provveda dopo
l’ammissione del credito al passivo.
3.b – Con il ricorso incidentale il fallimento ... si è a sua volta doluto della disposta
compensazione delle spese processuali, che sarebbe stata a torto ricondotta ad una insussistente «situazione di incertezza determinata dal susseguirsi di provvedimenti legislativi», mentre con quello incidentale condizionato ha inoltre denunciato violazione degli artt. 100, 112, 115, 116 e 323 c.p.c., e vizio di motivazione sotto il profilo della
sopravvenuta carenza di interesse dell’Amministrazione Finanziaria, carenza che avrebbe dovuto dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità della proposta impugnazione.
Dopo il deposito dell’istanza di ammissione del credito la detta Amministrazione
avrebbe infatti provveduto all’iscrizione a ruolo ed alla notifica della cartella di pagamento, atti che avrebbero dovuto essere interpretati come di autotutela, ed in quanto
tali assimilabili a quelli di rinuncia processuale e sostanziale.
La Corte di Appello avrebbe dovuto, dunque, prendere atto della formazione del
nuovo titolo ed emettere, conseguentemente, una decisione che tenesse conto della
differente base su cui era stata avanzata la diversa pretesa tributaria successivamente
formulata.
4. – Osserva il Collegio che, come sopra anticipato, le due questioni ritenute di
particolare delicatezza consistono nello stabilire: a) se l’Amministrazione Finanziaria
abbia o meno legittimazione diretta per far valere nell’ambito della procedura fallimentare il credito di cui assume essere titolare, legittimazione la cui affermazione presenta profili di problematicità in ragione del fatto che il D.P.R. n. 602 del 1973, presuppone la preventiva iscrizione a ruolo delle somme richieste, quale strumento per la
riscossione coattiva, ed affida l’attività necessaria al fine indicato al concessionario del
servizio; b) se sia o meno necessario che la pretesa creditoria azionata direttamente
dall’Amministrazione in sede fallimentare debba essere preceduta dalla relativa iscrizione a ruolo.
5. – Il primo profilo deve essere affrontato prioritariamente, risultando necessariamente subordinata l’eventuale iniziativa del concessionario alla preventiva formazione del ruolo, ed il Collegio ritiene che al quesito derivante dal relativo esame debba
darsi risposta positiva.
Ed infatti la L. Fall., art. 52, stabilisce che il fallimento apre il concorso dei creditori
sul patrimonio del fallito e che ogni credito deve essere accertato secondo quanto stabilito dalla L. Fall., art. 92 e segg., a seguito di presentazione della relativa domanda (L.
Fall., art. 93). Alla stregua delle inequivoche disposizioni ora richiamate deve dunque
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RTDT - n. 3/2012
ritenersi che al D.P.R. n. 602 del 1973, che conferisce al concessionario la legittimazione per la proposizione della domanda di ammissione al passivo di un credito dell’Amministrazione Finanziaria, deve essere attribuito sul punto una valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo dell’Amministrazione Finanziaria allo stesso riconosciuto non vale ad escludere la titolarità del credito da parte
di quest’ultima e, per l’effetto, il diritto di farlo valere nell’ambito della procedura fallimentare, come d’altro canto specificamente già affermato da questa Corte in precedente decisione (C. 10/24963).
In tal senso depone innanzitutto la circostanza che il legislatore non ha dettato alcuna disciplina speciale derogatoria, rispetto alla normativa vigente in materia fallimentare.
Inoltre appare di assoluta evidenza come una interpretazione di segno opposto,
non sorretta come detto da disposizioni normative di sorta, si porrebbe in contrasto
con il dettato costituzionale, e segnatamente con gli artt. 3 e 24, sotto il duplice aspetto delle irragionevoli limitazioni al diritto di azione del creditore che si verrebbe così a
determinare e del trattamento deteriore che, rispetto agli altri creditori, l’Amministrazione Finanziaria, senza alcuna valida ragione, finirebbe per subire. Infine non va sottaciuto come questa Corte, decidendo in fattispecie analoga si è già sostanzialmente
espressa nei medesimi termini (C. 10/23338), con argomentazioni condivise sul punto, e alle quali quindi si rinvia.
6. – Se dunque è da ritenere, per le ragioni sopra esposte, che l’Amministrazione
Finanziaria conservi una propria autonoma legittimazione per far valere, con la domanda di ammissione al passivo del fallimento, il credito vantato, il profilo problematico che ne consegue è quello di stabilire se, a tal fine, siano o meno necessarie la preventiva iscrizione a ruolo dei crediti azionati e la conseguente notifica della cartella al
curatore del fallimento.
La Corte di Appello, come detto, ha affermato l’indispensabilità di tale incombente, limitandosi tuttavia a rilevarne (unitamente alla notifica della cartella di pagamento) la qualità di titolo della pretesa tributaria, idoneo perciò a determinare la conseguente insinuazione al passivo fallimentare.
La laconicità della motivazione prospettata dal giudice del merito a sostegno della
decisione adottata non consente la certa individuazione degli argomenti valorizzati a
tal fine, argomenti che tuttavia sembrerebbero poter essere correttamente identificati
nel dato normativo ed in quello relativo alla giurisprudenza di questa Corte formatasi
al riguardo.
6.a) – In particolare, per quanto concerne quest’ultimo aspetto, occorre rilevare
che in sede di legittimità è stata, più volte evidenziata la necessità, ai fini dell’ammissione del credito al passivo del fallimento, del duplice requisito della preventiva iscrizione a ruolo del credito tributario e della successiva notifica della cartella esattoriale al
curatore (C. 10/14579, C. 06/12777, C. 04/23001, C. 98/6032, C. 94/4426). Tale
giurisprudenza, però, non appare di significativo rilievo in questa sede, atteso che si
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tratta di decisioni emesse in fattispecie del tutto diverse, vale a dire in casi in cui
l’istanza di ammissione era stata presentata dal concessionario, anziché dall’Amministrazione Finanziaria.
6.b) – Di maggiore consistenza sembrerebbe risultare, ad un immediato e sommario esame, il primo profilo sopra richiamato, attinente al contenuto della disciplina legislativa vigente. Ed infatti in proposito giova ricordare le seguenti disposizioni: il
D.P.R. n. 602 del 1973, art. 1, per il quale le imposte sui redditi sono riscosse mediante
ritenuta diretta, versamenti diretti del contribuente al concessionario, iscrizione nei
ruoli, vale a dire secondo un modulo procedimentale tipizzato; il D.P.R. n. 602 del
1973, art. 45, per il quale per la riscossione delle imposte non pagate l’esattore procede
all’esecuzione forzata in virtù del ruolo, che costituisce titolo per l’ammissione con riserva nelle procedure concorsuali; il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 51, che regola i rapporti dell’espropriazione esattoriale con le procedure concorsuali, stabilendo che l’esattore può ugualmente procedere, salva la sospensione dell’esecuzione da disporre su
istanza del curatore o del commissario liquidatore; il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 87,
che legittima il concessionario a presentare istanza di fallimento e quindi, successivamente, a chiedere l’ammissione al passivo; il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 88, (come
modificato dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 16) per cui, nel caso di contestazione sulle
somme iscritte a ruolo il credito è ammesso con riserva, da sciogliere una volta decorso il termine per adire il giudice competente ovvero all’esito dell’instaurato giudizio.
È verosimile dunque ritenere che l’interpretazione della normativa vigente al riguardo nel suo complesso possa aver indotto il giudice del merito a formarsi il convincimento che il credito dell’Amministrazione sorga direttamente con la formazione del ruolo, e
che questo quindi costituisca il presupposto necessario per la relativa ammissione.
Tale assunto non può essere condiviso.
7.a) – In proposito va innanzitutto rilevato che, sia sul versante giurisprudenziale
che su quello normativo, sono apprezzabili riscontri che depongono in senso diametralmente opposto, vale a dire nel senso della non indispensabilità del ruolo.
Si ricordano in particolare, quanto al primo punto, le diverse sentenze di questa Corte con le quali è stato affermato che la dichiarazione IVA, se non seguita da atto di rettifica dell’Amministrazione ovvero da correzioni successive, vale come accertamento dell’obbligazione tributaria e, nel caso di riscontrato inadempimento, costituisce titolo per
la riscossione dell’imposta (C. 09/5165, C. 07/16120, C. 06/2994, C. 04/ 13027); quanto al secondo aspetto, l’art. 19 D.M. Ministero delle Finanze del 28.12.1989, che prevedeva, al fine della riscossione delle somme dovute da soggetti sottoposti a procedura
concorsuale, la formazione del ruolo dopo la definitiva ammissione al passivo delle suddette somme, così implicitamente denunciando la convinzione, da parte dello stesso
Ministero creditore delle somme da riscuotere, della non necessità del ruolo.
7.b) – Ma al di là dei pur significativi rappresentati rilievi, lo stato della giurisprudenza di legittimità e la normativa vigente non inducono alla conclusione cui è pervenuta la Corte di Appello.
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7.c) – Le sopra citate sentenze di questa Corte, come già puntualmente evidenziato, sono state invero emesse con riferimento all’ipotesi in cui il credito erariale era stato azionato dal concessionario, e quindi in fattispecie che presuppone fisiologicamente la preventiva formazione del ruolo e la conseguente allegazione all’istanza di ammissione al passivo. Quanto poi alle richiamate disposizioni in tema di riscossione del
credito erariale, va precisato che le stesse (all’evidenza sollecitate dall’esigenza di favorire la realizzazione del credito in virtù di una più agevole formazione del titolo esecutivo, e ciò in ragione degli interessi pubblicistici rappresentati dal creditore) appaiono
essere state dettate in relazione alla prefigurata ipotesi di inadempimento di un singolo
debitore ed all’avvertita utilità di fissare principi da applicare nella esecuzione individuale che, su iniziativa del concessionario munito di ruolo, ne sarebbe conseguita.
Da tale premessa discende dunque che, per la parte in cui il legislatore non ha previsto espresse deroghe alla disciplina dettata in tema di procedure concorsuali – e nel
caso in esame giova ribadire che detta deroga non è stata affatto prevista –, non è consentita in via interpretativa un’automatica applicazione delle norme sopra richiamate
nella procedura di fallimento promossa nei confronti del debitore, la cui dichiarazione,
fra l’altro, non presuppone neppure la necessità della precedente formazione di un titolo esecutivo.
7.d) – La procedura fallimentare, infatti, non appare finalizzata alla diretta realizzazione dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento, ma risulta piuttosto volta ad
assicurare il conseguimento della “par condicio creditorum” nel rispetto della disciplina specificamente indicata a tal fine (L. Fall., art. 92 e segg.), nel cui ambito i compiti
di accertamento del giudice delegato e la connessa fase decisionale (L. Fall., art. 96)
assumono rilievo preminente rispetto al momento liquidatorio, che appare al contrario prevalente nell’esecuzione individuale.
Orbene, sulla base delle considerazioni sinora svolte, è agevole rilevare come non
siano apprezzabili specifiche disposizioni che sorreggano la decisione adottata dalla
Corte di Appello. Ed infatti il più volte richiamato D.P.R. n. 602 del 1973 prende dapprima in considerazione le modalità di riscossione delle imposte, fra le quali quella realizzata mediante ruolo e tramite concessionario (titolo I), prevede poi l’ipotesi di
mancato pagamento nonostante il ruolo e la notificazione dell’avviso di mora (titolo
2^), stabilisce infine che, in tal caso, l’esattore può procedere esecutivamente avvalendosi del ruolo come titolo ovvero, nell’ipotesi di pendenza di procedura concorsuale,
per ottenere l’ammissione al passivo del credito insoddisfatto.
Quanto a quest’ultimo rilievo, che è quello che interessa in questa sede, appare di
assoluta evidenza come la predetta facoltà attribuita all’esattore non comporti, come
dato necessario ed ineludibile, la conseguenza che l’istanza di ammissione al passivo
per un credito erariale debba essere sorretta dal ruolo preventivamente formato. Al contrario la disposizione in questione si limita a legittimare l’esattore, ove verificata l’intervenuta apertura di procedura concorsuale in danno del debitore, a procedere esecutivamente anche a fronte della nuova procedura in corso (in ciò confermandosi l’inten-
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to acceleratorio alla riscossione perseguito dal legislatore) ovvero ad avvalersi del titolo esecutivo rappresentato dal ruolo, ai fini dell’ammissione al passivo del credito.
Allo stesso modo alcuna rilevanza ai fini di interesse può essere attribuita all’avvenuto riconoscimento al concessionario della facoltà di proporre istanza di fallimento,
essendo detta facoltà riconducibile all’azionabilità del titolo esecutivo, di cui lo stesso
può istituzionalmente avvalersi.
8. – Le esposte considerazioni inducono quindi a ritenere che la corretta lettura ed
interpretazione della normativa vigente escluda che possa essere affermata la necessità
dell’allegazione del ruolo, a sostegno della domanda di riconoscimento del credito erariale direttamente formulata dall’Amministrazione creditrice.
Tale conclusione, d’altro canto, è in sintonia con la disciplina dettata con riferimento alla domanda di ammissione al passivo (L. Fall., art. 93), per la quale è richiesta
la semplice esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione
della domanda, e non anche la necessaria allegazione di un titolo.
Non vi è dunque ragione per ritenere che detta disciplina, stabilita in via generale
per le domande di ammissione di crediti, debba essere derogata quando questa riguardi credito tributario e che al fine indicato sia indispensabile la precostituzione del titolo esecutivo rappresentato dal ruolo.
8.a) Oltre all’assenza di validi motivi idonei a prospettare la ragionevolezza di una
deroga ai principi generali per effetto della natura tributaria del credito azionato, non
sembra inutile evidenziare due ulteriori aspetti, attinenti alle ragioni che hanno verosimilmente indotto il legislatore a prevedere l’ammissione al passivo con riserva del
credito iscritto a ruolo nel caso di contestazioni mosse dal preteso debitore (D.P.R. n.
602 del 1973, artt. 45 e 88, e successive modifiche), che depongono in senso opposto
a quanto deciso dalla Corte di Appello.
8.b) – Ed infatti, quanto al primo punto occorre considerare la qualità di mandatario dell’Amministrazione rivestita dal concessionario, nonché la rilevanza pubblicistica
attribuibile ai compiti allo stesso demandati, elementi che hanno evidentemente indotto il legislatore ad una rigida tipizzazione, per quest’ultimo, dei moduli procedimentali delineati, nella prospettiva dell’ottimale realizzazione dell’interesse pubblico.
8.c) – In ordine al secondo, non sembra contestabile la funzione di tutela del contribuente riconducibile alla previsione normativa dell’ammissione del credito erariale
con riserva. Il ruolo costituisce infatti titolo esecutivo formato in via amministrativa,
circostanza che impone una verifica giudiziaria nel caso di contestazioni sollevate dal
contribuente preteso debitore. Per effetto delle disposizioni vigenti in tema di riparto
di giurisdizione, tuttavia, le controversie che determinano la necessità di una delibazione in ordine all’esistenza e alla consistenza del tributo non possono essere demandate agli organi fallimentari, ma devono essere rimesse all’esame del giudice tributario.
L’impugnativa del ruolo davanti alle Commissioni Tributarie consente dunque al
debitore erariale di far valere le ragioni del manifestato dissenso nella sede propria,
mentre l’ammissione del credito con riserva, da sciogliere all’esito dell’intrapreso giu-
746
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dizio tributario, consente di definire, sia pure con contenuto condizionato, la fase della
procedura fallimentare relativa alla formazione dello stato passivo.
Orbene, tenuto conto della circostanza che nel caso di contestazione del debitore
erariale il giudice delegato non ha modo di verificare la fondatezza delle censure, essendo le relative questioni rimesse al giudice tributario, in mancanza del ruolo (e della
relativa impugnazione) l’esito della domanda di ammissione dovrà essere necessariamente sfavorevole per il creditore, attesa l’impossibilità, per il giudice delegato del fallimento, di formulare giudizio di merito al riguardo.
Se ne deve dunque desumere che il ruolo rafforza la posizione del creditore che,
ove ritenga preferibile depositare istanza di ammissione al passivo senza la preventiva
formazione del ruolo, assume il rischio dell’iniziativa adottata e, nel caso di contestazione da parte del debitore, subisce le conseguenze della sua inerzia. In altri termini il
modulo procedimentale normativamente previsto nell’ipotesi di riscossione coattiva
di un credito erariale (in essa compresa, quindi, quella da far valere nei confronti di
soggetto sottoposto a procedura concorsuale), che subordina la presentazione della
relativa richiesta alla precedente formazione del ruolo, appare ispirato all’esigenza di
favorire e di accelerare il soddisfacimento del credito sicché, in mancanza, non è configurabile alcun pregiudizio per il debitore, che al contrario può avvalersi dei limiti di
intervento del giudice ordinario al quale, per le ragioni precedentemente esposte, non
è consentito alcun sindacato in ordine alla fondatezza delle contestazioni sollevate.
8.d) – Per di più va evidenziato come nella specie non sia neppure astrattamente
ipotizzabile alcun pregiudizio per le parti, in relazione all’omessa formazione del ruolo.
Ed infatti, l’eventuale contestazione del suo contenuto da parte del debitore avrebbe come effetto il differimento dell’ammissione definitiva del credito all’inutile decorso del termine «per la proposizione della controversia davanti al giudice competente»
ovvero alla data di definizione del giudizio intrapreso davanti alle Commissioni Tributarie (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 88, e successive modifiche).
Nella specie è circostanza assolutamente certa che la Commissione Tributaria adita, con sentenza passata in giudicato, ha rigettato il ricorso proposto dal debitore, riconoscendo per l’effetto legittimi sia gli accertamenti fiscali effettuati, che le violazioni
contestate.
La situazione processuale che si è venuta a determinare è dunque identica a quella
che si sarebbe determinata ove l’istanza di ammissione dell’Amministrazione fosse stata accompagnata dal ruolo, sicché l’assunto posto a base della sentenza impugnata, secondo il quale sarebbe stata comunque indispensabile la preventiva iscrizione a ruolo
del credito azionato, non appare condivisibile sul piano logico.
Una valutazione difforme da quella ora prospettata presupporrebbe, per essere
considerata fondata, che il legislatore abbia inteso attribuire al ruolo il valore di prova
legale, attribuzione che non è stata in alcun modo rappresentata e che, per le ragioni
finora svolte, non può essere neppure indirettamente desunta dalla normativa vigente.
9. – Da ciò discende che a torto la Corte di Appello ha confermato il rigetto della
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
747
domanda di insinuazione del credito avanzata dall’Amministrazione Finanziaria, esito
che comporta l’assorbimento del ricorso incidentale, con il quale il fallimento aveva
lamentato l’errata statuizione sulle spese processuali del giudice del gravame.
Ad identiche conclusioni deve poi pervenirsi per quanto concerne il ricorso incidentale condizionato, incentrato sulla pretesa carenza di interesse del ricorrente principale.
Tale mancanza di interesse, infatti, sarebbe desumibile dal fatto che, nel corso del
giudizio instaurato a seguito di domanda di ammissione al passivo [...] l’Amministrazione aveva provveduto dapprima all’iscrizione a ruolo dell’imposta asseritamente dovuta, e quindi alla notifica della relativa cartella.
A dire del fallimento la diversità della pretesa rispetto alla precedente, sotto il profilo della conformità alla legge di quella “nuova e sostitutiva” della prima, sarebbe riconducibile ad atto di autotutela, e per ciò assimilabile ad atto di rinuncia processuale, assunto tuttavia privo di pregio, poiché espressione di una interpretazione del tutto soggettiva del comportamento processuale della controparte, per di più contrastante con
l’identità del “petitum” perseguito con l’ulteriore iniziativa adottata dall’Amministrazione, a torto definita dal fallimento come una diversa pretesa rispetto a quella iniziale.
In realtà è del tutto evidente come la domanda originaria dell’odierno ricorrente
sia rimasta sempre quella dell’ammissione del credito al passivo per le medesime causali, sicché la diversità rispetto alla strategia processuale precedentemente adottata riguarda esclusivamente la documentata prospettazione di altro argomento (sollecitata
dalla linea difensiva della controparte), a sostegno della iniziale richiesta. Il solo eventuale profilo problematico che ne potrebbe dunque derivare sarebbe quello concernente la tempestività e la ritualità della documentazione prodotta, profilo che tuttavia
non risulta essere stato denunciato dalla parte interessata, né considerato dal giudice
del merito, e che in ogni modo risulta ininfluente ai fini del decidere, in ragione della
ritenuta non necessità della preventiva formazione del ruolo.
Conclusivamente, la controversia deve essere decisa sulla base dei due seguenti
principi di diritto: “1) La legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell’ambito della procedura fallimentare non esclude la legittimazione dell’Amministrazione Finanziaria, che conserva la titolarità del credito azionato; 2) la domanda di ammissione al passivo di un fallimento avente ad oggetto un credito di natura
tributaria non presuppone necessariamente, ai fini del buon esito della stessa, la precedente iscrizione a ruolo del credito azionato, la notifica della cartella di pagamento e
l’allegazione all’istanza di documentazione comprovante l’avvenuto espletamento delle dette incombenze, potendo viceversa essere basata anche su titolo di diverso tenore”.
Ne consegue dunque che il ricorso principale va accolto nei termini sopra esposti,
con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello di Napoli in
diversa composizione, perché provveda alla delibazione della domanda di ammissione
al fallimento ... dell’Amministrazione Finanziaria sulla base della documentazione da
questa prodotta, quale risulta dalla indicazione contenuta nella sentenza impugnata,
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GIURISPRUDENZA
nella parte relativa alla rappresentazione dei primi due motivi di appello (p. 4).
Il giudice del rinvio provvederà, infine, anche alla liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie quello principale, assorbito l’incidentale, rigetta il ricorso incidentale condizionato, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello
di Napoli in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Rilievi critici sull’orientamento della Cassazione a sezioni unite
in tema di insinuazione dei crediti tributari al passivo fallimentare
Critical remarks on the decision of the Italian Supreme Court
(Grand Chamber) concerning the lodgement of tax claims
in the bankruptcy proceedings
Abstract
Nella sentenza in commento la Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha sostenuto, in
maniera sicuramente innovativa, la diretta legittimazione dell’Amministrazione
finanziaria ai fini dell’insinuazione al passivo del fallimento, senza che sia necessaria la preventiva iscrizione a ruolo e la notifica della cartella al curatore. I giudici di legittimità hanno peraltro affermato che, in assenza di iscrizione a ruolo censurabile dinanzi al giudice tributario attraverso l’impugnazione della cartella di
pagamento, le domande d’insinuazione provenienti dall’Erario e contestate dal
curatore debbano essere escluse dallo stato passivo, atteso che al giudice fallimentare è precluso il sindacato in ordine alla fondatezza delle censure sollevate.
Tale ricostruzione, non priva di pregi, non appare tuttavia condivisibile allorquando il curatore contesti la pretesa erariale. In questo caso, infatti, non sembra
ammissibile l’esclusione dei crediti tributari dal passivo fallimentare senza alcun
controllo giurisdizionale sulla loro legittimità.
Parole chiave: insinuazione dei crediti tributari al passivo del fallimento, iscrizione a ruolo e cartella di pagamento, legittimazione dell’Amministrazione fi-
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nanziaria, legittimazione dell’Agente della riscossione, contestazioni del curatore
delle pretese fiscali
In the analysed decision, the Italian Supreme Court (Grand Chamber) held in an innovative way the direct legitimisation of the Tax Authority for the lodgement of claims in
the bankruptcy proceedings, without being necessary the previous registration in the tax
roll and the notification of the tax collection notice to the bankruptcy trustee. The judges
also held that, without registration in the tax roll that may be appealed before the tax
court, the admission of tax claims that have been challenged by the bankruptcy trustee
shall be dismissed, since the bankruptcy court cannot decide on the merits of such exceptions. This interpretation, although it presents certain positive aspects, is not acceptable
in case the bankruptcy trustee challenges the tax claim. In this case, against the exclusion
of tax claims from the bankruptcy proceedings there would not be any judicial review on
their legitimacy.
Keywords: lodgement and admission of tax claims in the bankruptcy proceedings,
registration in the tax roll and tax collection notice, tax authority’s legitimisation, tax
collector’s legitimisation, tax claims challenged by the bankruptcy trustee
SOMMARIO:
1. La vicenda processuale all’esame delle Sezioni Unite della Cassazione e i discutibili enunciati
della Suprema Corte. – 2. La centralità del ruolo (e della cartella di pagamento), ove ancora
previsto, ai fini dell’ammissione del credito erariale al passivo del fallimento e l’ineludibile sindacato giurisdizionale sulla legittimità delle pretese erariali. – 3. (Segue) La rilevanza delle esigenze di tutela della massa dei creditori (e del fallito) anche in presenza di una sentenza favorevole all’Erario passata in giudicato. – 4. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda processuale all’esame delle Sezioni Unite della Cassazione e i discutibili enunciati della Suprema Corte
La vicenda processuale in esame ha offerto l’occasione alla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, di pronunciarsi su taluni profili essenziali relativi all’insinuazione dei crediti tributari al passivo del fallimento, che da tempo continuano ad
alimentare il dibattito tanto nell’ambito della dottrina che sul piano giurisprudenziale 1. La Suprema Corte è stata chiamata a stabilire se, ai fini dell’ammissione al
1
Il tema dell’insinuazione dei crediti tributari al passivo fallimentare, anche alla luce di altre recenti sentenze della Cassazione, è stato oggetto di diffusa trattazione, proprio su questa Rivista, da par-
750
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passivo, fosse necessaria o meno la preventiva iscrizione a ruolo delle pretese erariali e la conseguente notifica della cartella di pagamento e se, al medesimo fine,
l’amministrazione finanziaria avesse legittimazione diretta a far valere il proprio
credito, prescindendo, cioè, dall’intervento del concessionario a ciò deputato per
legge.
La fattispecie concreta, comprensibile ancora meglio dalla lettura dell’ordinanza di rimessione 27 giugno 2011, n. 14116 è stata originata dall’impugnazione, da
parte dell’amministrazione finanziaria, della sentenza della Corte App. Napoli n.
2143/2005 che, confermando la precedente pronuncia del Tribunale, aveva escluso dal passivo del fallimento la domanda d’insinuazione, corredata dai fogli di prenotazione a ruolo, presentata direttamente dall’amministrazione sulla base di pregressi accertamenti (risalenti alla fine degli anni ’70) divenuti definitivi a seguito di
sentenza della Commissione tributaria di II grado passata in giudicato. Ciò essenzialmente in quanto, ad avviso della Corte d’Appello, l’esito positivo della domanda di ammissione era comunque subordinato alla formazione del ruolo ed alla notifica della cartella di pagamento, non potendo essere interpretati come valido titolo per l’insinuazione né i fogli prenotati a ruolo – cui peraltro il curatore avrebbe
opposto istanza di condono ancorché non seguita dal relativo pagamento – né le
sentenze tributarie favorevoli all’Ufficio.
I giudici di legittimità hanno ricostruito il tema dell’ammissione dei crediti erariali al passivo fallimentare affermando, in maniera sicuramente suggestiva ma, come subito si vedrà, non condivisibile in ordine alle argomentazioni sottostanti ed a
taluni prospettati corollari, la diretta azionabilità dei crediti tributari nel fallimento
da parte dell’amministrazione finanziaria e la conseguente svalutazione, a tal fine,
della funzione del ruolo.
Il percorso argomentativo è stato fondato dalla Suprema Corte sulla pacifica premessa per cui, ancorché l’impianto normativo delineato dagli artt. 87 e 88 del D.P.R.
n. 602/1973 preveda la formazione del ruolo e l’intervento del concessionario della
riscossione ai fini dell’ammissione delle pretese erariali al passivo fallimentare, la legittimazione del concessionario ha valenza esclusivamente processuale in quanto la
titolarità dei crediti rimane in capo all’amministrazione finanziaria 2.
te di PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali: recenti pronunce della Suprema Corte
tra vecchie questioni e nuova disciplina dell’accertamento esecutivo, in questa Rivista, 2012, n. 2, p. 415.
In proposito, sempre di recente, si veda anche D’ANGELO, L’insinuazione al passivo fallimentare del
credito tributario, in AA.VV., La riscossione dei tributi, a cura di Basilavecchia-Cannizzaro-Carinci, in
Quaderno della Riv. dir. trib., Milano, 2011, p. 297 ss.
2
È sicuramente pacifico, in dottrina, che la riscossione in base a ruolo, affidata ad un soggetto
terzo rispetto al “rapporto d’imposta”, non comporti il trapasso della titolarità del credito: v., di recente, A. CARINCI, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, pp. 14-15, ove
anche riferimenti dottrinali; BOLETTO, Il ruolo di riscossione nella dinamica dl prelievo delle entrate
pubbliche, Milano, 2010, p. 1.
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
751
Partendo da tale premessa di fondo, tuttavia, i giudici hanno affermato il diritto
dell’amministrazione di far valere, al pari degli altri creditori concorsuali, i propri crediti nell’ambito della suddetta procedura, supportando la tesi con una serie di argomentazioni che destano non poche perplessità.
Innanzitutto la Cassazione, poiché riferito ad una fattispecie in cui l’istanza di
ammissione era stata presentata dal concessionario 3, si è affrancata dal proprio
orientamento consolidato che aveva sancito la necessità, ai fini dell’insinuazione al
passivo, del duplice requisito della preventiva iscrizione a ruolo e della notifica della
cartella di pagamento al curatore 4. Inoltre la Corte, pur prendendo atto del vigente
quadro normativo contrario alla propria ricostruzione 5, ha affermato la supremazia
delle norme del diritto fallimentare rispetto a quelle tributarie, sottolineando che la
disciplina del fallimento non appare finalizzata alla diretta realizzazione del credito,
cui è preordinato il ruolo, ma è volta ad assicurare la par condicio creditorum (anche)
nella verifica dello stato passivo. Conseguentemente, ad avviso della Corte, non vi
sarebbe stata ragione di derogare, in virtù della natura tributaria dei crediti, alla disciplina generale dettata per le domande di ammissione al passivo, di cui all’art. 93 della
L. fall. (R.D. n. 267/1942), in base alla quale è richiesta la semplice esposizione dei
fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda, senza la
necessaria produzione di un titolo.
A tal proposito, appare evidente un’incongruenza. Da un lato la Corte, affermando l’applicabilità, anche per i crediti erariali, delle norme fallimentari sull’ammissione al passivo sembra aver attenuato le peculiarità proprie di quest’ultimi. Dall’altro lato, per questa via, alla luce di quanto sostenuto in dottrina, la stessa Corte
risulta aver derogato proprio al principio della par condicio creditorum consentendo
che, in generale, i crediti tributari partecipino al concorso anche in assenza di un
provvedimento – quale è il ruolo – che contenga una pretesa quanto più certa e
3
L’ammissione al passivo da parte del Concessionario, invero, presuppone fisiologicamente la
preventiva formazione del ruolo (e la notifica della cartella di pagamento).
4
Si vedano le sentenze della Cassazione, richiamate nella pronuncia in commento, n. 14579/2010,
n. 12777/2006, n. 23001/2004, n. 6032/1998, n. 4426/1994. Peraltro nella recente ord. 28 giugno
2012, n. 1104 la Suprema Corte, ancorché con riferimento a crediti INPS ed INAIL, ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’insinuazione al passivo, l’estratto di ruolo senza la necessaria notifica della cartella di
pagamento al curatore, in linea con le precedenti Pronunce n. 12019/2011 e n. 5063/2008.
5
Anche se, con riferimento al caso di specie, i giudici hanno valorizzato l’art. 19 del D.M. del
Ministero delle finanze del 28 dicembre 1989 che prevedeva, al fine della riscossione delle somme
dovute da soggetti sottoposti a procedura concorsuale, la formazione del ruolo dopo la definitiva
ammissione al passivo di tali somme. Tale norma di natura regolamentare, prevista con riferimento
alla riscossione delle imposte indirette, è stata successivamente abrogata dall’art. 301, comma 1, del
D.P.R. n. 115/2002. Attualmente il sistema normativo di riferimento è quello delineato dalla riforma delle entrate pubbliche a mezzo ruolo di cui al D.Lgs. n. 46/1999, rispetto alla quale è di recente
intervenuta la disciplina sulla concentrazione della riscossione nell’accertamento ex art. 29 del D.L.
n. 78/2010 (conv., con modificazioni, dalla L. n. 122/2010).
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stabile, similmente a quanto avviene per gli altri creditori 6. Invero, esclusa la funzione esecutiva del titolo in costanza di fallimento 7, come peraltro riconosciuto dal
Supremo Consesso nella stessa pronuncia in commento, la scelta normativa del
ruolo in tale ambito è stata verosimilmente ispirata proprio dall’intento di individuare, all’interno della peculiare scansione procedimentale degli atti conseguenti al
verificarsi del presupposto del tributo, quello recante il diritto erariale maggiormente
assimilabile al diritto degli altri creditori del fallito. Il ruolo, infatti, assume nel fallimento una valenza ricognitiva del credito fiscale che consente di preservare gli strumenti di tutela avverso gli atti prodromici ad esso funzionalmente collegati 8, discendenti direttamente dall’attuazione del prelievo ad opera dell’amministrazione finanziaria o, in taluni casi, provenienti dagli organi giudiziari 9.
Sotto altro profilo la Cassazione, affermata la legittimazione diretta dell’Erario all’ammissione al passivo del fallimento, ha superato, in maniera – come si vedrà – non
condivisibile, il problema dell’esigenza di tutela da parte del curatore avverso domande d’insinuazione ritenute illegittime. Tale profilo problematico, evidentemente, è causato dal fatto che l’organo della procedura, in mancanza dell’iscrizione a ruolo e della notifica della cartella di pagamento, non potrebbe rivolgersi al giudice tributario non avendo ricevuto alcun atto impugnabile.
Invero, come ampiamente noto, il giudice fallimentare non ha cognizione in
ordine al titolo delle pretese erariali 10, essendo quest’ultima rimessa alla giurisdizione (speciale) tributaria 11. Pertanto, in caso di contestazioni di merito sollevate
dal curatore, ai sensi dell’art. 88 del D.P.R. n. 602/1973 il credito fiscale è ammesso al passivo con riserva, da sciogliersi una volta decorso il termine utile per adire il
giudice competente ovvero all’esito dell’instaurato giudizio.
6
L’iscrizione a ruolo ai fini dell’ammissione al passivo è giustificata in termini di stabilità e certezza della pretesa da PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 425.
7
Durante la procedura fallimentare, infatti, è da escludere l’attitudine del ruolo all’avvio dell’esecuzione forzata, in virtù del divieto della prosecuzione di azioni esecutive (o cautelari) di cui all’art.
51 del R.D. n. 267/1942.
8
In tal senso v., ancora, PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 425.
9
In realtà, come vedremo, talvolta potrebbe verificarsi la necessità di dover contestare, in costanza di fallimento, anche atti provenienti dal medesimo contribuente, come le dichiarazioni fiscali,
emendabili, ad esempio, a seguito del controllo della liquidazione o della verifica formale degli stessi.
10
In particolare, il giudice fallimentare non ha cognizione né sulla determinazione dell’an e del
quantum del tributo, né sui profili di legittimità dell’atto impositivo, sia esso atto di accertamento,
ruolo, cartella di pagamento o qualsiasi altro atto.
11
V., tra gli altri, DEL FEDERICO, L’accertamento del passivo fallimentare per i crediti tributari, in
AA.VV., Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, II, Torino, 2009, p. 2039 ss., che ha rilevato tuttavia, in maniera condivisibile, come il giudice fallimentare abbia cognizione sulla prescrizione
del credito tributario, da non confondere con i termini di decadenza previsti per l’adozione dell’atto
impositivo; F. PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 423, ove anche riferimenti alla giurisprudenza.
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
753
Il passaggio più delicato, tuttavia, va oltre le considerazioni fin qui svolte.
I giudici, nel caso di specie, in virtù del giudicato favorevole all’amministrazione, non hanno ritenuto ipotizzabile nemmeno in astratto un qualche pregiudizio circa le ragioni della massa dei creditori (e del fallito) in relazione all’omessa formazione del ruolo; da un punto di vista generale, in assenza di iscrizione a ruolo censurabile in giudizio attraverso l’impugnazione della cartella, essi hanno però affermato come non debbano ammettersi allo stato passivo le domande d’insinuazione
provenienti dall’Erario e contestate dal curatore. In altri termini, la Suprema Corte
ha evidenziato come l’amministrazione finanziaria, allorquando decida di insinuarsi direttamente al passivo del fallimento, sottraendosi al modulo procedimentale
normativamente previsto, corra il rischio di incorrere in una decisione sfavorevole
del giudice fallimentare in caso di contestazioni da parte del curatore, per cui nessun pregiudizio sarebbe comunque configurabile per il debitore. Ciò in quanto,
attesa l’impossibilità di adire il giudice tributario in assenza del ruolo e della cartella di pagamento, al giudice fallimentare, come già ricordato, non è consentito alcun
sindacato in ordine alla fondatezza delle censure sollevate.
Tali enunciati, come si vedrà appresso, appaiono discutibili ancorché ispirati da
un approccio metodologico di fondo, sicuramente idoneo a risolvere il complesso
rapporto tra le norme tributarie e quelle fallimentari 12, che tende ad equiparare
l’Erario agli altri creditori concorsuali 13.
Tale equiparazione, tuttavia, deve necessariamente tener conto di talune peculiarità dei crediti tributari, non potendo, dunque, tradursi nella negazione di qualsiasi profilo di specialità della materia tributaria in nome della prevalenza, da un
punto di vista assiologico, dell’interesse primario dei creditori del fallito 14.
12
Tale complessità è stata compiutamente messa in risalto, fin da tempi ormai risalenti, da MI-
CHELI, Piero Pajardi, Fallimento e fisco, Milano, 1971, pp. XXI, 521, in Riv. dir. fin., 1971, I, p. 169 ss.
13
È questo l’approccio adottato dalla Cassazione anche nella recente sentenza 11 ottobre 2011,
n. 20910 che ha esaminato la possibilità di individuare un punto di equilibrio razionale tra i termini
previsti dall’art. 101 L. fall. e quelli, maggiormente estesi, sanciti dall’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973.
In quell’occasione la Corte ha ritenuto prevalenti le finalità alla base dei ristretti termini previsti ai
fini dell’accertamento del passivo rispetto a quelle sottese alla disciplina tributaria dello svolgimento
delle attività che scandiscono la fase di attuazione del tributo: v. PAPARELLA, Insinuazione al passivo
tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 428 ss. e spec. 432, ove riferimenti anche ad altre fattispecie in cui i principi previsti dalle norme tributarie sono stati subordinati alle regole desumibili dalla disciplina del fallimento.
14
Lo stesso legislatore ha disciplinato in maniera frammentaria e disorganica i rapporti tra le
norme fallimentari e quelle tributarie, imponendo di adottare, nella visione d’insieme tesa ad individuare il corretto equilibrio tra gli interessi sottostanti ai due corpi di norme, diverse logiche che rispondono a diversi sottosistemi, non essendo perseguibile l’intento di identificare, secondo un approccio di
natura assiologia, la prevalenza di una species normativa sull’altra, proprio in considerazione di alcune peculiarità originate dalla natura pubblicistica dei crediti tributari. In proposito sia consentito
rinviare a MAURO, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, p. 2 ss.
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2. La centralità del ruolo (e della cartella di pagamento), ove ancora previsto, ai
fini dell’ammissione del credito erariale al passivo del fallimento e l’ineludibile sindacato giurisdizionale sulla legittimità delle pretese erariali
Le perplessità originate dalla ricostruzione delineata dalla Cassazione, tesa ad
affermare la diretta legittimazione dell’Erario nell’insinuazione al passivo fallimentare, appaiono riconducibili essenzialmente alla lesione delle esigenze di tutela della massa dei creditori (e del fallito) nonché alla negazione del sindacato giurisdizionale sulla legittimità delle pretese erariali.
Come accennato, la scelta normativa di preservare anche nel fallimento la scansione procedimentale che caratterizza l’attuazione del prelievo tributario non è da
ricondurre alla funzione esecutiva del ruolo, posto che, in virtù del disposto dell’art.
51 della L. fall., è fatto divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive o cautelari durante la procedura. Più verosimilmente, la ratio dell’impianto normativo
tributario è stata quella di circoscrivere l’ammissione al passivo all’atto della riscossione (il ruolo portato a conoscenza con la notifica della cartella di pagamento 15)
che attribuisce una ragionevole stabilità alla pretesa tributaria, tanto da legittimare,
ordinariamente, l’esecuzione forzata. Questo per evitare che eventuali crediti derivanti da atti impositivi incerti possano pregiudicare gli altri creditori concorsuali
che, a differenza dell’Erario, subiscono la cognizione diretta ed immediata del giudice delegato in ordine alla fondatezza delle loro pretese 16.
La funzione del ruolo nell’insinuazione al passivo dei crediti tributari, allora,
consente di riequilibrare, nel rispetto della par condicio creditorum, l’accertamento
del passivo fallimentare garantendo la tutela della massa dei creditori (e del fallito).
Invero, in assenza della preventiva iscrizione a ruolo, qualora vi fossero pretese erariali non impugnabili dinanzi al giudice tributario quest’ultime acquisirebbero carattere definitivo, risultando nella sostanza insindacabili da parte del giudice fallimentare. Tale conseguenza, evidentemente, sarebbe inaccettabile allorquando sorgessero contestazioni da parte del curatore in ordine all’an ed al quantum dei crediti tributari.
15
È pacifica in dottrina la conclusione per cui, essendo il ruolo atto meramente interno, la notifica della cartella di pagamento è imprescindibile affinché esso acquisti rilevanza nei confronti del destinatario: v., tra gli altri, BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione
dei tributi, in Dir. prat. trib., 2007, I, p. 132 ss.
16
V. DEL FEDERICO, L’accertamento del passivo fallimentare, cit., pp. 2048-2049, che ha sottolineato come la ratio della norma che ha disposto l’insinuazione al passivo del fallimento attraverso il
ruolo è proprio di arginare, in ambito concorsuale, il potere autoritativo dell’amministrazione finanziaria che predispone unilateralmente gli atti impositivi, i titoli esecutivi, ecc. Ciò al fine di procedimentalizzare l’azione impositiva, evitando che pretese vagamente riferibili a presupposti di fatto verificatisi in epoca anteriore al fallimento, magari caratterizzati da incertezza e instabilità degli atti impositivi, possano pregiudicare le ragioni dei creditori di diritto comune nel concorso.
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
755
In altri termini la funzione meramente riproduttiva della pretesa fiscale propria
del ruolo, il quale nell’attuale sistema normativo non può essere concepito quale atto
costitutivo dell’obbligazione tributaria 17, potrebbe legittimare l’insinuazione diretta dell’amministrazione finanziaria al passivo del fallimento, riconosciuta dalla Cassazione. Tuttavia, l’iscrizione a ruolo appare necessaria ove il curatore intenda sollevare eccezioni circa il merito del credito tributario in quanto, diversamente, sarebbe
definitivamente precluso il sindacato giurisdizionale sulla fondatezza delle pretese
erariali.
Pertanto la soluzione adottata dalla Suprema Corte, improntata alla svalutazione del ruolo, potrebbe causare il medesimo vuoto di tutela che, in talune fattispecie
e con riferimento ai tributi cui si applica, provoca la recente disciplina normativa relativa alla concentrazione della riscossione nell’accertamento di cui all’art. 29 del
D.L. n. 78/2010 (conv., con modificazioni, dalla L. n. 122/2010) 18. In base a tale
disciplina, poiché l’avviso di accertamento, oltre alla consueta funzione impositiva,
si configura come titolo esecutivo, l’insinuazione dei crediti fiscali al passivo fallimentare sarà effettuata in base all’atto di accertamento che, a tal fine, sostituisce il
ruolo e la cartella di pagamento 19.
Così, in base alle nuove previsioni, l’agente della riscossione interverrà nell’esecuzione forzata e, ai fini che qui interessano, potrà insinuarsi al passivo del fallimento dopo il decorso di ulteriori trenta giorni da quando l’avviso di accertamento
17
V. BOLETTO, op. cit., p. 69 ss. e spec. p. 78, ove l’Autrice, dopo aver ripercorso l’evoluzione delle funzioni del ruolo, afferma che quest’ultimo è atto rappresentativo di fatti o atti espressi in documenti emanati in epoca anteriore, il cui unico effetto è quello di attribuire esecutorietà al diritto di credito ovvero quello di rendere esigibile la somma in esso iscritta, a prescindere dal titolo su cui si fonda
l’iscrizione.
18
Per l’analisi degli effetti della novella legislativa e dei profili problematici ad essa connessi con
riferimento alle procedure concorsuali v. PAPARELLA, L’ammissione al passivo fallimentare dei crediti
fiscali a seguito della soppressione del ruolo, in Dir. prat. trib., 2011, n. 6, p. 1193 ss.; DEL FEDERICO, Gli
accertamenti esecutivi e le procedure concorsuali, in AA.VV., La concentrazione della riscossione nell’accertamento, a cura di Glendi-Uckmar, Padova, 2011, p. 161 ss.; INGRAO, Concentrazione della riscossione
nell’accertamento e riflessi sull’ammissione al passivo fallimentare, in AA.VV., La concentrazione della
riscossione nell’accertamento, cit., 147 ss. Si vedano inoltre, tra gli altri, A. CARINCI, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex DL n. 78/2010, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 159 ss.; GIOVANNINI, Riscossione in base al ruolo e agli atti di accertamento, in Rass. trib., 2011, p. 22 ss.; G. GAFFURI, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli avvisi di accertamento, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 597 ss.
19
Ciò in quanto, pur rimanendo in vigore le richiamate disposizioni di cui agli artt. 87 e 88 del
D.P.R. n. 602/1973, l’art. 29, comma 1, lett. g) del D.L. n. 78/2010 ha disposto che ai fini della procedura di riscossione contemplata dalla novella legislativa i riferimenti contenuti in norme vigenti al
ruolo ed alla cartella di pagamento si intendono effettuati agli atti di accertamento direttamente esecutivi (ovvero alle “intimazioni ad adempiere” nei casi in cui siano rideterminati gli importi da pagare originariamente previsti dagli avvisi di accertamento) ed i riferimenti alle somme iscritte a ruolo si
intendono effettuati alle somme affidate agli agenti della riscossione secondo le nuove disposizioni.
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(ovvero l’“intimazione ad adempiere”) è divenuto esecutivo 20, salvo i casi di grave
pericolo per la riscossione, secondo il modello del ruolo straordinario di cui all’art.
11 ed art. 15 bis del D.P.R. n. 602/1973, per i quali è prevista la riscossione integrale di imposta, interessi e sanzioni nonché l’esclusione del richiamato termine dei
trenta giorni previsto per l’improcedibilità dell’esecuzione 21.
Tuttavia, se è pacifico che, ove l’atto impositivo sia stato impugnato dal contribuente in bonis, il credito tributario, come in tutte le fattispecie, potrà insinuarsi al
passivo per la somma riscuotibile in via provvisoria e non per l’intera pretesa, diversamente appare complessa l’ipotesi riguardante l’eventuale contestazione, da parte del curatore, del credito erariale per il quale l’agente della riscossione abbia proposto istanza di ammissione al passivo fallimentare.
Ciò in quanto l’intervento dell’agente, come già evidenziato, è connesso alla
definitività della pretesa impositiva (ed al decorso di ulteriori trenta giorni dal termine per adempiere) per cui, venendo a mancare, per le imposte attratte dalla disciplina in argomento, la cartella di pagamento, il curatore non potrebbe adire il giudice tributario in quanto non vi sarebbe, in ipotesi ed in apparenza, alcun atto impugnabile.
La carenza di tutela in siffatte ipotesi, già avvertita dalla dottrina per le ordinarie
circostanze in cui il contribuente è sottoposto all’esecuzione coattiva dell’agente
senza aver ricevuto (e quindi senza poter contestare) rituale notifica dell’atto di accertamento 22, potrebbe indurre a ritenere che il curatore abbia la facoltà di contestare davanti al giudice tributario l’istanza di ammissione al passivo del fallimento
proveniente dall’agente della riscossione. Ciò, in particolare, secondo un approccio
interpretativo basato sull’assimilazione della domanda d’insinuazione, contenente la
20
Ai sensi del medesimo art. 29, comma 1, lett. b), del D.L. n. 78/2010 l’avviso di accertamento
(ovvero l’“intimazione ad adempiere”) diviene esecutivo dopo il decorso di sessanta giorni dalla sua
notifica. In caso di tempestiva impugnazione dell’atto l’intimazione ad adempiere contenuta nell’avviso d’accertamento sarà limitata agli importi previsti dall’art. 15 del D.P.R. n. 602/1973 per la riscossione frazionata.
21
Per la critica di tale previsione e, in generale, dell’applicabilità del regime del ruolo straordinario in costanza di fallimento, si vedano GIOVANNINI, op. cit., p. 33; PAPARELLA, Insinuazione al passivo
tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 422 nota 14; DEL FEDERICO, Gli accertamenti esecutivi, cit., p. 179;
MAURO, Imposizione fiscale e fallimento, cit., pp. 100-101.
22
Ovviamente ci si riferisce ai casi in cui l’espropriazione non sia preceduta dall’iscrizione di ipoteca o di fermo, ossia da atti che ancora consentono l’accesso alla giurisdizione tributaria. In proposito v. INGRAO, Il difficile inserimento sistematico di una evoluzione strutturale, in Dialoghi trib., 2010, p.
569, il quale, in nome del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., ha affermato l’ammissibilità
dell’opposizione del contribuente di fronte al giudice dell’esecuzione concernente la regolarità formale e la notifica del titolo esecutivo nonostante la specifica esclusione di cui all’art. 57 del D.P.R. n.
602/1973 (che vieta l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.); A. CARINCI, Prime considerazioni
sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex DL n. 78/2010, cit., p. 177, che ha evidenziato come il contribuente, in tali casi, potrebbe non avere alternativa al pagamento ed alla successiva richiesta di rimborso, salva, eventualmente, l’azione per il risarcimento danni.
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
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pretesa impositiva, al ruolo (ed alla cartella di pagamento), ovvero secondo l’ottica
del superamento dei c.d. limiti interni della giurisdizione tributaria derivanti dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 23 in nome delle ineludibili esigenze di tutela del
patrimonio del fallito e del corretto riparto.
Tale opzione interpretativa, dunque, potrebbe essere accolta anche ove si volesse
propendere per la ricostruzione della Suprema Corte affermando che, allorquando
l’amministrazione finanziaria voglia insinuarsi direttamente al passivo del fallimento,
al curatore è data la possibilità di sollevare (eventualmente) contestazioni sulla pretesa erariale impugnando l’istanza di ammissione dinanzi al giudice tributario.
È indubbio, invero, che nelle fattispecie finora richiamate debba essere garantita la tutela della massa dei creditori (e del fallito) a pena di ledere, oltre che la par
condicio creditorum 24, l’effettività del diritto di difesa che, come noto, è garantita da
principi costituzionali e sovranazionali 25.
Tale esigenza di tutela, peraltro, è stata contemplata nella sentenza in commento
dalla Corte di Cassazione con riferimento ad ipotesi in cui, diversamente da quanto
ha ritenuto con riguardo al caso concreto esaminato, potessero sussistere effettive
23
Sul dibattito circa l’estensione dell’accesso alla giustizia tributaria per una serie di atti atipici,
non rientranti nella categoria degli atti impugnabili v., tra gli altri, TABET, Diritto vivente e tutela anticipata nei confronti di atti atipici, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2001, p. 281 ss., ID., Verso la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili?, in GT-Riv. giur. trib., 2008, n. 6, p. 507; ID., Contro l’impugnabilità degli avvisi di pagamento della TARSU, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2008, 317 ss.; INGRAO,
Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito dell’impugnabilità di
avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni mobili e fatture), in Riv. dir.
trib., 2007, I, p. 1075 ss.; FERLAZZO NATOLI, Considerazioni critiche sulla impugnazione facoltativa, ivi,
p. 1112; A. CARINCI, Il ruolo tra pluralità di atti ed unicità della funzione, in Riv. dir. trib., 2008, I, p.
274; ID., Dall’interpretazione estensiva dell’elenco degli atti impugnabili al suo abbandono: le glissment
progressif della Cassazione verso l’accertamento negativo nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2010,
II, p. 217 ss.; RANDAZZO, “Avvisi bonari” ed esercizio informale di funzioni tributarie, in Rass. trib.,
2008, p. 468; COPPA, Impugnabilità degli avvisi bonari e tutela del contribuente, in Corr. trib., 2007, p.
3696. In proposito, appare sicuramente condivisibile la critica di una parte della dottrina alla tendenza del “diritto vivente” nel senso di percorrere la strada dell’interesse concreto al ricorso non
tipizzato ex lege (v. TABET, Diritto vivente e tutela anticipata nei confronti di atti atipici, cit., p. 283).
Tuttavia sembra doversi riconoscere la legittimità dell’impugnazione di atti atipici, ossia non predeterminati normativamente, allorquando si sia in presenza, come nel caso di specie, di un vuoto di
tutela non colmabile in altro modo, a pena di ledere l’effettività del diritto di difesa che, come noto,
è garantita da principi costituzionali e sovranazionali.
24
Invero gli altri creditori concorsuali, come già sottolineato, subiscono la cognizione diretta ed
immediata del giudice delegato in ordine alla fondatezza dei loro crediti.
25
Il riferimento è, oltre che al nostro art. 24 Cost., all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza-Strasburgo) che è stata sottoscritta dalle istituzioni comunitarie e, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del TUE (in vigore dal 1 dicembre 2009 a seguito delle modifiche
introdotte dal Trattato di Lisbona) è entrata a far parte a pieno titolo dell’ordinamento comunitario,
con la conseguenza che la sua violazione è in grado di provocare la disapplicazione delle norme interne
in contrasto con i diritti ivi tutelati, ovviamente nelle materie riconosciute di spettanza dell’Unione.
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censure da parte del curatore sulla fondatezza del credito tributario. La Corte, tuttavia, ha sostenuto sul punto una tesi che non può essere condivisa.
Invero affermare che, in presenza di istanza di ammissione al passivo da parte
dell’Erario senza la preventiva iscrizione a ruolo, il giudice fallimentare, attesa la
sua impossibilità di formulare un giudizio di merito a riguardo, debba non ammettere il credito tributario allo stato passivo significa impedire, ancor più gravemente,
ogni sindacato giurisdizionale sulla legittimità della pretesa fiscale, attribuendo
inopinatamente al curatore, in definitiva, il ruolo del giudice tributario.
In altri termini non può ritenersi certamente ammissibile, nemmeno in nome
delle ragioni di tutela della massa dei creditori (e del fallito), l’esclusione dal concorso dei crediti fiscali, cui è sotteso l’interesse alla riscossione dei tributi sancito dall’art. 53 Cost., senza che vi sia alcun controllo giurisdizionale sulla loro legittimità,
conferendo al curatore fallimentare la facoltà di impedirne l’ammissione al passivo
della procedura semplicemente sollevando delle censure sul merito della pretesa.
E, ovviamente, tale estromissione, a differenza di quanto affermato dalla Suprema
Corte, non sembra poter essere giustificata nemmeno in virtù della ritenuta scelta
discrezionale dell’Erario che decida di insinuarsi al passivo senza la preventiva formazione del ruolo, assumendo consapevolmente il rischio dell’iniziativa adottata.
Ciò in quanto, evidentemente, la riscossione dei tributi è funzione vincolata dell’amministrazione finanziaria e la sua attuazione nel fallimento, fermo restando il rispetto
delle regole del concorso, può essere condizionata soltanto dal sindacato giurisdizionale sulla legittimità del prelievo.
In definitiva, non si vuole qui confutare la possibilità che l’Erario si insinui direttamente al passivo della procedura in luogo dell’agente della riscossione, sebbene, pur a seguito dell’introduzione del regime dell’accertamento esecutivo, il legislatore tributario, come evidenziato, abbia continuato ad attribuire a quest’ultimo tale
competenza in maniera esclusiva 26.
Anzi, nell’auspicabile ottica di equiparare, per quanto attiene ai profili procedimentali che qui interessano 27, l’Erario agli altri creditori concorsuali, evitando di
26
Tale osservazione è stata sottolineata da PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 436, per affermare la competenza esclusiva dell’Agente della riscossione, ai fini dell’insinuazione al passivo fallimentare, anche in presenza di una sentenza favorevole all’Amministrazione passata
in giudicato, nonostante l’intervenuta abolizione del ruolo nella suddetta ipotesi.
27
V. PAPARELLA, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali, cit., p. 12 ss. e spec. p. 433 ss., il quale, mentre con riguardo ai profili procedimentali ha condiviso la prospettiva tendente ad escludere la
prevalenza dell’interesse fiscale rispetto all’interesse primario dei creditori e delle regole del concorso,
con riferimento ai profili sostanziali dell’obbligazione tributaria, che rinviene la propria fonte nell’art.
53 Cost., ha condivisibilmente sollevato perplessità nell’adozione della medesima prospettiva. In realtà,
come già sottolineato, il legislatore ha disciplinato in maniera frammentaria e disorganica i rapporti tra
le norme fallimentari e quelle tributarie, impedendo all’interprete di ravvisare una logica unitaria
nell’individuazione del corretto equilibrio tra gli interessi sottostanti ai due corpi di norme. Non sem-
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riconoscere ai crediti tributari ingiuste prerogative e di perpetuare farraginose procedure, l’esclusione dell’intervento dell’agente ai fini dell’insinuazione al passivo
fallimentare consentirebbe di risolvere alla radice la rilevante problematica dell’ammissione al passivo del c.d. “aggio” di riscossione. Quest’ultimo, invero, oltre ad essere irrazionale circa le modalità di determinazione e quindi verosimilmente illegittimo per violazione dell’art. 97 Cost. 28, si traduce inevitabilmente nel depauperamento delle risorse destinate alla soddisfazione di tutti i creditori concorsuali, i
quali subiscono, di fatto, l’onere economico che ne deriva senza, peraltro, che possano godere del medesimo diritto per la riscossione dei propri crediti durante la
procedura 29.
Tuttavia, il riconoscimento della diretta legittimazione dell’Erario in relazione
all’ammissione al passivo, ispirata dalla prevalenza, in quest’ambito, delle norme
fallimentari su quelle tributarie, presupporrebbe necessariamente, in virtù di quanto affermato, l’ammissibilità dell’impugnazione, da parte del curatore, dell’istanza
bra dunque perseguibile l’intento di identificare, secondo un approccio di natura assiologia, la prevalenza di una species normativa sull’altra. Con riguardo ai profili sostanziali, ed in specie alle modalità di
determinazione delle imposte sui redditi nel corso del fallimento previste dall’art. 183 del TUIR n.
917/1986, non può tuttavia sottacersi il giudizio critico in ordine alla sostanziale rinuncia alla tassazione da parte del legislatore, che, oltre all’ingiustificato pregiudizio dell’art. 53 Cost., origina una vistosa
disparità di trattamento tra l’imprenditore che soggiace alla disciplina fallimentare e quello che ne resta
escluso.
28
L’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999 ha quantificato l’“aggio” di riscossione in una misura inscindibilmente legata alle somme iscritte a ruolo riscosse ed ai relativi interessi di mora, suscettibile di
essere rideterminata, entro limiti stabiliti, da decreti ministeriali. Inoltre, l’“aggio” è stato posto a carico
del debitore, in gran parte se questi provvede al pagamento entro sessanta giorni dalla notifica della
cartella di pagamento e integralmente ove ciò non avvenga, rimanendo, invece, a carico dell’ente creditore soltanto nella residuale ipotesi di riscossione spontanea a mezzo ruolo, per iscrizione a ruolo non
derivante da inadempimento, ove il debitore provveda al pagamento delle somme richieste nella cartella di pagamento entro i termini di scadenza. Peraltro, a seguito dell’introduzione del regime della concentrazione della riscossione nell’accertamento, è stato previsto, dall’art. 29, comma 1, lett. f) del D.L.
n. 78/2010, che l’“aggio” sia sempre a carico del contribuente ed in misura integrale. È appena il caso di
sottolineare l’irrazionalità della scelta legislativa di parametrare l’“aggio” alle somme iscritte a ruolo riscosse, poiché l’agente non si accolla affatto, nell’attuale disciplina, il rischio della mancata riscossione
delle stesse, in esito alla quale, al contrario, può esercitare il diritto al discarico per inesigibilità, di cui
all’art. 19 del D.Lgs. n. 112/1999, ovviamente ove non incorra nelle cause di perdita di tale diritto previste dal comma 2 della citata disposizione (sull’evoluzione dei sistemi di riscossione, anche con riguardo al previgente regime dell’“obbligo del non riscosso per riscosso”, si veda A. CARINCI, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, cit., p. 20 ss.). Ne consegue, fondatamente, il contrasto di
tale disciplina con il principio costituzionale di buon andamento della Pubblica amministrazione (art.
97 Cost.) – riferibile anche ad ipotesi di gestione non diretta del servizio da parte di quest’ultima (v.
sent. Corte cost. n. 428/1989) – per manifesta sproporzione dei compensi riscossi dall’agente di riscossione rispetto all’attività resa.
29
Su questo profilo, anche in relazione alla configurabilità dell’“aggio” di riscossione alla stregua
di tributo (o di sovratributo, nel caso in cui la riscossione riguardi le entrate tributarie), sia consentito rinviare a MAURO, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 105 ss.
760
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
di ammissione dinanzi al giudice tributario, ancorché non espressamente menzionata nell’elenco degli atti impugnabili.
3. (Segue) La rilevanza delle esigenze di tutela della massa dei creditori (e del
fallito) anche in presenza di una sentenza favorevole all’Erario passata in
giudicato
Anche gli altri enunciati della Suprema Corte non sembrano condivisibili. Infatti, a ben vedere, le evidenziate esigenze di tutela della massa dei creditori (e del
fallito), nonché la necessità del sindacato giurisdizionale delle pretese fiscali, possono presentarsi anche di fronte ad una sentenza favorevole all’amministrazione passata in giudicato.
In primo luogo, occorre osservare come non siano del tutto estranee all’ordinamento tributario ipotesi in cui l’intangibilità del giudicato è messa in discussione
allorquando si sia dinanzi a violazioni di norme (divieto di aiuti di Stato) o principi
comunitari di origine giurisprudenziale (abuso del diritto fiscale) 30.
Piuttosto è da sottolineare, in proposito, la recente affermazione, ancorché limitata all’ambito penalistico, delle garanzie sancite dall’art. 6 della Convenzione Europea
dei Diritto dell’Uomo (CEDU) al punto di provocare la cedevolezza del giudicato di
fronte all’accertata violazione, nel caso concreto, della norma convenzionale. 31
Pertanto non è da ritenere in maniera così netta, come sostenuto dai giudici di
legittimità, che di fronte ad una sentenza passata in giudicato, favorevole all’Erario,
non sia nemmeno astrattamente ipotizzabile alcun pregiudizio per la massa dei creditori (e per il fallito).
30
Il riferimento è alle note sentenze “Lucchini” (Corte di Giustizia UE, 18 luglio 2007, causa C119/05) e, in modo diverso in quanto riguardante precipuamente la rilevanza del giudicato esterno,
“Fallimento Olimpiclub” (Corte di Giustizia UE, 3 settembre 2009, causa C-2/08). In proposito si vedano, tra gli altri, MICELI, Riflessioni sull’efficacia del giudicato tributario alla luce della recente sentenza
Olimpiclub, in Rass. trib, 2009, p. 1846 e ss; BASILAVECCHIA, Il giudicato esterno cede all’abuso del diritto (ma non solo), in GT-Riv. giur. trib., 2010, p. 18 ss.; BUTTUS, Ulteriori ridimensionamenti giurisprudenziali all’estensione del giudicato tributario, in GT-Riv. giur. trib., 2010, p. 505 ss.; GLENDI, Limiti del
giudicato e Corte di giustizia europea, in Corr. trib., 2010, p. 325 ss.
31
Si veda la sentenza della Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113, in Giur. cost., 2011, p. 1542 ss., con
nota di UBERTIS, La revisione successiva a condanne della Corte di Strasburgo, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non ha previsto un caso di revisione del processo
finalizzato specificamente a consentirne la riapertura, ove questa fosse dovuta per adeguarsi ad una
sentenza definitiva della Corte di Strasburgo che avesse accertato la violazione, nel caso concreto, dell’art. 6 della CEDU. Sull’applicabilità dell’art. 6 della CEDU all’ambito tributario, e sulla più immediata applicabilità, sempre alla materia tributaria, dell’art. 47 della Carta di “Nizza-Strasburgo”, sia consentito rinviare a MAURO, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 78 ss., ove riferimenti dottrinari e giurisprudenziali.
Cass., sez. un., 15 marzo 2012, n. 4126
761
Inoltre, l’attuazione concreta del disposto della sentenza passata in giudicato potrebbe provocare, in talune ipotesi, errori inerenti alla quantificazione della pretesa
erariale rilevabili dal curatore 32, ovvero eccezioni di altra natura sollevabili da parte
dell’organo della procedura 33.
Senza pensare, in estrema ratio, che avverso la pronuncia tributaria definitiva si
potrebbe ricorrere alla revocazione di cui all’art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992.
È evidente, dunque, come anche in presenza di una sentenza passata in giudicato valgano le medesime considerazioni esposte a proposito delle ordinarie ipotesi di
insinuazione al passivo del fallimento da parte dell’Erario (ove configurabile), che si
risolvono in definitiva nel necessario riconoscimento del sindacato giurisdizionale
(i.e. del giudice tributario) sul credito tributario da ammettere al passivo.
Così come, per lo stesso ordine di ragioni, il vaglio del giudice tributario deve essere garantito ove l’amministrazione voglia insinuarsi al passivo sulla base di atti provenienti direttamente dal contribuente che il curatore potrebbe decidere di emendare all’esito di un controllo formale degli stessi.
A tal proposito è da respingere, ad esempio, l’orientamento della Cassazione che
ha affermato come l’amministrazione finanziaria possa richiedere l’ammissione al
passivo della procedura, per il credito IVA risultante dalla dichiarazione annuale antecedente al fallimento, sulla base dell’invito al pagamento di cui all’art. 60 del D.P.R.
n. 633/1972, cioè anche in assenza di un atto impositivo ovvero della preventiva iscrizione a ruolo la cui necessità, sempre a giudizio della Suprema Corte, sarebbe
circoscritta ad interessi e sanzioni 34.
Invero, similmente a quanto affermato per le altre fattispecie, all’organo della
procedura non può essere preclusa, a causa dell’assenza di un atto impugnabile davanti alle Commissioni tributarie, la contestazione dei risultati della liquidazione o della verifica formale della dichiarazione dalla quale deriva il credito IVA. Pertanto l’insinuazione dell’amministrazione al passivo sulla base dell’invito al pagamento può
essere accolta, anche in questo caso, soltanto ove si ammetta l’impugnabilità di quest’ultimo dinanzi al giudice tributario.
32
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui la sentenza passata in giudicato abbia riguardato questioni
attinenti al reddito d’impresa, come nel caso della statuizione dell’indeducibilità di un costo, senza che
il giudice abbia all’uopo rideterminato la pretesa impositiva. Oppure, più semplicemente, si pensi al
calcolo degli interessi sulle somme dovute a seguito della sentenza definitiva favorevole all’Ufficio.
33
Nel caso di specie, ad esempio, dalla lettura della sentenza è dato comprendere che il curatore
aveva contestato la fondatezza della pretesa in ragione dell’avvenuta presentazione di valida istanza di
condono, ancorché, a quanto pare, non seguita dal conseguente pagamento.
34
V. Cass., sez. un., 4 marzo 2009, n. 5165, con nota di MAURO, La problematica ammissione al
passivo fallimentare del credito Iva.
762
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
4. Considerazioni conclusive
La ricostruzione offerta dalla Suprema Corte, in virtù di quanto finora osservato,
non può essere condivisa quanto alle conclusioni raggiunte. Per certi versi può apparire suggestiva l’idea di equiparare, con riguardo al profilo inerente alla verifica del
passivo del fallimento, l’Erario agli altri creditori concorsuali, a costo di sacrificare la
tipicità del procedimento di attuazione del prelievo tributario peraltro già in parte
derogata dalla disciplina concernente la concentrazione della riscossione nell’accertamento 35.
Tale soluzione, invero, consentirebbe di rispettare la par condicio creditorum impedendo che il credito erariale continui ad imporre, di fatto a carico degli altri creditori concorsuali, il c.d. “aggio” di riscossione, per di più determinato in maniera del
tutto irrazionale.
Tuttavia, sia la stessa regola della parità di trattamento fra i creditori del fallito
che fondamentali principi costituzionali e sovranazionali posti a garanzia del diritto
di difesa, prescrivono, come avviene per i creditori di diritto comune, che i crediti
tributari debbano essere sottoposti al sindacato giurisdizionale (i.e. del giudice tributario) allorquando il curatore fallimentare voglia muovere delle censure sulla fondatezza pretese degli stessi.
Pertanto la legittimazione diretta dell’amministrazione finanziaria ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare, prospettabile anche valorizzando la funzione meramente riproduttiva della pretesa fiscale propria del ruolo, sembra poter essere accettata soltanto ove si ritenga ammissibile l’impugnabilità della domanda d’insinuazione
contenente la pretesa fiscale, da parte del curatore, dinanzi al giudice tributario.
Michele Mauro
35
V. BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento, cit., p. 148, il quale, già prima della nuova
tendenza introdotta dalla novella legislativa sulla concentrazione della riscossione nell’accertamento, aveva tratteggiato un’evoluzione nel senso di giungere ad una gestione unitaria di tutte le fasi della funzione impositiva, facendo venir meno la separazione soggettiva tra creditore e incaricato della
riscossione con la conseguente scomparsa del ruolo. Allo stato attuale, in ogni caso, nell’impianto normativo tributario continua a permanere la figura dell’Agente della riscossione.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10 – Pres.
Lenaerts, Rel. Arestis
IVA – Recupero dell’imposta indebitamente versata – Normativa nazionale che
prevede la possibilità di agire per la ripetizione dell’indebito dinanzi a organi
giurisdizionali diversi, con termini differenti, a seconda che si tratti del committente oppure del prestatore di servizi – Possibilità per il committente di servizi
di chiedere il rimborso dell’imposta al prestatore dopo che per quest’ultimo è
spirato il termine per agire nei confronti dell’amministrazione finanziaria –
Principio di effettività
Il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell’indebito che prevede un termine di prescrizione per l’azione civilistica di ripetizione dell’indebito, esercitata dal committente di servizi nei confronti del prestatore di detti servizi (soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto), più lungo rispetto al termine
di decadenza previsto per l’azione di rimborso di diritto tributario, esercitata da detto prestatore nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ma tale soggetto passivo deve poter
effettivamente agire per il rimborso dell’imposta nei confronti della predetta amministrazione. Quest’ultima condizione non è soddisfatta qualora l’applicazione di una normativa abbia la conseguenza di privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’amministrazione finanziaria il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi.
(omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dei
principi di neutralità fiscale, di effettività e di non discriminazione relativamente all’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA»).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito della controversia che vede opposta
la Banca Antoniana Popolare Veneta SpA, incorporante la Banca Nazionale dell’Agricoltura SpA (in prosieguo: la «BAPV»), al Ministero dell’Economia e delle Finanze e
all’Agenzia delle Entrate (in prosieguo, congiuntamente, l’«amministrazione finanziaria»), riguardo al rifiuto da parte di quest’ultima di rimborsare alla BAPV l’IVA non
dovuta che aveva gravato sulle prestazioni di riscossione di contributi consortili da essa effettuate.
Contesto normativo
La normativa dell’Unione
3. L’art. 2 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE (omissis)
4. L’art. 13, parte B, lett. d), punti 2 e 3, di tale direttiva (omissis)
La normativa nazionale
7. L’art. 10, n. 5, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n.
633 (omissis)
764
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
8. Ai sensi dell’art. 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo
30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Supplemento ordinario alla GURI n. 8 del 13
gennaio 1993, pag. 1):
«1. Il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro sessanta giorni
dalla data di notificazione dell’atto impugnato. La notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo.
2. Il ricorso avverso il rifiuto tacito della restituzione di cui all’art. 19, comma 1, lettera g), può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione».
9. Ai sensi dell’art. 2033 del codice civile che disciplina l’indebito oggettivo:
«Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato
(omissis)».
10. Ai sensi dell’art. 2946 del codice civile, sulla prescrizione ordinaria:
«Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni».
11. Conformemente all’art. 2935 del codice civile, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Causa principale e questioni pregiudiziali
12. Negli anni 1984-1994 la BAPV forniva servizi sotto forma di riscossione di contributi consortili dovuti dagli associati per conto di tre consorzi di bonifica, vale a dire
organismi pubblici disciplinati dalle leggi nazionali e regionali e incaricati della realizzazione di opere di infrastruttura pubblica. Poiché i compensi ricevuti quali corrispettivo di tali prestazioni erano stati assoggettati all’IVA, la BAPV l’ha addebitata a titolo
di rivalsa a tali consorzi. L’IVA è stata regolarmente versata dalla BAPV all’amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla legge, giacché all’epoca tale
amministrazione riteneva che l’attività di riscossione dei contributi consortili non rientrasse nell’ambito dell’esenzione di cui all’art. 10, n. 5, del DPR n. 633/72.
13. Con circolare in data 26 febbraio 1999, l’amministrazione finanziaria comunicava di aver mutato l’originaria interpretazione della disposizione citata, ritenendo che
i contributi consortili avessero natura tributaria e che, conseguentemente, i compensi
dovuti dai consorzi per i servizi di riscossione di detti contributi dovessero essere considerati esenti da IVA, ai sensi dell’art. 10, n. 5, del DPR. n. 633/72.
14. I consorzi di bonifica chiedevano, quindi, alla SIFER SpA, società succeduta alla BAPV, la restituzione, a titolo d’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 del codice
civile, di quanto pagato per l’IVA su tali compensi. In esito all’azione di uno dei consorzi dinanzi al Tribunale civile di Ferrara, la BAPV è stata condannata a rimborsare
detti importi.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
765
15. Dal canto suo, la BAPV presentava all’amministrazione finanziaria delle domande di rimborso dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste dai
committenti dei suoi servizi. A fronte del silenzio-rifiuto oppostole, la BAPV proponeva, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, tre distinti ricorsi che venivano accolti da tale organo giurisdizionale.
16. Tuttavia, a seguito degli appelli interposti dall’amministrazione finanziaria avverso le tre decisioni emesse, la Commissione tributaria regionale del Lazio, dopo aver
riunito gli appelli, dichiarava che la BAPV era decaduta dal diritto al rimborso per decorrenza del termine di due anni dai pagamenti dell’IVA, previsto all’art. 21, n. 2, del
decreto legislativo n. 546 del 31 dicembre 1992. In proposito detto organo giurisdizionale dichiarava che la circolare amministrativa del 26 febbraio 1999 non poteva costituire il presupposto a partire dal quale inizia a decorrere detto termine.
17. La BAPV ha proposto un ricorso per cassazione contro tale decisione dinanzi
alla Corte suprema di cassazione.
18. La Corte suprema di cassazione nutre dubbi circa la compatibilità coi principi
informatori in materia di IVA della disciplina processuale nazionale (omissis).
19. In tale contesto, la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se i principi di effettività, di non discriminazione e di neutralità fiscale in materia
di IVA ostino ad una disciplina o prassi nazionale che ricostruiscono il diritto del cessionario/committente al rimborso dell’IVA pagata a torto come indebito oggettivo di diritto comune, a differenza di quello esercitato dal debitore principale (cedente o prestatore
del servizio) con un limite temporale, per il primo, assai più lungo di quello posto al secondo, sì che la domanda del primo, esercitata quando il termine per il secondo è da
tempo scaduto, possa dar luogo a condanna al rimborso di quest’ultimo senza che lo
stesso possa più chiedere il rimborso all’amministrazione finanziaria; tutto ciò senza la
previsione di alcuno strumento di collegamento, atto a prevenire conflitti o contrasti, tra
i procedimenti instaurati o da instaurarsi dinanzi alle diverse giurisdizioni.
2) Se, a prescindere dall’ipotesi precedente, siano compatibili coi già riferiti principi
una prassi o giurisprudenza nazionale che consentano l’emanazione di una sentenza di
rimborso a carico del cedente/prestatore del servizio a favore del cessionario/committente, il quale non aveva esercitato l’azione di rimborso dinanzi ad altro giudice nei termini a lui imposti, in affidamento di una interpretazione giurisprudenziale, seguita dalla
prassi amministrativa, secondo cui l’operazione era soggetta ad IVA».
(omissis)
Sulla prima questione
(omissis)
28. Tuttavia la Corte ha già dichiarato che, qualora il rimborso dell’IVA risultasse
impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere gli strumenti
necessari per consentire al destinatario dei servizi di recuperare l’imposta indebita-
766
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
mente fatturata, in modo da rispettare il principio di effettività (sentenza Reemtsma
Cigarettenfabriken, cit., punto 42).
29. Le medesime considerazioni si impongono allorché l’impossibilità o l’eccessiva
difficoltà di ottenere il rimborso dell’IVA non dovuta riguarda non il destinatario dei
servizi, bensì il prestatore di questi ultimi.
30. Emerge altresì dalla giurisprudenza che il principio di effettività sarebbe violato
nell’ipotesi in cui il soggetto passivo non avesse avuto né il diritto di ottenere il rimborso del tributo in questione durante il termine a sua disposizione per l’azione nei
confronti dell’amministrazione finanziaria, né, in seguito a un’azione di ripetizione
dell’indebito esperita nei suoi confronti dai propri clienti successivamente alla scadenza di detto termine, la possibilità di rivalersi contro l’amministrazione finanziaria, cosicché le conseguenze dei pagamenti indebiti dell’IVA imputabili allo Stato sarebbero
sopportate esclusivamente dal soggetto passivo di tale imposta (v., per analogia, sentenza Q-Beef e Bosschaert, cit., punto 43).
31. Parimenti, la Corte ha già dichiarato che un’autorità nazionale non può eccepire il decorso di un termine di prescrizione ragionevole se il comportamento delle autorità nazionali, in combinazione con l’esistenza di un termine di prescrizione, finisca col
privare totalmente un soggetto della possibilità di far valere i suoi diritti dinanzi ai giudici nazionali (v., per analogia, sentenza Q-Beef e Bosschaert, cit., punto 51).
(omissis)
36. Va di conseguenza rilevato che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, la BAPV sopporta essa stessa il pagamento dell’IVA non dovuta,
senza avere la possibilità di reclamarne effettivamente il rimborso nei confronti dell’amministrazione finanziaria per effetto del decorso del termine di decadenza biennale, benché tale situazione non le sia imputabile, ma sia dovuta al fatto che, alla luce della summenzionata circolare, i destinatari dei servizi hanno esperito un’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti della BAPV dopo la scadenza di tale termine.
(omissis)
42. Risulta pertanto dalle considerazioni che precedono che il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell’indebito che prevede un termine di prescrizione per l’azione civilistica di ripetizione dell’indebito, esercitata dal committente di servizi nei confronti del prestatore di tali servizi, soggetto
passivo dell’IVA, più lungo rispetto al termine di decadenza previsto per l’azione di
rimborso di diritto tributario, esercitata da detto prestatore nei confronti dell’amministrazione finanziaria, purché tale soggetto passivo possa effettivamente reclamare il
rimborso dell’imposta di cui trattasi nei confronti della predetta amministrazione. Quest’ultima condizione non è soddisfatta qualora l’applicazione di una normativa siffatta
abbia la conseguenza di privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA non dovuta che egli stesso
ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi.
(omissis)
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
767
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell’indebito che prevede un termine di prescrizione per l’azione civilistica di
ripetizione dell’indebito, esercitata dal committente di servizi nei confronti del prestatore di detti servizi, soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto, più lungo rispetto al termine di decadenza previsto per l’azione di rimborso di diritto tributario, esercitata da detto prestatore nei confronti dell’amministrazione finanziaria, purché tale
soggetto passivo possa effettivamente reclamare il rimborso dell’imposta di cui trattasi
nei confronti della predetta amministrazione. Quest’ultima condizione non è soddisfatta qualora l’applicazione di una normativa siffatta abbia la conseguenza di privare
completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’amministrazione finanziaria il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi.
Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA
New national perspectives on VAT refund
Abstact
La pronuncia in esame apre nuove prospettive in materia di rimborso dei tributi
IVA, in quanto impone allo Stato italiano di dare tutela al cedente/prestatore,
nonostante siano spirati i termini per la rituale presentazione dell’istanza di rimborso. Si avvia in questo modo un cambiamento importante della disciplina nazionale del rimborso secondo i principi europei, che modifica assetti stabili e consolidati del sistema interno. L’allineamento ai principi europei impone di tutelare
l’ingiustificato arricchimento, qualificando quest’ultimo come causa di restituzione
dei tributi. In questo modo, il divieto di ingiustificato arricchimento è destinato
ad affiancare il principio di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. nella tutela
dei trasferimenti patrimoniali senza causa della materia tributaria.
Parole chiave: restituzione IVA, tutela differenziata, indebito oggettivo, ingiustificato arricchimento, termini
The present decision opens new perspectives on VAT refund, since it establishes that
Italy shall offer legal remedies to the transferor/provider, notwithstanding the terms
768
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
for asking the refund are expired. In this manner, the national discipline on refund
makes a significant step toward European principles, which modifies stable and consolidated practices of the national system. The alignment to European principles implies a discipline of unjust enrichment, which constitutes a condition for tax refund.
Therefore, the prohibition of unjust enrichment will work jointly with the principle of
recovery of sums paid though not due provided by Art. 2033 of the Italian Civil Code
in the field of unjust capital transfers in tax matters.
Keywords: VAT refund, diverse remedies, objective sums paid though not due, unjust
enrichment, terms
SOMMARIO:
1. Premessa, oggetto della controversia e considerazioni sistematiche. – 2. La disciplina del
rimborso dei tributi secondo il sistema comunitario. – 3. Le questioni oggetto di analisi. La differente tutela dell’indebito versamento nell’IVA. – 3.1. L’incompatibilità comunitaria della
coesistenza dei due sistemi di tutela. – 3.2. Coerenza della disciplina in esame con la disciplina
europea. – 4. L’impatto della pronuncia in esame sulla disciplina nazionale dei rimborsi. La
“crisi” della disciplina interna dell’indebito tributario in materia di IVA per le ipotesi di restituzione al cedente/prestatore dell’imposta versata all’Erario. – 5. Le possibili soluzioni per superare la crisi. Le nuove prospettive della disciplina del rimborso IVA. – 6. Considerazioni conclusive.
1. Premessa, oggetto della controversia e considerazioni sistematiche
La sentenza in epigrafe (Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C427/10, causa Banca popolare antonveneta) è destinata a “fare storia” nella importante materia del rimborso dei tributi. Anticipando parte delle conclusioni cui si
perverrà, la pronuncia in esame afferma fondamentali principi comunitari in materia di restituzione dei tributi, imponendo all’ordinamento interno un allineamento
a questi ultimi.
A livello nazionale, il recepimento di tali principi conduce a modificare assetti
stabili e consolidati della materia, che costituiscono le fondamenta della disciplina
del diritto al rimborso dei tributi.
Una breve analisi dei fatti, da cui trae origine la questione, è fondamentale per
dimostrare quanto detto.
Il problema riguarda l’IVA, imposta comunitaria 1, e nasce dalle incertezze na1
Vale a dire di un’imposta nata per scopi comunitari e regolata dall’ordinamento europeo. La circostanza che l’IVA sia un’imposta comunitaria è centrale nella questione in esame in quanto è l’ele-
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
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zionali, in merito al riconoscimento della natura di “tributo” al contributo consortile dovuto per legge dai consorziati ai consorzi 2.
Alla qualificazione in termini di tributo conseguirebbe il non assoggettamento
ad imposta del contributo e l’applicazione di un’esenzione IVA a tutte le operazioni di riscossione del contributo stesso: ciò in ossequio al disposto dell’art. 10, n. 5
del D.P.R. n. 633/1972, in base al quale sono esenti da IVA «le operazioni relative
alla riscossione dei tributi, comprese quelle relative ai versamenti di imposte effettuati
per conto dei contribuenti, a norma di specifiche disposizioni di legge, da aziende e istituti
di credito».
In ambito nazionale, durante l’ultimo ventennio del secolo scorso, si sono registrati dibattiti sulla natura dei contributi consortili, chiariti da una circolare della amministrazione finanziaria del 29 febbraio 1999, che ha ammesso la natura tributaria
dei contributi, riconoscendo, quindi, la non assoggettabilità ad IVA sia dei contributi
(in quanto tributi), sia delle operazioni di riscossione attinenti agli stessi (in quanto servizi di riscossione dei tributi, rientranti nella esenzione di cui all’art. 10, n. 5,
del D.P.R. n. 633/1972).
Nel caso esaminato sono coinvolti tre soggetti: i consorzi di bonifica, una Banca
(d’ora innanzi “la Banca”) e l’Amministrazione finanziaria.
La Banca ha prestato ai consorzi servizi di riscossione dei contributi consortili
(vale a dire, per conto del consorzio, ha riscosso i contributi dovuti da ogni singolo
mento in base al quale si impone un adeguamento della disciplina nazionale in materia di rimborso
ai principi generali europei.
2
I contributi di bonifica sono dovuti dai consorziati ai consorzi di bonifica; tali consorzi – previsti dall’art. 862 c.c. e regolati dal R.D. 13 febbraio 1933, n. 215 e dalla L. 12 febbraio 1942, n. 183 –
sono istituiti dalla legge con lo scopo di difendere il suolo, di gestire il patrimonio idrico, di effettuare opere di bonifica sulle acque e di tutelare gli interessi ambientali. I contributi sono dovuti dai consorziati ai consorzi in base alla legge. La natura (tributaria o non tributaria) dei contributi di bonifica
è stata oggetto di diverse pronunce della giurisprudenza, che sostanzialmente, a partire dagli anni
’90 del secolo scorso, hanno ammesso la loro natura tributaria, riconoscendo anche la giurisdizione
delle Commissioni tributarie per le relative controversie. V., ex pluribus, Cass., sez. trib., 18 gennaio
2002, n. 521; Cass., sez. trib., 26 marzo 2002, n. 4337; Cass., sez. un., 25 maggio 2006, n. 14863;
Corte cost., 26 febbraio 1998, n. 26; Corte cost., 5 luglio 2002, n, 322; Corte cost., 16 luglio 2006, n.
234. Su tali questioni la dottrina si è mostrata tendenzialmente favorevole al riconoscimento della
natura tributaria a tali contributi (V. GLENDI, Contributi di bonifica e questioni di giurisdizione, in GTRiv. giur. trib., 1998, p. 977; VIOTTO, Sulla natura tributaria dei contributi spettanti ai consorzi di bonifica, in Riv. dir. trib., 2007, II, p. 24; MASTROIACOVO, La natura tributaria dei contributi consortili, in
DELLA VALLE-FICARI-MARINI (a cura di), Il processo tributario, Milano, 2008, p. 32), ponendo in luce,
quali elementi centrali per tale qualificazione, la fonte legale dell’obbligazione di pagamento, la determinazione autoritativa del quantum dovuto, l’interesse pubblico connesso alla riscossione dei contributi, l’utilizzo dei procedimenti di riscossione coattiva dei tributi per i contributi in esame. In senso più dubitativo verso questa ricostruzione FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino,
2005, p. 50. Mentre la dottrina e la giurisprudenza erano perlopiù orientate al riconoscimento della
natura tributaria ai contributi in esame, l’Amministrazione finanziaria aveva sostenuto per tempo una
soluzione di segno opposto, fino alla Circolare del 1999 citata nel testo.
770
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
consorziato) ed ha assoggettato il corrispettivo di tali prestazioni ad IVA. L’imposta in esame è stata poi correttamente versata all’Amministrazione finanziaria.
A seguito della suddetta circolare amministrativa, che ha ammesso la natura tributaria dei contributi consortili, i consorzi di bonifica hanno esercitato un’azione
di ripetizione dell’indebito oggettivo nei confronti della Banca dinanzi al giudice ordinario, che si è conclusa con il riconoscimento del diritto alla restituzione degli importi a loro addebitati (dalla Banca) a titolo di IVA.
Tale azione è stata possibile in quanto nell’ordinamento interno, come noto, le
azioni che si esercitano verso soggetti privati, anche se hanno ad oggetto dei tributi,
non rientrano nella giurisdizione del giudice tributario e possono essere fatte valere,
se sussistono i presupposti specifici, esclusivamente dinanzi al giudice civile, nel rispetto delle norme del c.c. e del c.p.c.
Le azioni di restituzione dell’IVA, addebitata in via di rivalsa dal cedente/prestatore al cessionario/committente, rientrano pertanto nella giurisdizione del giudice ordinario e possono essere esercitate, a norma dell’art. 2033 c.c., nel termine di
prescrizione di 10 anni dal versamento indebito 3.
In conseguenza dell’esito di tale azione, la Banca ha agito per il recupero dell’IVA non dovuta (e restituita ai consorzi), presentando istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992.
A seguito del ricorso avverso il silenzio – rifiuto, in sede giurisdizionale è stata
dichiarata la decadenza della Banca dal diritto al rimborso, per essere inutilmente
spirato il termine di due anni dal versamento dell’imposta, entro il quale si sarebbe
dovuta presentare l’istanza di restituzione.
In sede di legittimità, la Corte di Cassazione ha effettuato un rinvio (in via pregiudiziale, ex art. 234 TFUE) alla Corte di Giustizia finalizzato a comprendere se
tale sistema di tutela nazionale dell’indebito tributario nell’IVA – che riconosce
3
La giurisprudenza di legittimità è da tempo unanime nel ritenere che in materia di IVA le controversie fra il soggetto attivo e il soggetto passivo dell’operazione commerciale, in merito alla restituzione dell’IVA addebitata in via di rivalsa, non attengano al rapporto tributario e non siano liti sull’imposta. Si tratterebbe, infatti, di liti tra privati che devono essere incardinate dinanzi al giudice ordinario. Sulla questione, recentemente, Cass., sez. un., 28 giugno 2011, n. 2064; Cass., sez. un., 24
maggio 2007, n. 12063; Cass., sez. un., 8 marzo 2006, n. 4896; Cass., sez. un., 4 maggio 2005, n.
9191; Cass., sez. un., 24 aprile 2003, n. 6632/2003; Cass., sez. un., 14 maggio 2001, n. 208. Il tema è
stato anche analizzato dalla dottrina, la quale (soprattutto negli ultimi tempi) ha messo in luce i limiti della tutela dinanzi al giudice ordinario nelle liti sulla rivalsa IVA. V., in particolare, BIANCHINI,
Il giudice competente per le controversie in tema di rivalsa IVA, in Riv. dir. fin., 1977, II, p. 349; GRANELLI, La rivalsa IVA alla ricerca di una parte e di un giudice, in Boll. trib., 1975, p. 904; ID., Situazioni fiscali plurisoggettive e contenzioso tributario, in Boll. trib., 1979, p. 259; DI BELLA, Rivalsa IVA: alcune
osservazioni in tema di giurisdizione, in Riv. dir. trib., 2005, II, p. 265; ZILLI, In tema di rimborso IVA: il
consumatore finale può chiedere allo stato quanto indebitamente pagato, rivolgendosi al giudice ordinario,
in Rass. trib., 2002, p. 1079; MICELI, Le controversie in materia di rivalsa IVA, in DELLA VALLE-FICARIMARINI (a cura di), op. cit., p. 70.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
771
una tutela differenziata al cessionario/committente e al cedente/prestatore e che
non consente il rimborso dell’imposta a quest’ultimo nell’ipotesi che si è verificata,
in quanto è decaduto dalla possibilità di far valere il suo diritto – sia compatibile con
i principi comunitari di effettività, di non discriminazione e di neutralità fiscale 4.
La Corte di Giustizia risolve la questione giuridica utilizzando esclusivamente il
principio di effettività nelle sue articolazioni della equivalenza e dell’effettività in senso stretto (di seguito oggetto di analisi) ed afferma che la normativa nazionale è contraria al principio di effettività se – come nel caso specifico – priva del tutto il soggetto IVA cedente/prestatore della possibilità di ottenere una tutela.
In concreto, tale decisione si traduce nella necessità di riconoscere il diritto alla
restituzione del tributo alla Banca, ammettendo il decorso dei termini per la proposizione dell’istanza di rimborso da un momento diverso (e successivo) rispetto a quello
del versamento dell’imposta.
La riflessione sulla pronuncia in esame deve avviarsi da una breve analisi dei
principi comunitari in materia di rimborso dei tributi.
Solo al termine di tale analisi, si potrà meglio comprendere il contenuto della
pronuncia e mettere in luce in che modo il sistema nazionale risulti modificato nelle sue fondamenta.
La decisione, inoltre, attribuisce rilievo – nell’ambito delle azioni di restituzione
ed ai fini della possibilità di agire del soggetto IVA – agli atti generali dell’amministrazione finanziaria, nell’ipotesi in cui manifestino un cambiamento nella interpretazione dominante e consolidata di una disposizione normativa. Su tale ultimo
aspetto, non oggetto di analisi nel presente contributo, si rinvia ai recenti approfondimenti della dottrina 5.
4
Sull’ordinanza di rinvio e sugli aspetti che la hanno caratterizzata, V. TESAURO, Il principio europeo di neutralità dell’IVA e le norme nazionali non compatibili in materia di rimborso dell’indebito, in
Giur. it., 2011, p. 1938; CENTORE, Tempi e modalità del rimborso IVA al vaglio della Corte di giustizia
UE, in Corr. trib., 2010, p. 3484; DI COLA, Ancora dubbi sulla compatibilità dell’IVA nazionale nelle
vicende del rimborso da indebito, in Boll. trib., 2011, p. 309; CAPELLO, La domanda di pronuncia pregiudiziale sulle procedure e sui termini per i rimborsi IVA, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 1293.
5
V. AMATUCCI, L’overruling interpretativo ministeriale non incide sul dies a quo per il rimborso
dell’IVA, in Rass. trib., 2012, p. 9, il quale pone in rilievo come il caso in esame deve essere inquadrato tra le vicende di efficacia temporale degli atti interpretativi, che generano il diritto al rimborso dei
tributi indebitamente versati. Più in particolare, è riconosciuta sulla base del principio di effettività
una forma di tutela ampia, basata sulla efficacia degli atti amministrativi (contenenti un overruling interpretativo) che determina l’azionabilità del rimborso con il superamento dei rapporti esauriti e della
decadenza.
8*.
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RTDT - n. 3/2012
2. La disciplina del rimborso dei tributi secondo il sistema comunitario
La disciplina del rimborso dei tributi armonizzati o incompatibili con il sistema
comunitario è un tema fondamentale dell’ordinamento europeo, in quanto direttamente collegato all’effettiva applicazione del diritto comunitario ed alla realizzazione
degli obiettivi del Trattato 6.
Lo stato di definizione di questo tema è il risultato di circa un cinquantennio di
pronunce della Corte di Giustizia e di riflessioni della dottrina 7.
Tracciando esclusivamente gli elementi essenziali di tale percorso, si pone in luce
come questa materia sia caratterizzata attualmente da due elementi fondamentali,
che costituiscono la sintesi, il filo conduttore e il punto d’arrivo del suddetto percorso.
Il primo è il recepimento del divieto di ingiustificato arricchimento per la qualificazione e la tutela dell’indebito oggettivo; il secondo è l’utilizzo dei parametri della
equivalenza e della effettività in senso stretto per la definizione di tutti altri gli aspetti
sostanziali e procedimentali della disciplina.
Quanto al primo aspetto, il diritto alla restituzione, secondo l’ordinamento comunitario, è una situazione giuridica soggettiva la cui tutela non deve ledere il divieto di ingiustificato arricchimento, principio generale accolto dalla Corte di Giusti6
Il riconoscimento del diritto alla restituzione di tributi incompatibili con il sistema comunitario come dei tributi armonizzati è, infatti, un’espressione dell’effetto diretto o della diretta applicabilità delle disposizioni europee (norme del Trattato, principi generali sostanziali o procedimentali, disposizioni di diritto derivato). In questo senso, è un diritto che nasce direttamente dalle disposizioni
europee e contribuisce, pertanto, alla realizzazione degli scopi comunitari.
7
Sul tema del rimborso dei tributi secondo i principi comunitari, V. AMATUCCI, I vincoli posti dalla
giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. dir.
trib., 2000, I, p. 291; DEL FEDERICO, Azioni e termini per il rimborso dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario, in Giur. imp., 2003, p. 271, nonché ID., Tutela del contribuente ed integrazione
giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, p. 175; DI PIETRO,
Tutela del contribuente, primato del diritto comunitario e rimborso tributario, in TASSANI (a cura di),
Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, Roma, 2009, p. 13; F. TESAURO, Manuale del
processo tributario, Torino, 2009, p. 112; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario interno.
Contributo allo studio del rimborso di imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009. Come
evidenziato nel testo per la ricostruzione del tema sono state determinanti le pronunce della Corte
di Giustizia sulla questione. V., ex pluribus, Corte di Giustizia, 16 dicembre 1976, causa C-33/76,
Rewe; Corte di Giustizia, 16 dicembre 1976, causa C-45/76, Comet; Corte di Giustizia, 23 marzo
1980, causa C-61/79, Denkavit; Corte di Giustizia, 27 febbraio 1980, causa C-68/79, Just; Corte di
Giustizia, 9 novembre 1983, causa C-199/82, San Giorgio; Corte di Giustizia, 14 gennaio 1997, causa C-192/95 e C-218/95, Comateb; Corte di Giustizia, 2 dicembre 1997, causa C-188/95, Fantask;
Corte di Giustizia, 15 settembre 1998, causa C-279/96, C-280/96 e C-281/96, Ansaldo; Corte di
Giustizia, 15 settembre 1998, causa C-231/1996, Edis; Corte di Giustizia, 15 settembre 1998, causa
C-260/96, Spac; Corte di Giustizia, 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile; Corte di Giustizia,
9 febbraio 1999, causa C-343/96, Dilexport; Corte di Giustizia, 10 settembre 2002, causa C-216/99
e C-222/99, causa Prisco.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
773
zia 8. L’ingiustificato arricchimento si compie quando in assenza di una giusta causa si realizzi un contestuale impoverimento di un soggetto (solvens) e arricchimento
di un altro (accipiens) 9.
Il recepimento di tale impostazione comporta la tutela del diritto alla restituzione da indebito versamento all’interno di un assetto più ampio, che valuta la posizione sia del solvens (quale impoverito), che dell’accipiens (quale arricchito) e nell’ambito del quale l’indebito versamento si qualifica come causa di ingiustificato arricchimento 10.
In tale assetto emergono, pertanto, alcune differenze rispetto ai sistemi (come
quello nazionale), che tutelano esclusivamente l’indebito oggettivo attraverso un’azione di tipo restitutorio puro, volta a proteggere esclusivamente la posizione del
solvens 11.
In particolare, in ambito europeo, l’ingiustificato arricchimento è tutelato con un
azione di tipo restitutorio, differentemente dall’ordinamento nazionale che ricono8
È noto, infatti, che la formazione dei principi generali in ambito comunitario avvenga anche
sulla base di una sintesi di principi previsti in altri ordinamenti giuridici, in ossequio alla necessità
(comunitaria) di adottare e recepire quelli (principi) che meglio rispondano alle finalità europee. In
questo senso, il divieto di ingiustificato arricchimento, quale principio unitario, risulta essere una
sintesi tra i sistemi di tradizione anglosassone e quelli di alcuni paesi di tradizione romanistica, come
la Germania. V. sui principi generali del diritto quale fonte dell’ordinamento europeo ed in merito
alle diverse modalità di formazione di tali principi, DEL FEDERICO, Tutela del contribuente, cit., p. 9 ss.
L’autore, in particolare, qualifica il divieto di ingiustificato arricchimento, nell’ambito dei principi
generali comuni, desumibili dagli ordinamenti degli stati membri (p. 19).
9
Sono alcune sentenze della Corte di Giustizia a mettere in luce l’accoglimento di tale principio
generale per la tutela dell’indebito versamento di tributi. La circostanza rivelatrice di questa conclusione è l’ammissione della eccezione di traslazione o di rivalsa (da parte dell’accipiens), che fa venire
meno il diritto alla restituzione del solvens, in quanto la restituzione determinerebbe un ingiustificato arricchimento. Nelle azioni in cui si tutela l’indebito oggettivo (come quella nazionale ex art. 2033
c.c.) non sono ammesse eccezioni di questo tipo. In generale, sul tema, Corte di Giustizia, 27 febbraio 1980, causa C-68/79, Just; Corte di Giustizia, 9 novembre 1983, causa C-199/1982, San Giorgio; Corte di Giustizia, 25 luglio 1988, causa C-331/1985; C-376/1985; C-378/1985, Bianco e Gilard;
Corte di Giustizia, 14 gennaio 1997, causa C-192/1995, 218/1995, Comateb. Su questi aspetti, ALBANESE, Il rapporto tra restituzioni e arricchimento ingiustificato dall’esperienza italiana a quella europea, in Contr. e impresa Europa, 2006, p. 922; KUPISCH, Ripetizione dell’indebito e azione generale di
arricchimento. Riflessioni in tema di armonizzazione delle legislazioni, in Eur. e dir. priv., 2003, 857;
MICELI, Indebito comunitario, cit., p. 66 ss.
10
Analiticamente, sul recepimento quale principio comunitario del modello unitario tedesco,
che prevede la tutela dell’indebito oggettivo all’interno del divieto generale di ingiustificato arricchimento, MICELI, Indebito comunitario, cit., p. 70.
11
Il principio di ripetizione dell’indebito ha una natura esclusivamente restitutoria e riferisce
l’azione volta a sua tutela ad un solo soggetto (il solvens). Differentemente il divieto di ingiustificato
arricchimento ha una natura indennitaria-equitativa ed è legato allo squilibrio fra i patrimoni dei due
soggetti (l’impoverito/solvens e l’arricchito/accipiens), causato dall’arricchimento di uno ai danni dell’altro. Entrambi hanno un fattore comune: coprono un’area differente dal contratto (in quanto non
presuppongono pattuizioni) e dall’illecito (in quanto nascono da fatti leciti).
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sce all’ingiustificato arricchimento stesso una tutela minore e residuale 12.
Il secondo elemento che caratterizza la disciplina dei rimborsi comunitari è l’allineamento costante ai parametri della equivalenza e della effettività in senso stretto. È noto come tali parametri consentano di ottenere in ambito europeo una tutela omogenea per tutti i diritti di origine comunitaria, a prescindere dallo stato membro in cui materialmente si esplicano i procedimenti per il loro riconoscimento 13.
Il principio di equivalenza impone, in via generale, per la tutela del diritto di origine comunitaria, l’utilizzo di procedimenti e di disposizioni equivalenti rispetto
a quelli utilizzati nello Stato membro per la tutela di una posizione giuridica dello
stesso tipo, ma fondata sul diritto interno 14.
Il principio di effettività in senso stretto preclude l’applicazione di ogni disposizione nazionale che impedisca o renda troppo difficile o oneroso – per il titolare del
diritto – il riconoscimento della posizione giuridica di origine comunitaria. In ordine
al tale ultimo aspetto, nessuna disposizione relativa al procedimento o al processo,
finalizzata al riconoscimento del diritto al rimborso, può limitare la possibilità di fare
valere il diritto stesso senza essere giustificata da un principio generale del giusto
procedimento o del giusto processo; a quanto detto consegue la disapplicazione di
12
Si tratta di una importante differenza, come si vedrà anche nel par. 5, rispetto al sistema nazionale. In tale ultimo sistema esiste un’azione generale che tutela l’arricchimento senza causa (ex
art. 2041 c.c.), ma ha una natura residuale (in quanto si applica ai casi in cui non è possibile esperire
azioni restitutorie o risarcitorie) e si caratterizza per una disciplina meno protettiva rispetto a quella
dell’indebito oggettivo (in quanto si prevede un indennizzo dell’arricchimento ingiustificato e non
la restituzione della prestazione).
13
Nel caso del diritto al rimborso comunitario, come per la maggior parte delle ipotesi di posizioni giuridiche che si generano dalle disposizioni europee o dalle discipline nazionali armonizzate,
l’ordinamento europeo non si è dotato di apparati amministrativi o giurisdizionali finalizzati ad un
loro riconoscimento, ma ha utilizzato il rinvio al principio di autonomia procedimentale, ricavato
dall’art. 4 del TFUE (prima art. 10 del Trattato CE). In base a tale rinvio, con particolare riferimento al rimborso, è lo Stato membro a dover tutelare il diritto alla restituzione del tributi, utilizzando i
propri apparati amministrativi e giurisdizionali e le proprie discipline procedimentali e processuali,
nel rispetto dei due parametri indicati nel testo: il principio di equivalenza e quello di effettività in
senso stretto. V., su questi aspetti, ADINOLFI, La tutela giurisdizionale nazionale delle situazioni soggettive individuali conferite dal diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 2001, p. 41, nonché Corte di Giustizia, 14 dicembre 1995, causa C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel.
14
L’equivalenza è, quindi, sia il criterio per individuare il procedimento utilizzabile, sia il parametro
per valutare come ogni disposizione, che disciplina tale procedimento, non discrimini la tutela di un
diritto comunitario rispetto a quello nazionale. È, pertanto, un principio che opera esclusivamente sul
piano del “confronto” con diritti e procedimenti nazionali ed è finalizzato ad attuare una non discriminazione fra le posizioni giuridiche fondate su norme comunitarie e quelle basate su disposizioni nazionali. Sul principio di equivalenza, le pronunce più significative, oltre alla già citata causa Van Schijndel
(Corte di Giustizia, causa C-430/93 e 431/93), sono: Corte di Giustizia, 10 luglio 1997, causa C-261/
95, Palmisani; Corte di Giustizia, 1° dicembre 1998, causa C-326/96, Levez; Corte di Giustizia, 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
775
ogni norma nazionale che non abbia tale giustificazione e che limiti in concreto la
possibilità di far valere il diritto 15.
La sentenza in esame utilizza nel percorso argomentativo questo secondo principio, dal momento che, sulla base di quanto dalla stessa disposto, si determina la
disapplicazione della disciplina nazionale che impedisce (nel caso specifico) l’effettivo riconoscimento del diritto alla restituzione.
Inquadrati gli elementi essenziali della disciplina del rimborso dei tributi secondo
l’ordinamento comunitario, si procede ad analizzare le questioni oggetto della sentenza in esame.
3. Le questioni oggetto di analisi. La differente tutela dell’indebito versamento
nell’IVA
Nella questione, oggetto della sentenza in esame, la valutazione di conformità
ai parametri comunitari riguarda i due differenti procedimenti di tutela dell’indebito oggettivo nell’ambito dell’IVA.
Si sottolinea che i suddetti procedimenti di tutela (dinanzi alle Commissioni
tributarie per il cedente/prestatore e dinanzi al giudice civile per il cessionario/committente) sono stati già analizzati isolatamente (cioè non congiuntamente) dalla
Corte di Giustizia e ritenuti in linea con il parametri comunitari.
Per quel che concerne il procedimento (nazionale) di tutela dell’indebito tributario, si è ammessa nel tempo, con diverse pronunce, la compatibilità con i principi
europei della disciplina che prevede la presentazione di un’istanza di rimborso entro termini di decadenza all’Amministrazione finanziaria ed un successivo (ed eventuale) ricorso dinanzi alle Commissioni tributarie avverso il diniego espresso o tacito all’istanza 16.
15
Sul principio di effettività in senso stretto, V., oltre Corte di Giustizia, 14 dicembre 1995, causa
C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel, Corte di Giustizia, 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani;
Corte di Giustizia, 1° dicembre 1998, causa C-326/96, Levez; Corte di Giustizia, 9 novembre 1983, causa C-199/82, San Giorgio.
16
In base al principio di equivalenza, l’ordinamento comunitario si è espresso a favore del riconoscimento alle Commissioni tributarie della giurisdizione sulle controversie relative alla restituzione di
tributi contrastanti con norme europee, escludendo la configurabilità di un’azione generale di ripetizione dell’indebito dinanzi al giudice civile. È stato posto in evidenza, infatti, come il sistema comunitario non osti all’assoggettamento del diritto alla restituzione dei tributi dall’Erario a procedimenti differenti, ed anche più onerosi, rispetto a quelli utilizzabili per le azioni di ripetizione dell’indebito da privati, a patto che detti procedimenti siano ugualmente applicabili tanto alle azioni fondate sul diritto interno, quanto a quelle derivanti dal diritto comunitario (V. Corte di Giustizia, 15 settembre 1998, causa C-260/96, Spac; Corte di Giustizia, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, Dilexport; nonché, in precedenza, Corte di Giustizia, 16 dicembre 1976, causa C-33/76, Rewe; Corte di Giustizia, 16 dicembre
1976, causa C-45/76, Comet). In questo modo sono stati sostanzialmente rigettati i tentativi di qualifi-
776
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RTDT - n. 3/2012
Anche il termine per la presentazione dell’istanza di rimborso nell’IVA, pari a
due anni che decorrono dal versamento indebito, si deve ritenere in linea con i parametri comunitari 17.
In un’altra recente sentenza la Corte di Giustizia si è invece pronunciata in merito alla compatibilità comunitaria della disciplina italiana ove non consente al cessionario/committente di rivolgersi direttamente all’Erario per ottenere la restituzione dell’IVA indebitamente versata (dal cedente/prestatore), in quanto, come rilevato nelle premesse, ammette la tutela di tale soggetto attraverso un’azione di ripetizione dell’indebito contro il cedente/prestatore dinanzi al giudice ordinario.
La Corte ha sancito la compatibilità con i principi comunitari di tale sistema di
tutela, affermando che la normativa comunitaria non osta ad una disciplina nazionale che consente al cedente/prestatore di richiedere la restituzione dell’IVA direttamente all’Erario e al cessionario/committente di esercitare una azione civilistica di
ripetizione dell’indebito dinanzi al giudice ordinario. Ha tuttavia precisato che se il
rimborso fosse divenuto «impossibile o eccessivamente difficile», si sarebbero dovuti prevedere strumenti idonei a consentire il recupero dell’IVA indebitamente versata 18.
La sentenza in commento approfondisce ulteriormente tale questione, individuando in questo segmento di disciplina un importante profilo di incompatibilità
comunitaria.
3.1. L’incompatibilità comunitaria della “coesistenza” dei due sistemi di tutela
Il primo tema specificamente affrontato dalla sentenza in esame è quello relativo alla coesistenza di due discipline di tutela dell’indebito nell’ambito del sistema
care il diritto alla restituzione dei tributi collegato all’ordinamento europeo come un indebito oggettivo
tutelabile dinanzi al giudice ordinario, nel termine di prescrizione decennale. Sulla questione dei termini e sul dibattito nazionale in merito al tema, V., DEL FEDERICO, Tutela del contribuente, cit., p. 171.
17
Nel sistema IVA non è previsto un termine entro il quale presentare un’istanza di rimborso per la
restituzione dei versamenti indebiti. Per questo motivo si ritiene applicabile il termine di due anni (dal
versamento indebito), previsto dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 per tutte le ipotesi in cui le leggi di
imposta non abbiano stabilito un termine ad hoc. La Corte di Giustizia ha avuto occasione di chiarire le
condizioni di compatibilità dei termini di decadenza con i principi comunitari, sia per le azioni in generale, sia per quelle di restituzione dei tributi. A tale proposito ha ammesso che sono conformi al diritto
comunitario tutti i termini “ragionevoli”. In questo senso, sono stati ritenuti ragionevoli i termini previsti dagli Stati membri per l’esercizio delle azioni di restituzione, laddove superiori a due anni dal pagamento indebito. V., su questo tema, Corte di Giustizia, 17 novembre 1998, causa C-228/1996, Aprile;
Corte di Giustizia, 9 febbraio 1999, causa C-343/1996, Dilexport; Corte di Giustizia, 15 settembre 1998,
causa C-231/1996, Edis; Corte di Giustizia, 10 settembre 2002, causa C-216/1999 e C-222/1999, Prisco; Corte di Giustizia, 29 settembre 2002, causa C-255/00, Grundig Italiana. Si conclude, quindi, a
favore della compatibilità comunitaria del termine di due anni di cui all’art. 21 suddetto, in quanto ritenuto ragionevole e congruo per la tutela del diritto alla restituzione.
18
V. Corte di Giustizia, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken.
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
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IVA: quella dinanzi al giudice ordinario per il cessionario/committente e quella dinanzi al giudice tributario per il cedente/prestatore.
In tale aspetto, la sentenza in esame è innovativa in quanto il suddetto profilo
non era stato, ad oggi, oggetto di analisi.
I due sistemi di tutela – sebbene considerati isolatamente, come verificato al
paragrafo precedente, siano conformi al principio di equivalenza – nella loro coesistenza, come si dimostrerà tra poco, risultano invece contrari al principio di effettività in senso stretto, secondo parametro cui deve essere allineata la disciplina del
rimborso dei tributi alla luce dell’ordinamento europeo.
La combinazione di tali sistemi, infatti, rende in concreto impossibile il diritto
al rimborso del cedente/prestatore IVA.
Questo risultato è l’effetto di un evidente disallineamento dei termini tra le due
azioni, in quanto il cessionario/committente ha dieci anni per esercitare l’azione di
indebito oggettivo dinanzi al giudice ordinario, mentre il cedente/prestatore ha soltanto due anni, che decorrono dal versamento del tributo, per presentare istanza di
rimborso alle commissioni tributarie.
In concreto può succedere, quindi (come è avvenuto nel caso in esame), che il
cessionario/committente agisca per la ripetizione dell’indebito nei confronti del cedente/prestatore entro il termine di prescrizione pari a dieci anni, ma quest’ultimo, una volta restituita la somma, non possa più agire per la ripetizione dell’indebito dinanzi al giudice tributario, essendo ampiamente decorso il termine biennale
per la presentazione dell’istanza di rimborso.
Il cedente/prestatore, inoltre, non potrebbe (in ogni caso) agire tempestivamente entro due anni dal versamento dell’IVA, in quanto il suo interesse ad agire sorge
soltanto nel momento in cui restituisce la somma al cessionario/committente (che
ha un’azione di ripetizione che si prescrive in dieci anni).
Prima di tale momento, infatti, il cedente/prestatore non ha alcun interesse concreto a chiedere il rimborso di quanto versato, considerato che il tributo è stato da lui
addebitato a titolo di rivalsa (al cessionario/committente) e versato all’Erario.
La coesistenza dei due sistemi di tutela realizza – evidentemente – una disciplina
irrazionale, che impedisce al cedente/prestatore di ottenere il rimborso dell’IVA
versata.
3.2. Coerenza della pronuncia in esame con la disciplina europea
Sulla base delle conclusioni esposte, la sentenza della Corte di Giustizia è corretta, condivisibile e in linea con i principi comunitari in materia di rimborso, prospettati al par. 2.
La Corte valorizza il parametro della effettività in senso stretto e mette in luce
come la disciplina nazionale renda impossibile una tutela del cedente/prestatore.
La pronuncia, però, può essere ben compresa soltanto in ragione del divieto di
ingiustificato arricchimento, principio nell’ambito del quale, come prima detto, l’in-
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debito oggettivo nelle materie comunitarie deve essere inquadrato e regolato.
Per meglio dire, l’assenza di tutela del cedente/prestatore determina un assetto
economico in cui l’Erario si è (ingiustificatamente) arricchito e il cedente/prestatore si è (ingiustificatamente) impoverito; tale assetto, secondo i principi comunitari, deve essere bilanciato e corretto.
I termini per la tutela del soggetto impoverito devono, quindi, decorrere dal
momento in cui tale sbilanciamento è avvenuto (e non prima).
Sulla base di quest’ultima prospettazione, ogni tutela o protezione deve avviarsi
da quando avviene l’ingiustificato impoverimento, che nel caso di specie si verifica
con la restituzione della somma al cessionario/committente, da parte del cedente/prestatore.
In questo momento si realizza, infatti, l’impoverimento ingiustificato che fa
sorgere l’interesse ad agire verso l’Erario.
Nella questione oggetto di analisi il dies a quo della tutela dovrebbe, pertanto, decorrere dalla restituzione dell’IVA dal cedente/prestatore (la Banca) ai cessionari/
committenti (i consorzi).
4. L’impatto della pronuncia in esame sulla disciplina nazionale dei rimborsi.
La “crisi” della disciplina interna dell’indebito tributario in materia di IVA
per le ipotesi di restituzione al cedente/prestatore dell’imposta versata all’Erario
La pronuncia in esame impone, pertanto, di dare una protezione effettiva al cedente/prestatore, rendendo possibile la restituzione da parte dell’Erario del versamento IVA.
La necessità di dare giustizia a tale soggetto mette in crisi il sistema nazionale di
tutela dell’indebito tributario per diverse ragioni.
Seguendo le regole tradizionali, come dimostrato dal contenzioso nazionale relativo alla pronuncia in esame, il cedente/prestatore non può ricevere alcuna tutela 19.
La “crisi” del sistema tradizionale nasce dall’impostazione accolta dalla disciplina tributaria nazionale in ordine a tre differenti questioni:
1. la tutela dinanzi al giudice ordinario delle azioni di restituzione tra privati, che
consente l’ingresso di un termine decennale per la protezione dell’indebito;
19
Come già dimostrato, infatti, al par. 3.1, tale soggetto ha un interesse ad agire per il rimborso
della somma versata a titolo di IVA successivamente alla restituzione di quest’ultima al committente/cessionario; quanto detto determina una oggettiva impossibilità a rispettare il termine di decadenza
di due anni dal versamento dell’imposta per chiedere la restituzione.
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2. l’accoglimento nell’ordinamento tributario del principio di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. per la tutela dei versamenti in assenza di causa;
3. la specificità (rispetto alla disciplina civilistica) della disciplina tributaria di tutela dell’indebito versamento.
Quanto al primo punto, l’IVA è un tributo che ha una struttura peculiare, in
quanto costruita su due rapporti necessari: quello del soggetto IVA con l’Erario per il
versamento dell’imposta e quello tra gli operatori che svolgono una attività economica, nell’ambito di quest’ultimo rapporto ogni cedente/prestatore deve addebitare
l’imposta, in via di rivalsa, al cessionario/committente 20.
Tenendo conto di tale struttura e considerato che nella disciplina del processo
dinanzi alle Commissioni tributarie non è possibile agire verso soggetti diversi dall’ente impositore, si rende necessario allo stato attuale affermare una tutela differenziata per il cedente/prestatore (da un lato) e per il cessionario/committente (dall’altro) per quel che concerne la restituzione dell’IVA indebitamente assolta.
In questo senso, la tutela del cessionario/committente può essere oggi ricercata
soltanto dinanzi al giudice ordinario nel termine di prescrizione decennale.
In relazione alle altre due questioni, si evidenzia come il nostro sistema tributario
abbia recepito l’art. 2033 c.c., quale fondamento della tutela del diritto alla restituzione, in questo modo viene protetto ogni versamento di tributo effettuato senza
causa ed i termini dell’azione decorrono dalla prestazione indebita (versamento) 21.
A tale ultimo proposito, in relazione ai termini e alle azioni per la tutela dell’indebito versamento, il sistema tributario ha affermato nel tempo una specificità di
disciplina rispetto ai principi civilistici.
In particolare, dopo anni di dibattiti in cui si è tentato di riconoscere un’azione
di ripetizione dell’indebito tributario dinanzi al giudice ordinario da esercitare nel
termine di prescrizione di 10 anni 22, è emerso un differente orientamento che ha
20
La rivalsa IVA è obbligatoria e necessaria, in quanto finalizzata a perseguire la neutralità negli
scambi realizzati nell’attività economica e a colpire il consumo. V. SALVINI, Rivalsa, detrazione, e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 2003, I, p. 1295.
21
Il fondamento della disciplina del rimborso in caso di versamenti tributari in assenza di causa
è, infatti, l’art. 2033 c.c., principio generale di diritto comune, operante in tutte le branche dell’ordinamento giuridico che utilizzano l’istituto dell’obbligazione. In base a tale principio è ripetibile ogni
pagamento effettuato in assenza di causa solvendi, indipendentemente dal rapporto che ne sta alla
base, il quale può essere di natura privatistica o pubblicistica. V. TESAURO, Il rimborso dell’imposta, Milano, 1975, p. 9; TABET, Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Teramo, 1985, p. 10; FREGNI,
Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, p. 25.
22
Il problema di fondo che si è posto, sin dall’inizio degli studi sul tema, è stato quello di comprendere se, accanto alla tutela dinanzi alle Commissioni tributarie, fosse configurabile un’azione di ripetizione dell’indebito di fronte al giudice ordinario, entro il termine generale di prescrizione; la soluzione
di tale questione incideva su altre importanti problematiche, quali l’efficacia preclusiva degli atti tributari, la natura del processo dinanzi alle Commissioni tributarie, i rapporti fra il processo tributario e
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escluso tale possibilità; quest’ultima impostazione ha ricevuto anche il consenso
della Suprema Corte, la quale ha affermato:
I) che l’indebito versamento di tributi è assoggettato alla puntuale disciplina
del contenzioso tributario;
II) che non vi è spazio per un’azione generale di indebito;
III) che la tutela dell’indebito deve essere esercitata attraverso la presentazione
di un’istanza di rimborso entro termini di decadenza ben definiti, che decorrono
dal versamento del tributo 23.
Da questa impostazione degli anni ’90 del secolo scorso, il sistema tributario
non si è più allontanato, confermandola anche nella riforma del contenzioso tributario 24.
Si rende evidente, quindi, come il sistema nazionale di tutela debba rivedere le
sue logiche per riconoscere una protezione al cedente/prestatore IVA.
Le possibili soluzioni passano – necessariamente – attraverso una revisione e
modificazione di uno dei principi suddetti, fino a questo momento essenziali e consolidati punti fermi in materia di rimborso dei tributi.
quello civile. Nei primi tempi si è ammessa la possibilità di tale azione, in quanto la prima formulazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 636/1972 lasciava qualche spazio ad un’interpretazione in questo
senso. Sul punto POTITO, Azione di accertamento e ripetizione dell’indebito in materia tributaria, in Riv.
dir. fin., 1974, p. 125; ID., Rimborso delle imposte, in Nov. Dig. it., Appendice, vol. VI, Torino, 1986, ad
vocem; TESAURO, Il rimborso dell’imposta, cit., 253; LA ROSA, Riforma del contenzioso e riforma dell’ordinamento tributario, in Il nuovo contenzioso tributario – Problemi e prospettive, Catania, 1978, p.
88. In un secondo tempo, a partire modifica dell’art. 16 ad opera dell’art. 7 del D.P.R. 3 novembre
1981, n. 739, è risultato chiaro che all’istanza di rimborso fosse attribuito il ruolo di presupposto processuale per l’esercizio dell’azione di ripetizione dinanzi alle Commissioni tributarie e che non vi fosse
spazio per alcun altro rimedio giurisdizionale. V. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, I ed., 1991, p.
402. In ultimo, su tali aspetti, PAPARELLA, Il rimborso dei tributi, in FANTOZZI (a cura di), Diritto tributario, Torino, 2012, in corso di pubblicazione.
23
V. Cass., sez. un., 9 giugno 1989, n. 2786. In termini chiari ed incondizionati la Corte ha evidenziato l’autonomia (rispetto alla giurisdizione civile) dell’azione di indebito tributario e la procedimentalizzazione della tutela del diritto alla restituzione (dei tributi). Allo stesso tempo è stata sancita la generalità del rimedio ex art. 38 (del D.P.R. n. 600/1973, che prevede la presentazione dell’istanza di rimborso entro termini decadenziali) per tutte le ipotesi di indebito tributario (a prescindere dalla causa dello stesso e, quindi, indifferentemente sia se derivanti da inesistenza dell’obbligazione tributaria, sia se determinati da errori del contribuente nella liquidazione o nel versamento del
tributo). La stessa impostazione è stata utilizzata per tutte le disposizioni, previste nell’ambito delle
leggi di imposta, che stabiliscono termini di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso. La
giurisprudenza di legittimità non ha più cambiato orientamento sul punto. In ultimo, Cass., sez. trib.,
13 febbraio 2006, n. 15840; Cass., 12 dicembre 2008, n. 29227; Cass., 17 giugno 2008, n. 16368.
24
In ultimo su tali aspetti, diffusamente, PAPARELLA, op. cit.
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5. Le possibili soluzioni per superare la “crisi”. Le nuove prospettive della disciplina del rimborso IVA
La necessità di adeguarsi ai principi comunitari conduce ad interrogarsi sulle
possibili soluzioni che l’ordinamento interno può approntare per i casi frequenti in
cui vi è l’esigenza di restituire l’imposta al cedente/prestatore, che ha già ripetuto
l’imposta stessa alla sua controparte economica.
Si ritiene che vi siano diverse soluzioni prospettabili.
Una prima soluzione porterebbe a valutare una modifica della disciplina della restituzione delle imposte tra privati, finalizzata a raccordare e coordinare l’azione civilistica ex art. 2033 c.c. con quella del rimborso tributario verso l’ente impositore.
Si comprende, infatti, come la causa principale che ha generato il problema nella questione in esame risieda proprio nella previsione di un termine decennale per
la tutela di un indebito versamento, che dilata oltre misura la possibilità di giustizia
in capo al soggetto IVA.
Tale soluzione imporrebbe un intervento normativo radicale e difficile da immaginare, in quanto dovrebbe operare o sull’art. 2033 c.c. o sulla struttura del processo tributario. Sulla base di queste considerazioni, la soluzione prospettata deve
essere esclusa, continuando ad ammettere una tutela differenziata in relazione al
cedente/prestatore (da un lato) e al cessionario/committente (dall’altro) per quel
che concerne la restituzione dell’IVA indebitamente assolta. Si ricorda, inoltre, che
tale tutela differenziata è stata comunque ritenuta compatibile con l’ordinamento
comunitario, sempre che riuscisse in concreto a garantire l’effettivo riconoscimento delle posizioni giuridiche 25.
Seguendo tale ordine di idee e senza modificare radicalmente il sistema vigente,
una soluzione più immediata e maggiormente in linea con l’ordinamento europeo,
consiglia di utilizzare l’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, valorizzando il
disposto normativo, secondo il quale «la domanda di restituzione, in mancanza di
disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero
se posteriore dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione».
Orbene tale norma consente di agire entro due anni dalla verificazione di un
presupposto alla restituzione diverso dal versamento indebito, ammettendo l’ingresso (nel nostro sistema) di cause sopravvenute di diritto al rimborso, per le quali i
termini per l’azione debbono decorrere da un momento differente (e successivo)
rispetto al versamento dei tributi.
Il presupposto della restituzione è, in tale caso, l’ingiustificato arricchimento dell’Erario ed impoverimento del cedente/prestatore, che si realizza nel momento in
cui il cedente prestatore deve restituire la somma al cessionario/committente.
25
V. quanto esposto al par. 3.
782
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Per la valorizzazione di questo fatto (ingiustificato arricchimento/ingiustificato
impoverimento) – quale ipotesi di presupposto che genera un diritto alla restituzione ex art. 21 – non si ritiene sia necessaria una previsione espressa nell’ordinamento nazionale, trattandosi di mera operazione ermeneutica ed invero dell’attuazione di un principio generale comunitario dotato di effetto diretto.
In tal modo, l’art. 21, comma 2, fungerebbe da disposizione idonea ad introdurre una tutela nazionale dell’ingiustificato arricchimento tributario, fornendo una
protezione a tutte le situazioni analoghe a quelle analizzate.
Il divieto di ingiustificato arricchimento, quale presupposto dell’azione di restituzione, potrebbe così sostituire per determinati casi il principio di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c.
Il cedente/prestatore, conseguentemente, disporrebbe della facoltà di agire entro
un termine che decorre non più dal versamento, bensì dal suo impoverimento ingiustificato, che dovrebbe coincidere con la restituzione dell’imposta alla sua controparte economica.
Per completezza si rileva che, anche se non è stato evidenziato nell’ambito della
controversia, esiste un’altra possibilità di tutela per il cedente/prestatore che risiede
nell’azione (civilistica) generale di arricchimento ex art. 2041 c.c. Il cedente/prestatore, infatti, sulla base di tale azione avrebbe potuto agire dal momento in cui si
era verificato l’arricchimento, dinanzi al giudice civile.
Quest’ultima strada, anche se ha il pregio di fare valere l’ingiustificato arricchimento in conformità ai principi europei, appare meno efficace della soluzione precedente.
La disciplina nazionale attribuisce un ruolo residuale all’azione di ingiustificato
arricchimento ex art. 2041 c.c. (rispetto a quelle risarcitorie o restitutorie) e riconosce soltanto un equo indennizzo (e non la restituzione) all’impoverito. La tutela,
quindi, potrebbe in questi termini non essere effettiva secondo i parametri comunitari.
Allo stesso tempo, l’accoglimento di una soluzione del genere sposterebbe ulteriormente la tutela dell’indebito o dell’ingiustificato versamento IVA sul versante del
processo civile, contravvenendo ai principi del sistema tributario attuale, che riconosce la giurisdizione delle Commissioni tributarie su tutte le controversie relative
a tributi di ogni genere e specie.
La soluzione preferibile risulta, quindi, quella di ammettere la tutela dell’ingiustificato arricchimento entro due anni dalla restituzione dell’imposta al cessionario/committente, dinanzi al giudice tributario. In questo modo si introduce il divieto
di ingiustificato arricchimento allineando il sistema nazionale a quello europeo e si
riconosce una tutela effettiva al cedente/prestatore.
La ricostruzione proposta in questa sede presenta ulteriori ed importanti implicazioni, legate in particolare ai presupposti e al collegamento tra le due azioni (di ingiustificato arricchimento e di ripetizione dell’indebito), nonché all’accertamento
Corte di Giustizia UE, sez. III, 15 dicembre 2011, causa C-427/10
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della non debenza del tributo; la trattazione di tali ultime questioni è rinviata ad un
approfondimento più accurato in uno scritto in corso di pubblicazione.
6. Considerazioni conclusive
La pronuncia in esame realizza un passo importante nella materia del rimborso
dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario o armonizzati, imponendo
una revisione dei principi generali nazionali in materia di tutela dell’indebito.
Come verificato, tale materia era caratterizzata fino a questo momento da alcuni importanti punti fermi, che oggi dovranno essere rimeditati in chiave europea.
In particolare, nella disciplina tributaria non aveva accesso la tutela dell’ingiustificato arricchimento, in quanto l’area dei trasferimenti patrimoniali in assenza di
causa era regolata in via esclusiva dal principio di ripetizione dell’indebito.
Il sistema nazionale non è però in grado di proteggere determinate ipotesi in cui
la necessità di tutela nasce a seguito di un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito versamento, poiché, in questo caso, oltre ad essere fisiologicamente spirati i termini per l’azione, la situazione che deve essere tutelata è un ingiustificato arricchimento
(derivante da un originario versamento indebito).
Tale valutazione deve condurre l’ordinamento nazionale sotto l’egida dei principi comunitari a rivedere determinate logiche, introducendo la tutela dell’ingiustificato arricchimento, perlomeno per tutte le imposte che come l’IVA sono caratterizzate da rivalse (palesi o occulte) verso operatori economici o consumatori. Accogliendo tale soluzione, si riescono a tutelare gli interessi di tutti i contribuenti coinvolti nel prelievo, senza peraltro arrecare pregiudizio ad alcuno di essi.
Come verificato, oggi, questo recepimento può avvenire a legislazione invariata, continuando ad utilizzare i termini di decadenza previsti. L’art. 21, comma 2 del
D.Lgs. n. 546/1992 – ammettendo che la domanda di restituzione può essere presentata entro due anni dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione – consente tale evoluzione.
Il sistema nazionale del rimborso dei tributi si deve in questo modo preparare ad
un graduale accoglimento del divieto di ingiustificato arricchimento, non solo per
allinearsi all’ordinamento europeo, ma soprattutto per dare tutela a casi come quello
oggetto di analisi. Si tratta, infatti, di una esigenza di giustizia che trova il suo fondamento naturale nel principio comunitario di effettività, base dell’integrazione giuridica europea.
Rossella Miceli
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C371/10 – Pres. Tizzano, Rel. Lenaerts
Trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società in uno Stato
membro diverso da quello di sua costituzione – Libertà di stabilimento – Art. 49
TFUE – Tassazione delle plusvalenze latenti relative agli attivi di una società che
effettua un trasferimento di sede tra Stati membri – Determinazione dell’importo del prelievo al momento del trasferimento della sede – Riscossione immediata
dell’imposta – Proporzionalità
1. (Omissis) La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione
dell’art. 49 TFUE.
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la National
Grid Indus BV (in prosieguo: la «National Grid Indus»), società di diritto olandese
con sede sociale nei Paesi Bassi, e l’Inspecteur van de Belastingdienst Rijnmond/kantoor Rotterdam (l’ispettore del servizio tributario Rijnmond/ufficio di Rotterdam; in
prosieguo: l’«ispettore»), relativa alla tassazione delle plusvalenze latenti relative agli
attivi di tale società in occasione del trasferimento nel Regno Unito della sua sede amministrativa effettiva.
Contesto normativo
Omissis
I fatti all’origine della causa principale e le questioni pregiudiziali
10. La National Grid Indus è una società a responsabilità limitata di diritto olandese. Fino al 15 dicembre 2000 la sua sede amministrativa effettiva era nei Paesi Bassi.
11. Dal 10 giugno 1996 tale società è titolare di un credito di GBP 33 113 000 nei
confronti della National Grid Company plc, società con sede nel Regno Unito.
12. In seguito all’aumento del cambio della sterlina britannica rispetto al fiorino
olandese, su tale credito si è originato un profitto sul cambio non realizzato. Il 15 dicembre 2000 tale profitto sul cambio equivaleva a NLG 22 128 160.
13. In tale data la National Grid Indus ha trasferito nel Regno Unito la propria sede
amministrativa effettiva. Conformemente all’art. 2, n. 4, della Wet VPB, la National
Grid Indus, essendo stata costituita secondo il diritto olandese, è rimasta in linea di
principio soggetta ad imposizione nei Paesi Bassi senza alcuna limitazione. Tuttavia, ai
sensi dell’art. 4, n. 3, della convenzione, che prevale sul diritto nazionale, la National
Grid Indus, dopo il trasferimento della propria sede amministrativa effettiva, doveva
essere considerata residente nel Regno Unito. Dato che dopo il trasferimento di sede
la National Grid Indus non disponeva più di una stabile organizzazione nei Paesi Bassi
ai sensi della convenzione, il diritto di tassare l’utile e i profitti in conto capitale di tale
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RTDT - n. 3/2012
società spettava, dopo il suddetto trasferimento, esclusivamente al Regno Unito, conformemente agli artt. 7, n. 1, e 13, n. 4, della convenzione.
14. In conseguenza dell’applicazione della convenzione, la National Grid Indus ha
cessato di percepire un utile imponibile nei Paesi Bassi ai sensi dell’art. 16 della Wet
IB, di modo che, in forza di tale disposizione, in combinato disposto con l’art. 8 della
Wet VPB, si è dovuto effettuare una liquidazione finale delle plusvalenze latenti esistenti al momento del trasferimento della sede di tale impresa. L’ispettore ha quindi
deciso che la National Grid Indus doveva in particolare essere tassata sul profitto sul
cambio di cui al punto 12 della presente sentenza.
15. La National Grid Indus ha proposto un ricorso avverso la decisione dell’ispettore dinanzi al rechtbank Haarlem, il quale, con sentenza del 17 dicembre 2007, ha
confermato tale decisione.
16. La National Grid Indus si è quindi rivolta in appello al Gerechtshof Amsterdam
avverso la sentenza del rechtbank Haarlem.
17. Il giudice del rinvio considera innanzitutto che la National Grid Indus può far valere la libertà di stabilimento per opporsi agli effetti fiscali che i Paesi Bassi, in quanto
Stato membro di provenienza, ricollegano al trasferimento in un altro Stato membro
della sede amministrativa effettiva di tale società. Dal momento che l’esistenza e il funzionamento di detta società in quanto costituita secondo il diritto olandese non sarebbero interessati dalla normativa nazionale in oggetto, la presente causa principale si differenzierebbe da quelle che hanno dato origine alle sentenze 27 settembre 1988, causa
81/87, Daily Mail and General Trust (Racc. pag. 5483), e 16 dicembre 2008, causa C210/06, Cartesio (Racc. pag. I-9641). Tuttavia su tale punto sussisterebbe un dubbio.
18. Il giudice del rinvio ritiene inoltre che una tassazione del tipo di cui alla causa
principale costituisca un ostacolo alla libertà di stabilimento. Il provvedimento nazionale che dà origine a tale tassazione potrebbe tuttavia risultare giustificato dallo scopo
di garantire l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, conformemente al principio della territorialità fiscale legata ad una componente temporale. A tal fine, il giudice del rinvio spiega che l’art. 16 della Wet IB si fonda sull’idea secondo cui la totalità dell’utile generato da una società residente dev’essere tassata nei
Paesi Bassi. Qualora, in seguito al trasferimento della sede amministrativa effettiva della società interessata, essa cessi di essere soggetta ad imposizione nei Paesi Bassi, le
plusvalenze latenti relative agli attivi di tale società non ancora tassati nei Paesi Bassi
dovrebbero essere considerate utili realizzati ed essere pertanto tassate.
19. Il giudice del rinvio ritiene tuttavia che non sia escluso, ai sensi della giurisprudenza risultante dalle sentenze 11 marzo 2004, causa C-9/02, de Lasteyrie du Saillant
(Racc. pag. I-2409), e 7 settembre 2006, causa C-470/04, N (Racc. pag. I-7409), che
un’imposta di liquidazione finale del tipo di quella prevista dalla normativa di cui alla
causa principale possa essere considerata sproporzionata, posto che determina un debito fiscale immediatamente esigibile e che non tiene conto delle minusvalenze che
intervengono a seguito del trasferimento della sede dell’impresa interessata. Il giudice
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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del rinvio ritiene che anche su questo punto sussista un dubbio. A tale riguardo, aggiunge che il rinvio della riscossione dell’imposta sino al momento dell’effettivo realizzo delle plusvalenze potrebbe presentare problemi pratici insormontabili.
20. Il giudice del rinvio precisa infine che, nel caso di specie, non può prodursi una
minusvalenza dopo il trasferimento della sede amministrativa effettiva della National
Grid Indus, dal momento che tale trasferimento ha comportato il venir meno del rischio di cambio per un credito espresso in sterline britanniche. Dopo detto trasferimento tale società era infatti tenuta a calcolare in tale valuta il proprio utile imponibile.
21. In tale contesto, il Gerechtshof Amsterdam ha deciso di sospendere il giudizio
e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se, nel caso in cui uno Stato membro imponga ad una società costituita secondo il diritto di tale Stato membro, che da esso trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, un’imposta di liquidazione finale per il trasferimento della sede, detta società, allo stato attuale del diritto comunitario, possa invocare l’art. 43 CE (divenuto art. 49 TFUE) nei confronti di questo Stato membro.
2) In caso di soluzione affermativa della prima questione, se un’imposta di liquidazione finale, come quella in esame, che include nell’imposizione le plusvalenze degli
elementi patrimoniali della società trasferiti dallo Stato membro di provenienza a
quello ospitante, come valutati al momento del trasferimento della sede, senza possibilità di differimento né di prendere in considerazione perdite successive, sia contraria
all’art. 43 CE (divenuto art. 49 TFUE), nel senso che siffatta imposta di liquidazione
finale non può essere giustificata dalla necessità di ripartizione dei poteri impositivi tra
gli Stati membri.
3) Se la soluzione della questione che precede dipenda anche dalla circostanza che
l’imposta di liquidazione finale considerata riguarda un profitto (sul cambio) intervenuto nella circoscrizione fiscale olandese, mentre detto profitto non può essere evidenziato nello Stato ospitante ai sensi del regime tributario ivi vigente».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
22. Con la prima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se una società
costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro ed è soggetta, da parte del primo Stato
membro, ad una tassazione in occasione di tale trasferimento, possa invocare l’art.
49 TFUE nei confronti di questo Stato membro.
23. I governi olandese, tedesco, italiano, portoghese, finlandese, svedese e del Regno Unito sostengono che l’art. 49 TFUE non incide sulla competenza degli Stati
membri ad adottare una normativa, ivi comprese norme di natura fiscale relative ai trasferimenti di sede di imprese tra Stati membri. L’interpretazione data dalla Corte a tale
articolo nelle citate sentenza Daily Mail and General Trust e Cartesio non riguarderebbe solo le condizioni di costituzione e di funzionamento delle società ai sensi del
diritto societario nazionale.
9*.
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
24. I suddetti governi chiariscono, a tal fine, che la National Grid Indus, proprio a
causa del trasferimento della sua sede amministrativa effettiva, cessa di essere soggetta
alla legge fiscale del suo Stato membro di provenienza. I Paesi Bassi perderebbero ogni
competenza in materia fiscale per quanto riguarda i redditi provenienti dall’attività di
tale società. La tassazione di cui alla causa principale sarebbe quindi strettamente connessa alle disposizioni del diritto societario nazionale che disciplina le condizioni di
stabilimento delle società e di trasferimento della sede delle stesse e costituirebbe una
conseguenza diretta di tali disposizioni.
25. A tale riguardo, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 54 TFUE, le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale,
l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione, sono equiparate, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del Trattato FUE relative alla
libertà di stabilimento, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri.
26. Dal momento che il diritto dell’Unione non ha fornito un’uniforme definizione
delle società autorizzate a beneficiare del diritto di stabilimento in funzione di un unico criterio di collegamento idoneo a determinare il diritto nazionale applicabile ad una
società, la questione se l’art. 49 TFUE si applichi ad una società che invoca la libertà
fondamentale sancita in tale norma – analogamente, d’altronde, a quella se una persona fisica sia un cittadino di uno Stato membro che, a tale titolo, può beneficiare di tale
libertà – costituisce una questione preliminare che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, può trovare risposta solo nel diritto nazionale applicabile. Quindi, soltanto qualora risulti che tale società beneficia effettivamente della libertà di stabilimento, tenuto
conto delle condizioni enunciate dall’art. 54 TFUE, occorre accertare se detta società
si trovi di fronte a una restrizione di tale libertà ai sensi dell’art. 49 TFUE (v. sentenze
Daily Mail and General Trust, cit., punti 19-23; 5 novembre 2002, causa C-208/00,
Überseering, Racc. pag. I-9919, punti 67-70, nonché Cartesio, cit., punto 109).
27. Uno Stato membro dispone pertanto della facoltà di definire sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché essa possa ritenersi costituita ai sensi del suo
diritto nazionale e, a tale titolo, possa beneficiare del diritto di stabilimento, sia quello
necessario per continuare a mantenere detto status (sentenza Cartesio, cit., punto 110).
Uno Stato membro ha pertanto la possibilità di imporre ad una società costituita in forza
del suo ordinamento giuridico restrizioni al trasferimento della sede amministrativa effettiva di quest’ultima al di fuori del suo territorio affinché tale società possa conservare
la personalità giuridica di cui beneficia in base al diritto di questo stesso Stato membro
(sentenza Überseering, cit., punto 70).
28. Nella causa principale, il trasferimento nel Regno Unito della sede amministrativa effettiva della National Grid Indus non ha tuttavia inciso sul suo status di società
di diritto olandese ai sensi di tale diritto, il quale applica, per quanto riguarda le società, la teoria della costituzione.
29. I governi olandese, tedesco, italiano, portoghese, finlandese, svedese e del Regno Unito sostengono tuttavia che, se uno Stato membro è competente ad esigere lo
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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scioglimento e la liquidazione di una società che si trasferisce, tale Stato membro deve
altresì essere considerato competente ad imporre requisiti fiscali, se applica il sistema
– più vantaggioso dal punto di vista del mercato interno – del trasferimento di sede
con mantenimento della personalità giuridica.
30. La facoltà di cui al punto 27 della presente sentenza non implica tuttavia in alcun modo che le regole del Trattato relative alla libertà di stabilimento non si applichino alla legislazione nazionale in materia di costituzione e di scioglimento delle società (v. sentenza Cartesio, cit., punto 112).
31. La normativa nazionale di cui alla causa principale non riguarda la determinazione delle condizioni richieste da uno Stato membro ad una società, costituita conformemente alla sua legislazione, affinché possa mantenere il proprio status di società
di tale Stato membro dopo il trasferimento della propria sede amministrativa effettiva
in un altro Stato membro. Al contrario, la suddetta normativa si limita a ricollegare ad
un trasferimento di sede tra Stati membri, per le società costituite conformemente al
diritto nazionale, conseguenze fiscali, senza che un tale trasferimento di sede incida sul
loro status di società dello Stato membro in oggetto.
32. Nella causa principale, dal momento che il trasferimento nel Regno Unito della
sede amministrativa effettiva della National Grid Indus non ha inciso sul suo status di
società di diritto olandese, detto trasferimento non ha avuto effetto sulla possibilità,
per tale società, di invocare l’art. 49 TFUE. In quanto società costituita conformemente alla legislazione di uno Stato membro ed avente la sede sociale nonché l’amministrazione centrale all’interno dell’Unione, essa beneficia, in forza dell’art. 54 TFUE,
delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e può pertanto avvalersi dei diritti che le derivano dall’art. 49 TFUE, in particolare al fine di mettere in discussione la legittimità di una tassazione impostale da tale Stato membro in occasione
del trasferimento in un altro Stato membro della sua sede amministrativa effettiva.
33. Occorre pertanto risolvere la prima questione nel senso che una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in un altro Stato membro
la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede incida sul
suo status di società del primo Stato membro, può invocare l’art. 49 TFUE al fine di
mettere in discussione la legittimità di un’imposta ad essa applicata dal primo Stato
membro in occasione di tale trasferimento di sede.
Sulla seconda e sulla terza questione
34. Con la seconda e con la terza questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 49 TFUE debba essere interpretato
nel senso che osta ad una normativa fiscale di uno Stato membro, come quella di cui
alla causa principale, ai sensi della quale le plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di una società, costituita secondo il diritto di tale Stato membro e che trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, sono tassate
dal primo Stato membro al momento del trasferimento in questione, senza che detta
normativa, da un lato, preveda la sospensione del pagamento dell’imposta a carico della società di cui trattasi sino al momento dell’effettivo realizzo di tali plusvalenze e,
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RTDT - n. 3/2012
dall’altro, tenga conto delle minusvalenze che possono intervenire dopo detto trasferimento di sede. Il giudice del rinvio chiede inoltre se l’interpretazione dell’art. 49 TFUE
sia influenzata dal fatto che le plusvalenze latenti tassate si riferiscono a profitti sul
cambio che non possono essere evidenziati nello Stato membro ospitante, tenuto conto del sistema fiscale in esso vigente.
Sull’esistenza di una restrizione alla libertà di stabilimento
35. L’art. 49 TFUE impone la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento. Anche se, secondo la loro formulazione, le disposizioni del Trattato in tema di
libertà di stabilimento mirano ad assicurare il beneficio della disciplina nazionale dello
Stato membro ospitante, esse ostano parimenti a che lo Stato membro di provenienza
ostacoli lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione (v. sentenze 16 luglio 1998, causa C264/96, ICI, Racc. pag. I-4695, punto 21; 6 dicembre 2007, causa C-298/05, Columbus
Container Services, Racc. pag. I-10451, punto 33; 23 ottobre 2008, causa C-157/07,
Krankenheim Ruhesitz am Wannsee-Seniorenheimstatt, Racc. pag. I-8061, punto 29,
e 15 aprile 2010, causa C-96/08, CIBA, Racc. pag. I-2911, punto 18).
36. Da costante giurisprudenza risulta anche che vanno considerate restrizioni alla
libertà di stabilimento tutte le misure che ne vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio (v. sentenze 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I8961, punto 11; Columbus Container Services, cit., punto 34; Krankenheim Ruhesitz
am Wannsee-Seniorenheimstatt, cit., punto 30, e CIBA, cit., punto 19).
37. Nella causa principale occorre constatare che una società di diritto olandese
che intenda trasferire la propria sede amministrativa effettiva fuori dal territorio di tale
Stato, nell’ambito dell’esercizio del diritto garantitole dall’art. 49 TFUE, subisce uno
svantaggio finanziario rispetto ad una società analoga che mantenga la propria sede
amministrativa effettiva nei Paesi Bassi. Ai sensi della normativa nazionale di cui alla
causa principale, il trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società di
diritto olandese in un altro Stato membro comporta infatti l’immediata tassazione delle plusvalenze latenti relative agli attivi trasferiti, mentre siffatte plusvalenze non sono
tassate qualora una siffatta società trasferisca la propria sede all’interno del territorio
olandese. Le plusvalenze relative agli attivi di una società che effettui un trasferimento
di sede all’interno dello Stato membro interessato saranno tassate solo se e nella misura in cui siano state effettivamente realizzate. Tale disparità di trattamento relativa alla
tassazione delle plusvalenze è tale da scoraggiare una società di diritto olandese dal
trasferire la propria residenza in un altro Stato membro (v., in tal senso, citate sentenze
de Lasteyrie du Saillant, punto 46, e N, punto 35).
38. La disparità di trattamento in tal modo constatata non si spiega con un’oggettiva differenza di situazioni. Infatti, rispetto ad una normativa di uno Stato membro
diretta a tassare le plusvalenze realizzate sul proprio territorio, la situazione di una società costituita secondo la legislazione di tale Stato membro che trasferisce la propria
sede in un altro Stato membro è simile, per quanto riguarda la tassazione delle plusva-
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
791
lenze relative agli attivi che sono state realizzate nel primo Stato membro prima del trasferimento di sede, a quella di una società parimenti costituita secondo la legislazione
del primo Stato membro e che in tale Stato membro mantenga la propria sede.
39. I governi spagnolo, francese e portoghese indicano inoltre che una società quale la ricorrente nella causa principale non subisce alcuno svantaggio rispetto ad una
società che abbia trasferito la propria sede all’interno di uno Stato membro. Considerato che il profitto sul cambio in fiorini olandesi relativo a un credito espresso in sterline britanniche sarebbe venuto meno al momento del trasferimento nel Regno Unito
della sede amministrativa effettiva della National Grid Indus, tale società, secondo i
governi summenzionati, sarebbe stata tassata per una plusvalenza realizzata. Un trasferimento di sede all’interno dello Stato membro interessato non avrebbe invece originato il realizzo di alcuna plusvalenza.
40. Un simile argomento dev’essere respinto. La tassazione di cui alla causa principale non verte su plusvalenze realizzate. Il profitto sul cambio tassato nell’ambito della
causa principale si riferisce infatti ad una plusvalenza latente che non ha dato origine
ad alcun reddito a vantaggio della National Grid Indus. Una siffatta plusvalenza latente non sarebbe stata tassata se la National Grid Indus avesse trasferito la propria sede
amministrativa effettiva all’interno del territorio olandese.
41. Ne risulta che la disparità di trattamento a cui sono soggette, nell’ambito delle
disposizioni nazionali di cui alla causa principale, le società di diritto olandese che trasferiscono la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro rispetto
alle società di diritto olandese che trasferiscono la propria sede amministrativa effettiva all’interno del territorio olandese costituisce una restrizione in linea di massima vietata dalle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento.
Sulla giustificazione della restrizione alla libertà di stabilimento
42. Risulta da una giurisprudenza costante che una restrizione alla libertà di stabilimento può essere ammessa solo se giustificata da motivi imperativi di interesse generale. Anche in tale ipotesi, però, la sua applicazione dovrebbe essere idonea a garantire
il conseguimento dello scopo in tal modo perseguito e non eccedere quanto necessario per raggiungerlo (sentenze 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer,
Racc. pag. I-10837, punto 35; 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, Racc. pag. I-7995, punto 47; 13 marzo 2007,
causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, Racc. pag. I-2107,
punto 64, nonché 18 giugno 2009, causa C-303/07, Aberdeen Property Fininvest Alpha, Racc. pag. I-5145, punto 57).
43. Secondo il giudice del rinvio, la restrizione alla libertà di stabilimento risulta
giustificata dallo scopo di garantire l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra
gli Stati membri, conformemente al principio di territorialità legato ad una componente temporale. Lo Stato membro interessato eserciterebbe infatti il suo potere impositivo solo sulle plusvalenze realizzate sul proprio territorio nel periodo durante il quale la
National Grid Indus vi aveva la propria residenza fiscale.
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
44. La National Grid Indus ritiene tuttavia che un siffatto scopo non possa giustificare la restrizione constatata, dal momento che la tassazione di cui alla causa principale non riguarderebbe un beneficio reale.
45. A tale riguardo, occorre ricordare, da un lato, che il mantenimento della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri è un obiettivo legittimo, riconosciuto
dalla Corte (v., in tal senso, sentenze Marks & Spencer, cit., punto 45; N, cit., punto 42;
18 luglio 2007, causa C-231/05, Oy AA, Racc. pag. I-6373, punto 51, nonché 15 maggio 2008, causa C-414/06, Lidl Belgium, Racc. pag. I-3601, punto 31). Dall’altro, da
una giurisprudenza costante risulta che, in mancanza di disposizioni di unificazione o
di armonizzazione adottate dall’Unione, gli Stati membri rimangono competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere impositivo, in particolare, al fine di eliminare le doppie imposizioni (sentenza 19 novembre
2009, causa C-540/07, Commissione/Italia, Racc. pag. I-10983, punto 29 e giurisprudenza citata).
46. Il trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società da uno Stato
membro ad un altro non può significare che lo Stato membro di provenienza debba
rinunciare al suo diritto di assoggettare ad imposta una plusvalenza generata nell’ambito della sua competenza fiscale prima di tale trasferimento (v., in tal senso, sentenza
12 dicembre 2006, causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group
Litigation, Racc. pag. I-11673, punto 59). La Corte ha quindi statuito che uno Stato
membro, sulla base di tale principio di territorialità fiscale, associato a un elemento
temporale, vale a dire la residenza fiscale del contribuente sul territorio nazionale durante il periodo in cui le plusvalenze latenti si sono originate, ha il diritto di tassare tali
plusvalenze al momento del trasferimento all’estero del suddetto contribuente (v. sentenza N, cit., punto 46). Un siffatto provvedimento mira infatti a prevenire situazioni
tali da compromettere il diritto dello Stato membro di provenienza di esercitare la
propria competenza fiscale in merito alle attività realizzate sul proprio territorio e può
pertanto essere giustificato da motivi legati alla tutela della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri (v. sentenze Marks & Spencer, cit., punto 46; Oy AA, cit.,
punto 54, nonché 21 gennaio 2010, causa C-311/08, SGI, Racc. pag. I-487, punto 60).
47. Dalla decisione di rinvio risulta che, conformemente all’art. 7, n. 1, della convenzione, la National Grid Indus, dopo il trasferimento nel Regno Unito della sua sede
amministrativa effettiva, era considerata una società residente in quest’ultimo Stato
membro. Dal momento che, a causa di tale trasferimento di sede, la National Grid Indus ha cessato di realizzare utili tassabili nei Paesi Bassi, è stato effettuato, conformemente all’art. 16 della Wet IB, una liquidazione finale relativa alle plusvalenze inerenti
agli attivi di tale società nei Paesi Bassi al momento del trasferimento nel Regno Unito
della propria sede. Le plusvalenze realizzate dopo tale trasferimento di sede sono tassate,
conformemente all’art. 13, n. 4, della convenzione, in quest’ultimo Stato membro.
48. Alla luce di tali elementi, una normativa come quella di cui alla causa principale
è idonea ad assicurare il mantenimento della ripartizione del potere impositivo tra gli
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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Stati membri interessati. L’imposta di liquidazione finale al momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società mira infatti ad assoggettare all’imposta sugli utili dello Stato membro di provenienza le plusvalenze non realizzate, originate nell’ambito della competenza fiscale di tale Stato membro prima di detto trasferimento di sede. Le plusvalenze latenti relative ad un bene economico sono pertanto
tassate nello Stato membro nel quale sono state originate. Le plusvalenze realizzate
dopo il trasferimento della sede di tale società sono tassate esclusivamente nello Stato
membro ospitante ove esse sono state originate, il che consente di evitarne una doppia
imposizione.
49. L’argomento della National Grid Indus, secondo cui la tassazione di cui alla
causa principale non può essere giustificata, dal momento che va a colpire una plusvalenza latente e non una plusvalenza realizzata, dev’essere respinto. Come infatti precisato dai diversi governi che hanno depositato osservazioni dinanzi alla Corte, uno Stato membro ha il diritto di tassare il valore economico generato da una plusvalenza latente sul proprio territorio anche qualora essa non vi sia ancora stata effettivamente
realizzata.
50. Occorre altresì verificare se una normativa come quella oggetto della causa
principale non ecceda quanto è necessario per conseguire l’obiettivo che essa persegue
(sentenza 30 giugno 2011, causa C-262/09, Meilicke e a., non ancora pubblicata nella
Raccolta, punto 42 e giurisprudenza citata).
51. A tal fine va ricordato che, secondo la normativa nazionale di cui alla causa
principale, sia la determinazione dell’imposta dovuta sia la sua riscossione hanno luogo nel momento in cui la società interessata cessa di percepire utili tassabili nei Paesi
Bassi, nel caso di specie al momento del trasferimento in un altro Stato membro della
sede amministrativa effettiva della società in questione. Per valutare la proporzionalità
di una siffatta normativa, è necessario operare una distinzione tra la determinazione
dell’importo del prelievo e la sua riscossione.
– Sulla determinazione definitiva dell’importo del prelievo nel momento in cui la società
trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro
52. Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 55 e 56 delle conclusioni, la
determinazione dell’importo del prelievo al momento del trasferimento della sede
amministrativa effettiva di una società rispetta il principio di proporzionalità, tenuto
conto dello scopo della normativa nazionale di cui alla causa principale, che è quello di
assoggettare all’imposta nello Stato membro di provenienza le plusvalenze originate
nell’ambito della competenza fiscale di tale Stato membro. È infatti proporzionato che
lo Stato membro di provenienza, allo scopo di tutelare l’esercizio della propria competenza fiscale, determini l’imposta dovuta sulle plusvalenze latenti originate sul proprio
territorio nel momento in cui il suo potere impositivo nei confronti della società interessata cessa di esistere, nel caso di specie nel momento del trasferimento in un altro
Stato membro della sede amministrativa effettiva di tale società.
53. Riferendosi alla citata sentenza N, la Commissione europea sostiene tuttavia
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che, per quanto riguarda il principio di proporzionalità, lo Stato membro di provenienza sarebbe tenuto a prendere in considerazione minusvalenze che si siano prodotte tra il momento del trasferimento della sede societaria ed il realizzo degli elementi
dell’attivo di cui trattasi nell’ipotesi in cui il sistema fiscale dello Stato membro ospitante non tenga conto di tali minusvalenze.
54. Occorre ricordare che, nella citata sentenza N, che si riferiva ad una normativa
nazionale che assoggettava un privato, in occasione del trasferimento in un altro Stato
membro della sua residenza fiscale, ad un’imposta sulle plusvalenze latenti relative ad
una partecipazione sostanziale che deteneva in una società, la Corte ha statuito che
può essere considerato proporzionato all’obiettivo consistente nel garantire la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri soltanto un sistema fiscale
che tenga interamente conto delle minusvalenze che possono intervenire successivamente al trasferimento della residenza del contribuente interessato, a meno che tali
riduzioni di valore non siano già state prese in considerazione nello Stato membro
ospitante (sentenza N, cit., punto 54).
55. Anche se il trasferimento nel Regno Unito da parte della National Grid Indus
della propria sede amministrativa effettiva ha comportato il venir meno del rischio di
cambio per il credito di cui alla causa principale, espresso in sterline britanniche, una
minusvalenza relativa a detto credito potrebbe tuttavia risultare dopo tale trasferimento nel caso in cui, ad esempio, la società interessata non ottenesse il rimborso dell’intero debito.
56. Tuttavia, contrariamente al caso della fattispecie della citata sentenza N, il fatto
che, nella presente causa principale, lo Stato membro di provenienza non tenga conto
di minusvalenze intervenute dopo il trasferimento della sede amministrativa effettiva
di una società non può essere ritenuto sproporzionato allo scopo perseguito dalla normativa di cui alla causa principale.
57. Gli attivi di una società sono infatti direttamente utilizzati per attività economiche atte a generare un utile. La portata dell’utile imponibile di una società è peraltro in
parte influenzata dalla valorizzazione degli attivi nel suo bilancio, in quanto gli ammortamenti riducono la base imponibile.
58. Dal momento che, in una situazione come quella di cui alla causa principale, gli
utili della società che ha trasferito la propria sede amministrativa effettiva saranno tassati, dopo tale trasferimento, solo nello Stato membro ospitante, conformemente al
principio di territorialità fiscale, associato a un elemento temporale, spetta altresì a quest’ultimo Stato membro, considerato il suddetto legame tra gli attivi di una società ed i
suoi utili imponibili, e quindi per motivi connessi alla simmetria tra il diritto di tassare
gli utili e la possibilità di dedurre le perdite, tener conto nel suo sistema fiscale delle
fluttuazioni del valore degli attivi della società interessata intervenute a partire dalla
data in cui lo Stato membro di provenienza ha perso ogni qualsivoglia collegamento
fiscale con tale società.
59. Alla luce di ciò, lo Stato membro di provenienza non è tenuto, contrariamente
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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a quanto suggerito dalla Commissione, a tener conto delle eventuali perdite di cambio
che si siano prodotte dopo il trasferimento nel Regno Unito da parte della National
Grid Indus della propria sede amministrativa effettiva, sino al rimborso o sino alla cessione del credito posseduto da tale società. L’imposta dovuta sulle plusvalenze latenti
è infatti determinata nel momento in cui il potere impositivo dello Stato membro di
provenienza nei confronti della società interessata cessa di esistere, nel caso di specie
nel momento del trasferimento della sede di tale società. Sia la considerazione da parte
dello Stato membro di provenienza di un profitto sul cambio sia la considerazione di
una perdita di cambio successive al trasferimento della sede amministrativa effettiva
rischierebbero non solo di mettere in discussione la ripartizione equilibrata del potere
impositivo tra gli Stati membri, ma anche di portare a doppie imposizioni o a doppie
deduzioni di perdite. Ciò si verificherebbe in particolare se una società che possiede
un credito come quello di cui alla causa principale, espresso in sterline britanniche,
trasferisse la propria sede da uno Stato membro la cui valuta è l’euro ad un altro Stato
membro della zona euro.
60. A tale riguardo, è ininfluente il fatto che, in una situazione come quella di cui alla causa principale, il trasferimento nel Regno Unito della sede amministrativa effettiva
della società abbia comportato il venir meno del rischio di cambio, dal momento che il
credito, che è espresso in sterline britanniche, è altresì espresso in questa valuta nel bilancio della società dopo il suddetto trasferimento di sede. È infatti conformemente al
principio di territorialità fiscale, affiancato da un elemento temporale, vale a dire la residenza fiscale sul territorio nazionale durante il periodo in cui il profitto imponibile si
è prodotto, che la plusvalenza generata nello Stato membro di provenienza è tassata al
momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva della società interessata.
61. Peraltro, come risulta dal punto 58 della presente sentenza, il sistema fiscale
dello Stato membro di provenienza terrà conto, in linea di principio, al momento del
realizzo degli attivi dell’impresa interessata, delle plusvalenze e delle minusvalenze realizzate su tali attivi dopo il trasferimento della sede di tale impresa. Tuttavia, il fatto
che lo Stato membro ospitante eventualmente non tenga conto di minusvalenze non
impone allo Stato membro di provenienza alcun obbligo di rivalutare, al momento del
realizzo dell’attivo di cui trattasi, un debito d’imposta che è stato determinato in via
definitiva nel momento in cui la società interessata, a causa del trasferimento della propria sede amministrativa effettiva, ha cessato di essere soggetta all’imposta in quest’ultimo Stato membro.
62. In proposito si deve rammentare che il Trattato non garantisce ad una società
rientrante nella disciplina dell’art. 54 TFUE che il trasferimento in un altro Stato membro della propria sede amministrativa effettiva sia neutro sotto il profilo fiscale. Tenuto
conto delle differenze tra le legislazioni degli Stati membri in tale materia, un simile
trasferimento può, secondo i casi, essere più o meno favorevole o sfavorevole per una
società sul piano fiscale (v., in tal senso, sentenze 15 luglio 2004, causa C-365/02, Lindfors, Racc. pag. I-7183, punto 34; 12 luglio 2005, causa C-403/03, Schempp, Racc.
10.
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GIURISPRUDENZA
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pag. I-6421, punto 45, nonché 20 maggio 2008, causa C-194/06, Orange European
Smallcap Fund, Racc. pag. I-3747, punto 37). Infatti, la libertà di stabilimento non può
essere intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a determinare le proprie
norme tributarie in funzione di quelle di un altro Stato membro, al fine di garantire, in
ogni situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia disparità derivante dalle normative tributarie nazionali (v. sentenza 28 febbraio 2008, causa C-293/06, Deutsche
Shell, Racc. pag. I-1129, punto 43).
63. Occorre inoltre precisare che la situazione fiscale di una società come quella di
cui alla causa principale, che possiede un credito espresso in sterline britanniche e trasferisce la propria sede amministrativa effettiva dai Paesi Bassi al Regno Unito, comparata a quella di una società che possiede un identico credito ma trasferisce la propria
sede all’interno del primo dei suddetti Stati membri, non è necessariamente sfavorevole.
64. Da quanto precede risulta che l’art. 49 TFUE non osta ad una normativa di uno
Stato membro ai sensi della quale l’importo del prelievo sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di una società è fissato in via definitiva – senza tener
conto delle minusvalenze né delle plusvalenze che possono essere realizzate successivamente – nel momento in cui la società, a causa del trasferimento della propria sede
amministrativa effettiva in un altro Stato membro, cessa di percepire utili tassabili nel
primo Stato membro. È irrilevante a tale riguardo che le plusvalenze latenti tassate si
riferiscano a profitti sul cambio che non possono essere espressi nello Stato membro
ospitante, tenuto conto del sistema fiscale in esso vigente.
– Sulla riscossione immediata dell’imposta nel momento in cui la società trasferisce la
propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro
65. Secondo la National Grid Indus e la Commissione, la riscossione immediata
dell’imposta al momento del trasferimento in un altro Stato membro della sede amministrativa effettiva di una società sarebbe sproporzionata. La sua riscossione al momento dell’effettivo realizzo delle plusvalenze costituirebbe una misura meno coercitiva rispetto a quella prevista dalla normativa di cui alla causa principale e non metterebbe a rischio la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri.
66. La Commissione aggiunge che l’onere amministrativo che la riscossione differita dell’imposta comporterebbe non sarebbe eccessivo. Una semplice dichiarazione
annuale sottoscritta dalla società interessata, che indichi che quest’ultima continua ad
essere in possesso degli attivi trasferiti, accompagnata da una dichiarazione fatta al
momento dell’effettiva cessione dell’attivo, potrebbe essere sufficiente per consentire
allo Stato membro di provenienza di riscuotere, al momento del realizzo dell’attivo,
l’imposta dovuta sulle plusvalenze latenti.
67. Per contro, i dieci governi che hanno depositato osservazioni dinanzi alla Corte
sostengono che la riscossione immediata del debito d’imposta al momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva della società interessata rispetta il principio
di proporzionalità. Il rinvio della riscossione sino al momento del realizzo delle plusvalenze non costituirebbe una soluzione alternativa equivalente ed efficace e potrebbe
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compromettere lo scopo d’interesse generale perseguito dalla normativa di cui alla
causa principale. Essi insistono, a tale riguardo, sul fatto che la riscossione differita dell’imposta comporterebbe necessariamente che i diversi elementi dell’attivo per i quali
sia stata constatata una plusvalenza al momento del trasferimento della sede di tale società possano essere oggetto di una sorveglianza nello Stato membro ospitante sino al
momento del loro realizzo. Orbene, l’organizzazione di una siffatta sorveglianza comporterebbe un onere eccessivo sia per tale società sia per l’amministrazione fiscale.
68. A tale riguardo, occorre constatare che la riscossione del debito d’imposta al
momento dell’effettivo realizzo, nello Stato membro ospitante, dell’attivo per il quale
le autorità dello Stato membro di provenienza hanno constatato una plusvalenza, in
occasione del trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società nel primo Stato membro, mira ad evitare i problemi finanziari che potrebbe generare la riscossione immediata dell’imposta dovuta su plusvalenze latenti.
69. Quanto agli oneri amministrativi che una siffatta riscossione differita dall’imposta potrebbe comportare, va rilevato che il trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società può essere affiancato dal trasferimento di un gran numero di attivi. Il governo olandese precisa, a tal fine, che la situazione di cui alla causa principale è
atipica, dal momento che riguarda solo la plusvalenza relativa ad un credito posseduto
dalla National Grid Indus.
70. Ne risulta, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 69 delle conclusioni,
che la situazione patrimoniale di una società può presentarsi a tal punto complessa da
rendere pressoché impossibile e notevolmente gravoso, se non addirittura eccessivo, per
la società in questione, individuare in modo preciso a livello transfrontaliero la sorte di
tutti i beni facenti parte delle immobilizzazioni e del capitale circolante di tale società fino al momento del realizzo delle plusvalenze latenti collegate a detti beni.
71. Non può pertanto essere escluso che l’onere amministrativo che la dichiarazione
annuale proposta dalla Commissione comporterebbe, che necessariamente verterebbe
su ogni elemento patrimoniale per il quale una plusvalenza latente sia stata constatata al
momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva della società di cui trattasi, genererebbe in quanto tale, per quest’ultima, un ostacolo alla libertà di stabilimento
che non sarebbe necessariamente meno contrario a tale libertà rispetto alla riscossione
immediata del debito d’imposta corrispondente alla suddetta plusvalenza.
72. Per contro, in altre situazioni, la natura e la portata del patrimonio della società
consentirebbero di garantire agevolmente l’individuazione a livello transfrontaliero
degli elementi di tale patrimonio per i quali una plusvalenza è stata constatata nel
momento in cui la società interessata ha trasferito la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro.
73. Alla luce di ciò, una normativa nazionale che offra, alla società che trasferisce la
propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, la scelta tra, da un lato,
il pagamento immediato dell’imposta, che crea uno svantaggio in termini finanziari per
tale società ma la dispensa da oneri amministrativi successivi, e, dall’altro, il pagamen-
798
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
to differito di tale imposta, se del caso corredato da interessi conformemente alla normativa nazionale applicabile, che necessariamente comporta per la società interessata un
onere amministrativo, legato all’individuazione degli attivi trasferiti, costituirebbe una
misura che, pur assicurando la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, sarebbe meno contraria alla libertà di stabilimento rispetto alla misura di
cui alla causa principale. Una società potrebbe infatti optare per il pagamento immediato dell’imposta, qualora ritenesse che gli oneri amministrativi legati alla sua riscossione differita siano eccessivi.
74. Tuttavia, occorre tener conto anche del rischio di mancata riscossione dell’imposta, che aumenta con il passare del tempo. Tale rischio può essere preso in considerazione dallo Stato membro di cui trattasi, nell’ambito della propria normativa nazionale applicabile al pagamento differito dei debiti d’imposta, con misure quali la costituzione di una garanzia bancaria.
75. I governi che hanno depositato osservazioni dinanzi alla Corte sostengono
inoltre che il pagamento differito dell’imposta rappresenterebbe, per le autorità fiscali
degli Stati membri, un onere eccessivo, legato alla sorveglianza di tutti gli elementi dell’attivo di una società per i quali sia stata constatata una plusvalenza al momento del
trasferimento della sua sede amministrativa effettiva.
76. Un siffatto argomento dev’essere respinto.
77. Va innanzitutto ricordato che la sorveglianza degli elementi dell’attivo si riferisce solo alla riscossione del debito d’imposta e non alla sua determinazione. Come infatti risulta dal punto 64 della presente sentenza, l’art. 49 TFUE non osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella di cui alla causa principale, che prevede che
l’importo del prelievo dovuto sulle plusvalenze relative agli attivi di una società, che a
causa del trasferimento della propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato
membro cessa di percepire utili tassabili in tale Stato membro, sia fissato in via definitiva al momento di tale trasferimento di sede. Orbene, nei limiti in cui una società che
opta per il pagamento differito di tale imposta consideri necessariamente che la sorveglianza degli elementi dell’attivo per i quali sia stata constatata una plusvalenza al momento di tale trasferimento di sede non le arreca eccessivi oneri amministrativi, nemmeno gli oneri gravanti sull’amministrazione fiscale dello Stato membro di provenienza e legati al controllo delle dichiarazioni relative ad una siffatta sorveglianza possono
essere ritenuti eccessivi.
78. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dai governi olandese, tedesco e
spagnolo, i meccanismi di assistenza reciproca in essere tra le autorità degli Stati membri sono sufficienti per consentire allo Stato membro di provenienza di effettuare un
controllo della veridicità delle dichiarazioni delle società che hanno optato per il pagamento differito dell’imposta in questione. Occorre, a tal fine, precisare che, dal momento
che quest’ultima è determinata in via definitiva nel momento in cui la società, a causa del
trasferimento della propria sede amministrativa effettiva, cessa di percepire utili tassabili
nello Stato membro di provenienza, l’assistenza dello Stato membro ospitante non ri-
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
799
guarderà la corretta determinazione dell’imposta, ma solo la sua riscossione. Orbene,
l’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 26 maggio 2008, 2008/55/CE, sull’assistenza
reciproca in materia di recupero dei crediti risultanti da taluni contributi, dazi, imposte
ed altre misure (GU L 150, pag. 28), dispone che «[l]’autorità adita fornisce all’autorità richiedente, su sua richiesta, tutte le informazioni utili per il recupero del credito».
Tale direttiva consente quindi allo Stato membro di provenienza di ottenere dalla
competente autorità dello Stato membro ospitante informazioni relative al realizzo o
al mancato realizzo di taluni elementi dell’attivo di una società che abbia trasferito la
propria sede amministrativa effettiva in quest’ultimo Stato membro, nei limiti in cui
esse siano necessarie al fine di consentire allo Stato membro di provenienza di riscuotere un credito fiscale originato al momento di tale trasferimento di sede. La direttiva
2008/55, in particolare i suoi artt. 5-9, offre inoltre alle autorità dello Stato membro di
provenienza un ambito di cooperazione e di assistenza che consente loro di riscuotere
effettivamente il credito fiscale nello Stato membro ospitante.
79. I governi tedesco e italiano sostengono inoltre che la normativa nazionale di
cui alla causa principale è giustificata dalla necessità di salvaguardare la coerenza del
sistema fiscale nazionale. La tassazione delle plusvalenze latenti al momento del trasferimento in un altro Stato membro della sede amministrativa effettiva della società interessata costituirebbe il complemento logico della deduzione fiscale precedentemente accordata per quanto riguarda tali plusvalenze.
80. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 99 delle conclusioni, gli obiettivi della coerenza impositiva e della ripartizione equilibrata del potere impositivo
coincidono.
81. Tuttavia, anche supponendo che la normativa nazionale di cui alla causa principale sia tale da consentire di raggiungere lo scopo di salvaguardare la coerenza fiscale, occorre constatare che solo la determinazione dell’importo del prelievo nel momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società, e non la sua
riscossione immediata, dovrebbe essere ritenuta non eccedente quanto è necessario
per conseguire un siffatto obiettivo.
82. La riscossione differita di tale imposta non metterebbe infatti in discussione il
nesso esistente, nella normativa olandese, tra, da un lato, il vantaggio fiscale rappresentato dall’esenzione concessa alle plusvalenze latenti relative agli elementi dell’attivo
fintantoché una società percepisca utili tassabili nello Stato membro interessato e, dall’altro, la compensazione di tale vantaggio con un onere fiscale determinato nel momento in cui la società interessata cessa di percepire utili di tal genere.
83. Infine, i governi tedesco, spagnolo, portoghese, finlandese, svedese, nonché del
Regno Unito fanno valere un rischio di evasione fiscale per giustificare la normativa
nazionale di cui trattasi.
84. Tuttavia, la mera circostanza che una società trasferisca la propria sede in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di evasione fiscale, né
giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garanti-
800
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
ta dal Trattato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 26 settembre 2000, causa
C-478/98, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-7587, punto 45; 21 novembre 2002,
causa C-436/00, X e Y, Racc. pag. I-10829, punto 62; 4 marzo 2004, causa C-334/02,
Commissione/Francia, Racc. pag. I-229, punto 27, nonché Cadbury Schweppes e
Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 50).
85. Da quanto precede risulta quindi che è sproporzionata una normativa di uno
Stato membro, come quella di cui alla causa principale, che impone ad una società che
trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione immediata, al momento stesso di tale trasferimento, dell’imposta sulle plusvalenze latenti relative ad elementi patrimoniali di tale società.
86. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda e la terza questione dichiarando
che l’art. 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che:
– non osta ad una normativa di uno Stato membro, ai sensi della quale l’importo del
prelievo sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di una società è fissato in via definitiva – senza tener conto delle minusvalenze né delle plusvalenze che possono essere realizzate successivamente – nel momento in cui la società, a causa del trasferimento della propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, cessa di
percepire utili tassabili nel primo Stato membro; è irrilevante a tale riguardo che le plusvalenze latenti tassate si riferiscano a profitti sul cambio che non possono essere evidenziati nello Stato membro ospitante, tenuto conto del sistema fiscale in esso vigente;
– osta ad una normativa di uno Stato membro che impone ad una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione
immediata, al momento stesso di tale trasferimento, dell’imposta sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di tale società.
Omissis
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) Una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in
un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede incida sul suo status di società del primo Stato membro, può invocare
l’art. 49 TFUE al fine di mettere in discussione la legittimità di un’imposta ad essa applicata dal primo Stato membro in occasione di tale trasferimento di sede.
2) L’art. 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che:
– non osta ad una normativa di uno Stato membro, ai sensi della quale l’importo
del prelievo sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di una società è
fissato in via definitiva – senza tener conto delle minusvalenze né delle plusvalenze che
possono essere realizzate successivamente – nel momento in cui la società, a causa del
trasferimento della propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro,
cessa di percepire utili tassabili nel primo Stato membro; è irrilevante a tale riguardo
che le plusvalenze latenti tassate si riferiscano a profitti sul cambio che non possono
essere evidenziati nello Stato membro ospitante, tenuto conto del sistema fiscale in
esso vigente;
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
801
– osta ad una normativa di uno Stato membro che impone ad una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione
immediata, al momento stesso di tale trasferimento, dell’imposta sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di tale società.
Exit taxes e diritto dell’Unione Europea:
quale “modello” compatibile?
Exit taxes and EU law: which “model” can be considered compatible?
Abstract
Nella sentenza del 29 novembre 2011 (caso C-371/10), in tema di compatibilità
delle exit taxes con il diritto comunitario, la Corte di Giustizia dell’UE ha sancito
il principio per cui l’art. 49 TFUE non osta ad una normativa di uno Stato Membro, in base alla quale, a seguito del trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società da uno Stato membro ad un altro, l’ammontare delle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali è determinato in via definitiva all’atto del trasferimento, allorquando la società cessa di percepire utili imponibili
nello Stato di origine. A tal fine non rilevano le eventuali minusvalenze o plusvalenze realizzate successivamente. In ogni caso, il pagamento dell’imposta su tali
plusvalenze deve essere differito al momento del realizzo delle stesse.
La principale criticità posta dalla sentenza in esame riguarda la compatibilità con
la normativa comunitaria e, in particolare, con il principio di proporzionalità, della
previsione di una garanzia bancaria a tutela del differimento dell’imposizione da
parte dello Stato membro di origine. Il presente contributo analizza, infine, gli
eventuali riflessi della sentenza sulla normativa italiana in tema di exit tax.
Parole chiave: Exit tax, plusvalenze latenti, trasferimento, sede amministrativa
effettiva, libertà di stabilimento
With decision of November 29, 2011 (case C-371/10) on compatibility of exit taxes
with EU law, the Court of Justice of the European Union established the principle
that Art. 49 TFEU must be interpreted as not precluding legislation of a Member
State under which the amount of tax on unrealised capital gains relating to a company’s assets is fixed definitively, without taking account of decreases or increases in val-
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GIURISPRUDENZA
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ue which may occur subsequently, at the time when the company, because of the transfer of its place of effective management to another Member State, ceases to obtain
profits taxable in the former Member State.
In any case, the payment of the tax on capital gains shall be deferred at the time of
their realisation. The main critical aspect of this decision concerns the compatibility
with EU law – and, in particular, with the principle of proportionality – of the submission of the deferred payment of the tax to a bank guarantee in favour of the member State of origin. Finally, this article analyses the potential impact of the decision on
the Italian discipline on exit taxation.
Keywords: Exit tax, unrealised capital gains, change of residence, place of effective
management, freedom of establishment
SOMMARIO:
1. Introduzione. – 2. I principi affermati dalla Corte di Giustizia. – 3. La Comunicazione della
Commissione europea – COM(2006)825 e la risoluzione ECOFIN del 2 dicembre 2008. – 4.
Cause di giustificazione ed exit tax. – 5. I riflessi della sentenza sulla normativa italiana. – 6.
Conclusioni.
1. Introduzione
Con la sentenza che si annota la Corte di Giustizia ha reso alcuni importanti chiarimenti in merito all’ormai annosa questione della legittimità comunitaria delle exit
taxes.
La fattispecie che ha originato la controversia concerneva una società a responsabilità limitata di diritto olandese, con sede amministrativa effettiva nei Paesi Bassi,
che aveva trasferito la propria sede dell’amministrazione nel Regno Unito.
Al riguardo, è da sottolineare preliminarmente che l’ordinamento olandese adotta quale criterio di collegamento il c.d. “principio dell’incorporazione”, non determinandosi dunque per effetto del trasferimento della sede all’estero l’automatico
scioglimento della società ai fini della legislazione civilistica, come invece avviene
negli ordinamenti che adottano il c.d. “principio della sede reale” quale criterio di
collegamento internazional-privatistico.
Tuttavia, sotto il profilo squisitamente fiscale, in caso di trasferimento della sede dell’amministrazione all’estero la legislazione fiscale olandese prevede l’applicazione di una exit tax sulle plusvalenze latenti maturate sui beni che escono dal potere impositivo dello Stato olandese, fatto quindi salvo il caso in cui beni siano assegnati ad una stabile organizzazione consentendo ciò di mantenere invariata la po-
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
803
testà impositiva dello Stato di ex residenza 1. In particolare, la base imponibile è determinata presumendo la vendita del patrimonio al valore di mercato calcolato nel
momento immediatamente precedente il trasferimento della residenza 2. L’exit tax
olandese prevede un prelievo tributario immediato, anche in assenza di effettiva realizzazione, senza quella possibilità di usufruire dei vantaggi del preserving assessment
invece prevista per le persone fisiche 3. Tutto ciò ha dunque determinato, nel caso
all’attenzione della Corte, la tassazione da parte dei Paesi Bassi delle plusvalenze latenti esistenti al momento del trasferimento all’estero della sede della società.
I giudici comunitari, pur affermando la natura restrittiva di un siffatto prelievo e
dunque la sua incompatibilità in linea di principio con il principio di libertà di stabilimento ex art. 49 del TFUE, hanno ritenuto ad esso applicabile, sia pure a determinate condizioni, la causa di giustificazione dell’equa ripartizione del potere impositivo degli Stati membri. Nell’interpretazione della Corte, il presupposto impositivo dell’exit tax è da identificare non nel mero trasferimento della sede amministrativa effettiva della società in un altro Stato membro e, quindi, nella perdita della
residenza fiscale, bensì nell’effettivo realizzo delle plusvalenze maturate. Infatti, all’atto della perdita della residenza fiscale, lo Stato di origine può imporre solo una
dichiarazione volta ad accertare e a cristallizzare le plusvalenze latenti, ma non anche procedere all’immediata riscossione.
Al riguardo, è da porre da subito in evidenza che proprio sulla concreta applicabilità delle soluzioni ipotizzate dalla Corte per giustificare a livello comunitario il
prelievo in uscita si addensano le principali criticità della pronuncia in esame.
Il presente contributo si propone di esaminare quanto affermato dalla Corte di
Giustizia, alla luce dei precedenti giurisprudenziali in materia, per poi verificarne i risvolti sulla legislazione nazionale.
2. I principi affermati dalla Corte di Giustizia
La Corte di Giustizia ha esaminato la questione della compatibilità con il diritto comunitario del prelievo olandese alla luce del disposto di cui all’art. 49 del
1
Il combinato disposto degli articoli 16 della legge del 1964 sull’imposta sul reddito (Wet op de
inkomstenbelasting) e 8 della legge del 1969 sull’imposta sulle società (Wet op de vannootschapsbelasting
1969) stabilisce in particolare che «i profitti societari non ancora rilevati (...) vengano imputati all’utile dell’anno di calendario in cui colui in nome del quale viene esercitata l’impresa cessa di percepire da quest’ultima un utile imponibile nei Paesi Bassi».
2
Per un approfondimento sulla exit tax olandese, si veda BOERS, L’impatto del diritto UE sulla
normativa olandese in materia di exit tax, in Studi Tributari Europei, 1, 2009.
3
Si tratta di un meccanismo che consente la sospensione ex lege della riscossione del tributo fino
alla realizzazione effettiva dei plusvalori degli attivi trasferiti. Nei Paesi Bassi, tale sospensione opera
nel caso di trasferimento all’estero di persone fisiche titolari di partecipazioni rilevanti.
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
TFUE, ossia del principio di libertà di stabilimento, ritenendo che tale norma trovi
applicazione al caso di «una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede incida sul suo status di società nel primo
Stato membro» la quale sia tenuta, per effetto di tale trasferimento, al pagamento
di una imposta in uscita.
Rilevato, infatti, che l’art. 49 TFUE impone la soppressione delle restrizioni alla
libertà di stabilimento, la Corte ritiene che «la disparità di trattamento a cui sono
soggette (...) le società di diritto olandese che trasferiscono la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro rispetto alle società di diritto olandese
che trasferiscono la propria sede amministrativa effettiva all’interno del territorio
olandese costituisce una restrizione in linea di massima vietata dalle disposizioni
del Trattato relative alla libertà di stabilimento».
La sentenza in esame risolve, dunque, in senso affermativo il problema relativo
all’estensione della libertà di stabilimento, ritenendo che essa trovi applicazione anche in caso di stabilimento primario e non solo secondario. Se, infatti, la libertà di
stabilimento si estende certamente alla costituzione di agenzie, di succursali o di affiliate da parte di cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di un altro Stato
membro (libertà di stabilimento c.d. “secondaria”), la Corte ne aveva tuttavia negato
originariamente l’applicabilità nel caso di trasferimento della sede di direzione effettiva o amministrativa di una società in un altro Stato membro conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione essa è stata costituita
(libertà di stabilimento c.d. “primaria”) 4.
Si trattava, in particolare, del caso Daily Mail 5, oramai risalente nel tempo, relativo alla legittimità della disposizione della legge britannica del 1970 sull’imposta sul
reddito delle società che subordinava il trasferimento della residenza fiscale in un altro Stato all’autorizzazione del Ministero del Tesoro 6. Non si trattava in tal caso di
una exit tax di tipo sostanziale, ma di una exit tax di tipo procedurale, con effetti tuttavia sostanzialmente analoghi 7.
4
MELIS, Profili sistematici del trasferimento della residenza fiscale delle società, in Dir. e prat. trib.
int., 2004, p. 51.
5
Corte di Giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail.
6
La Daily Mail intendeva trasferire la propria sede di direzione effettiva nei Paesi Bassi – e dunque la propria residenza fiscale – mantenendo tuttavia la propria sede legale in Inghilterra, conservando così la personalità giuridica e lo status di società di diritto britannico. Ciò al fine di cedere una
quota significativa dei titoli detenuti in portafoglio e riscattare, grazie al ricavato di tale vendita, parte delle proprie azioni, senza dover pagare le imposte cui dette operazioni sarebbero state soggette
in forza della legislazione fiscale britannica. Il Tesoro subordinava invece l’autorizzazione al trasferimento al pagamento delle plusvalenze latenti sui titoli in portafoglio alla Daily Mail.
7
VAN HOORN Jr., Il trasferimento di sede di società alla luce del diritto comunitario, in Dir. prat.
trib., 1989, II, p. 383.
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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In tale sede, la Corte di Giustizia aveva ritenuto che non contrastasse con la libertà di stabilimento sancita dall’attuale art. 49 del TFUE il divieto opposto da
uno Stato membro a una società costituita in tale Stato di trasferire la sede di direzione e controllo in un altro Stato membro, pur conservando la qualità di società
dello Stato di provenienza, laddove ciò avesse l’effetto di sottrarre la società al pagamento di imposte sui profitti o sugli utili già realizzati altrimenti dovuti nello Stato
di ex sede.
Le conclusioni cui era giunta la Corte si fondavano in realtà su considerazioni di
natura esclusivamente internazional-privatistica, ritenendo che il problema derivante dalla diversità delle legislazioni nazionali in tema di criterio di collegamento delle
società, nonché alla connessa possibilità di trasferimento della sede in un altro Stato
membro, fosse rimessa a iniziative legislative o pattizie non ancora poste in essere
dagli Stati membri. Avendo dunque il Trattato previsto che gli Stati membri dovessero procedere alla conclusione di Convenzioni per garantire il trasferimento delle
società senza soluzione di continuità, la Corte di Giustizia era dunque giunta a negare che nel caso Daily Mail potesse trovare applicazione il principio della libertà di
stabilimento primario 8.
L’ostacolo non era dunque tributario bensì di tipo internazional-privatistico,
preclusivo di ogni successiva indagine sul profilo tributario stesso.
La sentenza Daily Mail è stata oggetto di critica in dottrina sotto diversi aspetti.
In particolare, è stato affermato 9 che la Corte ha semplicemente evitato di accertare la compatibilità della legislazione britannica con il diritto di stabilimento alla luce del principio di proporzionalità in base alla diversità delle normative in materia
di diritto societario esistenti negli Stati membri. E, focalizzando l’attenzione sugli
effetti che la sentenza poteva determinare, è stata sottolineata 10 l’irrazionalità della
stessa ove comportava conclusioni divergenti ai fini dell’applicabilità del diritto alla libertà di stabilimento a seconda del criterio di collegamento (della sede reale o
8
In altre parole, il riconoscimento della personalità giuridica (o anche della semplice soggettività) della società continua a dipendere dagli ordinamenti nazionali, ai quali spetta decidere, secondo
la sentenza Daily Mail, come e quando una società considerata nazionale potrà perdere la propria
personalità giuridica (soggettività). Se, per ragioni commerciali, un soggetto perdesse la sua personalità giuridica secondo l’ordinamento dello Stato d’origine, il fatto che allo scioglimento o alla liquidazione si aggiungano conseguenze tributarie non risulta contrario al diritto comunitario, perché si tratta
di una questione che va oltre l’ambito di applicazione della libertà di stabilimento. In tal senso, JIMENEZ-CALDERON CARRERO, Le exit taxes e il diritto comunitario: l’esperienza spagnola, in Studi Tributari
Europei, 1, 2009.
9
ROMANO, Sull’illegittimità delle imposizioni fiscali connesse al trasferimento di residenza all’interno
dell’Unione Europea, in Rass. trib., 4, 2004, p. 1291 ss.
10
È stato evidenziato che l’irrazionalità di un tale sistema è evidente sol che si pensi alla possibilità che la società avrebbe di trasformarsi in Società Europea evitando così lo scioglimento. V. MELIS,
Profili sistematici, cit., p. 65; DE PIETRO, Exit tax: territorialità e mobilità societaria, in Studi Tributari
Europei, 1, 2009.
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della sede legale) adottato dallo Stato per localizzare le proprie società. Infatti, solo
per le società costituite negli Stati che adottano il criterio della sede dell’incorporazione avrebbe potuto potrebbe trovare applicazione il precetto comunitario sancito dall’art. 49 del TFUE. Diversamente, se la società fosse stata costituita in uno Stato che adotta il criterio della sede reale, non si sarebbe verificata alcuna restrizione
della libertà di stabilimento, comportando il trasferimento in un altro Stato quale effetto necessario lo scioglimento della società sul piano civilistico 11.
Alcune affermazioni della sentenza Daily Mail sono state riprese nella più recente sentenza Cartesio 12, relativa ad una società costituita a norma della legge ungherese che, al momento della sua costituzione, aveva stabilito la propria sede in Ungheria e che, pur avendo trasferito la sede in Italia, intendeva mantenere lo status
giuridico di società di diritto ungherese. È da sottolineare come la sentenza Cartesio, pur richiamando la pronuncia Daily Mail, sembra estendere lo spettro d’azione
del suo ragionamento.
Infatti, la Corte, da un lato, ribadisce che uno Stato membro ha «facoltà di definire sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché essa possa ritenersi costituita ai sensi del suo diritto nazionale e, a tale titolo, possa beneficiare del
diritto di stabilimento, sia quello necessario per continuare a mantenere detto status» e che tale facoltà «include la possibilità, per lo Stato membro in parola, di non
consentire a una società soggetta al suo diritto nazionale di conservare tale status
qualora intenda riorganizzarsi in un altro Stato membro trasferendo la sede nel territorio di quest’ultimo, sopprimendo in questo modo il collegamento previsto dal
diritto nazionale dello Stato membro di costituzione» 13.
Dall’altro lato, la Corte ha tuttavia affermato che, nel caso di trasferimento di una
società appartenente a uno Stato membro verso un altro Stato membro con cambiamento del diritto nazionale applicabile, ove la società si converte in una forma societaria soggetta al diritto nazionale dello Stato membro in cui si è trasferita, tale facoltà «lungi dall’implicare una qualsiasi immunità della legislazione nazionale in materia di costituzione e di scioglimento delle società rispetto alle norme del Trattato
CE relative alla libertà di stabilimento, non può segnatamente giustificare che lo Sta11
Ad una lettura parzialmente diversa della sentenza Daily Mail giunge quella dottrina che sottolinea come, in tale pronuncia, la Corte non abbia affrontato il tema dello scioglimento della società nel Paese di costituzione ma unicamente la problematica connessa ai requisiti che dovevano ricorrere affiché il Tesoro britannico desse il proprio consenso al trasferimento in considerazione delle conseguenze sotto il profilo fiscale. A posteriori, è stato, quindi, affermato che la sentenza ha affrontato il tema del trasferimento della residenza unicamente da una “outbond perspective”, essendo l’attenzione focalizzata sui doveri dello Stato di costituzione. V. PANAYI, Exit taxation as an Obstacle to
Corporate Emigration from the Spectre of EU Tax Law, in Cambridge Yearbook of European Legal
Studies, vol. 13, 2010-2011.
12
Corte di Giustizia, 16 dicembre 2008, C-210/06.
13
Punto 110 della sentenza.
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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to membro di costituzione, imponendo lo scioglimento e la liquidazione di tale società, impedisca a quest’ultima di trasformarsi in una società di diritto nazionale dell’altro Stato membro nei limiti in cui detto diritto lo consenta» 14.
In sostanza, la Corte ha ritenuto che uno Stato membro può impedire ad una
società soggetta alla sua legislazione di trasferirsi in altro Stato membro, nel senso
che può negarle di restare soggetta alla legislazione societaria di provenienza; tuttavia, uno Stato membro non può prescrivere che il trasferimento in un altro Stato
membro con acquisizione della legislazione societaria di quest’ultimo abbia necessariamente un carattere liquidatorio. Nella fattispecie, la Corte ha qualificato come
contraria alla libertà di stabilimento la normativa interna di uno Stato membro che
imponga ad una società lo scioglimento quale unica soluzione per trasferire la propria sede operativa in un altro Stato dell’UE, negando la più agevole facoltà di “trasformazione”, cioè di passaggio, senza soluzione di continuità, ad una veste societaria disciplinata dal diritto dello Stato di accoglienza.
Lo scioglimento peraltro, oltre a implicare costi operativi, risulta di regola oneroso in termini fiscali, perché nello Stato di uscita la distribuzione di somme e beni
ai soci in sede di liquidazione del patrimonio societario genera materia imponibile
(oltre che in capo alla società) in capo agli stessi. Ciò significa dunque disincentivare
il trasferimento di una società, sostanziandosi così una violazione dell’art. 49 del
TFUE, in base a cui ogni restrizione della libertà di stabilimento all’interno dell’UE
deve essere vietata, salvo quando sia giustificata da ragioni imperative di interesse
pubblico 15.
Entrambe le sentenze citate (Daily Mail e Cartesio), in definitiva, negano la copertura comunitaria al caso di trasferimento della sede di direzione effettiva o amministrativa di una società in un altro Stato membro conservando la qualità di società
dello Stato membro secondo la cui legislazione essa è stata costituita. Non si è realizzato, quindi, con la sentenza Cartesio il superamento della sentenza Daily Mail 16, dal
14
Punto 112 della sentenza.
RHODE, Cartesio: diritto comunitario e “tassazione in uscita”, in Fiscalità internazionale, maggiogiugno 2009, p. 221 ss.
16
La necessità di un definitivo superamento dei principi della sentenza Daily Mail era stata sottolineata nelle conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro sul caso Cartesio. In particolare, si è
sottolineato che successivamente al caso Daily Mail la giurisprudenza comunitaria ha subito una profonda evoluzione. Tale giurisprudenza, pur non priva di contraddizioni e di distinguo, ha posto in luce
l’esigenza di una tutela completa della libertà di stabilimento primario e comunque richiedente oramai
un reciproco riconoscimento e coordinamento dei diversi criteri di diritto internazionale privato utilizzati nei diversi Stati. Sarebbero dunque sempre contrarie alla libertà di stabilimento, secondo l’A.G., le
norme nazionali che impongono lo scioglimento delle società che trasferiscono la propria sede effettiva
all’estero. I limiti alla libertà di stabilimento andrebbero, quindi, cercati, ad avviso dell’Avvocato generale, soltanto al di fuori del diritto internazionale privato, e precisamente in interessi di natura pubblica,
nella prevenzione di abusi e comportamenti fraudolenti, dovendosi invece «sottrarre agli Stati il potere
di vita e di morte sulle società costituite secondo la loro legislazione».
15
808
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
momento che resta ancora fuori il caso di trasferimento da uno Stato che adotta la
sede reale ad uno che adotta anch’esso il criterio della sede reale.
Tuttavia, rispetto alla sentenza Daily Mail, si tratta di un ulteriore passo in avanti,
coprendo essa il caso del trasferimento in uno Stato che consente di mantenere in
capo alla società trasferita la propria soggettività senza doversi ri-costituire. Un altro passo in avanti era stato compiuto in precedenza, più che con la sentenza Centros 17, con la sentenza Überseering 18, in cui la Corte ha stabilito che la sede dove
vengono effettivamente svolti la direzione e il controllo della società può trovarsi
in uno Stato diverso da quello in cui la società è stata costituita e lo Stato membro
in cui vengono esercitate la direzione e il controllo non può rifiutare di considerare
il soggetto come avente capacità giuridica nel proprio territorio. In tale ultimo caso, infatti, si è negato che uno Stato di destinazione che adotta il criterio della sede
reale possa negare soggettività ad una società proveniente da uno Stato che adotta
il criterio della costituzione.
Tali pronunce consentono anche una rilettura dei concetti di libertà di stabilimento “primaria” e “secondaria”, superando la distinzione tradizionale che interpretava la prima come manifestazione giuridica ed economica nel senso di costituzione
di una società e svolgimento dell’attività economica principale in un primo Stato
membro; la seconda, come manifestazione giuridica di un’attività economica secondaria, connessa e sussidiaria, oppure come la creazione di una società figlia in un altro Stato membro. A seguito delle sentenze Centros e Überseering, tale concezione
viene modificata, in termini di qualificazione e rilevanza sul piano giuridico, riconducendo, nell’ambito dello stabilimento primario, anche il caso limite di una mera costituzione formale della società, accompagnata da uno stabilimento secondario, dove
viene svolta tutta l’attività economica (Centros), oppure non accompagnata del tutto
da uno stabilimento secondario “registrato”, ma direttamente agente nello Stato
ospitante, in forza della validità della costituzione primaria d’origine (Überseering) 19.
Escluso dunque che nel caso qui in esame si verificassero impedimenti sul piano
internazional-privatistico, la Corte afferma che una società costituita conformemente alla legislazione di uno Stato membro ed avente la sede sociale nonché l’amministrazione centrale all’interno dell’Unione «beneficia, in forza dell’art. 54 del TFUE,
delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e può pertanto avvalersi dei diritti che le derivano dall’art. 49 del TFUE, in particolare al fine di mettere in discussione la legittimità di una tassazione impostale da tale Stato membro in
17
Sentenza 9 marzo 1999, C-212/97
Sentenza 5 novembre 2002, C-208/00.
19
Nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale Colmer, presentate il 4 dicembre 2001, causa C208/00, caso Überseering (par. 36), si legge come non esista un chiaro fondamento per distinguere
«un diritto di stabilimento primario, molto condizionato, da un diritto di stabilimento secondario praticamente illimitato».
18
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
809
occasione del trasferimento in un altro Stato membro della sua sede amministrativa
effettiva» 20.
3. La Comunicazione della Commissione europea – COM(2006)825 e la risoluzione ECOFIN del 2 dicembre 2008
Tanto premesso, va rilevato che le problematiche relative al trasferimento della
residenza fiscale e, più in generale, relative ai regimi di tassazione dei beni in uscita,
erano state anche oggetto di esame da parte della Commissione europea nella
Comunicazione COM(2006)825 del 19 dicembre 2006, esempio paradigmatico
di quel “coordinamento fiscale” che ha iniziato ad affacciarsi in ambito europeo
nell’ultimo decennio 21.
La Comunicazione, alla luce dei principi giuridici affermati dalla Corte di Giustizia, aveva analizzato in particolare i seguenti aspetti:
– la possibile violazione delle libertà fondamentali contenute nel Trattato (libertà
di stabilimento e di libera circolazione) da parte delle normative presenti nei singoli
Stati membri sulla tassazione dei beni in uscita;
– il problema del coordinamento delle politiche fiscali dei singoli Stati membri
sulla tassazione in uscita, al fine di evitare fenomeni di doppia imposizione o di assenza di imposizione, nei casi in cui i contribuenti trasferiscano la residenza fiscale
o, più in generale, in caso di trasferimento di elementi dell’attivo da uno Stato membro ad un altro.
Per quanto qui rileva, l’orientamento che sembra emergere dalle considerazioni
della Commissione è che, in caso di trasferimento all’estero della residenza fiscale o,
più in generale, di trasferimento all’estero di elementi dell’attivo (sia da parte della
persona fisica, che delle società), le eventuali imposte previste da uno Stato membro sui plusvalori maturati, relativamente ai beni trasferiti, non possano essere prelevate anticipatamente o in misura superiore rispetto a quanto accadrebbe nel caso
in cui il trasferimento avesse luogo da una parte all’altra del medesimo Stato membro. In particolare, nella Comunicazione si afferma che, in caso di trasferimento
del domicilio fiscale o di trasferimento di attivi, i principi enunciati nella sentenza
de Lasteyrie 22 escludono la possibilità di immediata riscossione delle plusvalenze
non ancora realizzate, dal momento che tassare i residenti sulle plusvalenze realiz20
Punto 32.
Vedi MELIS, Coordinamento fiscale nell’Unione Europea, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, p.
394 ss.
22
Sentenza del 11 marzo 2004, causa C-9/02.
21
810
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
zate e i residenti che lasciano il paese sulle plusvalenze maturate «costituisce una
differenza di trattamento che rappresenta un ostacolo alla libera circolazione».
Non è contrario al diritto comunitario, invece, il fatto che al contribuente sia richiesta, al momento del trasferimento della residenza, una dichiarazione dei redditi,
necessaria per calcolare il reddito sul quale lo Stato intende preservare la sua potestà
impositiva. Tale onere risulta, infatti, proporzionato rispetto allo scopo di assicurare
la ripartizione della potestà impositiva, in particolare al fine di eliminare la doppia
imposizione tra gli Stati membri. Inoltre, gli Stati membri possono prescrivere ai
contribuenti, in termini ragionevoli, l’obbligo di informare le autorità fiscali della
conservazione o della cessione degli attivi trasferiti, a condizione che tale obbligo
non vada al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito e non costituisca per i contribuenti un ostacolo all’esercizio dei diritti previsti dal Trattato.
In definitiva, secondo la Commissione, è riconosciuto allo Stato di provenienza il
diritto di determinare il reddito sul quale esso intende preservare la propria potestà
impositiva, purché la tassazione non sia immediata e il differimento del pagamento
del tributo non sia soggetto a condizioni particolarmente onerose per il contribuente. È da sottolineare come la preoccupazione della Commissione che lo Stato di provenienza non imponga condizioni troppo onerose al contribuente per il differimento
della tassazione, come si avrà modo di meglio argomentare nel prosieguo, pare non
essere del tutto condivisa dalla Corte di Giustizia nella sentenza in esame.
In argomento è necessario, altresì, ricordare la risoluzione del Consiglio dell’UE del 2 dicembre 2008 relativa al tema della possibile doppia imposizione derivante dal trasferimento di un’attività economica da uno Stato membro ad un altro.
La risoluzione, che ha valore di impegno politico 23, non si pronuncia, tuttavia,
sui profili di incompatibilità comunitaria di regimi di exit taxes, limitandosi a dettare criteri volti ad evitare che, in caso di trasferimento di attività economiche 24, l’imposizione di exit taxes da parte dello Stato, da cui la residenza è trasferita, possa tradursi in fenomeni di doppia imposizione. In occasione di tale trasferimento, la risoluzione riconosce il diritto dello Stato di partenza di esercitare la propria potestà
impositiva sulle riserve (utili realizzati ma non ancora presi in considerazione ai fini
fiscali) e di riprendere a tassazione gli accantonamenti effettuati (spese non ancora
sostenute ma già prese in considerazione ai fini fiscali). Lo Stato ospitante può in tal
caso prevedere la creazione di riserve o di accantonamenti di identico o diverso im23
L’ attuazione della risoluzione è rimessa alla decisione degli Stati membri e non incide, pertanto, né sui diritti ed obblighi né sulle competenze delle sovranità nazionali.
24
Per trasferimento di attività economiche, ai sensi della risoluzione, si intende qualsiasi operazione per effetto della quale un contribuente soggetto all’imposta sulle società o una persona fisica che
esercita un’attività: 1) cessa di essere soggetto all’imposta sul reddito delle persone giuridiche o fisiche
in uno Stato membro e viene al tempo stesso assoggettato all’imposta sulle persone giuridiche o fisiche
in un altro Stato; 2) trasferisce una combinazione di attività e passività da una sede o stabile organizzazione nello Stato di uscita a una sede o stabile organizzazione nello Stato di accoglienza.
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
811
porto, in conformità delle proprie norme che disciplinano la base imponibile, e
consentire la deduzione dal risultato imponibile per l’esercizio di competenza.
Analogamente, se lo Stato di partenza si riserva il diritto di tassare le plusvalenze
latenti relative ai beni trasferiti, calcolati come differenza tra il valore venale di tali
attività alla data del trasferimento e il loro valore contabile, lo Stato di accoglienza
potrà prendere il valore venale alla data del trasferimento per calcolare il successivo
plusvalore in caso di cessione. In caso di disaccordo tra i due Stati in merito al valore
venale, essi risolvono la controversia ricorrendo alla procedura appropriata. Lo Stato
di accoglienza può esigere dal contribuente la prova che lo Stato di uscita ha esercitato o eserciterà i propri diritti alle condizioni indicate, nonché gli elementi che attestano il valore venale oggetto di ritenuta da parte dell’amministrazione dello Stato di
uscita. Le disposizioni stabilite a livello comunitario in materia di reciproca assistenza rappresentano il quadro entro il quale lo Stato di accoglienza assiste lo Stato di
uscita, in particolare ai fini della determinazione della data della cessione.
4. Cause di giustificazione ed exit tax
Ritenuta dunque la sussistenza di una “restrizione” ai sensi dell’art. 49 del TFUE
nel caso della exit tax olandese, la Corte di Giustizia valuta l’eventuale ricorrenza di
una causa di giustificazione secondo il noto schema della c.d. “rule of reason” 25.
A tal fine, essa valorizza lo «scopo di garantire l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, conformemente al principio di territorialità legato ad una componente temporale» 26.
Dalla conclusione cui giunge la Corte traspare la ricostruzione del prelievo in
uscita come misura strutturale del sistema impositivo 27, finalizzata ad assicurare la
tassazione del reddito maturato nel periodo in cui il contribuente è residente nel
territorio dello Stato. Da qui la necessità che sia garantita, da un lato, la coerenza
del regime fiscale interno e, dall’altro, il principio di territorialità, che del primo è
corollario. In particolare, la previsione di una exit tax trova una propria giustificazione nel fatto che la tassazione di un reddito comunque maturato consente di assicurare la coerenza del sistema, garantendo l’eguaglianza tra contribuenti e la per-
25
È peraltro interessante notare che la “restrizione” viene riferita, sic et simpliciter, ad un raffronto con una situazione puramente interna, anche se in tale ipotesi manca la ratio della misura fiscale
oggetto di indagine (non verificandosi evidentemente alcuna perdita di potere impositivo in un trasferimento di sede meramente nazionale). Un conto è dunque la restrizione, altro è la possibilità di
una sua “giustificazione”.
26
Punto 43 della sentenza.
27
Per la distinzione tra exit taxes a carattere “strutturale” ovvero con finalità “antielusive”, v. MELIS, Trasferimento della residenza fiscale ed imposizione sui redditi, Milano, 2009, p. 627 ss.
812
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RTDT - n. 3/2012
sonalità dell’imposizione, ovvero garantendo la tassazione dei redditi maturati nel
corso della residenza del contribuente nello Stato di partenza, dunque, in un’ottica di
corretta ripartizione del gettito tra Stati. Tale impostazione ha un suo fondamento
laddove la normativa interna preveda la tassazione delle plusvalenze quale misura
generale, che non trovi applicazione solo nel caso di trasferimento all’estero.
Per quanto concerne il rispetto del principio di territorialità, i giudici evidenziano come il mantenimento della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri sia un obiettivo legittimo, atteso che gli Stati, in mancanza di disposizioni di unificazione o di armonizzazione adottate dall’Unione, rimangono competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere impositivo. Pertanto, è opinione della Corte che uno Stato membro ha il diritto di tassare le
plusvalenze latenti che si sono originate sul proprio territorio al momento del trasferimento all’estero della sede, non potendo detto trasferimento comportare la rinuncia da parte dello Stato membro di provenienza al diritto di assoggettare ad imposizione una plusvalenza generata nell’ambito della sua competenza fiscale prima del
trasferimento 28.
Accertato il diritto dello Stato membro di provenienza di tassare le plusvalenze
latenti in caso di trasferimento della sede all’estero, la Corte procede alla verifica della proporzionalità della previsione olandese rispetto allo scopo di salvaguardare il
potere impositivo dello Stato, affermando, da un lato, la proporzionalità della previsione di determinazione definitiva dell’importo del prelievo all’atto del trasferimento
di sede 29 e dell’irrilevanza delle minusvalenze intervenute successivamente e, dall’altro, l’eccessività della previsione di riscossione immediata dell’imposta all’atto del
trasferimento di sede.
Per quanto concerne il primo aspetto, è da sottolineare come la sentenza in esame determini il superamento dell’interpretazione resa nella sentenza “N” 30, affermando il principio della non necessaria neutralità fiscale del trasferimento di sede da
uno Stato membro a un altro. Infatti, lo Stato di provenienza – a parere della Corte –
non è obbligato a tenere conto delle eventuali “perdite” verificatesi successivamente
28
Punto 45 della sentenza.
Nella sentenza (punto 52) si argomenta che è «proporzionato che lo Stato membro di provenienza, allo scopo di tutelare l’esercizio della propria competenza fiscale, determini l’imposta dovuta
sulle plusvalenze latenti originate sul proprio territorio nel momento in cui il suo potere impositivo
nei confronti della società interessata cessa di esistere, nel caso di specie nel momento del trasferimento in un altro Stato membro della sede amministrativa effettiva di tale società».
30
Corte di Giustizia, 7 settembre 2006, causa C-470/04. In tale sede, la Corte aveva ritenuto
proporzionato all’obiettivo consistente nel garantire l’equa ripartizione del potere impositivo tra gli
Stati membri soltanto un sistema fiscale che tenesse interamente conto delle minusvalenze che possono intervenire successivamente al trasferimento della residenza del contribuente interessato, a meno
che tali riduzioni di valore non siano già state prese in considerazione nello Stato membro ospitante
(punto 55).
29
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
813
al trasferimento della sede in un altro Stato membro. Infatti, dall’applicazione congiunta dei principi di territorialità fiscale e di simmetria impositiva emerge che sia gli
utili che le perdite generati dalla società successivamente al trasferimento di sede in
un altro Stato membro devono essere tassati (o dedotti) solo da quest’ultimo, avendo perso lo Stato membro di provenienza qualsivoglia collegamento fiscale con tale
società dalla data del trasferimento 31.
In tema di ripartizione del potere impositivo, è da sottolineare come il decisum
della Corte appaia in linea con le pronunce precedenti. Significativo, al riguardo,
appare il confronto con le conclusioni cui pervengono i giudici comunitari nella sentenza Marks & Spencer 32. In tale sede, è stato affermato che, «in materia tributaria,
i profitti e le perdite sarebbero due facce della stessa medaglia che dovrebbero essere trattate simmetricamente nell’ambito dello stesso sistema fiscale, per salvaguardare un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra i diversi Stati membri interessati» 33. Sul punto, la Corte ha, ulteriormente, precisato che «concedere alle società la possibilità di optare per la presa in considerazione delle loro perdite nello
Stato membro in cui sono registrate o in un altro Stato membro comprometterebbe
sensibilmente un’equilibrata ripartizione del potere impositivo fra gli Stati membri,
dato che la base imponibile si troverebbe aumentata per il primo Stato e ridotta nel
secondo, considerate le perdite trasferite» 34.
In realtà, nella sentenza in commento, la Corte sembra andare oltre. Infatti, nella sentenza Marks & Spencer, era stato considerato “eccedente” l’obiettivo dell’equa ripartizione del potere impositivo degli Stati membri una situazione in cui la
controllata non residente ha esaurito le possibilità di presa in considerazione delle
perdite esistenti nel suo Stato di residenza per l’esercizio considerato nella domanda di sgravio, nonché negli esercizi fiscali precedenti, e in cui le perdite della controllata estera non possano essere prese in considerazione nel suo Stato di residenza per gli esercizi fiscali futuri né da essa stessa, né da un terzo, in particolare in caso di cessione a quest’ultimo della controllata 35.
Diversamente, nella sentenza C-371/10, la Corte afferma che, anche laddove lo
Stato ospitante non dovesse tenere conto di tali minusvalenze, lo Stato membro di
provenienza non sarebbe costretto a rideterminare, all’atto del realizzo dell’attivo
trasferito, il debito d’imposta quantificato al momento del trasferimento della sede.
Al riguardo, appare rilevante l’affermazione della Corte per cui «la libertà di stabilimento non può essere intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a determinare le proprie norme tributarie in funzione di quelle di un altro Stato mem31
Punto 58 della sentenza.
Sentenza del 13 dicembre 2005 (C-446/03).
33
Punto 43 della sentenza Marks & Spencer.
34
Punto 46 della sentenza Marks & Spencer.
35
Punto 55 della sentenza Marks & Spencer.
32
814
GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
bro, al fine di garantire, in ogni situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia
disparità derivante dalle normative tributarie» 36.
A tal ultimo riguardo, è da evidenziare come una diversa impostazione sembri
trasparire dalla già esaminata comunicazione della Commissione COM(2006)825 37
laddove si individua tra gli obiettivi primari del regime di imposizione diretta in caso
di trasferimento della sede da uno Stato membro a un altro il fine di evitare le disparità e la doppia tassazione.
Con riguardo al secondo aspetto, la Corte, nel ritenere “sproporzionata” la previsione della riscossione immediata, al momento del trasferimento della sede, dell’imposta sulle plusvalenze latenti relative ad elementi patrimoniali trasferiti, pone
in evidenza la necessità della concessione alle imprese della facoltà di optare per una
tassazione differita al momento del realizzo della plusvalenza. Siffatta soluzione
– argomenta la Corte – è atta, da un lato, ad eliminare lo svantaggio finanziario per
la società che trasferisce la propria sede in un altro Stato derivante dal pagamento
immediato dell’imposta e, dall’altro, a consentire alla stessa società di optare per il
pagamento immediato dell’imposta, ove ritenga che gli oneri amministrativi (interessi e/o garanzie), legati alla riscossione differita del tributo, siano eccessivi.
Sul punto, è da sottolineare che gli argomenti portati dagli Stati intervenuti contro l’ipotesi di una riscossione differita dell’imposta attenevano, tra l’altro, al rischio
di mancata riscossione in capo allo Stato di provenienza, rischio che aumenta con
il protrarsi del tempo. Al riguardo, la Corte, pur respingendo tali argomenti sulla
considerazione che «la mera circostanza che una società trasferisca la propria sede
in un altro Stato membro non può fondare una previsione generale di evasione fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato» 38, riconosce che il rischio di mancata riscossione dell’imposta possa essere preso in considerazione da parte dello Stato di provenienza attraverso l’adozione di misure quali la costituzione di una garanzia bancaria.
Al riguardo, è da evidenziare come siffatta previsione appaia oltremodo penalizzante per le società che intendano trasferire la propria sede in un altro Stato membro, rischiando di pregiudicare, alla luce delle straordinarie difficoltà che l’ottenimento di una siffatta garanzia comporta, proprio quella libertà di stabilimento che,
invece, dovrebbe salvaguardare.
La scelta operata dalla Corte appare, altresì, in controtendenza con quanto indicato dalla Commissione, nella citata comunicazione COM(2006)825, laddove si
36
Punto 62 della sentenza.
Diversità, peraltro, riconosciuta dalla stessa Corte al punto 59 della sentenza.
38
La Corte ricorda, infatti, che i meccanismi di assistenza reciproca in essere tra le autorità degli
Stati membri sono sufficienti per consentire allo Stato membro di provenienza di effettuare un controllo della veridicità delle dichiarazioni delle società che hanno optato per il pagamento differito
dell’imposta, atteso che l’assistenza dello Stato membro ospitante non riguarderà la corretta determinazione dell’imposta ma solo la sua riscossione.
37
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
815
prevede che il differimento del pagamento del tributo non debba essere soggetto a
condizioni particolarmente onerose per il contribuente. Secondo l’esecutivo comunitario, infatti, gli Stati membri possono prescrivere ai contribuenti, in termini ragionevoli, l’obbligo di informare le autorità fiscali della conservazione o della cessione
degli attivi trasferiti, a condizione che tale obbligo non vada al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito e non costituisca per i contribuenti un
ostacolo all’esercizio dei diritti previsti dal Trattato.
Sul punto, è stato condivisibilmente osservato 39 come, ancorché la Corte sancisca la possibilità di scelta per le società che intendano trasferire la propria sede in un
altro Stato membro tra la tassazione immediata o differita delle plusvalenze maturate, quest’ultima opzione sia, in realtà, ben poco “allettante”. La società si trova, infatti, a dover confrontare, in caso di opzione per il differimento del pagamento dell’exit
tax, lo svantaggio finanziario derivante dal pagamento immediato dell’imposta, con
gli oneri amministrativi imposti dallo Stato di origine per il monitoraggio dei beni
trasferiti, nonché considerare l’irrilevanza delle minusvalenze realizzate successivamente al trasferimento e la necessità di provvedere a eventuali garanzie bancarie.
5. I riflessi della sentenza sulla normativa italiana
La sentenza in commento può avere rilevanti riflessi anche sulla normativa interna relativa agli effetti tributari del trasferimento all’estero della residenza fiscale
dei soggetti esercenti attività commerciali.
Tale disciplina, recata dall’art. 166 del TUIR, implica, in sostanza, il realizzo a
valore normale e l’immediato prelievo fiscale sui conseguenti plusvalori, dei componenti dell’azienda che, in seguito al trasferimento all’estero della residenza fiscale, non vengano fatti confluire in una stabile organizzazione in Italia, ovvero ne vengano successivamente distolti. Inoltre, essa prevede la tassazione anche dei fondi in
sospensione d’imposta che non siano ricostituiti nel patrimonio contabile della stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
Una disposizione ispirata alla medesima ratio è quella contenuta nell’art. 179,
comma 6, del TUIR, in base alla quale «si considerano realizzati al valore normale i
componenti dell’azienda o del complesso aziendale che abbiano formato oggetto
delle operazioni indicate alle lettere da a) a d) del comma 1 dell’articolo 178 non
confluiti in seguito a tali operazioni in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato», nonché quelli che successivamente ne vengano distolti. Ai sensi dell’art. 180 del TUIR, inoltre, i fondi in sospensione d’imposta iscritti nell’ultimo bi-
39
PANAYI, National Grid Indus BV v Inspecteur van de Belastingdienst Rijnmond/kantoor Rotterdam: Exit Taxes in the European Union Revisited, in British Tax Review, Issue 1, 2012.
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
lancio del conferente residente concorrono a formare il reddito della stabile organizzazione nel territorio dello Stato del soggetto non residente beneficiario, nella misura in cui non siano stati ricostituiti nelle scritture contabili della stabile organizzazione.
Per effetto di tali normative, pertanto, l’ordinamento interno esercita la propria
potestà impositiva sulle plusvalenze non ancora realizzate, nonché sulle riserve in
sospensione d’imposta, nel momento in cui viene meno il collegamento territoriale dei redditi e dei beni d’impresa con l’ordinamento tributario italiano, in ragione
del fatto che tale evenienza determinerebbe l’impossibilità per lo Stato di tassare i
plusvalori maturati al momento dell’effettiva cessione del componente (ovvero la
cessazione del vincolo di sospensione). Detta ratio costituisce la ragione per cui
nessun prelievo è operato sui beni che, successivamente al trasferimento di sede o all’operazione straordinaria, confluiscono in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato, circostanza che garantisce, in relazione ai beni confluiti, la continuità del regime d’impresa, e dunque della potestà impositiva statale sui relativi
plusvalori.
Per quanto si è sopra detto, appare dunque evidente che gli artt. 166 e 179 del
TUIR presentano profili di criticità in ordine al rispetto della libertà di stabilimento sancita dall’art. 49 del TFUE analoghi a quelli della normativa olandese oggetto
della sentenza in commento.
Gli evidenziati profili di criticità, con specifico riferimento all’art. 166 del TUIR,
sono stati alla base della denuncia presentata dalla Commissione per l’esame della
compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali interne dell’Associazione Dottori
Commercialisti (di seguito ADC) alla Commissione europea nel marzo 2009. In
particolare, l’ADC ha affermato che «L’imposizione immediata delle plusvalenze latenti, non realizzate, (anche concernenti una stabile organizzazione situata in altro
Stato della CE), è misura che è idonea ad ostacolare, dissuadere o, quantomeno, a
rendere meno attraente, da parte degli imprenditori italiani, l’esercizio della libertà
di stabilimento garantita dal Trattato. Nessuna imposizione “anticipata” è invece
prevista per coloro che cambiano la propria residenza nello Stato italiano, ovvero
effettuino un trasferimento di attivo da una sede principale ad una filiale o succursale sempre situata in Italia 40. È, dunque, innegabile, che la norma italiana determina un trattamento fiscale diverso tra chi permane nel territorio italiano e chi, invece, intende trasferire la propria azienda e con essa la sua residenza fiscale» 41.
40
La neutralità dell’imposizione è assicurata dal nuovo art. 176 del TUIR, come modificato dalla
L. 24 dicembre 2007, n. 244, in vigore dal 1° gennaio 2008.
41
Corollari di tale assunto di base sono ulteriori passaggi significativi del documento dell’ADC
quali:
– la perdita di qualunque connotato di elusività del trasferimento di specie nel momento in cui
l’attività imprenditoriale è effettivamente e stabilmente insediata in un altro Stato ed è riconoscibile
dai terzi;
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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La Commissione di studio dell’ADC giunge, quindi, a ritenere incompatibile
l’art. 166 del TUIR con i principi del diritto comunitario e, segnatamente, con la libertà di stabilimento sancita dall’art. 49 del TFUE, in quanto l’art. 166 del TUIR, da
un lato, è norma che vincola il contribuente al pagamento immediato dell’imposta
per contrastare una “presunta” riduzione del gettito, senza che allo stesso sia consentito differirlo e calcolarlo in base a quanto effettivamente realizzato, così come invece
concesso agli imprenditori che mantengano la loro residenza fiscale in Italia e,
dall’altro, la norma italiana viola i fondamentali principi dell’ordinamento comunitario della causalità e della proporzionalità 42, secondo i quali il diritto dello Stato di
contrastare eventuali comportamenti che potrebbero, al limite, costituire una forma
di abuso delle norme Trattato, anche attraverso disposizioni anti-evasione, pur se
formalmente leciti, trova un limite nella necessità che l’azione dello Stato sia idonea
a conseguire lo scopo perseguito (principio di causalità) e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo (principio di proporzionalità).
A seguito della denuncia dell’ADC, la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, gestita inizialmente attraverso il canale
EU-Pilot 43 (caso n. 883/10/TAXUD) e, poi, confluita nella procedura n. 2010/4141.
In tale sede, la Commissione ha rilevato come «l’Italia sia venuta meno agli obblighi che le incombono a norma dell’art. 49 del TFUE e dell’art. 31 dell’Accordo
SEE in quanto le plusvalenze latenti sono incluse nella base imponibile dell’esercizio finanziario qualora una società italiana trasferisca la residenza in un altro Stato
membro dell’UE o dello SEE o qualora una stabile organizzazione cessi le proprie
attività in Italia o trasferisca i propri attivi situati in Italia in un altro Stato membro
dell’UE o dello SEE, mentre le plusvalenze latenti risultanti da operazioni effettuate esclusivamente all’interno del territorio nazionale non sono incluse nella detta
base imponibile» 44.
– il fatto che la decisione del trasferimento può essere soltanto incidentalmente influenzata da
fattori di natura fiscale;
– la circostanza che la “sospensione” della tassazione non determina la rinuncia all’esazione del
tributo. Ciò in virtù del fatto che i beni che costituiscono il complesso aziendale oggetto di trasferimento possono formare oggetto di controllo da parte delle singole autorità in virtù della cooperazione tra gli Stati membri.
42
L’ADC ricorda le sentenze della Corte di Giustizia, Cadbury Schweppes, punto 47; 15 maggio
1997, C-250/95, Futura Participations e Singer, punto 26; 17 luglio 1997, C-28/95, Leur-Bloem, punto 48; 1° marzo 2004, C-9/02, De Lasteyrie du Saillant, punto 49, C-446/03 del 13 dicembre 2005,
Marks & Spencer, punto 35.
43
Il canale di gestione delle controversie relative alla violazioni del diritto comunitario denominato “EU-Pilot”, attivo da aprile 2008 per gli Stati membri aderenti, consente, in caso di denuncia da
parte di privati o imprese di una violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro,
una valutazione dei Servizi della Commissione europea preliminare alla formale apertura della procedura di infrazione.
44
Dalla relazione consuntiva 2010 in merito alla partecipazione dell’Italia all’UE elaborata dal
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GIURISPRUDENZA
RTDT - n. 3/2012
Proprio a seguito dei rilievi mossi dalla Commissione europea 45, il legislatore è
intervenuto a modificare l’art. 166 del TUIR con l’art. 91 del D.L. 24 gennaio 2012,
n. 1, conv., con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27. In tale sede, è infatti
previsto che, «i soggetti che trasferiscono la residenza, ai fini delle imposte sui redditi, in Stati appartenenti all’UE ovvero in Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio
economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza
in materia di riscossione dei crediti tributari comparabile a quella assicurata dalla
Direttiva 2010/24/UE del Consiglio, del 16 marzo 2010, in alternativa a quanto
stabilito al comma 1, possono richiedere la sospensione degli effetti del realizzo ivi
previsto in conformità ai principi sanciti dalla sentenza 29 novembre 2011, causa
C-371-10, National Grid Indus BV. 2-quinquies» 46.
È da sottolineare che per conoscere le concrete modalità di applicazione della
“sospensione” del realizzo delle plusvalenze 47 sarà necessario attendere l’emanazione del decreto del ministro dell’Economia e delle finanze di natura non regolamentare con cui dovranno essere adottate le disposizioni di attuazione, al fine di
individuare, tra l’altro, le fattispecie che determinano la decadenza della sospensione, i criteri di determinazione dell’imposta dovuta e le modalità di versamento 48.
In ogni caso, appare rilevante porre in evidenza l’opportunità della scelta del legislatore laddove ha limitato l’operatività del regime di sospensione dell’exit tax al
trasferimento in Stati UE e SEE che consentono un adeguato scambio di informazioni. Infatti, solo in tal caso lo Stato italiano potrà veder salvaguardato il proprio
potere impositivo sulle plusvalenze determinato in sede di trasferimento ma non
riscosse.
Dipartimento Politiche europee, si apprende che, nell’ambito della procedura di infrazione n. 2010/
4141, alla richiesta di informazioni del 19 marzo 2010 formulata da parte dei Servizi della Commissione sul predetto regime è stato ampiamente replicato da parte dell’amministrazione italiana il 3 maggio
2010. Peraltro, successivamente, con lettera del 15 luglio 2010, i Servizi dell’Esecutivo Comunitario
ritenevano non soddisfacenti le argomentazioni espresse in merito da parte italiana. Il 24 novembre
2010, con lettera di messa in mora, la Commissione europea ha aperto la procedura di infrazione in
materia nei confronti dell’Italia per il regime in questione.
45
In tal senso, la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del decreto (AS 3110).
46
Nuovo comma 2 quater dell’art. 166 TUIR.
47
Dai primi commentatori della sentenza in esame è stata evidenziata, attesa la complessità della
materia che involge il coordinamento tra Stati diversi dell’Unione e problematiche di asimmetrie,
salti d’imposta e doppie deduzioni, «l’opportunità di un tavolo comune i diversi Stati membri interessati, tenuto conto che la soluzione della Corte rende necessario di monitorare in via continuativa
per ciascun soggetto “uscente” la vicenda dei singoli componenti aziendali non più presenti nel territorio dello Stato (data di realizzo del singolo asset, tipologia di bene, natura giuridico dell’atto dispositivo, ecc.), trasferendo sullo Stato di insediamento l’onere di effettuare una costante attività di
controllo sulla vicenda dei singoli cespiti». In tal senso, L. MIELE-M. MIELE, Legittima la «exit tax»
solo se a riscossione differita, in Corr. trib., 2, 2012, p. 113 ss.
48
Nuovo comma 2 quinquies dell’art. 166 TUIR.
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 29 novembre 2011, causa C-371/10
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6. Conclusioni
Alla luce di quanto sin qui esaminato, l’attuale normativa italiana in tema di exit
tax, recata dall’art. 166 del TUIR, come modificato dall’art. 91 del D.L. n. 1/2012 49,
appare “potenzialmente” compatibile con l’ordinamento comunitario e, segnatamente, con la libertà di stabilimento sancita dall’art. 49 del TFUE.
Ciononostante, per esprimere un giudizio definitivo in termini di compatibilità,
sembra indispensabile attendere l’emanazione del decreto ministeriale previsto dal
nuovo comma 2 quinquies dell’art. 166 del TUIR 50.
È di tutta evidenza, infatti, che, laddove con il provvedimento attuativo sia effettivamente riconosciuta la possibilità di esercitare l’opzione di sospensione del prelievo sulle plusvalenze in caso di trasferimento all’estero della sede, verrebbe eliminato
alla radice ogni problema di “proporzionalità”, trovando piena esplicazione quella
causa di giustificazione dell’equa ripartizione del potere impositivo degli Stati cui la
Corte riconduce ormai senza indugio la ratio delle exit taxes. Diversamente, nel caso
in cui il provvedimento attuativo limiti o in qualche modo condizioni l’esercizio dell’opzione di sospensione della tassazione sulle plusvalenze latenti, sarà necessario analizzare le singole disposizioni al fine di valutarne la compatibilità con i principi comunitari.
Valeria Russo
49
Convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27/2012.
Sul punto, un elemento di criticità nell’intervento legislativo operato con il D.L. n. 1/2012 è
stato individuato nella limitazione della possibilità di richiedere la sospensione della riscossione del
prelievo in uscita al solo caso del trasferimento della sede all’estero disciplinato dall’art. 166 del TUIR,
oggetto della sentenza che si annota, e non anche all’ipotesi di fusione transfrontaliera (ex artt. 178 e
179 del TUIR). In particolare, una siffatta differenziazione non troverebbe giustificazione atteso
che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza del 13 dicembre 2005, causa C411/03, Sevic System AG) le operazioni straordinarie transfrontaliere «costituiscono modalità particolari di esercizio della libertà di stabilimento, importanti per il buon funzionamento del mercato
interno, e rientrano pertanto tra le attività economiche per le quali gli Stati membri sono tenuti al
rispetto della libertà di stabilimento». In tal senso, BORZUMATO, Neutralità vincolata al mantenimento di una stabile organizzazione in Italia, Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2012.
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RTDT - n. 3/2012
GIURISPRUDENZA
Finito di stampare nel mese di ottobre 2012
nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220
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